Cartomanzia in TV è lecita, dato che o sconfinamento nell’area della “ciarlataneria” si verifica appunto quando il “messaggio” commerciale che accompagna l’offerta del servizio tende a rappresentare la prestazione divinatoria non nella sua impalpabile valenza predittiva, ma come strumento realmente efficace ed infallibile per la preveggenza del futuro, con la connessa richiesta di una contropartita commisurata al maggior valore che la prestazione, per come artatamente rappresentata, assumerebbe, ovvero quando, per le modalità e/o le circostanze in cui si svolge la relazione tra cartomante e cliente, essa denota l’approfittamento da parte del primo della eventuale situazione di particolare debolezza psicologica del secondo.
Nell’ambito di un ordinamento giuridico imperniato, come quello vigente, sul principio di libera determinazione degli individui, in cui lo Stato ha pressoché dismesso ogni funzione latamente paternalistico-protettiva e di orientamento etico nei confronti dei consociati, anche le dinamiche di mercato sono tendenzialmente affidate, dal lato della domanda e dell’offerta, alla libera interazione dei suoi protagonisti, i quali, con le loro scelte, determinano l’oggetto dello scambio, ne apprezzano, secondo insindacabili valutazioni di carattere soggettivo, l’utilità e ne determinano, infine, il valore (economico): sempre che, naturalmente, non vengano compromessi beni e valori di carattere superiore (come l’ordine pubblico, il buon costume, la salute dei cittadini ecc.), di cui lo Stato conserva l’irrinunciabile funzione di tutela.
Consiglio di Stato
sez. III, sentenza 25 giugno – 1 luglio 2020, n. 4189
Fatto e diritto
Con la sentenza appellata, il T.A.R. Umbria ha accolto il ricorso proposto dalla MEFIL s.r.l. avverso il decreto emesso in data 5 agosto 2017 dal Questore di Perugia, con il quale veniva ordinata la cessazione dell’attività, da essa svolta presso la sede di Corciano, qualificata “illecita” dall’Amministrazione, siccome consistente in un servizio telefonico di cartomanzia, in affermata violazione dell’art. 121 T.U.L.P.S..
Il T.A.R., premesso che “l’art. 121 T.U.L.P.S. vieta espressamente il mestiere di ciarlatano”, per cui “ove la cartomanzia fosse ritenuta attività in se e per sé vietata dall’ordinamento, in quanto ricompresa nell’art. 121, il provvedimento impugnato sarebbe ovviamente del tutto legittimo”, ha rilevato che “tale possibile opzione risulta però nel nostro ordinamento smentita oltre che da una lettura del T.U.L.P.S. adeguata al mutato contesto storico-sociale e compatibile con l’art. 41 Cost. (T.A.R. Piemonte, sez. I, 27 giugno 2014, n. 1138) dall’essere l’attività di cartomanzia, anche se non certo regolata, tuttavia presa espressamente in considerazione da diverse norme interne, nel presupposto dunque della sua liceità. Segnatamente, il decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 (Codice del Consumo), all’art. 28, detta una specifica disciplina in materia di servizi di astrologia, cartomanzia e assimilabili, vietando unicamente quelle comunicazioni che, al pari dell’art. 121 T.U.L.P.S., siano tali da indurre in errore o sfruttare la credulità del consumatore. Anche il Regolamento recante la disciplina dei servizi a sovrapprezzo di cui al D.M. n. 145/2006 contempla, tra gli altri, i servizi di astrologia e cartomanzia”, concludendo nel senso che “trattasi di riferimenti normativi idonei a far ritenere la cartomanzia attività economica non vietata in se e per sé ma solo laddove venga svolta con modalità idonee ad abusare dell'altrui ignoranza e superstizione”, laddove “dal provvedimento impugnato e dal presupposto verbale del 31 luglio 2017 non emergono elementi atti a dimostrare che l’attività svolta dalla ricorrente fosse esercitata con modalità truffaldine o comunque idonee ad abusare della credulità popolare”.
La sentenza suindicata viene contestata, nei sopra sintetizzati presupposti motivazionali e negli esiti dispositivi, dall’appellante Ministero dell’Interno, mentre si oppone all’appello, anche eccependone sotto plurimi profili l’improcedibilità e l’inammissibilità, la società originariamente ricorrente.
Tanto premesso, l’appello non è meritevole di accoglimento: il che esime dalla disamina delle eccezioni in rito formulate dalla parte resistente.
