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Dichiarazione infedele e soglie di punibilità (Cass. pen. 7615/14)

19 febbraio 2014, Cassazione Penale

La condotta punita dall'art. 4 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, consiste nella indicazione, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o di elementi passivi fittizi (c.d. dichiarazione infedele), occorre rammentare che, per espressa previsione contenuta nella stessa norma, essa è però penalmente rilevante solo quando, congiuntamente:

a) l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a Euro 103.291,38 (per i reati consumati anteriormente al 17/09/2011: nella specie capi da A ad E) o a Euro 50.000,00 (per i reati consumati successivamente a tale data: nella specie capo F; ciò per effetto della modifica apportata dall'art. 2, comma 36-vicies semel, lett. d), d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148);

b) l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al dieci per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a Euro 2.065.827,60 (per i reati consumati anteriormente al 17/09/2011: nella specie capi da A ad E) o a Euro 2.000.000,00 (per i reati consumati successivamente a tale data: nella specie capo F, per effetto della predetta modifica).

Il superamento della soglia rappresentata dall'ammontare dell'imposta evasa costituisce dunque una condizione oggettiva di punibilità (Sez. 3, n. 25213 del 26/05/2011, Calcagni, Rv. 250656), in mancanza della quale (ossia al di sotto della predetta soglia) l'interesse dell'amministrazione finanziaria all'esattezza delle dichiarazioni annuali dei redditi e dell'IVA è presidiato dalle conseguenze civilistiche della violazione dell'obbligo posto a carico del contribuente (interessi di mora e sanzioni).

Deve certamente ribadirsi che, ai fini dell'individuazione del superamento o meno della soglia di punibilità, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di procedere all'accertamento e alla determinazione dell'ammontare dell'imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche ad entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria (Sez. 3, n. 36396 del 18/05/2011, Mariutti, Rv. 251280; Sez. 3, n. 21213 del 26/02/2008, De Cicco, Rv. 239984).


È quindi ben possibile che la pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria venga ridimensionata o addirittura invalidata nel giudizio innanzi al giudice tributario, senza che ciò possa vincolare il giudice penale e senza che possa quindi escludersi che quest'ultimo pervenga - sulla base di elementi di fatto in ipotesi non considerati dal giudice tributario - ad un convincimento diverso e ritenere nondimeno superata la soglia di punibilità per essere l'ammontare dell'imposta evasa superiore a quella accertata nel giudizio tributario.

È ovvio però che di tale diverso convincimento occorre dare specifica e congrua motivazione.

Con la precisazione peraltro che i possibili esiti del giudizio tributario, che può definirsi anche con una pronuncia meramente in rito, costituiscono un dato ben distinto dalla pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria che fissa il limite della soglia di punibilità: il giudice penale non è vincolato all'accertamento del giudice tributario, ma non può prescindere dalla pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria (così Sez. 3, n. 5640 del 2/12/2011 - dep. 14/02/2012, Manco, Rv. 251892).


L'accertamento con adesione e ogni forma di concordato fiscale si collocano sul crinale della distinzione appena tracciata: c'è un'iniziale pretesa tributaria che poi viene ridimensionata non già dal giudice tributario, ma da un atto negoziale concordato tra le parti del rapporto. Anche in tal caso, dunque, il giudice penale non è vincolato all'imposta così "accertata"; ma per discostarsi dal dato quantitativo risultante dall'accertamento con adesione o dal concordato fiscale per tener conto invece dell'iniziale pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria al fine della verifica della soglia di punibilità prevista dall'art. 4 citato, occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l'iniziale quantificazione dell'imposta dovuta.

 

 

Corte di Cassazione, sez. IV Penale, sentenza 30 gennaio ? 18 febbraio 2014, n. 7615
Presidente Brusco ? Relatore Iannello

 

Ritenuto in fatto

 

