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"Clandestino" è discriminazione (Tr. Milano 47117/16)

22 febbraio 2019, Tribunale di Milano

Con l’epiteto di “clandestino” si fa chiaramente riferimento ad un soggetto abusivamente presente sul territorio nazionale ed è idoneo a creare un clima intimidatorio (implicitamente avallando l’idea che i “clandestini”, non regolarmente soggiornanti in Italia, devono allontanarsi).

I “clandestini” sono però persone che, esercitando un diritto fondamentale, hanno chiesto allo Stato italiano di riconoscere loro la protezione internazionale.

Il diritto al riconoscimento della pari dignità sociale e alla non discriminazione trova primario fondamento sia nell’art. 2 Cost. che riconosce e garantisce anche agli stranieri i diritti fondamentali dell’uomo, sia nell’art. 3 Cost., che sancisce il principio di pari dignità sociale e di eguaglianza davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

TRIBUNALE ORDINARIO di MILANO

PRIMA CIVILE
r.g. 47117/2016 

ASGI – Associazioni degli Studi Giuridici sull’Immigrazione e NAGA – Associazione Volontaria di Assistenza Socio sanitaria e per i Diritti di Cittadini stranieri, Rom e Sinti, con il patrocinio dell’avv. ..

Ricorrenti

contro
DB, elettivamente domiciliato in ..  presso lo studio dell’avv. ..

calce alla comparsa di costituzione

Interveniente volontario

contro
LEGA NORD – LEGA LOMBARDA, in persona del Segretario nazionale pro- tempore, lettivamente domiciliata in ..


LEGA NORD PER L’INDIPENDENZA DELLA PADANIA, in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata ..

OGGETTO: Discriminazione

Fatto e Diritto

Con ricorso ex art. 44 D.Lgs. 286/1998 l’ASGI – Associazione degli Studi Giuridici sull’Immigrazione - e il NAGA - Associazione Volontaria di Assistenza Socio-sanitaria e per i diritti dei cittadini stranieri, rom e sinti (di seguito, solo ASGI e NAGA), hanno

Terzi chiamati

convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano la Lega Nord, Sezione di Saronno,

chiedendo:

  • -  di accertare e dichiarare il carattere discriminatorio e/o molesto del comportamento

tenuto dalla Lega Nord Saronno;

  • -  di condannare la convenuta a risarcire il danno non patrimoniale derivante dalla

condotta discriminatoria;

  • -  di ordinare alla convenuta di garantire adeguata pubblicità all’emanando provvedimento

e, pertanto, di ordinare la pubblicazione dell’emanando provvedimento, o di un estratto dello stesso, su un giornale a tiratura nazionale o locale, con dimensioni minime che ne garantiscano la visibilità, nonché per almeno un mese sulla home page del sito della Lega Nord;

  • -  di disporre un piano di rimozione che prevenga il ripetersi in futuro di analoghi episodi, con vittoria di spese.

Hanno dedotto le associazioni ricorrenti:

  • -  che, il 1.4.2016, la Cooperativa Intrecci aveva concordato con la Prefettura di Varese di mettere a disposizione una struttura sita in Saronno, via Castelli, per accogliere 32 richiedenti asilo, nell’ambito del piano di emergenza gestito dalla Prefettura;
  • -  che, in occasione di una manifestazione organizzata il 9.4.2016 dalla Lega Nord di Saronno, erano stati affissi nel territorio comunali circa 70 cartelli recanti il simbolo del partito Lega Nord dal seguente contenuto: “Saronno non vuole i clandestini” “Renzi e Alfano vogliono mandare a Saronno 32 clandestini: vitto, alloggio e vizi pagati da noi. Nel frattempo ai saronnesi tagliano le pensioni ed aumentano le tasse” “Renzi e Alfanocomplici dell’invasione”;
  • -  che i predetti cartelli erano rimasti affissi per circa un mese, in molti luoghi di grande frequentazione, anche nei pressi di scuole e centri commerciali;
  • -  che, in seguito all’affissione dei predetti cartelli, il segretario cittadino della Lega Nord, Davide Borghi, e il sindaco di Saronno avevano rilasciato dichiarazioni relative all’opposizione all’accoglienza dei “clandestini”.

Premessi tali elementi di fatto, parte ricorrente ha allegato la sussistenza di un comportamento discriminatorio e molesto, ex art. 2, comma 3, della l. 215/2003.

