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Conflitto di interessi del PM: che fare? (Cass. 21853/12)

5 dicembre 2012, Cassazione civile

Compromette il prestigio dell’ordine giudiziario il PM che non si astiene quando esistono gravi ragioni di convenienza.

L’art. 323 c.p. fonda un dovere generale di astensione in tutte le ipotesi che configurano oggettivamente un conflitto di interessi.

 

Cassazione civile

Sezioni Unite

5 dicembre 2012, n. 21853
 
 
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO


1) Con sentenza del 24 aprile 2012 la Sezione disciplinare del CSM, previa riformulazione dell’incolpazione, ha dichiarato la ricorrente, già sostituto procuratore della repubblica presso il tribunale di Potenza, responsabile dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. c e l’ha condannata alla sanzione della censura. La ha assolta da altra incolpazione per fatto connesso.
L’addebito principale consisteva nell’aver omesso di astenersi dal trattare, nella fase delle indagini preliminari, svoltasi tra il 2001 e il 29 giugno 2004, il procedimento 4271/01, nel quale erano indagati i componenti della Giunta regionale lucana, sebbene ella fosse cointeressata a una struttura sanitaria privata di proprietà della di lei famiglia, convenzionata con la Regione e diretta dal marito, interessato all’esito del procedimento.

L’addebito continuava precisando che il marito dell’incolpata il 22 luglio 2004 aveva presentato domanda di partecipazione al concorso quale direttore generale della ASL San Carlo di Potenza, attribuitogli il 31 luglio 2004; che il magistrato aveva richiesto l’archiviazione del procedimento il 17/29 giugno 2004; che aveva presentato istanza di astensione soltanto il 15 novembre 2005, dopo che il GIP aveva disposto indagini suppletive; che la richiesta di archiviazione, fatto cui si riferiva il secondo addebito, era stata motivata con formule di stile.
1.1) La Sezione disciplinare ha rigettato l’eccezione di estinzione per inosservanza dei termini di decadenza del procedimento.
Ha osservato che la sospensione facoltativa ex art. 16, comma 4 era stata disposta in sede istruttoria e che il termine biennale, tenendo conto di essa, non era stato superato. La Sezione ha negato anche che il calcolo della sospensione dovesse essere limitato alla data della richiesta di archiviazione in sede penale, poiché il provvedimento doveva essere inteso come sospensivo del procedimento disciplinare fino a quando non fosse stata risolta l’incertezza sull’esercizio dell’azione penale, incertezza venuta meno solo con la decisione del GIP, in data 19 marzo 2011.

1.2) Quanto alla sussistenza della violazione addebitata, la Sezione, dopo aver qualificato l’illecito ai sensi del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. C ha richiamato l’orientamento giurisprudenziale che ritiene configurabile anche a carico del pubblico ministero la violazione del dovere di astensione.
Ha poi ritenuto che l’incolpata fosse a conoscenza delle intenzioni del marito di partecipare al concorso de quo e dovesse astenersi ben prima della data in cui lo aveva fatto.
1.3) L’incolpata ha proposto ricorso per cassazione, depositato il 30 maggio 2012, svolgendo censure inerenti al merito e alla questione processuale relativa alla decadenza dell’azione disciplinare. Il Ministro della Giustizia non ha svolto attività difensiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE

2) Conviene partire dall’esame del primo motivo di ricorso, sebbene la ricorrente abbia dedotto che si tratta di censura “subordinata” rispetto alle censure “inerenti al merito”, giacché la questione ivi posta potrebbe potenzialmente condurre alla estinzione del procedimento disciplinare.