1. Con ordinanza del 2/10/2012 il Tribunale di Roma rigettava l'appello proposto dal P.M. presso il Tribunale di Roma avverso il provvedimento con il quale il G.I.P. presso il medesimo Tribunale aveva respinto la richiesta di sequestro preventivo per equivalente di immobili di proprietà di B.R. indagato per sei reati p. e p. dall'art. 4 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto), per avere indicato nelle dichiarazioni relative agli anni dal 2005 al 2010 elementi passivi fittizi.
Il procedimento nasceva da un controllo della Polizia Tributaria, dal quale era emerso che, in data 11/07/1996, era stato stipulato un contratto (poi rinnovato negli anni successivi) tra l'attore B.R. e la società "Sanmarco s.r.l." (le cui quote erano ripartite tra lo stesso, per il 20%, e la sorella B.T. , per l'80%; l'altra sorella B.D. essendone amministratore unico, e R.G.C.M. , moglie dell'indagato, la procuratrice), in forza del quale il primo cedeva alla seconda i diritti di utilizzazione economica della propria immagine dietro compenso annuale di un minimo garantito di Euro 100.000; il B. inoltre era tenuto a versare alla società una percentuale dei compensi da lui fatturati nella misura del 40%.
Il Tribunale, pur ritenendo essersi in presenza di una fattispecie di abuso del diritto (essendo stata la società costituita non per finalità economiche ma per eludere le imposte dovute, attraverso una riduzione della base imponibile, ottenuta per mezzo dell'indicazione di costi cui non corrispondeva alcun vantaggio economico), osservava che, nondimeno, non era configurabile il reato ipotizzato, atteso che non qualsiasi condotta elusiva può avere rilevanza penale, ma soltanto quella espressamente prevista dalla legge, tale non potendosi considerare l'ipotesi in esame, non potendo in particolare invocarsi l'art. 37 bis d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che riguarda il trasferimento di proprietà (beni immobili per lo più) dal socio alla società.
2. Su ricorso del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma - che rilevava, per quel che ancora interessa, che, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, nella previsione di cui all'art. 37 bis, comma 3, lett. b), d.P.R. cit. rientrano anche i conferimenti in società che, secondo la definizione dettata dal novellato art. 2464 cod. civ., possono essere rappresentati da ?qualunque elemento dell'attivo, suscettibile di valutazione economica? - la sezione terza di questa Corte, con sentenza n. 19100 del 06/03/2013, annullava detta ordinanza e rinviava al Tribunale di Roma per un nuovo esame.
Valutata in premessa come validamente motivata la ricostruzione della vicenda in termini di abuso del diritto (il diritto, nella specie, di costituire una società), essendo tale costituzione avvenuta senza che vi fosse alcuna apprezzabile ragione economica, ma al solo scopo di conseguire vantaggi fiscali, rilevava, in conformità alle critiche svolte dal ricorrente, che l'affermazione secondo cui una tale condotta elusiva non potesse assumere rilievo penale in quanto ?non espressamente e tassativamente prevista come tale dalla legislazione tributaria? oltre ad essere meramente apparente e apodittica (non essendo stato spiegato il motivo per cui le previsioni contrattuali non potessero essere ricondotte all'ipotesi dei conferimenti), non teneva conto della nuova formulazione dell'art. 2464 cod. civ., applicabile alla fattispecie essendo stato il contratto tra il B. e la società Sanmarco Srl (stipulato in data 11/7/1996), comunque rinnovato di anno in anno.
Demandava pertanto ai giudici del rinvio di accertare se la ritenuta condotta elusiva violi le specifiche disposizioni sopra richiamate.
3. Con ordinanza del 17/09/2013 il Tribunale di Roma, in sede di rinvio, dava risposta affermativa a tale quesito rilevando che la descritta operazione non è altro che un modo di conferire elementi dell'attivo reddituale dal B. persona fisica alla Sanmarco persona giuridica di cui lo stesso è socio maggioritario, realizzando un indebito risparmio di imposta, tra la maggiore aliquota fiscale gravante sulla persona fisica e quella del reddito delle società.