In particolare, ha evidenziato: che la sezione comunale della Lega Nord era un soggetto autonomo, dotato di legittimazione processuale; che costituisce discriminazione per ragioni di razza ed origine etnica anche la molestia subita in conseguenza dei motivi connessi a tali fattori; che la Lega Nord Saronno, attribuendo il termine “clandestini” ad un gruppo, determinato nel numero, ma indeterminato nelle singole individualità, di richiedenti asilo, aveva posto in essere un comportamento discriminatorio; che la qualifica “clandestino” contraddistingue un comportamento delittuoso (previsto dall’art. 10 bis del TU Immigrazione) ed indica un soggetto presente abusivamente sul territorio; che il gruppo sociale dei “clandestini” si riferisce a soggetti contraddistinti dall’appartenenza a gruppi etnici diversi da quello autoctono, o caucasico o indoeuropeo, o comunque diversi da quello maggioritario sul territorio nazionale e dunque ad un gruppo sociale contraddistinto da un fattore di protezione (quello di avere una connotazione etnica); che il comportamento in esame costituisce, altresì, discriminazione anche perché crea un ostacolo ulteriore nella partecipazione del richiedente asilo alla vita pubblica e nell’accesso ai servizi, a prestazioni sociali ed al lavoro; che erano stati superati i limiti del diritto di critica politica.

Con comparsa di costituzione e risposta depositata il 17.11.2016, si è costituito Davide Borghi, eccependo, preliminarmente la carenza di legittimazione passiva della Lega Nord – Sezione di Saronno (in ragione del fatto che la detta articolazione non aveva alcuna autonoma giuridica esistenza).

Nel merito ha dedotto: che l’azione in esame, sebbene dichiaratamente finalizzata ad ottenere la condanna di un atto ritenuto discriminatorio, aveva una chiara valenza politica; che nei cartelli affissi nel comune di Saronno non erano contenute espressioni discriminatorie per ragione di razza o di origine etnica; che la critica politica era rivolta non nei confronti dei “clandestini”, ma di Renzi ed Alfano; che le affermazioni non avevano, comunque, neanche contenuto diffamatorio, essendo manifestazione della libertà di espressione, costituzionalmente tutelata. Ha concluso chiedendo il rigetto delle domande e la condanna delle ricorrenti al risarcimento dei danni per lite temeraria.

All’udienza del 30.11.2016 le parti hanno discusso la questione relativa all’eccepita carenza di legittimazione passiva della Lega Nord, Sezione di Saronno.

Con ordinanza del 30.11.2016 il giudice, ritenuta la causa comune alla Lega Nord per l’indipendenza della Padania e alla Lega Nord – Lega Lombarda, ha assegnato a parte ricorrente termine per integrare il contradditorio.

Con comparsa di costituzione del 26.1.2017 la Lega Nord per l’indipendenza della Padania si è costituita eccependo, preliminarmente, l’invalidità della procura (in quanto non risultava provata la legittimazione dei due presidenti delle associazioni a proporre il giudizio, senza formale autorizzazione da parte di altri organi statutari) e la carenza di legittimazione attiva delle due associazioni ricorrenti.

Nel merito ha poi evidenziato: che non sussisteva un interesse ad agire concreto ed attuale, atteso che i cartelli erano stati da tempo rimossi e che i 32 richiedenti asilo non avevano subito alcun danno; che il termine clandestino si riferisce agli stranieri che entrano nel Paese in modo irregolare o che, entrati regolarmente, vi si trattengono dopo la scadenza dell’autorizzazione al soggiorno ed è pertanto priva di offensività discriminatoria; che il termine clandestino era utilizzato nel linguaggio comune ed era funzionale all’espressione di una posizione di critica politica; che non vi era alcuna prova dei danni lamentati.

La Lega Nord – Lega Lombarda si è costituita deducendo: che nei manifesti oggetto di causa non era contenuto alcun riferimento ad una determinata razza o ad una determinata etnia e che, pertanto, i 32 soggetti denominati “clandestini” non erano posti in una situazione di svantaggio; che la critica era rivolta nei confronti di determinati esponenti politici e non nei confronti dei 32 soggetti, destinatari del programma di accoglienza; che il divieto di discriminazione doveva comunque essere bilanciato con il diritto alla libertà di espressione; che la richiesta di adozione di un “piano di rimozione” integrava un’ipotesi di abuso del diritto. Ha chiesto: il rigetto delle domande formulate dalle ricorrenti, con condanna al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c.; in via subordinata, la sospensione del procedimento in attesa della definizione relativa alle richieste di riconoscimento della protezione internazionale, spiegate dai 32 richiedenti asilo, indicati nei manifesti oggetto di causa.

Acquisiti i documenti prodotti, il giudice, all’esito della discussione dei difensori delle parti, ha riservato la decisione.

1.Preliminarmente, si impone una pronuncia di rigetto dell’eccezione di invalidità della procura.