Come accennato, costituisce oggetto del giudizio l’appartenenza dell’attività di cartomanzia, esercitata nella specie in forma telefonica dalla società appellata, alla sfera della illiceità, come ritenuto dall’Amministrazione appellante con il provvedimento inibitorio impugnato in primo grado, ovvero la sua riconducibilità al novero delle attività economiche lecitamente realizzabili, laddove svolte secondo modalità intese a salvaguardare gli interessi coinvolti dal loro svolgimento: questione che involge, essenzialmente, l’interpretazione dell’art. 121 del Testo Unico Legge di Pubblica Sicurezza (R.D. n. 773/1931), ai sensi del quale “è vietato il mestiere di ciarlatano”, in combinato disposto con l’art. 231 del relativo Regolamento di esecuzione (R.D. n. 635/1940), a mente del quale “sotto la denominazione di mestiere di ciarlatano Sotto la denominazione di "mestiere di ciarlatano", ai fini dell'applicazione dell'art. 121, ultimo comma, della Legge, si comprende ogni attività diretta a speculare sull’altrui credulità, o a sfruttare o alimentare l’altrui pregiudizio, come gli indovini, gli interpreti di sogni, i cartomanti, coloro che esercitano giochi di sortilegio, incantesimi, esorcismi o millantano o affettano in pubblico grande valentia nella propria arte o professione, o magnificano ricette o specifici, cui attribuiscono virtù straordinarie o miracolose”.
Premesso che il Regolamento approvato con il Regio Decreto n. 635/1940, in virtù della sua funzione esecutiva del T.U.L.P.S. , deve essere interpretato ed applicato coerentemente con la posizione gerarchicamente subordinata che riveste nel quadro delle fonti statutarie, ergo senza attribuire alle sue disposizioni contenuti dissonanti rispetto alle corrispondenti norme del Regio Decreto n. 773/1931, la suindicata questione ermeneutica si risolve in quella intesa a verificare se l’attività di cartomanzia sia inquadrabile tout court come espressione di “ciarlataneria”, secondo quanto lascerebbe arguire il tenore letterale dell’art. 231 Reg. esec. del T.U.L.P.S., ovvero se, a tal fine, devono ricorrere attribuiti ulteriori, che lo stesso Regolamento di esecuzione, nell’incipit dell’art. 231, identifica nella “speculazione sull’altrui credulità” ovvero nello “sfruttamento o alimentazione dell’altrui pregiudizio”: attributi che, quindi, concorrerebbero a marcare la distinzione tra la prima (lecita) e la seconda (illecita).
Iniziando dalla disposizione primaria, recante come si è visto il divieto di esercitare “il mestiere di ciarlatano”, deve chiarirsi che, sulla base della definizione semantica del termine, dopo averlo opportunamente sfrondato da soverchi relitti storico-letterario (come quello inteso a rievocare la figura romantica del venditore girovago di pozioni miracolose o filtri magici), tale può considerarsi, nel contesto storico attuale, chi non si limita ad offrire al pubblico un servizio o prodotto, per quanto di scientificamente indimostrata ed indimostrabile utilità ed efficacia, ma ne esalta le proprietà e le virtù con il ricorso a tecniche persuasive atte ad indebolire e vincere le capacità critiche e discretive dei possibili acquirenti.
Deve invero osservarsi che nell’ambito di un ordinamento giuridico imperniato, come quello vigente, sul principio di libera determinazione degli individui, in cui lo Stato ha pressoché dismesso ogni funzione latamente paternalistico-protettiva e di orientamento etico nei confronti dei consociati, anche le dinamiche di mercato sono tendenzialmente affidate, dal lato della domanda e dell’offerta, alla libera interazione dei suoi protagonisti, i quali, con le loro scelte, determinano l’oggetto dello scambio, ne apprezzano, secondo insindacabili valutazioni di carattere soggettivo, l’utilità e ne determinano, infine, il valore (economico): sempre che, naturalmente, non vengano compromessi beni e valori di carattere superiore (come l’ordine pubblico, il buon costume, la salute dei cittadini ecc.), di cui lo Stato conserva l’irrinunciabile funzione di tutela.