2.1) La ricorrente denuncia manifesta illogicità della motivazione e violazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 15, commi 2 e 7 (art. 606 c.p.c., comma 1, lett. b) ed e)) in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
Sostiene che l’inizio del procedimento disciplinare si è avuto il 13 aprile 2007 (ad opera del Ministro) e il 23 aprile 2007 (ad opera del procuratore generale); che il Pg ha disposto la sospensione del procedimento disciplinare il 24 ottobre 2008 precisando nel provvedimento: “fino alla decisione del Pubblico Ministero in ordine all’esercizio dell’azione penale nei confronti dell’incolpata”; che il 13 agosto 2009 vi era stata comunicazione scritta del Procuratore della Repubblica procedente, inviata all’organo dell’accusa, della richiesta di archiviazione dell’indagine penale contro la odierna ricorrente; che il Pg aveva richiesto la fissazione dell’udienza solo il 24 giugno 2011, quando il termine biennale di cui all’art. 15, comma 7 cit. era già spirato. La ricorrente evidenzia il tenore letterale del decreto di sospensione, che sarebbe stato arbitrariamente inteso dalla Sezione disciplinare come volto alla sospensione fino alla decisione finale del GIP e non a quella del PM procedente.
La Sezione ha infatti ritenuto che il provvedimento doveva intendersi “sospensivo del procedimento disciplinare fino a quando non fosse stata risolta l’incertezza sull’esercizio dell’azione penale” nei confronti dell’incolpata.

2.2) La doglianza è infondata.
Come ha affermato la sentenza impugnata, affrontando un profilo controverso non oggetto di censura in questa sede, l’ultimo inciso del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 16, comma 4 ha introdotto un’ipotesi di sospensione facoltativa del procedimento disciplinare; trattasi di fattispecie distinta dalla sospensione necessaria, prevista dallo stesso comma, che deve essere disposta qualora il procuratore della Repubblica abbia comunicato che gli atti investigativi acquisiti dal Pg ai fini delle determinazioni sull’azione disciplinare non debbano essere divulgati.

L’inciso si limita a disporre che “il procedimento può essere altresì sospeso nel corso delle indagini preliminari”.

Non v’è dubbio, secondo il criterio interpretativo logico- sistematico, che il potere di sospensione sia attribuito al Procuratore generale, cioè al medesimo soggetto che conduce il procedimento disciplinare e che può sospenderlo nell’ipotesi contemplata dal periodo precedente della norma.

Quest’ultima non individua i presupposti per l’adozione del provvedimento di sospensione facoltativa, ma la collocazione della disposizione di cui all’inciso e il suo nesso con il procedimento penale, al quale si riferisce la sospensione necessaria regolata dal periodo precedente, inducono a credere, come ha ritenuto la Sezione, che la sospensione può essere disposta nell’ipotesi in cui “siano in corso indagini penali su elementi comunque rilevanti in sede disciplinare”.

2.2.1) È da chiedersi ora se la sospensione disposta dal Pg potesse essere limitata temporalmente o se il limite temporale ivi menzionato (“fino alla decisione del Pubblico Ministero in ordine all’esercizio dell’azione penale nei confronti dell’incolpata”) dovesse essere considerato sostanzialmente come non apposto.
A quest’ultima conclusione la Sezione è pervenuta perché ha preso come riferimento la finalità del provvedimento di sospensione, che è quella di acquisire “notizia certa in ordine all’esercizio dell’azione penale” contro la ricorrente. Ha considerato che se questa era la finalità del provvedimento, la sospensione non poteva che valere fino alla decisione del GiP (avvenuta il 19 marzo 2011).
La tesi accolta è conforme alla più corretta interpretazione del testo legislativo.
La breve disposizione mette in correlazione strettamente il procedimento disciplinare alle indagini preliminari e ciò legittima l’idea che, se il procuratore generale reputa di non poter procedere disciplinarmente sulla base degli atti disponibili, preferendo attendere gli sviluppi dell’indagine penale, il riferimento non possa che essere all’esito delle stesse con la decisione del giudice e non ad un momento del loro svolgersi.
Ciò avverrebbe se si accettasse l’ipotesi che il Pg possa fissare un tempo limite per la sospensione, individuando un arco di tempo.
Il legislatore avrebbe potuto stabilire ciò, ma non lo ha fatto. La circostanza è particolarmente significativa perché nello stesso comma è prevista un’ipotesi di sospensione (legata al segreto investigativo) con un termine temporale massimo (dodici mesi di segretazione degli atti corrispondente sospensione del procedimento disciplinare, prorogabile di altri sei).
Nell’inciso che segue, quello in esame, il legislatore ha prescelto un’altra soluzione al problema del limite temporale; ha cioè omesso ogni limite massimo di sospensione ed ha ancorato la sospensione alle indagini preliminari. È quindi da credere, stante la evidente dissonanza con la disposizione precedente, che non può essere casuale, che non abbia voluto concedere al Pg il potere di stabilire un limite di durata della sospensione facoltativa, ma che abbia inteso accordare al Pg il potere di disporre o meno la sospensione per tutta la durata delle fase delle indagini preliminari, fino all’acquisizione dell’esito circa l’esercizio dell’azione penale, momento rivelatore del risultato delle indagini preliminari.