Il difetto di legittimazione processuale della persona fisica che agisca in giudizio in rappresentanza di un ente può essere sanato, in qualunque stato e grado del giudizio, con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti, per effetto della costituzione in giudizio del soggetto dotato della effettiva rappresentanza dell'ente stesso, il quale manifesti la volontà, anche tacita, di ratificare la precedente condotta difensiva. Tanto la ratifica, quanto la conseguente sanatoria devono ritenersi ammissibili anche in relazione ad eventuali vizi inficianti la procura originariamente conferita al difensore da soggetto non abilitato a rappresentare la società in giudizio, trattandosi di atto soltanto inefficace e non anche invalido per vizi formali o sostanziali, violazioni degli artt. 83 e 125 c.p.c. (Cass. nn. 2270/06, 1070/00, 272/98, 4605/96 e 1186/87).
Nel caso di specie, la ratifica è avvenuta, come risulta dalle delibere dei consigli direttivi depositati dalla difesa di parte ricorrente (cfr. doc. 34 e 35).

  1. Ancora in via preliminare, deve essere dichiarata la contumacia della Lega Nord – Sezione di Saronno, atteso che, come risulta chiaramente dalla lettura della comparsa di risposta di Davide Borghi, quest’ultimo si è costituito in proprio - assumendo la veste di interveniente volontario -, ma non nella qualità di segretario della predetta Sezione.

In merito all’eccepito difetto di legittimazione passiva della Sezione di Saronno, si osserva quanto segue.

In via generale, non pare inutile ricordare che, in tema di associazioni non riconosciute, l’accertamento se una struttura organizzativa locale che fa capo ad un’associazione diversa costituisca un organo di quest’ultima, o sia invece, a sua volta, un’associazione munita di autonoma legittimazione negoziale e processuale, configura una questione che non attiene alla legittimatio ad causam, bensì alla titolarità attiva o passiva del rapporto dedotto in giudizio (cfr. Cass. 15.11.2002 n. 16076).

La Suprema Corte, ha poi chiarito che le associazioni locali di un’associazione avente carattere nazionale non sono organi di quest’ultima, bensì articolazioni periferiche dotate di autonoma legittimazione negoziale e processuale (cfr. Cass. 14.3.2000 n. 2952 e Cass. 23.6.2008 n. 17028).

Nel caso in esame nello Statuto della Lega Nord (doc. 1 di parte ricorrente) è previsto: che il Segretario Federale rappresenta politicamente e legalmente la Lega Nord di fronte a terzi (art. 15); che la Lega Nord è articolata in sezioni e delegazioni territoriali e che ciascuna Sezione è rappresentata dal rispettivo Segretario (art. 31).

Contrariamente rispetto a quanto dedotto da Davide Borghi, pertanto, ritiene il giudicante che la Sezione della Lega Nord di Saronno, conformemente a quanto previsto dal richiamato art. 31, sia dotata di autonoma legittimazione processuale. Orbene, tanto chiarito, deve ritenersi che la posizione di Davide Borghi sia quella di un interveniente volontario ex art. 105 c.p.c. (avendo egli, in qualità di segretario della Sezione di Saronno, un interesse giuridicamente rilevante ad un esito favorevole della controversia).

2. Del pari infondata l’eccezione relativa al difetto di legittimazione attiva delle società ricorrenti.

L'ultimo comma dell'art. 5 d.lgs. 215/03, stabilisce che "Le associazioni e gli enti inseriti nell'elenco di cui al comma 1 sono, altresì, legittimati ad agire ai sensi degli articoli 4 e 4- bis nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione" con ciò prevedendo una legittimazione straordinaria delle associazioni qualora il comportamento discriminatorio sia collettivo e non siano individuabili in via immediata e diretta le vittime della discriminazione.

Nel caso in esame, come risulta dall’elenco prodotto da parte ricorrente (doc. 5), l’ASGI ed il NAGA sono inserite nell’elenco di cui all’art. 5 del d.lgs. 215/2003 e, non essendo individuabili i 32 richiedenti asilo, indicati come “clandestini”, deve ritenersi sussistente la loro legittimazione attiva.

Ancora, in merito alla legittimazione si osserva che – come già evidenziato dalla Corte d’Appello di Milano (nella sentenza n. 110/2015) – un’interpretazione costituzionalmente orientata della disciplina antidiscriminatoria porta a ritenere che le associazioni legittimate ad agire per discriminazioni fondate sul fattore di protezione etnia e razza lo siano anche per le discriminazioni per motivi di nazionalità.Con riferimento all’eccezione relativa al difetto di interesse ad agire, sollevata dalla Lega Nord per l’Indipendenza della Padania, si osserva quanto segue.

Come noto, l'interesse ad agire richiede non solo l'accertamento di una situazione giuridica, ma anche che la parte prospetti l'esigenza di ottenere un risultato utile, giuridicamente apprezzabile, e non conseguibile senza l'intervento del giudice.

