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Discriminatorio il requisito della residenza decennale per il reddito di cittadinanza?

7 febbraio 2019

La novella disciplina sul reddito di cittadinanza pare incostituzionale laddove subordina il diritto al beneficio alla residenza decennale (e per i cittadini extracomunitari all’ulteriore requisito della titolarità del permesso di soggiorno di lungo periodo). Si tratta di requisiti che sono destinati a porsi in insanabile contrasto sia con il diritto dell’Unione Europea, sia con la convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti Umani, sia con la Costituzione Italiana (art. 3).

 Il minimo comune denominatore è la violazione del principio di non-discriminazione tra cittadini italiani e comunitari e tra cittadini italiani e cittadini extracomunitari, che si verifica ove il requisito della residenza ai fini dell’accesso ad un beneficio integri una forma di illecita discriminazione “dissimulata” in quanto può essere più facilmente soddisfatto dai cittadini italiani, piuttosto che dai lavoratori comunitari od extracomunitari migranti, finendo dunque per privilegiare in misura sproporzionata i primi a danno di tutti gli altri.

  

La regola del permesso di lungo periodo e della residenza decennale

 Come noto, il reddito di cittadinanza di cui decreto-legge 28 gennaio 2019, n.4, in vigore dal 29 gennaio 2019 recante disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza prevede per l’erogazione dei benefici economici i requisiti di

  • cittadinanza,
  • residenza e
  • soggiorno[1].

  Tale disposizione all’art. 2 co. 1 lett “a” n 1 individua la platea dei beneficiari limitando la provvidenza a coloro che sono:

 1) in possesso della cittadinanza italiana o di Paesi facenti parte dell'Unione europea, ovvero suo familiare che sia titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente, ovvero cittadino di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo;

 2) residente in Italia per almeno 10 anni, di cui gli ultimi due, considerati al momento della presentazione della domanda e per tutta la durata dell'erogazione del beneficio, in modo continuativo.

 

Le ragioni di incompatibilità con il diritto dell’Unione Europea

Per quanto riguarda i cittadini dell’Unione la previsione di una residenza decennale per accedere al beneficio contrasta con l’art. 18 del Trattato (TFUE) che vieta la discriminazione in ragione della nazionalità e con l’art. 4 del Regolamento 883/04 che impone la parità di trattamento per i cittadini dell’Unione nell’attribuzione delle prestazioni di sicurezza sociale.

 La Corte di Giustizia Europea ha da tempo chiarito, con riferimento al principio di non-discriminazione tra cittadini comunitari previsto nel Trattato Europeo, che il requisito della residenza ai fini dell’accesso ad un beneficio può integrare una forma di illecita discriminazione “dissimulata” in quanto può essere più facilmente soddisfatto dai cittadini piuttosto che dai lavoratori comunitari migranti, finendo dunque per privilegiare in misura sproporzionata i primi a danno dei secondi (ad es. Meints, 27.11.1997; Meussen, 8.06.1999; Commissione c. Lussemburgo, 20.06.2002).

Si veda ad esempio la sentenza della Corte di Giustizia Europea che ha condannato l’Italia per le agevolazioni tariffarie a vantaggio delle persone residenti per l’accesso ai Musei Comunali (sentenza 16 gennaio 2003 n. C-388/01), nella quale si legge: «…il principio di parità di trattamento,….., vieta non soltanto le discriminazioni palesi basate sulla cittadinanza, ma anche qualsiasi forma di discriminazione dissimulata che, mediante il ricorso ad altri criteri distintivi, produca, in pratica, lo stesso risultato. Ciò avviene, in particolare, nel caso di una misura che preveda una distinzione basata sul criterio della residenza, in quanto quest’ultimo rischia di operare principalmente a danno dei cittadini di altri Stati membri, considerato che il più delle volte i non residenti sono cittadini di altri Stati membri» (par. 13 e 14).

Per quanto riguarda i cittadini extracomunitari, contrasta con l’art. 24 della direttiva 2011/95 che garantisce la parità di trattamento ai titolari di protezione internazionale e con l’art. 14 della direttiva 2009/50 che garantisce la parità di trattamento ai titolari di carta blu (stranieri altamente qualificati).

 Inoltre, ove il reddito di cittadinanza possa essere considerato uno strumento di ricollocazione al lavoro (cosa della quale non pare potersi dubitare stante il meccanismo di chiamata al quale sono delegate le agenzie del lavoro), ricadrebbe anche nell’ambito della direttiva 2011/98 che garantisce la parità di trattamento ai cittadini stranieri titolari di permesso unico lavoro (cioè titolari di permesso per lavoro, per famiglia, per attesa occupazione).