Le contrarie argomentazioni sul punto svolte dalla difesa erano disattese sulla base dei seguenti rilievi:
- ciò che il B. conferisce alla società è una somma di denaro e non una prestazione d'opera, né un diritto della personalità o quant'altro (il 40% dei compensi ricevuti da terzi per le sue prestazioni artistiche);
- la mancanza degli adempimenti previsti in tema di conferimenti (mancata patrimonializzazione da parte della società, ovvero, in alternativa, incorporazione mediante emissione delle quote corrispondenti) non è di per sé significativa, ciò discendendo dalla scelta elusiva di far apparire il versamento come una provvigione per il servizio di consulenza che la Sanmarco avrebbe (in apparenza) reso all'artista;
- la previsione di un compenso minimo garantito di Euro 100.000,00 dovuto dalla società al B. , per la cessione dell'esclusiva sui diritti di utilizzazione economica della propria immagine, piuttosto che smentire rafforza l'obiettivo elusivo, poiché tale compenso all'artista costituisce una posta passiva per la società, di talché, in sintesi: 1. circa la metà di quel che il B. guadagna come persona fisica dalla propria attività artistica, diventa una posta passiva perché si trasforma in una provvigione (e dunque in un costo) che egli deve sostenere per compensare la società; 2. tale metà, a sua volta, viene decurtata di una posta passiva che la società deve al B. , quale compenso a titolo di cessione dei diritti d'immagine in una sorta di "scatole cinesi" tutte tese a ridurre il più possibile l'imposta effettivamente dovuta;
- non vi è contraddizione tra ipotizzata simulazione della provvigione (in quanto dissimulante un vero e proprio conferimento in società) e qualificazione in termini di condotta elusiva dell'operazione nel suo complesso, atteso che la prima qualificazione si riferisce per l'appunto alla reale giustificazione negoziale degli obblighi economici assunti in contratto dal B. nei confronti della società: reale giustificazione la cui individuazione, secondo il Tribunale, è imposta da una rigorosa applicazione del principio della rilevanza penale dell'abuso del diritto e sulla quale non possono influire ragioni economiche meramente marginali o teoriche, tali, quindi, da considerarsi manifestamente inattendibili o assolutamente irrilevanti, rispetto alla finalità di conseguire un risparmio d'imposta (al qual riguardo si rimarca nell'ordinanza che, come emerso nel corso della verifica fiscale, il B. contrattava da solo con i terzi e non ricavava pertanto alcun effettivo e apprezzabile vantaggio dall'incarico formalmente attribuito alla società);
- è corretta la procedura seguita dall'amministrazione finanziaria per il calcolo dell'imposta evasa dovendo questa calcolarsi, atteso appunto il carattere elusivo dell'operazione nel suo complesso, come se la società non fosse mai stata costituita.
In ragione di tali considerazioni, il Tribunale disponeva pertanto, in accoglimento dell'appello proposto dal P.M. avverso il provvedimento del G.I.P., ma limitatamente alle ipotesi di reato contestate con riferimento agli anni d'imposta dal 2006 al 2010, il sequestro preventivo per equivalente finalizzato alla confisca degli immobili, specificamente elencati, intestati a B.R. in XXXX e in XXXXX, fino a concorrenza della complessiva somma di Euro 1.560.032,65.
4. Avverso tale ordinanza propone ricorso il B. , per ministero del proprio difensore, sulla base di tre motivi.
4.1. Con il primo deduce inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 1 cod. pen. e 4 d.lgs. n. 74/2000 in relazione agli art. 37-bis d.P.R. n. 600/1973 e 2464 cod. civ., con riferimento alla contestata riconducibilità della condotta in oggetto all'istituto dei conferimenti in società.