Secondo il consolidato insegnamento della Suprema Corte, l'interesse ad agire, previsto quale condizione dell'azione dall'art. 100 cod. proc., civ., con disposizione che consente di distinguere fra le azioni di mera iattanza e quelle oggettivamente dirette a conseguire il bene della vita consistente nella rimozione dello stato di giuridica incertezza in ordine alla sussistenza di un determinato diritto, va identificato in una situazione di carattere oggettivo derivante da un fatto lesivo, inteso in senso ampio, di un diritto che, senza il processo e privato dell'esercizio della giurisdizione, resterebbe sfornito di tutela, con conseguente danno per l’attore.

Da ciò consegue che tale interesse deve avere necessariamente carattere attuale, poiché solo in tal caso trascende il piano di una mera prospettazione soggettiva assurgendo a giuridica ed oggettiva consistenza, e resta invece escluso quando il giudizio sia strumentale alla soluzione soltanto in via di massima o accademica di una questione di diritto in vista di situazioni future o meramente ipotetiche (v. fra le tante Cass, n. 5635/02, n. 3157/01, n. 565/00, n. 4444/95, n. 685/93; più di recenti, v. Cass. n. 24434/07, n. 2617/06, n. 17815/05).

Nel caso in esame, basti rilevare che la asserita violazione risulta consumata all’atto dell’affissione dei cartelli per cui è causa e che la successiva rimozione (avvenuta dopo circa un mese – fatto pacifico) non rileva ai fini dell’interesse ad ottenere una pronuncia che accerti l’avvenuta discriminazione. Per completezza, appare inoltre opportuno ricordare che il ricorrente può agire anche quando la condotta o l’atto “non sia più sussistente” (art. 4, comma 4, D.Lsg. 215/2003) e che l’accesso all’azione antidiscriminatoria deve essere garantito “anche dopo la cessazione del rapporto che si lamenta affetto da discriminazione” (art. 7, comma 1, della Direttiva 2000/43).

Il ricorso è fondato e deve essere accolto per i motivi che seguono.


Questo Tribunale ha già avuto modo di affermare che il diritto al riconoscimento della pari dignità sociale e alla non discriminazione “ trova primario fondamento sia nell’art. 2 Cost. che riconosce e garantisce anche agli stranieri i diritti fondamentali dell’uomo, sia nell’art. 3 Cost., che sancisce il principio di pari dignità sociale e di eguaglianza davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (ordinanza 11/272008, ricorrente Rachida el Mouhafid).


Orbene, la nozione di discriminazione si ricava dalle disposizioni contenute negli art. 43 del D.Lgs. 286/1998 e 2 del D.Lgs. 215/2003.

La prima disposizione introduce, in attuazione dei precetti costituzionali, una sorta di clausola generale di non discriminazione e definisce discriminatorio qualunque comportamento che – direttamente od indirettamente - abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica. L’art. 2 del D.Lgs. 215/2003 definisce, poi, la nozione di discriminazione, stabilendo che “ai fini del presente decreto, per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica” (facendo salva, al secondo comma, la più ampia nozione di discriminazione per nazionalità, prevista dal citato D.Lgs. 286/1998).

La definizione di discriminazione (artt. 43 del D.Lgs. 286/1998 e art. 2 del D.Lgs. 215/2003) - nella parte in cui si definisce discriminatorio quel comportamento che, direttamente o indirettamente, abbia l’effetto (solo l’effetto e quindi non anche lo scopo) di vulnerare (distruggendolo o compromettendolo) il godimento, in condizioni di parità, dei diritti umani - porta a ritenere che l’imputazione della responsabilità non possa essere ancorata solo al tradizionale criterio della colpa (vedi in questo senso la giurisprudenza comunitaria e, in particolare, la sentenza della Corte di Giustizia, 8.11.1990, Dekker c. StichtingVormingscentrumvoor Jong Volwas-senen Plus, causa C- 177/88, in Racc., 1990, p. 3941 e la giurisprudenza nazionale in tema di comportamento antisindacale, Cass. Civ. sez. lav. 26.2.2004 n. 3917). Secondo la disposizione legislativa, infatti, costituisce condotta discriminatoria anche quella che, pur senza essere animata da uno “scopo” di discriminazione, produca comunque un "effetto" di ingiustificata pretermissione per motivi razziali, etnici ecc.

In particolare, per quel che rileva nel presente procedimento, l’art. 43 del D.Lgs. 286/1998 dispone che: “ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica”. Alla stregua della normativa sopra citata è discriminatorio ogni comportamento che provochi una distinzione anche in ragione dell’origine nazionale e quindi della cittadinanza (elemento sul quale si tornerà in seguito).