2.2.2) La Sezione disciplinare del Csm, nel dare questo senso al provvedimento adottato dal Pg, ha quindi reso un’interpretazione correttiva dello stesso, contrastante sì con il tenore testuale, ma coerente con la migliore lettura della norma, che intende la sospensione facoltativa ammissibile solo se stabilita per tutto il corso delle indagini preliminari.
Svaniscono per questa via le doglianze relative all’arbitrarietà dell’interpretazione resa dalla Sezione.
Non risultano inoltre fondate nemmeno le doglianze del ricorso relative alla conseguente indeterminatezza della stasi del procedimento disciplinare. L’ancoraggio alla decisione del Gip non offre minori garanzie di quello alle determinazioni del p.m. che conduce le indagini preliminari e non compromette le esigenze di ragionevole durata del procedimento, cui assicura anzi un equilibrato bilanciamento, in relazione al possibile esito assolutorio del provvedimento del giudice.

3) Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione o erronea applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. C) nonché mancanza e manifesta illogicità della motivazione (art. 606 c.p.c., comma 1, lett. b) ed e).
Il primo profilo del motivo concerne l’interpretazione delle norme in tema di dovere di astensione del magistrato del pubblico ministero.
La ricorrente sostiene che, quanto al pubblico ministero, l’ordinamento prevede soltanto la facoltà e non l’obbligo di astenersi e invoca il disposto dell’art. 52 c.p.p., a tenore del quale: “Il magistrato del pubblico ministero ha la facoltà di astenersi quando esistono gravi ragioni di convenienza”.
La censura:
a) sottolinea la differenza con il disposto dell’art. 36, comma 1, lett. a), che stabilisce che il giudice ha l’obbligo di astenersi se ha interesse nel procedimento.
b) evidenzia che la tipizzazione degli illeciti disciplinari di cui alla riforma del 2006 impedisce di fondare un obbligo di astensione del p.m. – e il suo obbligo di astenersi – anche quando di sia in presenza “di un rilevante interesse del p.m.”, perché dovrebbe essere sempre indicata la norma di legge che preveda l’obbligo del magistrato di astenersi, in quanto il D.Lgs. n. 109, art. 2 configura l’illecito disciplinare allorquando vi sia la consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge.
c) sostiene che secondo la giurisprudenza in materia disciplinare questa ipotesi riguarda il p.m. solo ove vi sia stata violazione dell’obbligo di astensione desumibile dall’art. 323 c.p.; nega che ciò sia possibile nella specie, atteso che la sussistenza dell’ipotesi delittuosa di abuso d’ufficio è stata negata con il provvedimento di archiviazione reso il 19.3.2011 dal gip del tribunale di Catanzaro, in tutto favorevole all’indagata.

3.1) Il motivo non merita accoglimento.