Richiamate le considerazioni già svolte in sede di riesame al fine di dimostrare l'impossibilità di pervenire ad una tale qualificazione (mancata prova di modifiche al capitale sociale ovvero di emissione di nuove quote societarie corrispondenti ai presunti nuovi apporti, carenze dei requisiti di forma e pubblicità), il ricorrente censura l'argomento reiettivo utilizzato nell'ordinanza impugnata - secondo cui si tratterebbe di conferimento dissimulato dietro l'apparenza di provvigioni - rilevandone l'insostenibilità sia sul piano civilistico che su quello tributario.
Dal primo punto di vista rileva che erroneamente le condizioni necessarie e imprescindibili, secondo la disciplina codicistica in tema di S.r.l., per dar vita ad un conferimento, vengono nell'ordinanza sottovalutate, in modo sbrigativo e superficiale, quali meri adempimenti formali e che, peraltro, realmente le provvigioni asseritamente simulate transitavano sul conto della Sanmarco e andavano a formare una parte dei ricavi sottoposti all'imposizione fiscale.
Sotto il secondo aspetto rimarca che l'ipotizzata operazione simulatoria è estranea sia alla fattispecie incriminatrice di cui all'art. 4 d.lgs. n. 74/2000 (priva di connotati ingannatori o fraudolenti) sia e soprattutto alla ratio della previsione di cui all'art. 37-bis, comma 3, lettera b), d.P.R. n. 600/1973, che presuppone trattarsi di conferimenti reali e palesi posti in essere in sostituzione di altro negozio traslativo del bene conferito, al fine di beneficiare della più vantaggiosa imposizione fiscale gravante sui primi.
Sul piano penale, una tale operazione comporterebbe - deduce ancora il ricorrente - violazione dei principi di legalità, tassatività e determinatezza della norma incriminatrice.
Soggiunge che il raffronto con l'ipotesi della ?esterovestizione" di società, utilizzato dal Tribunale per argomentare la riconducibilità del fenomeno elusivo anche a comportamenti simulati, prova troppo, dal momento che in tal caso è la stessa legge (art. 73, comma 3, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917), che impone di valutare, al fine di ricostruire la condotta elusiva, la sostanza della situazione di fatto, mentre nel caso in esame manca un analogo riferimento normativo.
4.2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge, per avere il giudice a quo erroneamente ravvisato il superamento, nelle fattispecie considerate, delle soglie di punibilità previste dall'art. 4 d.lgs. n. 74/2000, ed altrettanto erroneamente calcolato l'imposta evasa ai sensi dell'art. 1 del medesimo decreto, derivandone l'erroneo riscontro del fumus commissi delicti.
Rileva che, come pure univocamente documentato in sede di riesame, la stessa amministrazione finanziaria aveva provveduto alla ridefinizione degli importi recuperati a tassazione per gli anni dal 2005 al 2009 (per il 2007 a seguito di accertamento con adesione), ponendo la relativa pretesa, per ciascun anno di imposta, al di sotto della soglia di rilevanza penale.
Aveva infatti ritenuto, ad emenda degli erronei criteri adottati dalla Guardia di Finanza, che il recupero fiscale dovesse essere limitato al disconoscimento del risparmio d'imposta ottenuto dal contribuente con l'operazione posta in essere e dunque procedendo anzitutto a quantificare l'imponibile non dichiarato nella differenza tra i costi dedotti (ossia le somme corrisposte anno per anno dal B. alla Sanmarco S.r.l.) e i compensi corrisposti dalla società (già dichiarati e tassati dall'artista) e, di seguito, applicando all'imponibile così calcolato l'aliquota del 10%, ossia la differenza tra l'aliquota prevista per i redditi della persona fisica (43%) e quella prevista per i redditi della persona giuridica (33%).
L'Agenzia delle entrate aveva inoltre espressamente escluso doversi procedere a recupero ai fini Irap e Iva, non essendovi alcuna differenza di aliquota tra l'imposta che, sull'imponibile non dichiarato, avrebbe dovuto corrispondere il B. e quella invece effettivamente corrisposta dalla Sanmarco S.r.l..