Ai sensi dell’art. 2 del D.lgs. 215/2003 costituisce discriminazione per ragioni di razza e origine etnica, non solo il trattamento di svantaggio comparativo subito da un soggetto per motivi connessi a tali fattori, ma anche la “molestia” subita in connessione ai medesimi motivi. Per molestia, si intende “quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo” (aggettivi da intendersi non in senso cumulativo, come risulta da un’interpretazione letterale della congiunzione “o”, introdotta dalla modifica operata con decreto legge 59/2008, in seguito alla procedura d’infrazione n. 20005/2358 della Commissione Europea).

Quanto alla prova della discriminazione, l’art. 28 del D.Lgs. 150/2001– che, per disposizione dell’art. 8 sexiesdel d.l. n. 59/2008 contenente disposizioni urgenti per l’attuazione degli obblighi comunitari, ha introdotto un’agevolazione probatoria maggiore di quella originariamente contenuta nel comma 9 dell’art. 44 del D.Lgs. 286/1998, che consentiva solo la possibilità per l'istante di offrire elementi presuntivi anche di natura statistica - prevede un’evidente “alleggerimento” (così, Cass. Sez. lav. 5.6.2013 n. 14206) del relativo onere.

Chi chiede tutela deve offrire elementi idonei a far dedurre l’esistenza della condotta vietata dalla norma, mentre la parte convenuta ha l’onere di dimostrare non soltanto il fatto posto a base dell’eventuale eccezione, ma, in positivo, tutte le circostanze idonee a giustificare il trattamento differenziato o ad escludere l’esistenza stessa di una differenziazione di trattamento (vedi Tribunale di Roma, Sez. III lavoro, ord. 21.6.2012).

L’art. 2 comma 5 del D.Lgs. 286/1998 dispone che: “allo straniero è riconosciuta parità di trattamento con il cittadino relativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, nei rapporti con la pubblica amministrazione e nell'accesso ai pubblici servizi, nei limiti e nei modi previsti dalla legge”.

Orbene, nel caso in esame le società ricorrenti deducono la sussistenza di una discriminazione diretta nelle dichiarazioni contenute nei manifesti affissi nel centro di Saronno dalla Lega Nord (precisazione che consente di ritenere assorbite le censure di parte resistente relative all’irrilevanza, nel presente giudizio, delle ulteriori affermazioni, ritenute da parte ricorrente di contenuto diffamatorio, riconducibili al Borghi e riportate nella stampa locale). In particolare, nei predetti cartelli, si legge: “Saronno non vuole i clandestini” “Renzi e Alfano vogliono mandare a Saronno 32 clandestini: vitto, alloggio e vizi pagati da noi. Nel frattempo ai saronnesi tagliano le pensioni ed aumentano le tasse” “Renzi e Alfano complici dell’invasione”.

La prospettazione di parte ricorrente merita di essere condivisa.

In merito al fattore di protezione – contestato dalle difese di parte resistente (in forza della tesi secondo la quale, nella definizione di clandestino, non vi sarebbe alcun riferimento alla “razza” ed all’”etnia” ) - si osserva quanto segue.

In primo luogo, occorre premettere che l’art. 18 TFUE vieta ogni discriminazione effettuata in ragione della nazionalità e che l’art. 14 della CEDU si riferisce, espressamente, all’origine nazionale (cfr., inoltre, Corte Costituzionale 187/2010 che ha fatto riferimento proprio all’art. 14 della CEDU per censurare la discriminazione dello straniero con riferimento alle prestazioni sociali).

Con riferimento al diritto interno, sebbene l’art. 2 comma 1 de. D.lgs. 215/2003 introduca un concetto apparentemente più restrittivo di discriminazione, non ricomprendendo la discriminazione per nazionalità, non può non sottolinearsi come il secondo comma del citato articolo faccia salva la medesima nozione di cui al D.Lgs. 286/1998, comprensiva anche della discriminazione per nazionalità, e quindi anche per cittadinanza.

La Corte di Giustizia – sebbene non chiamata a pronunciarsi espressamente su tale problema (ma prendendolo chiaramente in esame, atteso che la questione era relativa alla valutazione di applicabilità della direttiva al caso di un datore di lavoro che aveva dichiarato di non voler assumere lavoratori alloctoni) - ha stabilito che la direttiva 2000/43 si applica alla discriminazione dei lavoratori alloctoni (cioè stranieri: Corte di Giustizia, 10.7.2008, C-54/07).

La discriminazione per motivi di nazionalità opera, pertanto, in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato allo straniero quale effetto della sua appartenenza ad una nazionalità diversa da quella italiana. Contrariamente a quanto argomentato da parte resistente, si osserva che si ha discriminazione diretta ogniqualvolta un soggetto sia svantaggiato a causa di una caratteristica che, pur non essendo espressamente indicata quale fattore vietato, sia intimamente e inscindibilmente connessa con il fattore vietato stesso (cfr. Corte di Giustizia 26.2.2008 in merito alla discriminazione per gravidanza come discriminazione diretta fondata sul sesso).

