Non ha diritto al compenso l'avvocato che non prova di aver adempiuto l’obbligo professionale di informare i propri assistiti sugli elevati rischi di un procedimento civile.
L'indennizzo delle vittime di reato è possibile solo per reati commessi dopo il 30 giugno 2005.
Agisce in colpa grave l'avvocato che azioni una pretesa di pagamento del proprio credito professionale manifestamente infondata e promosso il giudizio di appello sulla base di censure di cui avrebbe dovuto apprezzare, in rapporto alle ragioni addotte dal primo giudice, la palese inconsistenza.
La condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonché interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della "potestas agendi" con un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte, e che tale statuizione di condanna non richiede nè la domanda di parte nè la prova del danno, ma soltanto l’accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede, intesa come consapevolezza dell’infondatezza della domanda, o della colpa grave, per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza.
Corte di Cassazione
sez. II Civile, ordinanza 1 aprile – 3 settembre 2019, n. 22042
Presidente/Relatore Manna
Svolgimento del processo
Con sentenza del 28.11.2006 la Corte d’assise di Monza condannava R.D. , giudicato colpevole del delitto di omicidio volontario commesso il (omissis) in danno di De.Gi. , al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, De.Ma. , Ma.Te. e Gi. , germani ed eredi della vittima, in favore dei quali riconosceva una provvisionale.
Risultato insolvente il R. , De.Ma. , Ma.Te. e Gi. incaricavano l’avv. D.C. di agire innanzi al Tribunale di Roma nei confronti dei Ministeri dell’Interno, della Giustizia e dell’Economia e delle Finanze, nonché della Presidenza del Consiglio dei ministri, per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni da tardivo recepimento della Direttiva 2004/80/CE sull’indennizzo delle vittime di reato.
La causa aveva esito negativo per gli attori. L’avv. D. rinunciava al mandato e per il pagamento delle proprie spettanze, contestate dai clienti, agiva innanzi al Tribunale di Milano.
Nel costituirsi in giudizio i convenuti lamentavano di non aver avuto informazioni di sorta sul giudizio civile presupposto, salvo la comunicazione dell’avvenuto rigetto della domanda e della loro condanna alle spese.
Con sentenza del 28.11.2014 il Tribunale rigettava la domanda e condannava l’avv. D. sia alle spese sia al pagamento dell’importo di Euro 1.000,00 in favore di ciascun convenuto, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3.
L’appello proposto dall’avv. D. era respinto dalla Corte distrettuale milanese, con sentenza del 28.10.2015, con la quale il suddetto professionista era condannato al pagamento dell’ulteriore somma di Euro 2.000,00 in favore di ciascun appellato, ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3.
Osservava la Corte d’appello che detto professionista non aveva adempiuto la propria obbligazione d’informazione preventiva circa i rischi connessi alla causa da proporre contro lo Stato italiano; ed anzi l’avv. D. , senza giustificare l’impedimento, non era comparso all’udienza fissata per rendere l’interrogatorio formale dedottogli in merito. Inoltre la causa, riteneva la Corte, presentava una probabilità di esito favorevole pressoché nulla. Infatti, il delitto dalla cui commissione dipendeva la pretesa indennitaria era stato commesso anteriormente al 30.6.2005, sicché esso ricadeva nell’area di esclusione dall’indennizzo legittimamente stabilita dal legislatore nazionale; e il D.Lgs. n. 204 del 2007, recettivo della Direttiva 2004/80/CE, era entrato in vigore in data anteriore (24.11.2007) a quella di redazione (12.12.2007) dell’atto introduttivo di quel giudizio. Infine, l’ulteriore condanna dell’avv. D. per responsabilità aggravata era giustificata dalla Corte territoriale in ragione della palese infondatezza dell’impugnazione.
Avverso tale pronuncia l’avv. D.C. propone ricorso, affidato a quattro motivi.