Quanto all'anno d'imposta 2010, rileva il ricorrente che, come pure documentato in sede di riesame, essendo l'avviso di accertamento ancora in fase di elaborazione da parte dell'Agenzia delle entrate, egli aveva presentato dichiarazione integrativa del modello Unico 2011/2010 e del modello Irap 2011/2010, nei quali veniva evidenziata, in base ai medesimi criteri già recepiti dall'amministrazione finanziaria per gli anni precedenti, una maggiore imposta non pagata di Euro 46.235,00, anch'essa inferiore alla soglia di punibilità.
Alla luce di tali premesse, censura l'affermazione contenuta nell'ordinanza impugnata secondo cui l'imposta andrebbe calcolata come se la società non fosse stata costituita, rilevando in sintesi che:
- l'errore nel calcolo delle imposte era stato riconosciuto dall'amministrazione finanziaria, tanto che la stessa aveva, come detto, proceduto al ricalcolo degli importi recuperati a tassazione;
- l'assunto secondo cui il calcolo dell'imposta andrebbe operato come se la società non fosse stata costituita, si pone in contrasto con quello secondo cui andrebbero nella specie ravvisati dei veri e propri conferimenti in società, ciò postulando l'esistenza reale di una società;
- è vero che il giudice penale non è vincolato dall'accertamento in sede tributaria, ma egli tuttavia non può prescindere dalla pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria (Sez. 3, n. 5640 del 2/12/2011 - dep. 14/02/2012, Manco, Rv. 251892);
- anche con riferimento all'accertamento per adesione posto a base del nuovo calcolo dell'imposta per l'anno 2007, se è vero che esso non ha efficacia vincolante per il giudice penale, tuttavia per disconoscerlo e aderire alla quantificazione iniziale, sarebbe necessario indicare concreti elementi di fatto che rendono quest'ultima più attendibile rispetto alla rideterminazione negoziale;
- il ragionamento seguito dal Tribunale omette, infine, di considerare che la Sanmarco, lungi dal potersi considerare come se non esistesse, ha effettivamente versato le imposte calcolate sui ricavi derivanti dal rapporto contrattuale con il B. , sicché il criterio di calcolo ipotizzato nell'ordinanza porterebbe a una duplicazione delle stesse imposte (una prima volta pagate dalla società, una seconda volta dal B. ).
4.3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce inosservanza ed erronea applicazione degli art. 322-ter cod. pen. e 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244 (legge finanziaria 2008).
Lamenta che il Tribunale ha omesso di considerare la documentazione comprovante i piani di ammortamento e i relativi pagamenti già effettuati per tutte le annualità, compreso l'anno di imposta 2010 in conseguenza della dichiarazione integrativa del modello Unico 2011/2010. Posto che, secondo indirizzo della giurisprudenza di questa Suprema Corte, il sequestro preventivo ex art. 322-ter cod. pen. non può riguardare beni di valore eccedente il profitto del reato, da identificare per altrettanto pacifico indirizzo, nel caso di reati tributari, con l'ammontare dell'imposta evasa, deduce che di tali pagamenti avrebbe dovuto a tal fine tenersi conto.
5. Il ricorrente ha depositato in data 9 gennaio 2014 memoria con la quale viene proposto nuovo motivo di ricorso, ai sensi dell'art. 311, comma 4, cod. proc. pen. (richiamato dall'art. 325, comma 3, cod. proc. pen.).
Con esso deduce l'illegittimità del sequestro preventivo nella misura in cui è riferito alle imposte in ipotesi evase per l'anno 2006, in quanto operato in applicazione retroattiva della norma di cui all'art. 1, comma 143, legge 24 dicembre 2007, n. 244 (che ha esteso ai reati tributari la confisca del equivalente cui detto sequestro è finalizzato) a fattispecie perfezionatasi anzi anteriormente alla sua entrata in vigore: ciò in violazione del principio di irretroattività della norma penale (art. 2 cod. pen.), cui deve ritenersi soggetta anche la norma suindicata, per il carattere prettamente afflittivo e consequenziale al reato della confisca predetta.

