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Benefici penitenziari chi evade, nessun divieto automatico (Cass.22368/09)

28 maggio 2009, Cassazione penale

L'automatica preclusione dell'accesso ai benefici penitenziari in ragione di una scelta general - preventiva si porrebbe in evidente contrasto con la finalità rieducativa della pena e vanificherebbe i principi di proporzione e di individualizzazione della stessa che caratterizzano il trattamento penitenziario.

L'ammissione ad una misura alternativa alla detenzione in carcere (nel caso di specie, la detenzione domiciliare) di un soggetto nei cui confronti sia intervenuta affermazione di penale responsabilità per il delitto di evasione non possa essere automaticamente preclusa dalla intervenuta condanna per il reato previsto dall'art. 385 c.p. a prescindere da qualsiasi valutazione in ordine all'avvenuta realizzazione di tutte le condizioni per usufruire del beneficio richiesto.

Una lettura costituzionalmente orientata della norma impone al giudice, in presenza di una condanna per questo titolo di reato, un'analisi particolarmente approfondita sulla personalità del condannato, sulla sua effettiva, perdurante pericolosità sociale alla luce delle condotte rilevanti ai sensi dell'art. 385 c.p., oggetto di accertamento definitivo, sui progressi trattamentali compiuti e il grado di rieducazione compiuto prima dell'entrata in vigore della L. n. 251 del 2005.

 

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

(ud. 06/05/2009) 28-05-2009, n. 22368

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SILVESTRI Giovanni - Presidente

Dott. GIORDANO Umberto - Consigliere

Dott. ZAMPETTI Umberto - Consigliere

Dott. DI TOMASSI Mariastefania - Consigliere

Dott. CASSANO Margherita - Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO CORTE D'APPELLO di TARANTO;

nei confronti di:

1) L.P. N. IL (OMISSIS);

avverso ORDINANZA del 19/11/2008 TRIB. SORVEGLIANZA di TARANTO;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. CASSANO MARGHERITA;

lette le conclusioni del P.G. Dr. D'ANGELO Giovanni, che ha cheisto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 19 novembre 2008 il Tribunale di sorveglianza di Taranto concedeva a L.P. - in stato di libertà a seguito di intervenuta sospensione dell'esecuzione della pena disposta dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Taranto con riferimento alla pena residua di mesi dieci, giorni 24 di reclusione, oggetto del provvedimento di cumulo emesso il 27 marzo 2008 dalla Procura della Repubblica presso il locale Tribunale concernente condanne per i reati di cui all'art. 570 c.p., art. 81 cpv. c.p., art. 385 c.p. - il beneficio della detenzione domiciliare.

Il Tribunale osservava che, in ossequio al principio del favor rei, la pena residua da espiare poteva essere imputata interamente alle condanne per i reati non ostativi alla concessione di benefici penitenziari (art. 570 c.p. e L. n. 497 del 1974, artt. 10 e 14) e che, sotto tale profilo, non operava il divieto stabilito dall'art. 58 quater, comma 1, ord. pen. che interessa esclusivamente i condannati che siano stati riconosciuti colpevoli del reato previsto dall'art. 385 c.p. e che siano chiamati ad espiare la pena inflitta per tale condotta. Il Tribunale argomentava che una diversa interpretazione non consentirebbe di effettuare le dovute valutazioni sulla personalità del condannato, sulla sua effettiva pericolosità sociale, sulla sua idoneità e beneficiare di una misura alternativa, sui progressi trattamentali compiuti, così limitando la funzione rieducativa della pena.

2. Avverso il citato provvedimento ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte d'appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, il quale lamenta violazione di legge e mancanza di motivazione, atteso il chiaro disposto normativo dell'art. 58 quater ord. pen., così come modificato dalla L. n. 251 del 2005, che ha voluto introdurre una preclusione generalizzata all'ammissione ai benefici nei confronti di coloro che siano stati riconosciuti responsabili del delitto di evasione.

Motivi della decisione
Il ricorso del Procuratore generale è fondato.

1. L'interpretazione della L. n. 251 del 2005, art. 7, comma 6, che ha novellato la L. n. 354 del 1975, art. 58 quater, comma 1 e successive modifiche (c.d. legge di ordinamento penitenziario), stabilendo il divieto di concessione di benefici penitenziari (assegnazione al lavoro all'esterno, permessi premio, affidamento in prova al servizio sociale, nei casi previsti dall'art. 47 cit. L., detenzione domiciliare, semilibertà) nei confronti del condannato riconosciuto colpevole di una condotta punibile ai sensi dell'art. 385 c.p. impone la preventiva analisi dei numerosi interventi della Corte Costituzionale.