Appare pertanto evidente come la tutela contro le discriminazioni per etnia e razza e quella contro le discriminazioni per nazionalità si debbano sommare.

Tanto premesso, deve chiarirsi come – nel caso in esame – il fattore di protezione sia rappresentato sia dalla razza ed etnia sia dalla cittadinanza (diversa da quella italiana).

Il termine “clandestino”, alla luce dei rilievi che verranno di seguito svolti, ha una valenza denigratoria e viene utilizzato come emblema di negatività.

Infatti: il termine “clandestino” contraddistingue il comportamento delittuoso (punito con una contravvenzione) di chi fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato, in violazione delle disposizioni del T.U. sull’immigrazione; con l’epiteto di “clandestino” si fa chiaramente riferimento ad un soggetto abusivamente presente sul territorio nazionale ed è idoneo a creare un clima intimidatorio (implicitamente avallando l’idea che i “clandestini”, non regolarmente soggiornanti in Italia, devono allontanarsi).

Contrariamente rispetto a quanto indicato nei manifesti per cui è causa, i 32 “clandestini” sono persone che, esercitando un diritto fondamentale, hanno chiesto allo Stato italiano di riconoscere loro la protezione internazionale.

Coloro che “temono a ragione di essere perseguitati” e che correrebbero il rischio di essere sottoposti a trattamenti contrari all’art. 3 CEDU, in ossequio al principio di non refoulement (principio di diritto internazionale consuetudinario), non possono essere respinti alle frontiere (cfr. art. 31, 32 e 33 della Convenzione di Ginevra, art. 18 TFUE, art. 18 Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea). Gli stranieri che fanno ingresso nel territorio dello stato italiano, perché temono a ragione di essere perseguitati o perché corrono il rischio effettivo, in caso di rientro nel paese d’origine, di subire un “grave danno”, non possono considerarsi irregolari e non sono, dunque, “clandestini”.

Fatta tale precisazione, deve sottolinearsi come l’attribuzione ai richiedenti asilo dell’attributo di “clandestino” non si possa giustificare come una mera imprecisione terminologica, atteso che, per i motivi sopra esposti, il termine ha una chiara ed univoca valenza negativa.

A tale considerazione deve poi aggiungersi come la diffusione del termine “clandestino” nel linguaggio comune non possa costituire – come ritenuto dalle difese delle resistenti – un elemento idoneo a privare di valenza negativa il termine utilizzato nei manifesti per cui è causa.

L’espressione “clandestini”, evocando l’idea di persone irregolarmente presenti sul territorio nazionale – alle quali viene pagato “vitto, alloggio e vizi”, a costo di grandi sacrifici chiesti ai cittadini di Saronno, ai quali, invece, vengono tagliate le pensioni e aumentate le tasse – veicola l’idea fortemente negativa che i richiedenti asilo costituiscano un pericolo per i cittadini (italiani e, in particolare, per quel che rileva in questa sede, di Saronno).

Emerge con chiarezza la valenza gravemente offensiva e umiliante di tale espressione, che ha l’effetto non solo di violare la dignità degli stranieri, richiedenti asilo, appartenenti ad etnie diverse da quelle dei cittadini italiani, ma altresì di favorire un clima intimidatorio e ostile nei loro confronti. In particolare, il messaggio con il quale si afferma di “pagare” “vitto, alloggio e vizi” ai 32 clandestini e di penalizzare fortemente i “saronnesi” (attraverso l’aumento delle tasse e le riduzioni delle pensioni), è idoneo a creare un clima intimidatorio ed ostile.

Va dunque affermato il carattere discriminatorio ex art. 3 III co. D.Lvo 215/03 delle espressioni dalla Lega Nord per l’Indipendenza della Padania, della Lega Lombarda e della Lega Nord, sezione di Saronno (i cui simboli risultano presenti sui cartelli per cui è causa e dunque sono alle dette associazioni direttamente riferibili, riconducibilità, peraltro non contestata dalle resistenti), con particolare riferimento al termine “clandestini”.


Va escluso che, sulle condotte discriminatorie tenute dai partiti resistenti, possa incidere in maniera scriminante la libertà di manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 Costituzione.

Non vi è dubbio che la normativa in materia di discriminazione derivi la propria ratio dai principi fondamentali fissati dalla Costituzione in tema di riconoscimento e di garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo, nonché dell’eguaglianza e della pari dignità sociale di tutti i cittadini (senza distinzione di razza, religione...), salvaguardati tanto dagli artt. 2 e 3 della Costituzione, che dall'art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, i cui principi sono stati recepiti dagli artt. 1 e 6 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione europea.