Resistono con controricorso De.Ma. , Ma.Te. e Gi. .
Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale non partecipata, ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c., inserito dal D.L. n. 168 del 2016, art. 1-bis, comma 1, lett. f), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 197 del 2016.
Motivi della decisione
1. - Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione o falsa applicazione di legge in relazione all’art. 1176 c.c., comma 2, artt. 2229 c.c. e segg., D.M. 8 aprile 2004, artt. 2 e 3 e degli artt. 35, 38, 40 46 e 47 codice deontologico forense, e l’omesso esame d’un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti. Il ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere considerato: che la prestazione di patrocinio resa dall’avvocato a favore del cliente è un’obbligazione di mezzi e non di risultato, sicché non può farsi carico al professionista dell’esito non favorevole della lite; che egli aveva rinunciato in corso di causa al mandato, stante il rifiuto dei suoi clienti di corrispondergli il compenso; che aveva fornito la prova di aver informato i propri assistiti circa i rischi di soccombenza e le possibilità di vittoria della causa, come comprovato dalla voce "consultazioni con il cliente" indicata nelle note specifiche prodotte in atti e in una serie di lettere da lui inviate; che aveva avviato la causa con il consenso dei propri assistiti; che la scelta di promuovere il giudizio risarcitorio davanti al Tribunale di Roma era giustificata sia dalla direttiva CE 80/2004, avente diretta efficacia nella legislazione degli Stati membri, che dalla previgente legislazione comunitaria e convenzionale; che la sentenza di rigetto della domanda era fondata sul falso presupposto che mancasse la prova della legittimazione attiva dei clienti, i quali già erano stati riconosciuti eredi della vittima nel giudizio penale in cui si erano costituiti parte civile, ed era altresì errata nella decisione di merito, atteso che la direttiva comunitaria invocata, pur essendo entrata in vigore dopo tre mesi dall’accadimento del fatto dannoso, è applicabile senza impedimenti spazio-temporali ed ha efficacia retroattiva; che l’azione era altresì motivata dalla disparità di trattamento in relazione alla legge nazionale di protezione delle vittime del terrorismo; che, per la novità della questione introdotta, l’assistenza professionale prestata era di alto tecnicismo e di notevole difficoltà, sicché il giudizio di responsabilità non poteva prescindere dall’esistenza di dolo o colpa grave.
2. - Col secondo motivo, che deduce la violazione o la falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c., in materia di valutazione delle prove e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, si lamenta che la sentenza impugnata: abbia riferito del fatto, esposto dai convenuti ma sfornito di qualsiasi risconto probatorio, non veritiero secondo cui l’odierno ricorrente si sarebbe impegnato a non esigere alcun compenso per l’attività relativa alla causa civile; non abbia indicato le ragioni per cui non è stata ammessa la prova orale dell’attore ed ammessa, invece, quella per interrogatorio formale richiesta dalle controparti; abbia reputato non assolto l’obbligo d’informazione dei clienti da parte dell’odierno ricorrente, omettendo così l’esame della documentazione in atti che tale adempimento dimostra.
3. - I due motivi, da trattarsi congiuntamente, sono in parte infondati ed in parte inammissibili.
La Corte territoriale di Milano ha rigettato l’appello proposto dal ricorrente sulla base del rilievo che questi non aveva provato di aver adempiuto l’obbligo professionale di informare i propri assistiti sugli elevati rischi, poi inveratisi, di rigetto della domanda. Rischi inveratisi, tenuto conto che la domanda si basava su di un presupposto - la mancata attuazione da parte dello Stato italiano della direttiva 2004/80/CE - escluso dal D.Lgs. n. 204 del 2007, che proprio tale direttiva ha attuato, e che all’art. 6 stabilisce che le sue disposizioni sono applicabili solo in ordine ai reati commessi dopo il 30.6.2015, mentre il reato commesso in danno del congiunto degli attori si era verificato nel 2004. Evidenze, queste, che avrebbero dovuto indurre il professionista a sconsigliare ai propri clienti di proporre la domanda, in quanto priva di fondamento.