In tale contesto, anche un servizio che, in apparenza, sia oggettivamente privo o comunque di indimostrabile utilità, quale può essere considerata l’attività divinatoria propria del cartomante, in quanto riconducibile alle cd. scienze occulte o esoteriche (per definizione non sottoponibili a prove di verificabilità), può rappresentare un bene “commerciabile”, perché idoneo a rispondere ad una esigenza, per quanto illusoria ed opinabile, meritevole di soddisfacimento e, in quanto tale, suscettibile di generare, in termini mercantili, una corrispondente “domanda”.
Tale può essere, appunto, quella di chi cerchi l’alleviamento dei suoi dubbi esistenziali o la rassicurazione delle sue certezze nei “segni” ricavabili, attraverso la mediazione del cartomante, dalla lettura ed interpretazione delle “carte”.
Del resto, proprio la complessità del mondo attuale, generatrice di incertezza e smarrimento, fa sì che la cartomanzia, con la sua aspirazione a trovare un ordine invisibile in una realtà frammentata e incoerente, assuma una funzione (non solo non dannosa, ma) anche - socialmente o individualmente - utile, fornendo (o tentando di fornire), a chi non sappia o voglia trovarlo su più affidabili terreni, riparo dalle paure e dalle contraddizioni della modernità.
Inoltre, è evidente che se in un contesto sociale di bassa alfabetizzazione, quindi di maggiore esposizione del pubblico alle lusinghe di spregiudicati imbonitori, quale era quello degli inizi del secondo ventesimo, la soglia della difesa sociale era opportunamente fissata ad un livello inferiore, questa non potrebbe che attestarsi ad un punto più avanzato una volta che la stessa società, grazie al processo di diffusione culturale realizzatosi nei decenni successivi (fino a raggiungere l’acme nel tempo attuale), ha generato gli “anticorpi” necessari a proteggere i suoi componenti dalla tentazione di cedere alle fragili quanto illusorie speranze di precognizione del futuro: ciò che induce a ritenere che chi si rivolge al cartomante non è necessariamente mosso da ingenua credulità (ma, ad esempio, da semplice curiosità o desiderio di svago) né fatalmente abdica al proprio spirito critico, abbandonandosi remissivamente alle sue suggestioni.
In tale quadro, di cui non può non tenere conto l’interpretazione di disposizioni nate in un diverso e ben più risalente (dal punto di vista socio-economico ed istituzionale) contesto, deve rilevarsi che, come anticipato, la stessa fattispecie regolamentare pone l’accento sulle specifiche modalità di svolgimento dell’attività del cartomante, disponendo che essa, per non tracimare nella sfera operativa del divieto, non debba tradursi nella “speculazione sull’altrui credulità” ovvero nello “sfruttamento o alimentazione dell’altrui pregiudizio”.
Ebbene, premesso che anche il servizio cartomantico implica l’impegno di energie (materiali ed intellettuali), e quindi ha una sua concreta tangibilità economica, atta a fungere da elemento corrispettivo del contratto stipulato con il richiedente (sebbene nelle forme semplificate proprie del contatto telefonico o comunque “a distanza”), e che i concetti stessi di “speculazione” e di “sfruttamento” implicano la ricerca ed il conseguimento di un utile sovradimensionato rispetto alle risorse impiegate o all’effettivo valore economico del bene e/o servizio scambiato, ciò che assume non secondario rilievo, per i fini de quibus, è appunto la sussistenza di un rapporto di proporzione tra il “servizio” divinatorio offerto ed il prezzo richiesto e pagato per riceverlo: con la conseguenza che, a segnare il discrimine tra attività di cartomanzia e ciarlataneria, ovvero al fine di identificare la connotazione “speculativa” o “profittatrice” della stessa, sono proprio i mezzi e le modalità impiegate al fine di offrire al pubblico la “prestazione” profetica.
Da tale punto di vista, lo sconfinamento nell’area della “ciarlataneria” si verifica appunto quando il “messaggio” commerciale che accompagna l’offerta del servizio tende a rappresentare la prestazione divinatoria non nella sua impalpabile valenza predittiva, ma come strumento realmente efficace ed infallibile per la preveggenza del futuro, con la connessa richiesta di una contropartita commisurata al maggior valore che la prestazione, per come artatamente rappresentata, assumerebbe, ovvero quando, per le modalità e/o le circostanze in cui si svolge la relazione tra cartomante e cliente, essa denota l’approfittamento da parte del primo della eventuale situazione di particolare debolezza psicologica del secondo.