 

Le ragioni di incompatibilità con la Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo

 La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo ha, in varie occasioni, avuto modo di sottolineare come la Convenzione non sancisca un obbligo per gli Stati membri di realizzare un sistema di protezione sociale o di assicurare un determinato livello delle prestazioni assistenziali; tuttavia, una volta che tali prestazioni siano state istituite e concesse, la relativa disciplina non potrà sottrarsi al giudizio di compatibilità con le norme della Convenzione e, in particolare, con l'art. 14 che vieta la previsione di trattamenti discriminatori (in tal senso, Stec ed altri contro Regno Unito, decisione sulla ricevibilità del 6 luglio 2005; Koua Poirrez contro Francia, sentenza del 30 settembre 2003; Gaygusuz contro Austria, sentenza del 16 settembre 1996; Salesi contro Italia, sentenza del 26 febbraio 1993).

 Al tempo stesso, la Corte di Strasburgo ha anche sottolineato l'ampio margine di apprezzamento di cui i singoli Stati godono in materia di prestazioni sociali, in particolare rilevando come le singole autorità nazionali, in ragione della conoscenza diretta delle peculiarità che caratterizzano le rispettive società ed i correlativi bisogni, si trovino, in linea di principio, in una posizione privilegiata rispetto a quella del giudice internazionale per determinare quanto risulti di pubblica utilità in materia economica e sociale. Da qui l'assunto secondo il quale la Corte rispetta, in linea di massima, le scelte a tal proposito operate dal legislatore nazionale, salvo che la relativa valutazione si riveli manifestamente irragionevole (Carson ed altri contro Regno Unito, sentenza del 16 marzo 2010; Luczak contro Polonia, sentenza del 27 novembre 2007).

A proposito, poi, dei limiti entro i quali opera il divieto di trattamenti discriminatori stabilito dall'art. 14 della Convenzione, la stessa Corte non ha mancato di segnalare il carattere relazionale che contraddistingue il principio, nel senso che lo stesso non assume un risalto autonomo, «ma gioca un importante ruolo di complemento rispetto alle altre disposizioni della Convenzione e dei suoi protocolli, perché protegge coloro che si trovano in situazioni analoghe da discriminazioni nel godimento dei diritti garantiti da altre disposizioni» (da ultimo, Orsus ed altri contro Croazia, sentenza del 16 marzo 2010).

Il trattamento diviene dunque discriminatorio - ha puntualizzato la giurisprudenza della Corte - ove esso non trovi una giustificazione oggettiva e ragionevole; non realizzi, cioè, un rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e l'obiettivo perseguito (ad es., Niedzwiecki contro Germania, sentenza del 25 ottobre 2005).

Non senza l'ulteriore puntualizzazione secondo la quale soltanto «considerazioni molto forti potranno indurre a far ritenere compatibile con la Convenzione una differenza di trattamento fondata esclusivamente sulla nazionalità» (da ultimo, Si Amer contro Francia, sentenza del 29 ottobre 2009, ed i precedenti ivi citati). Le ragioni di bilancio e di contenimento della spesa infatti, pur costituendo uno scopo legittimo, non rispondono ai principi di proporzionalità nel momento in cui trovino applicazione per escludere da prestazioni sociali di sostegno al reddito familiare immigrati stranieri che abbiano un sufficiente legame con lo Stato ospitante , in quanto vi soggiornino non in maniera irregolare o per ragioni di breve durata, bensì con regolare permesso di soggiorno e di lavoro.

 La Corte di Strasburgo ha in altre occasioni riconosciuto anche la violazione del principio di non discriminazione di cui all’art. 14 della CEDU in combinato disposto con l’art. 8 (rispetto della vita familiare), ricollegandosi la prestazione assistenziale in oggetto, destinata ai nuclei familiari numerosi, al sostegno fornito allo Stato all’istituzione della famiglia (al riguardo i precedenti casi Okpisz c. Germania, causa n. 59140/00, sentenza 25 ottobre 2005,Niedzwiecki c. Germania, sentenza 25 ottobre 2005, causa n. 58453/00 e Saidoun c. Grecia, sentenza 28 ottobre 2010, causa n. 40083/07). In particolare nella sentenza Dhahbi c. Italia dell’8 aprile 2014, la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha che l’esclusione dei cittadini stranieri regolarmente soggiornanti non per un breve periodo o in violazione delle leggi in materia di immigrazione, è incompatibile con il principio di non discriminazione di cui all’art. 14 della Convenzione europea.

 Le ragioni di incompatibilità con la Costituzione

 Le ragioni di incompatibilità con la costituzione italiana sono già debitamente tracciate dal Dossier del Senato di accompagnamento al DL 4/2019.