Con esso la ricorrente cerca di valorizzare una sfumatura di contrasto, interno alla giurisprudenza, tra la tesi più rigorosa – rinvenibile ad esempio in Cass. 25815/07 (sentenza che riguardava proprio l’odierna ricorrente, con riguardo ad altro aspetto della vicenda; conf. Cass. 1088/03), a mente della quale “il magistrato del pubblico ministero, svolgendo nel processo penale funzioni di parte pubblica, tenuta ad agire esclusivamente per il perseguimento dei fini istituzionali di giustizia ad essa assegnati dall’ordinamento, ha il dovere, sul piano deontologico e disciplinare, di fare formale istanza di astensione a norma dell’art. 52 cod. proc. pen. tutte le volte che nel processo in cui interviene si manifestino situazioni obiettivamente suscettibili di far ipotizzare che la sua condotta possa essere ispirata a fini diversi da quelli di istituto, e, in particolare, al conseguimento di obiettivi e al soddisfacimento di interessi personali” – ed altre pronunce.

In particolare il ricorso si riferisce a Cass. 15976/09 (e a Csm sez. disc. N. 118/11), laddove in via di principio ha enunciato che “l’illecito disciplinare “de quo” non è configurabile in relazione alla facoltà del P.M. di astenersi per gravi ragioni di convenienza, prevista dall’art. 52 c.p.p., comma 1, perché il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. c) sanziona come illecito disciplinare soltanto la consapevole inosservanza dell’obbligo di astensione nei casi previsti dalla legge, sicché in difetto dell’obbligo non v’è neppure l’illecito”.

La sentenza citata ha però ravvisato in concreto la sussistenza dell’obbligo di astensione da parte del p.m., in quanto imposto dall’art. 323 c.p., che rileva ai fini della violazione del dovere di astensione quando “l’esercizio delle funzioni giudiziarie sia oggettivamente qualificabile come illecito penale” indipendentemente “dall’effettiva formabilità di un giudizio di colpevolezza penale nei confronti di chi” violi la legge penale.

Questa precisazione giova in primo luogo a respingere la rilevanza in astratto della successiva archiviazione dell’indagine penate, avviata sui medesimi fatti posti a base dell’iniziativa disciplinare.
In secondo luogo essa apre la via per riconsiderare la portata dell’elemento della fattispecie penate di cui all’art. 323 c.p. che sta alla base del dovere di astensione.

Quest’ultimo è previsto “in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto”.