 

Considerato in diritto

 

6. I ristretti confini del sindacato consentito in questa sede - da un lato in ragione dei limitati vizi deducibili, ai sensi dell'art. 325 cod. proc. pen., riguardo a provvedimenti in tema di misure cautelari reali, dall'altro per i vincoli derivanti dal precedente annullamento di questa S.C., dovendosi tener conto al riguardo delle questioni esplicitamente o implicitamente già decise dalla terza sezione con la sentenza sopra citata - impediscono la valutazione della fondatezza del primo motivo di ricorso.
Ed invero, quanto alle preclusioni derivanti dal precedente decisum, non può non rilevarsi che la terza sezione, con la richiamata pronuncia già resa sul caso in esame, nell'annullare la prima ordinanza che aveva escluso potersi ravvisare nella specie un conferimento in società per ragioni legate a presunti limiti qualitativi dei beni suscettibili di conferimento (limiti che la S.C. ha evidenziato non più sussistere alla luce del nuovo testo dell'art. 2464 cod. civ.), ha implicitamente avallato i passaggi argomentativi necessariamente presupposti da quella statuizione (ancorché reiettiva) del Tribunale, e tra essi in particolare quello che ritiene astrattamente idoneo ad integrare la previsione di cui all'art. 37-bis comma 3 lett. b) d.P.R. n. 600/1973 (e, con ciò, a soddisfare il principio di legalità e determinatezza della previsione incriminatrice così come ricostruita dalla giurisprudenza di questa S.C. con riferimento alle condotte elusive), anche un conferimento dissimulato dietro l'apparenza di diversa operazione negoziale.
Le restanti censure sono invece precluse dall'art. 325 cod. proc. pen., risolvendosi esse nella prospettazione di un vizio motivazionale in relazione alla invero dubbia configurabilità nella fattispecie di una simulazione relativa (affermata in ragione della supposta identificabilità di un dissimulato conferimento in società, dietro l'apparenza di un contratto di scambio che obbliga l'odierno ricorrente alla cessione dei diritti sulla propria immagine ed al versamento di una percentuale dei ricavi ottenuti dalla propria attività artistica, verso il pagamento di un corrispettivo annuo non inferiore a Euro 100.000,00).
Non appare dubbio invero che una tale ricostruzione, nonostante l'intrecciarsi in essa di questioni di fatto e di diritto, configura nella sua essenza una valutazione anche di merito, come tale, non sindacabile in questa sede, restando per il resto preclusa una sua rivisitazione dai vincoli derivanti dal precedente annullamento.
7. Il ricorso si rivela tuttavia fondato in relazione al secondo motivo, di rilievo assorbente e non soggetto ad analoghe preclusioni, trattandosi di questione non esaminata, nemmeno per implicito, dalla precedente citata pronuncia e certamente impingente l'osservanza di precisi e univoci limiti normativi posti alla punibilità delle ipotizzate fattispecie criminose.
7.1. Ed invero, premesso che la condotta punita dall'art. 4 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, consiste nella indicazione, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o, come nella specie, di elementi passivi fittizi (c.d. dichiarazione infedele), occorre rammentare che, per espressa previsione contenuta nella stessa norma, essa è però penalmente rilevante solo quando, congiuntamente:
a) l'imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a Euro 103.291,38 (per i reati consumati anteriormente al 17/09/2011: nella specie capi da A ad E) o a Euro 50.000,00 (per i reati consumati successivamente a tale data: nella specie capo F; ciò per effetto della modifica apportata dall'art. 2, comma 36-vicies semel, lett. d), d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148);
b) l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, è superiore al dieci per cento dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a Euro 2.065.827,60 (per i reati consumati anteriormente al 17/09/2011: nella specie capi da A ad E) o a Euro 2.000.000,00 (per i reati consumati successivamente a tale data: nella specie capo F, per effetto della predetta modifica).
Il superamento della soglia rappresentata dall'ammontare dell'imposta evasa costituisce dunque una condizione oggettiva di punibilità (Sez. 3, n. 25213 del 26/05/2011, Calcagni, Rv. 250656), in mancanza della quale (ossia al di sotto della predetta soglia) l'interesse dell'amministrazione finanziaria all'esattezza delle dichiarazioni annuali dei redditi e dell'IVA è presidiato dalle conseguenze civilistiche della violazione dell'obbligo posto a carico del contribuente (interessi di mora e sanzioni).
Deve certamente ribadirsi che, ai fini dell'individuazione del superamento o meno della soglia di punibilità, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di procedere all'accertamento e alla determinazione dell'ammontare dell'imposta evasa, attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche ad entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria (Sez. 3, n. 36396 del 18/05/2011, Mariutti, Rv. 251280; Sez. 3, n. 21213 del 26/02/2008, De Cicco, Rv. 239984).