 Ad ogni modo la Corte Costituzionale ha affermato più volte che le prestazioni “destinate a far fronte al sostentamento della persona” (28/05/2010, n. 187) non possono subire limitazioni di alcun genere, né in base alla nazionalità, né in base al titolo di soggiorno, né pretendendo requisiti di lungo-residenza nel territorio sproporzionati (come ad esempio il requisito di cinque anni di residenza nella regione di cui alla sentenza 166/18).

 La Corte Costituzionale con ordinanza 28/05/2010, n. 187 sulla base di tali principi ha dichiarato costituzionalmente illegittimo per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in quanto contrastante con l'art. 14 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (secondo l'interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo) l'art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), nella parte in cui subordina al requisito della titolarità della carta di soggiorno la concessione agli stranieri legalmente soggiornanti nel territorio dello Stato dell'assegno mensile di invalidità.

 Sempre la Corte Costituzionale con ordinanza 20/07/2018, n. 166 ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con il principio di ragionevolezza e non discriminazione ex art. 3 Cost., l'art. 11, comma 13, D.L. n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, in L. n. 133 del 2008, nella parte in cui prevede il requisito della residenza quinquennale sul territorio regionale o decennale sul territorio nazionale (c.d. lunga residenza) per i soli cittadini extra-comunitari, al fine di accedere al contributo per il pagamento del canone di locazione concesso agli indigenti (c.d. bonus affitti).

 Ancora, la Consulta con la sentenza n. 168 del 2014, in riferimento ad una legge della Regione Valle d’Aosta/Vallèe d’Aoste, la Corte ha avuto modo di affermare che “la previsione dell’obbligo di residenza da almeno otto anni nel territorio regionale, quale presupposto necessario per la stessa ammissione al beneficio dell’accesso all’edilizia residenziale pubblica (e non, quindi, come mera regola di preferenza), determina un’irragionevole discriminazione sia nei confronti dei cittadini dell’Unione, ai quali deve essere garantita la parità di trattamento rispetto ai cittadini degli Stati membri (art. 24, par. 1, della direttiva 2004/38/CE), sia nei confronti dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, i quali, in virtù dell’art. 11, paragrafo 1, lettera f), della direttiva 2003/109/CE, godono dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda anche l’accesso alla procedura per l’ottenimento di un alloggio”.

 Infine, Corte Costituzionale sentenza 107 del 2018 ha previsto che il requisito della residenza protratta per 15 anni, richiesto dalla legge regionale del Veneto n. 6 del 2017 come titolo di precedenza per l’accesso agli asili nido, è incostituzionale.

Il legislatore veneto aveva configurato come titolo preferenziale per l’iscrizione dei bambini al nido pubblico la residenza ininterrotta (o l’attività lavorativa, anche non continuativa) per 15 anni in Veneto.

Questa previsione, secondo la Corte costituzionale, contrasta con il principio di uguaglianza, poiché introduce un criterio irragionevole per l’attribuzione del beneficio, non essendovi alcuna “ragionevole correlazione” tra la residenza prolungata in Veneto e le situazioni di bisogno o di disagio: “Si può osservare infine che chi si sposta in un’altra regione non ha contribuito al welfare di quella regione ma ha pagato i tributi nella regione di provenienza, e non è costituzionalmente ammissibile sfavorirlo nell’accesso ai servizi pubblici solo per aver esercitato il proprio diritto costituzionale di circolazione (o per essere stato trasferito o assegnato al Veneto per ragioni di lavoro o di altra natura).In conclusione, poiché il titolo di precedenza previsto dalla norma impugnata non ha alcun collegamento con la funzione degli asili nido né può essere giustificato con l’argomento del contributo pregresso, il suo scopo, che si esaurisce nel riconoscere una preferenza nell’accesso agli asili nido pubblici alle persone radicate in Veneto da lungo tempo, è incompatibile con l’art. 3 Cost.”

 Del resto che il requisito della residenza decennale sia irragionevole e determinante una discriminazione diretta dei cittadini non autoctoni si trova traccia anche nella relazione tecnica illustrativa e di accompagnamento al DDL di conversione al DL 4/2019, nella quale viene esplicitamente evidenziata con apposita tabella la riduzione negli impegni di spesa determinata dall'esclusione dal novero dei beneficiari dei nuclei famigliari stranieri privi del requisito di anzianità decennale. Quindi, il legislatore stesso disvela una finalità discriminatoria fondata sulla nazionalità del provvedimento.

 

[1] Non verrà trattato il tema della possibile invasione della competenza delle Province autonome.