In questo modo l’art. 323 c.p. ha fondato un dovere generale di astensione in tutte le ipotesi che configurano oggettivamente un conflitto di interessi. Si salvaguarda per questa via il principio di imparzialità a cui deve ispirarsi non solo, come è ovvio, l’attività dei magistrati, ma anche, a norma dell’art. 97 Cost., quella svolta dai pubblici ufficiali.
Il conflitto può essere configurabile allorché l’interesse, anche solo potenziale, abbia carattere di attualità e di oggettiva, concreta rilevabilità, non sia cioè puramente congetturale o remoto: questa valutazione rientra tuttavia nell’ambito di apprezzamento del giudice di merito.
Già queste considerazioni, che superano la segnalata linea di contrasto, sono sufficienti a leggere la disposizione di cui all’art. 52 c.p.p., quando sia in esame sotto il profilo disciplinare il comportamento del pubblico ministero, nel senso che sussiste l’obbligo del pubblico ministero di astenersi allorquando la sua attività, doverosamente imparziale, possa essere infirmata da un interesse personale o familiare.
Si equiparano così, restando altrimenti insopportabilmente incoerente il sistema normativo in materia, l’ipotesi di cui all’art. 36 che riguarda il giudice penale, quella di cui all’art. 52 c.p.p., nonché ogni altra ipotesi in cui le gravi regioni di convenienza coincidano con la presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto.
3.2) Le Sezioni Unite erano già pervenute alla configurazione, sotto il profilo disciplinare, dell’obbligo di astensione del pubblico ministero, con enunciazioni, agevolmente riscontrabili anche in dottrina, che mette conto confermare.
In particolare con la sentenza 11431/10 la Corte aveva ritenuto: “che la complessiva disciplina del dovere di astensione e la lettura coordinata degli artt. 52 e 53 c.p.p. e dell’art. 73 c.p.c. impongano di ritenere l’esistenza anche per il P.M. del dovere di valutare nell’esercizio delle sue funzioni le ragioni di grave convenienza per non trattare cause in cui egli o suoi stretti congiunti abbiano interessi e quello di astenersi dal processo se tali ragioni sussistano, con particolare riferimento a interessi propri o personali dello stesso magistrato”.
La sentenza citata ha poi richiamato S.U. 25 novembre 2009 n. 24578, che ha spiegato per qual motivo il legislatore del codice di procedura penale abbia previsto la facoltà di astensione de p.m. e non l’obbligo.
La prudenza di questa disposizione normativa, val bene ripetere, trova fondamento nell’esigenza di scongiurare il rischio di paralisi dell’azione penale, che comprometterebbe la previsione costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale stessa, qualora il pubblico ministero procedente, per avventura non immediatamente sostituibile, fosse costretto a intralciarne il corso a motivo di una causa di astensione. Laddove questa ipotesi non si ponga e vi sia il rischio di “far apparire l’attività giudiziaria compiuta da un magistrato, anche del P.M., come dettata da fini diversi da quelli di giustizia ed in particolare dell’intento o della inevitabilità oggettiva del conseguimento di vantaggi” sussiste l’obbligo, anche del P.M., di astenersi. Ciò, si è detto, in quanto il magistrato del pubblico ministero, svolgendo nel processo penale funzioni di parte pubblica è tenuto ad agire esclusivamente per il perseguimento dei fini istituzionali di giustizia ad essa assegnati dall’ordinamento (cfr.
SS. UU. nn. 1821 del 2007 e 1088 del 2003) e che si fa luogo in tal guisa “all’applicazione di un principio generale e fondamentale del processo”. Va qui ancora aggiunto che la equiparazione, a questi fini, tra obblighi del giudice e del p.m. affonda le radici nello statuto costituzionale del pubblico ministero, quale organo sottratto dai costituenti all’influenza dell’esecutivo, indispensabilmente partecipe dell’indipendenza del giudice, da intendere quale indipendenza del magistrato, in vista della realizzazione dell’uguaglianza del cittadino di fronte alla legge, per il tramite della soggezione del giudice solo alla legge e dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale.
4) Il secondo profilo del motivo di ricorso in esame attiene ai “vizi motivazionali”. La ricorrente lamenta in primo luogo che la sezione disciplinare non abbia tenuto in considerazione le circostanze relative alle comunicazioni con cui ella, in riferimento ad altri due processi che coinvolgevano la Regione, avesse informato il procuratore capo della Repubblica circa il proprio interesse di carattere familiare (non economico) ad una struttura sanitaria, ricevendo in un caso conferma della delega e nel secondo la revoca.
Si duole che non sia stata considerata la tesi della superfluità di altra istanza, Né che sia stato considerato il legittimo affidamento indotto dalle decisioni del Procuratore della Repubblica.