Nel bilanciamento delle contrapposte esigenze - entrambe di rango costituzionale - di tutela della pari dignità, nonchè dell’eguaglianza delle persone, e di libera manifestazione del pensiero, deve ritenersi prevalente la prima in quanto principio fondante la stessa Repubblica.

Il carattere discriminatorio delle dichiarazioni dei due partiti resistenti non viene dunque meno, né le condotte dei medesimi possono ritenersi discriminate ex art. 21 Costituzione.

6. In merito ai rimedi, appare imprescindibile il richiamo al principio di effettività.

Il principio di tutela giurisdizionale effettiva costituisce un principio generale del diritto dell’Unione che deriva dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, sancito dai richiamati artt. 6 e 13 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e poi ribadito all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. E’ dunque compito dei giudizi nazionali, secondo il principio di collaborazione enunciato dall’art. 4 TUE, garantire la tutela giurisdizionale dei diritti spettanti agli individui in forza delle norme del diritto dell’Unione.

La Corte Costituzionale ha individuato nell’art.24 della Costituzione non solo il diritto al “giusto processo”, ma anche il diritto ad una tutela sostanziale effettiva, tratto dal coordinamento degli articoli 2, 3 e 24 Cost.

La Corte di Cassazione ha qualificato il principio di effettività come regola-cardine dell’ordinamento costituzionale, volto ad assicurare il diritto «ad un rimedio adeguato al soddisfacimento del bisogno di tutela di quella... unica e talvolta irripetibile situazione sostanziale di interesse giuridicamente tutelato» (Cfr. Cass. 11564/2015; Cass. 21255/2013).

La Corte di Giustizia – per quel che rileva in questa sede –fa costantemente riferimento al principio di effettività per individuare i rimedi più adeguati alla lesione (cfr. Corte di Giustizia C-582 e 629/10 del 2012).
Il principio di effettività, come osservato dalla più attenta dottrina, richiede, pertanto, ai giudici degli stati nazionali di perfezionare le tutele, così da individuare il rimedio idoneo a garantire una effettiva protezione dei diritti, in base all’art. 19 TUE (che sancisce un legame tra protezione effettiva e rimedio efficiente).

Alla luce dei criteri che precedono deve concludersi che i rimedi necessari per eliminare le conseguenze negative dell’accertata discriminazione devono essere effettivi, proporzionati e dissuasivi (idonei, cioè, ad indurre l’individuo che ha commesso la discriminazione ad astenersi dal violare gli scopi e le norme che tutelano il diritto violato). A tal proposito appare imprescindibile il richiamo alla giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha ripetutamente chiarito come la severità delle sanzioni deve essere adeguata alla gravità delle violazioni che esse reprimono e comportare, in particolare, un effetto realmente deterrente (v. in tal senso, tra le altre, sentenze 8 giugno 1994, Commissione/Regno Unito, C-383/92; sentenza Feryn, 10.7.2008; sentenza 23.4.2013 Asociaţia Accept), fermo restando il rispetto del principio generale della proporzionalità (v., in tal senso, sentenze del 6 novembre 2003, Lindqvist, C-101/01). Nel dare attuazione all’art. 15 della direttiva 2000/43/CE il legislatore italiano ha previsto (già all’art. 4 del d. lgs. 215/03 e, oggi, all’art. 28, d. lgs. 150/11) un’articolata serie di misure (conformi a quelle esemplificativamente indicate anche dal giudice di Lussemburgo - Corte di giustizia, Feryn, sentenza 10 luglio 2008, C- 54-07-) che il giudice può adottare a fronte di un’accertata condotta discriminatoria.
In particolare, l’art. 28 del D.Lgs. 150/2001 dispone che “con l'ordinanza che definisce il giudizio il giudice può condannare il convenuto al risarcimento del danno anche non patrimoniale e ordinare la cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio pregiudizievole, adottando, anche nei confronti della pubblica amministrazione, ogni altro provvedimento idoneo a rimuoverne gli effetti. Al fine di impedire la ripetizione della discriminazione, il giudice può ordinare di adottare, entro il termine fissato nel provvedimento, un piano di rimozione delle discriminazioni accertate”.

Con riferimento al caso di specie, quanto alla richiesta di cessazione dei comportamenti discriminatori, va rilevato come non permanga un ambito di intervento in quanto i manifesti sono ormai stati rimossi (fatto non contestato).
Le espressioni discriminatorie utilizzate nei manifesti dei partiti resistenti hanno avuto ampia diffusione sul territorio saronnese.

