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Bruciare la bandiera italiana è reato (Cass. 51859/18)

16 novembre 2018, Cassazione penale

Il prestigio dello Stato, dei suoi emblemi e delle sue istituzioni rientra tra i beni costituzionalmente garantiti, per cui si pone come limite ad altri diritti costituzionalmente protetti e la sua tutela non è in contrasto con gli art. 9 e 10 della Convenzione Europea sui diritti dell'uomo, in quanto esplicativi degli art. 21 e 25 Cost.

L'elemento soggettivo del delitto di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate consiste nel dolo generico, e quindi nella coscienza e volontà di esprimere offensivi e aggressivi giudizi nei confronti delle istituzioni tutelate, con l'intenzione di produrre l'evento costituito dalla pubblica manifestazione di disprezzo delle stesse, con conseguente irrilevanza dei motivi particolari che possano aver indotto l'agente a commettere consapevolmente il fatto vilipendioso addebitato.

La bandiera nazionale è penalmente tutelata dall'art.292 cod. pen. non come oggetto in sé, ma unicamente per il suo valore simbolico, suscettibile, per sua natura, di essere leso anche da semplici manifestazioni verbali di disprezzo, la cui penale rilevanza, ai fini della configurabilità del reato, richiede quindi soltanto la percepibilità da parte di altri soggetti.

Corte di Cassazione

sez. I Penale, sentenza 9 marzo – 16 novembre 2018, n. 51859
Presidente Mazzei– Relatore Saraceno

Ritenuto in fatto

1. Con la decisione in epigrafe la Corte di appello di Palermo confermava la sentenza, 22 maggio 2014, del Tribunale della stessa città che aveva dichiarato Ca. Ma. e Vicenzo In. responsabili del reato di cui all'art. 292 cod. pen., commesso il 20.1.2012, e li aveva condannati alla pena, sospesa, di mesi due di reclusione ciascuno.
Agli imputati era stato contestato di aver pubblicamente e intenzionalmente dato fuoco, distruggendola, alla bandiera nazionale italiana.
1.1 A ragione, la Corte territoriale, disattesa in premessa l'eccezione di nullità del decreto di citazione a giudizio per indeterminatezza della contestazione, nel merito escludeva che la condotta concretamente tenuta, consistita nel cospargere di liquido infiammabile la bandiera e poi nel darle fuoco, seppure nel corso di una manifestazione di protesta, potesse ritenersi scriminata dall'asserito esercizio del diritto di critica e di libera espressione del pensiero.
2. Per la cassazione della decisione di appello hanno proposto ricorso gli imputati, con atto cumulativo a firma del comune difensore avvocato Gi. Bi., articolando le seguenti censure.
Denunziano:
- (primo e secondo motivo) violazione di legge processuale (in relazione all'art. 552 cod. proc. pen.), reiterando l'eccezione di nullità del decreto di citazione a giudizio per indeterminatezza della contestazione e violazione del diritto di difesa. Assumono che l'imputazione elevata era genericamente riferita all'art. 292 cod. pen., poiché non era specificato se ad essere contestata fosse l'ipotesi contemplata dal primo comma, punita con la pena della multa, ovvero quella del secondo comma, punita con la pena della reclusione. Sicché in assenza di precisazioni, doveva ritenersi contestata l'ipotesi base di cui al primo comma, con la conseguenza che i decidenti, irrogando la pena della reclusione, avevano dato al fatto una nuova e diversa qualificazione giuridica in violazione delle cautele imposte dal codice di rito.
- (terzo motivo) violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento agli artt. 292, 51 cod. pen. e 21 Cost.. Ad avviso dei ricorrenti, la decisione sarebbe viziata per l'immotivata esclusione dell'efficacia scriminante del diritto di critica politica nel contesto di una manifestazione di protesta contro il governatore della Regione siciliana, nel corso della quale gli imputati non avevano voluto colpire il vessillo in sé, gratuitamente oltraggiando l'emblema dello Stato, ma avevano voluto semplicemente manifestare il proprio dissenso contro l'operato delle istituzioni;
- (quarto motivo) vizio di motivazione per non aver rilevato che la pena richiesta dal P.M. nelle sue conclusioni (Euro 700 di multa) fosse indubbiamente riferibile all'ipotesi di reato nella sua forma base, così come contestata, e non a quella circostanziata di cui al secondo comma del citato art. 292.

Considerato in diritto

Osserva il Collegio che il ricorso appare in ogni sua deduzione inammissibile.