Ad avviso della Corte trattasi di censura infondata, atteso che con apprezzamento di fatto logico e congruo, la sezione, che non ha l’obbligo di scrutinare ogni minuto aspetto dedotto negli atti di parte, potendo concentrarsi su quelli risolutivi ai fini della decisione, ha ritenuto che l’interesse dell’incolpata e dei suoi congiunti in una struttura sanitaria convenzionata con la Regione e gestita dal marito convivente dell’incolpata, la quale “aveva provveduto poi a intestare alcune quote della struttura al figlio”, unitamente alla partecipazione da parte del marito dell’incolpata al posto di direttore generale della ASL locale valessero a configurare l’interesse dell’incolpata. È chiaro che, a fronte di questa considerazione, in questa sede non censurabile, che sanciva la sussistenza di una situazione di obbligo di astensione, risultavano privi di rilevanza decisiva, per scusare l’incolpata, i conati di astensione relativi a precedenti indagini. Non senza osservare che proprio i contrastanti esiti delle comunicazioni rese in precedenza al procuratore capo imponevano da subito almeno di ricondurre nuovamente alla sua attenzione l’inopportunità dell’assegnazione del nuovo procedimento 4271/01, iscritto alcuni mesi dopo le precedenti istanze.
4.1) Ulteriore profilo di questa censura concerne la mancata considerazione accordata nella sentenza impugnata alla deduzione che, al momento (17 giugno 2004) di formulazione della richiesta di archiviazione favorevole agli indagati nel procedimento 4271, l’incolpata non era a conoscenza dell’intenzione del proprio marito di proporre domanda per partecipare al concorso, circostanza sorretta da dichiarazioni scritte rilasciate da testimoni e dalla circostanza che in data 23 luglio 2004, giorno successivo alla presentazione della domanda, ella aveva depositato istanza di autorizzazione ad astenersi da ogni procedimento pendente e futuro riguardante la Giunta Regionale.
Il ricorso sottolinea anche che specifica istanza di astensione per il procedimento 4271/01 era stata presentata solo in novembre 2005, ma che tale ritardo era dovuto al fatto che il fascicolo era ritornato in Procura in forza di provvedimento del gip, ricadendo nuovamente tra i procedimenti assegnati all’incolpata. Anche questa censura, per quanto abilmente illustrata, non coglie nel segno.
In tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, il ricorso avverso le decisioni della Sezione disciplinare del CSM non può essere rivolto a conseguire un riesame dei fatti che hanno formato oggetto di accertamento e di apprezzamento da parte di detta Sezione, dovendo le Sezioni Unite della Corte di cassazione limitarsi ad esprimere un giudizio sulla congruità, adeguatezza ed assenza di vizi logici nella motivazione che sorregge la decisione impugnata (Cass. S.U. 13713/05; 20133/04).
Nella specie la Sezione disciplinare ha negato che ogni ulteriore circostanza relativa alla conoscenza delle intenzioni del coniuge dell’incolpata dovesse essere approfondita, giacché l’interesse personale “ricollegabile al rapporto di coniugio e di convivenza ed alla presunzione che da tale rapporto derivava” esimeva da ogni ulteriore necessità probatoria.
La sentenza ha rimarcato che una riprova della compromissione del prestigio dell’ordine giudiziario si traeva anche dall’opposizione di un privato alla richiesta di archiviazione formulata in giugno dall’incolpata, nonché dai rilievi negativi a carico della ricorrente mossi dal p.m. nel richiedere l’archiviazione del procedimento relativo alla giunta regionale.
Ne ha tratto il convincimento che l’incolpata avesse piena consapevolezza dei fatti che imponevano la astensione, non potendo ella ignorare la partecipazione del marito al concorso e l’ambito di attività della società di famiglia, operante in un settore soggetto all’influenza della Giunta regionale.
L’insieme di queste considerazioni sfugge a ogni critica circa la congruità, logicità e sufficienza della motivazione e rende non decisive le risultanze non esplicitamente analizzate.
È evidente dalla motivazione che queste ultime sono state ritenute superate dalle valutazioni, sotto il profilo logico irreprensibili, circa il nesso temporale tra i fatti (richiesta di archiviazione/domanda di concorso), la presunzione nascente dal rapporto di coniugio, la dipendenza degli interessi familiari dall’operato degli indagati.
Non v’è quindi margine per le Sezioni Unite per ingerirsi in siffatta valutazione di merito.
Discende da quanto esposto il rigetto del ricorso.
Non v’è luogo per statuizione sulle spese di lite, in mancanza di attività difensiva di parte intimata.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite civili tenuta, il 9 ottobre 2012.
Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2012