È quindi ben possibile che la pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria venga ridimensionata o addirittura invalidata nel giudizio innanzi al giudice tributario, senza che ciò possa vincolare il giudice penale e senza che possa quindi escludersi che quest'ultimo pervenga - sulla base di elementi di fatto in ipotesi non considerati dal giudice tributario - ad un convincimento diverso e ritenere nondimeno superata la soglia di punibilità per essere l'ammontare dell'imposta evasa superiore a quella accertata nel giudizio tributario.
È ovvio però che di tale diverso convincimento occorre dare specifica e congrua motivazione.
Con la precisazione peraltro che i possibili esiti del giudizio tributario, che può definirsi anche con una pronuncia meramente in rito, costituiscono un dato ben distinto dalla pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria che fissa il limite della soglia di punibilità: il giudice penale non è vincolato all'accertamento del giudice tributario, ma non può prescindere dalla pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria (così Sez. 3, n. 5640 del 2/12/2011 - dep. 14/02/2012, Manco, Rv. 251892).
L'accertamento con adesione e ogni forma di concordato fiscale si collocano sul crinale della distinzione appena tracciata: c'è un'iniziale pretesa tributaria che poi viene ridimensionata non già dal giudice tributario, ma da un atto negoziale concordato tra le parti del rapporto. Anche in tal caso, dunque, il giudice penale non è vincolato all'imposta così "accertata"; ma per discostarsi dal dato quantitativo risultante dall'accertamento con adesione o dal concordato fiscale per tener conto invece dell'iniziale pretesa tributaria dell'amministrazione finanziaria al fine della verifica della soglia di punibilità prevista dall'art. 4 citato, occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l'iniziale quantificazione dell'imposta dovuta.
7.2. Nella specie, a fronte della documentata esistenza, per gli anni di imposta 2006, 2008 e 2009 di avvisi di accertamento notificati dall'Agenzia delle entrate chiaramente indicanti una rideterminazione della imposta evasa in misura nettamente inferiore non solo a quella indicata in imputazione ma anche alla soglia di punibilità predetta, il Tribunale ha omesso ogni valutazione degli elementi da essa emergenti, giustificando il proprio convincimento della sussistenza, anche sotto tale preliminare profilo, del fumus commissi delicti, con l'affermazione secondo la quale l'imposta evasa andrebbe nel caso di specie calcolata ?come se la società non fosse mai stata costituita?: affermazione evidentemente apodittica, che non tiene conto del ben diverso criterio di calcolo seguito dall'amministrazione finanziaria e della relativa determinazione finale (che pure, come detto, costituisce invece dato dal quale il giudice penale non può prescindere) e che si pone anche in palese contrasto con il disposto dell'art. 37-bis comma 2 d.P.R. n. 600/73, a mente del quale le imposte evase attraverso la condotta elusiva vanno rideterminate e applicate dall'amministrazione finanziaria ?al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all'amministrazione?.
7.2.1. Analogo rilievo vale anche per l'imputazione di cui al capo F (dichiarazione relativa all'anno d'imposta 2010).
Se è vero che, per tale anno, manca ancora un ricalcolo da parte dell'Agenzia, ma vi è solo dichiarazione integrativa presentata dal contribuente in data 24/04/2013, è anche vero però che tale dichiarazione integrativa giunge a calcolare una maggiore imposta dovuta per Euro 46.234,00 (al di sotto dunque della più severa soglia di punibilità dettata dalla nuova formulazione dell'art. 4 d.lgs. n. 74/2000) sulla base di criteri di calcolo in apparenza corrispondenti a quelli seguiti per gli altri anni dalla stessa amministrazione finanziaria.
In mancanza di controllo da parte dell'Agenzia delle entrate, il giudice penale può ovviamente discostarsi da tale unilaterale indicazione, ma deve tuttavia motivare specificamente sul punto illustrando le ragioni per le quali dovrebbe invece pervenirsi al calcolo di una maggiore imposta evasa, ragioni che non possono essere rappresentate dall'assunto predetto secondo cui occorrerebbe nella specie operare ?come se la società non fosse stata mai costituita?, in quanto privo di fondamento logico e normativo (ma anzi contrastato dal dato positivo sopra evidenziato) e smentito dal criterio costantemente adottato dalla stessa amministrazione finanziaria per gli anni precedenti.
8. Resta assorbito l'esame del terzo motivo di ricorso, dovendosi invece rilevare l'inammissibiltà del motivo aggiunto in quanto mirato a introdurre una questione di fatto (la data di commissione del reato contestato al capo B, diversa da quella indicata in rubrica) che non risulta sia stata sottoposta al Tribunale del riesame, ma che per la prima volta viene dedotta in questa sede.
9. L'ordinanza impugnata va pertanto annullata con rinvio al Tribunale di Roma per un nuovo esame dell'appello proposto dal P.M., nel condurre il quale i giudici del rinvio valuteranno, tenendo conto dei rilievi e dei principi sopra enunciati, se le contestate condotte elusive superino le soglie di punibilità dettate dalla citata norma nella formulazione tempo per tempo vigente.

 

P.Q.M.

 

Annulla l'ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Roma per nuovo esame.