1. Manifestamente infondati sono il primo, secondo e quarto motivo, nei quali è in sostanza diluita e replicata l'eccezione di nullità del decreto di citazione per indeterminatezza dell'imputazione nonché della sentenza di primo grado per aver ritenuto sussistente l'ipotesi aggravata non oggetto di contestazione. È appena il caso di ribadire che, in tema di contestazione dell'accusa, si deve avere riguardo alla specificazione del fatto più che all'indicazione delle norme di legge violate, per cui ove il fatto sia precisato in modo puntuale, la mancata individuazione degli articoli di legge violati è irrilevante e non determina nullità alcuna, salvo che non si traduca in una compressione dell'esercizio del diritto di difesa. Ineccepibilmente, pertanto, la Corte di appello ha ritenuto priva di giuridico pregio l'eccezione formulata, sul rilievo che la condotta integrante l'ipotesi aggravata di cui all'art. 292, comma 2, cod. pen., era stata correttamente e puntualmente descritta in fatto e conforme all'accusa contestata era anche la pena richiesta dal P.M. risultante dal bilanciamento con le attenuanti generiche chieste ma negate dal Tribunale.

2. Manifestamente infondate sono pure le doglianze espresse in ordine all'accertamento di responsabilità, avendo la Corte territoriale già disatteso le identiche, generiche argomentazioni articolate nell'atto di appello, nonché congruamente e logicamente motivato in ordine a tutti gli elementi, fattuali e giuridici, che qualificano le componenti, materiale e psicologica, del reato.

Ed invero ha evidenziato che i due ricorrenti, appartenenti al centro sociale "Spazio anomalia", nel corso di un corteo di protesta (lo striscione in testa recava la scritta "contro Equitalia caro benzina rivolta popolare") avevano cosparso di liquido infiammabile la bandiera italiana che recavano con loro e le avevano dato fuoco; ha, quindi, affermato sussistenti i profili di consapevolezza e intenzionalità della direzione dell'aggressione contro uno dei simboli dello Stato, resa palese dalla condotta tenuta dai ricorrenti e ne ha stigmatizzato il carattere gratuito di dileggio e svilimento, correttamente annotando che la libertà di manifestazione del pensiero trova, del resto, limiti impliciti derivanti da altri valori costituzionalmente protetti. Bastando qui solo aggiungere che la giurisprudenza di legittimità ha puntualizzato da tempo che il prestigio dello Stato, dei suoi emblemi e delle sue istituzioni rientra tra i beni costituzionalmente garantiti, per cui si pone come limite ad altri diritti costituzionalmente protetti e la sua tutela non è in contrasto con gli art. 9 e 10 della Convenzione Europea sui diritti dell'uomo, in quanto esplicativi degli art. 21 e 25 Cost. (Sez. 1, n. 6822 del 14/06/1988, dep. 1989, Paris, Rv. 181275); che l'elemento soggettivo del delitto di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate consiste nel dolo generico, e quindi nella coscienza e volontà di esprimere offensivi e aggressivi giudizi nei confronti delle istituzioni tutelate, con l'intenzione di produrre l'evento costituito dalla pubblica manifestazione di disprezzo delle stesse, con conseguente irrilevanza dei motivi particolari che possano aver indotto l'agente a commettere consapevolmente il fatto vilipendioso addebitato (tra le altre, Sez. 1, n. 28730 del 21/03/2013, Di Maggio, Rv. 256781); che la bandiera nazionale è penalmente tutelata dall'art.292 cod. pen. non come oggetto in sé, ma unicamente per il suo valore simbolico, suscettibile, per sua natura, di essere leso anche da semplici manifestazioni verbali di disprezzo, la cui penale rilevanza, ai fini della configurabilità del reato, richiede quindi soltanto la percepibilità da parte di altri soggetti (Sez. 1, n. 48902 del 29/10/2003, Galli, Rv. 226460).

Di tali condivisi principi i giudici di merito hanno fatto corretta applicazione, raccordandoli alle emergenze fattuali, debitamente documentate dalle ritrazioni fotografiche in atti, ed hanno giudicato la condotta degli imputati esplicita e consapevole manifestazione di gratuito disprezzo e svilimento dell'emblema, la cui reputazione e onore, insieme allo Stato e alle sue istituzioni, sono oggetto della tutela penale e di diritti tutelati costituzionalmente, al cui interno anche la libertà di opinione trova i suoi limiti.

Di talché, le replicate censure, generiche e anche avulse dalle risultanze processuali là dove assumono essere la condotta tenuta una manifestazione di protesta contro avversate e non meglio precisate "decisioni politiche", si risolvono in manifestazioni di mero dissenso e sollecitano il riesame nel merito della decisione impugnata, inammissibile in sede di sindacato di legittimità.

Alla declaratoria di inammissibilità dei ricorsi consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen. la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento e - per i profili di colpa correlati all'irritualità dell'impugnazione - di una somma in favore della cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 2.000 ciascuno.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento della somma di Euro duemila in favore della cassa delle ammende.