Sussistono, pertanto, i presupposti per la pubblicazione del presente provvedimento a norma dell’art. 4 co. VI D.Lvo 215/03, con le modalità meglio descritte in dispositivo (modalità che richiedono anche la pubblicazione su un giornale a tiratura nazionale e sulle home page dei partiti politici resistenti, allo scopo di rendere effettivo il rimedio in esame).

Si ritiene che l’ordine di pubblicazione del presente provvedimento non costituisca sanzione sufficiente e non sia adeguatamente dissuasivo.
Si sottolinea, altresì, che le associazioni legittimate ad agire in quanto portatrici degli interessi e dei diritti della collettività dei soggetti appartenenti alla etnica diffamata e discriminata hanno subito in proprio un danno non patrimoniale per aver visto frustrato l’oggetto della propria attività e le finalità perseguite.

Pertanto devono condannarsi le parti resistenti al risarcimento del danno non patrimoniale nei confronti delle associazioni ricorrenti. Nella quantificazione del danno, deve tenersi conto dell’elevato contenuto discriminatorio delle espressioni contenute nei manifesti, della loro portata denigratoria, della loro idoneità a creare un clima fortemente ostile nei confronti dei richiedenti asilo, dell’elevato numero dei manifesti, della affissione in luoghi ad elevata frequentazione (fatto non contestato), del ruolo e della notorietà del partito politico al quale le espressioni sono riferite, dell’eco che le predette affermazioni hanno avuto nella vita politica del Comune di Saronno (cfr. affermazioni di Davide Borghi, riportate dal quotidiano “Il Saronno”, doc. 5 e 6 di parte ricorrente e da “Repubblica” Milano, doc. 7) ed, infine, della necessità di prevedere un rimedio idoneo a dissuadere gli autori della condotta discriminatoria ad astenersi, in futuro, dal violare ancora, con comportamenti simili a quelli oggetto di causa, le norme a tutela della pari dignità delle persone.

Alla luce dei parametri indicati, si ritiene di dover condannare parte resistente al pagamento della somma che viene equitativamente determinata in euro 5.000,00 in favore di ciascuna delle due associazioni ricorrenti.
Le spese del presente giudizio seguono la sostanziale soccombenza e vengono liquidate, d’ufficio, in assenza di nota spese, come in dispositivo ai sensi del DM 55/2014, tenuto conto del valore della causa, dei criteri di cui all’art. 4 commi 1,2,5 del citato DM, e dell’assenza di attività istruttoria.

P.q.m.
visti gli artt. 43 e 44 D.L.vo 286/98, nonché 2 e 4 D.L.vo 215/03:

  1. 1)  in accoglimento del ricorso presentato da NAGA Associazione Volontaria di Assistenza Socio-Sanitaria e per i Diritti di Cittadini Stranieri, Rom e Sinti ed ASGI – Associazione degli Studi Giuridici sull’Immigrazione, dichiara il carattere discriminatorio delle espressioni: “CLANDESTINI” contenuta nei manifesti della Lega Nord, Sezione di Saronno, Lega Nord – Lega Lombarda e Lega Nord per l’Indipendenza della Padania, diffusi nel territorio di Saronno nell’aprile 2016;
  2. 2)  ordina la pubblicazione dell’intestazione e del dispositivo della presente ordinanza a cura e spese dei resistenti, una volta a caratteri doppi del normale sul quotidiano “Il Saronno”, nonché sul quotidiano “Il Corriere della Sera”, nonché sull’home page dei siti internet della Lega Nord per l’Indipendenza della Padania, della Lega Nord, Lega Lombarda e della Lega Nord, Sezione di Saronno, entro 30 giorni dalla notifica in forma esecutiva della presente ordinanza, autorizzando sin da ora parte ricorrente a provvedervi autonomamente qualora detto termine non sia stato osservato dai resistenti, ponendo le relative spese a carico dei convenuti medesimi;
  1. 3)  Condannale la LegaNord,Sezione di Saronno, la Lega Nord Lega Lombarda e la Lega Nord per l’Indipendenza della Padania al pagamento nei confronti di ASGI - Associazione studi giuridici sull’immigrazione, e di NAGA - ASSOCIAZIONE VOLONTARIA DI ASSISTENZA SOCIO-SANITARIA E PER I DIRITTI DI CITTADINI STRANIERI, ROM E SINTI, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, della somma di euro 5.000,00 ciascuno in moneta attuale, oltre agli interessi legali dalla presente sentenza al saldo;
  2. 4)  Condanna i resistenti, in solido, alla rifusione delle spese del giudizio a favore dei ricorrenti che si liquidano in € 4.270,00 per compensi professionali, oltre spese generali forfetarie, oltre IVA e CPA come per legge, con distrazione a favore degli avvocati.. antistatari.

Milano, 22 febbraio 2017

Il Giudice
dott. MF