Tanto precisato, la censura secondo cui il giudice a quo avrebbe errato nel ritenere non assolto l’obbligo d’informativa, che sarebbe invece dimostrato sia dall’inserimento nella notula della voce "consultazioni con il cliente", sia dalle lettere in atti inviate dal legale ai propri assistiti, è sotto il primo profilo manifestamente infondata e per il secondo inammissibile. La presenza della voce sopra indicata nella parcella, cioè in un atto formato dallo stesso professionista, nulla dice sul contenuto della consultazione tra avvocato e cliente; il richiamo alle lettere inviate dal legale ai propri clienti è del tutto generico, mancando della specificità necessaria al fine di dimostrare che tali missive avrebbero assolto l’obbligo di informazione nella misura idonea alla causa intrapresa, atteso che di esse non viene fornito, nemmeno in forma riassuntiva, il contenuto.
È infondata, altresì, la censura che investe l’affermazione della sentenza impugnata in ordine alla circostanza che la lite introdotta aveva una probabilità d’insuccesso quasi prossima alla certezza; affermazione che nel percorso motivazionale della decisione non assume un rilievo autonomo al fine di negare il diritto al compenso del professionista, ma ha lo scopo di mettere in maggiore evidenza che l’obbligo d’informazione era da considerarsi, nella specie, particolarmente stringente.
Al riguardo il ricorso assume che, in realtà, il rigetto della domanda sarebbe ascrivibile ad un errore della sentenza del Tribunale di Roma, atteso che la direttiva 2004/80/CE, pur essendo entrata in vigore tre mesi dopo l’accadimento del fatto dannoso, è applicabile senza impedimenti spazio-temporali ed ha efficacia retroattiva. Tale doglianza non ha alcun pregio, atteso che, come sottolinea la decisione impugnata, il fatto dannoso per cui gli attori hanno agito in giudizio si era verificato il (OMISSIS), in epoca precedente alla direttiva (adottata il 29.4.2004 e pubblicata nella G.U. dell’Unione Europea il 6.8.2004); e che il D.Lgs. 24 novembre 2007, n. 204, art. 6, emanato in attuazione di tale direttiva e dunque in epoca anteriore all’introduzione della causa (avvenuta con citazione datata 12.12.2007, ed iscritta a ruolo il 14.1.2008), prevedeva espressamente che "le disposizioni del presente decreto si applicano alle procedure per l’erogazione dei benefici economici conseguenti ai reati commessi dopo il 30 giugno 2005". Occorre rimarcare che tale previsione è del tutto conforme alla facoltà riconosciuta dall’art. 18, comma 2, della direttiva, che consentiva agli Stati membri la possibilità di "prevedere che le disposizioni necessarie per conformarsi alla presente direttiva si applichino unicamente ai richiedenti le cui lesioni derivino da reati commessi dopo il 30 giugno 2005".
Le altre censure sollevate nei motivi in esame sono invece inammissibili, in quanto prive di diretta corrispondenza con le ragioni suindicate, in forza delle quali si fonda la sentenza impugnata. La quale ha ritenuto la responsabilità professionale dell’avv. D.F. non già per non aver vinto la causa presupposta, ma per averla iniziata senza rendere edotti i clienti delle pressoché nulle possibilità di successo.