In altre parole, finché la prestazione cartomantica viene offerta nella sua reale essenza ed il corrispettivo pattuito conserva un ragionevole equilibrio con la stessa, non è dato discutere di “speculatività” dell’attività del soggetto erogatore; laddove, invece, alla stessa vengano attribuite proprietà prodigiose o taumaturgiche e, facendo leva su di esse, sia richiesto un corrispettivo sproporzionato rispetto alla sua valenza meramente “consolatoria”, potrà dirsi integrata l’ipotesi (vietata) della “ciarlataneria”.
A fini ulteriormente esplicativi, è possibile fare riferimento alla fattispecie dei concorsi pronostici o più in generale delle lotterie, in cui la posta, per essere conforme al principio di sinallagmaticità (nella specifica configurazione che esso assume nei contratti con causa aleatoria), deve essere proporzionata alla chance di ottenimento del premio: sì che potrebbe essere tacciato di ciarlataneria anche il bookmaker che, nel promuovere la partecipazione degli scommettitori, vanti una possibilità di successo (o addirittura una certezza) superiore a quella statisticamente effettiva.
Deve aggiungersi che la soluzione interpretativa proposta è la sola in grado di coniugare le disposizioni citate con quelle sopravvenute nell’ordinamento (e quindi, rispetto ad esse, dotate di virtuale capacità abrogativa tacita, anche solo parziale), le quali prevedono, quale attività regolamentata a specifici fini e per questo consentita, l’attività appunto di cartomanzia.
Viene in rilievo in particolare – come evidenziato dal giudice di primo grado – l’art. 28 d.lvo n. 206 del 6 settembre 2005 (Codice del consumo), il quale introduce il capo intitolato “Rafforzamento della tutela del consumatore in materia di televendite” e prevede che “le disposizioni del presente capo si applicano alle televendite, come definite nel regolamento in materia di pubblicità radiotelevisiva e televendite, adottato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni con delibera n. 538/01/CSP del 26 luglio 2001, comprese quelle di astrologia, di cartomanzia ed assimilabili e di servizi relativi a concorsi o giochi comportanti ovvero strutturati in guisa di pronostici”.
Inoltre, non meno significativo, ai fini della delimitazione dell’attività di cartomanzia lecitamente esercitabile, ad ulteriore conferma delle conclusioni precedentemente raggiunte, è il successivo art. 29, ai sensi del quale, per quanto di interesse, “le televendite devono evitare ogni forma di sfruttamento della superstizione, della credulità o della paura”: ciò a dimostrazione del fatto che non è il mero svolgimento dell’attività di cartomanzia ad integrare una forma di speculazione sulla credulità, ma la sua rappresentazione secondo modalità e con scopi “profittatori” (quali si sono innanzi delineati).
Nello stesso senso, infine, vale la pena richiamare l’art. 30, comma 2, del Codice, secondo cui “le televendite non devono contenere dichiarazioni o rappresentazioni che possono indurre in errore gli utenti o i consumatori, anche per mezzo di omissioni, ambiguità o esagerazioni, in particolare per ciò che riguarda le caratteristiche e gli effetti del servizio”: indicativo anch’esso del fatto che il fulcro del giudizio di liceità in subiecta materia coincide con la sussistenza di un rapporto di conformità tra il servizio proposto e la rappresentazione che ne viene data, senza alcuna forma di esaltazione delle sue effettive (recte, dimostrabili) utilità.
Deve quindi concludersi nel senso della necessità di interpretare evolutivamente, alla luce delle modificazioni intervenute nel contesto giuridico e socio-economico generale rispetto a quello esistente alla data della loro introduzione, le disposizioni sulle quali fa leva l’Amministrazione con il provvedimento interdittivo impugnato in primo grado: norme che, venute in essere in un contesto storico dominato dal mito dello Stato etico, devono confrontarsi con la nuova funzione da esso assunta di definitore in “negativo” dei limiti entro i quali i cittadini individuano, in libertà e autonomia, i fini cui tendere nel loro percorso esistenziale ed i mezzi per realizzarli.
Come anticipato, l’infondatezza dell’appello esime dall’esame delle eccezioni di inammissibilità/improcedibilità dello stesso, diffusamente formulate dalla parte appellata.
L’originalità dell’oggetto della controversia giustifica infine la compensazione delle spese del giudizio di appello.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.
Spese del giudizio di appello compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.