4. - Con il terzo motivo il ricorrente, denunciando la violazione o la falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 1218, 1223 e 1453 c.c. e art. 96 c.p.c. e l’omesso esame d’un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, censura la sentenza impugnata nella parte in cui questa ha confermato la pronuncia di primo grado di condanna al pagamento di una somma di denaro per responsabilità processuale aggravata ed ha altresì adottato una nuova, analoga statuizione di condanna per la proposizione del giudizio d’appello. Dette pronunce, sostiene il ricorrente, sono errate per non avere la Corte territoriale valutato che gli attori non avevano subito alcun danno dal rigetto della domanda, tale non potendosi considerare la soccombenza nelle spese; e che l’unico danneggiato dalla vicenda sarebbe stato lo stesso ricorrente, il quale a fronte dell’attività prestata non si era visto corrispondere alcun compenso. La condotta processuale tenuta per ottenerne il pagamento non poteva ritenersi contraria ai doveri di diligenza, lealtà e probità, nè ispirata da mala fede.
5. - Il motivo è infondato.
La Corte di merito ha confermato la statuizione di condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, pronunciata dal giudice di primo grado, per avere l’attore agito giudizialmente per il pagamento di compensi relativi ad un’azione legale presupposta che, a sua volta, appariva sin dall’inizio infondata, e per non aver reso, senza giustificato motivo, l’interrogatorio formale. Ed ha, altresì, condannato per lo stesso titolo l’appellante a pagare un’ulteriore somma di denaro per avere proposto il giudizio di secondo grado insistendo colpevolmente su tesi giuridiche già reputate infondate dal primo giudice, avanzando censure la cui inconsistenza avrebbe dovuto e potuto essere apprezzata dall’appellante in modo da evitare il gravame.
Tali statuizioni si sottraggono alle censure sollevate risultando del tutto conformi all’orientamento di questa Corte, la quale ha sottolineato come la condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3, è volta a salvaguardare finalità pubblicistiche, correlate all’esigenza di una sollecita ed efficace definizione dei giudizi, nonché interessi della parte vittoriosa ed a sanzionare la violazione dei doveri di lealtà e probità sanciti dall’art. 88 c.p.c., realizzata attraverso un vero e proprio abuso della "potestas agendi" con un’utilizzazione del potere di promuovere la lite, di per sé legittimo, per fini diversi da quelli ai quali esso è preordinato, con conseguente produzione di effetti pregiudizievoli per la controparte, e che tale statuizione di condanna non richiede nè la domanda di parte nè la prova del danno, ma soltanto l’accertamento, in capo alla parte soccombente, della mala fede, intesa come consapevolezza dell’infondatezza della domanda, o della colpa grave, per carenza dell’ordinaria diligenza volta all’acquisizione di detta consapevolezza (Cass. S.U. n. 22405 del 2018). La sentenza impugnata appare conforme a tale orientamento sia con riguardo ai presupposti giuridici che a quelli concreti della decisione adottata, avendo la Corte distrettuale accertato in concreto la colpa grave dell’odierno ricorrente, tanto in ordine alla domanda proposta in primo grado, quanto in relazione all’appello, avendo egli azionato una pretesa manifestamente infondata e promosso il giudizio di appello sulla base di censure di cui avrebbe dovuto apprezzare, in rapporto alle ragioni addotte dal primo giudice, la palese inconsistenza. Gli apprezzamenti operati e le valutazioni svolte al riguardo dalla Corte territoriale costituiscono esercizio d’un potere discrezionale demandato dalla legge al solo giudice di merito, censurabile in sede di giudizio di legittimità solo in relazione ai criteri e presupposti normativi applicati, ma non anche in ordine alla valutazione dei fatti in concreto posti a base della decisione.
6. - Il quarto motivo di ricorso, nel dedurre la violazione o la falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 91, 336, 383 e 384 c.p.c., chiede che con l’accoglimento dei motivi di ricorso sia cassata anche la statuizione che ha condannato l’odierno ricorrente al pagamento delle spese di lite.
7. - Il motivo è inammissibile perché non contiene un’autonoma censura del capo della sentenza impugnata relativo alle spese, ma si limita a prefigurare l’effetto espansivo interno che su di esso avrebbe (avuto) l’invocata cassazione.
8. - In conclusione il ricorso va respinto. Le spese di giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. Si dà atto che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, va dichiarata la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 2.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%. Dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.