Quest'ultima, investita della questione di legittimità costituzionale del D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 15, con sentenza n. 306 del 1993, dopo avere premesso che il principio di irretroattività dettato, oltre che per la pena, pure per le disposizioni che ne regolano l'esecuzione "potrebbe meritare una seria riflessione", ha sottolineato che "anche in materie non soggette al principio di irretroattività della legge (...) la vanificazione con legge successiva di un diritto positivamente riconosciuto da una legge precedente non può sottrarsi al necessario scrutinio di ragionevolezza".

Il legislatore, quindi, nei limiti della ragionevolezza, può fare tendenzialmente prevalere, di volta in volta, le esigenze di prevenzione generale e difesa sociale, con i connessi caratteri di afflittività e retributività, oppure quelle di prevenzione speciale e di rieducazione, comportanti una certa flessibilità della pena in funzione dell'obiettivo di risocializzazione, purchè "nessuna di esse ne risulti obliterata".

In questo contesto, la Corte ha aggiunto che si può parlare di una sostanziale non elusione delle funzioni costituzionali della pena, soltanto se il sacrificio di una delle componenti sia il "minimo indispensabile" per realizzare il soddisfacimento dell'altra. Nello stesso contesto ha precisato che appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di tipi d'autore, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita.

Con successiva sentenza n. 173 del 1999. la Consulta, pronunziandosi sulla legittimità costituzionale dell'art. 4 bis ord. pen., ha affermato che il principio rieducativo nella fase dell'esecuzione penale conserva la sua cogenza anche in presenza di leggi con le quali si ritenga di limitare l'accesso alle misure alternative alla detenzione o a determinati benefici penitenziari per far fronte ai pericoli creati dalla criminalità organizzata.

Nel medesimo solco interpretativo si colloca la sentenza n. 445 del 1997 che, in tema di semilibertà, censura il divieto di concessione di misure alternative alla detenzione, pur in presenza di un comprovato percorso rieducativo adeguato al beneficio da conseguire, in quanto destinato a riprodurre di fatto "un meccanismo a connotazioni sostanzialmente ablative" e a riprodurre così un'ipotesi di "revoca" non fondata sulla condotta colpevole del condannato.

Con la sentenza n, 257 del 2006, la Corte Costituzionale - nel dichiarare l'illegittimità costituzionale della L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 30 quater, introdotto dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 7 nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso sulla base della normativa previgente nei confronti dei condannati che, prima dell'entrata in vigore della citata L. n. 251 del 2005, avessero raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto - ha affermato che la preclusione, nei confronti di tali soggetti, alla fruizione di benefici scaturita dal nuovo regime normativo si tradurrebbe in un incoerente arresto dell'iter trattamentale, in violazione del principio sancito dall'art. 27 Cost., comma 3.

Nella stessa prospettiva, il giudice delle leggi, con sentenza n. 255 del 2006 (richiamata da Sez. Un. 30 maggio 2006, ric. Aloi), ha ribadito i principi di "proporzionalità e di individualizzazione della pena" caratterizzanti il trattamento penitenziario, affermati in precedenti decisioni (Corte Cost., sentenze n. 445 del 1997; n. 504 del 1995; n. 306 del 1993) e riconducibili all'art. 27 Cost., commi 1 e 3, e art. 3 Cost. (sentenze n. 203 del 1991 e n. 50 del 1980), da intendere nel senso che "eguaglianza di fronte alla pena significa proporzione della medesima alle personali responsabilità e alle esigenze di risposta che ne conseguono" (Corte Cost., sentenze n. 349 del 1993 e n. 299 del 1992).

Per l'attuazione di tali finalità, costituzionalmente sancite, e in funzione della risocializzazione del reo è, quindi, necessario assicurare progressività trattamentale e flessibilità della pena e, conseguentemente, riconoscere un potere discrezionale al magistrato di sorveglianza nella concessione dei benefici penitenziari (Corte Cost., sentenza n. 504 del 1995).

Da ultimo, la Corte Costituzionale, nel dichiarare dichiara l'illegittimità costituzionale della L. 26 luglio 1975, n. 354, art. 58 quater, commi 1 e 7 bis, introdotti dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 7, commi 6 e 7, nella parte in cui non prevedono che i benefici in essi indicati possano essere concessi, sulla base della normativa previgente, nei confronti dei condannati che, prima della entrata in vigore della citata L. n. 251 del 2005, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato ai benefici richiesti, ha affermato che "la finalità rieducativa della pena, stabilita dall'art. 27 Cost., comma 3, deve riflettersi in modo adeguato su tutta la legislazione penitenziaria. Quest'ultima deve prevedere modalità e percorsi idonei a realizzare l'emenda e la risocializzazione del condannato, secondo scelte del legislatore, le quali, pur nella loro varietà tipologica e nella loro modificabilità nel tempo, devono convergere nella valorizzazione di tutti gli sforzi compiuti dal singolo condannato e dalle istituzioni per conseguire il fine costituzionalmente sancito della rieducazione. La massima valorizzazione dei percorsi rieducativi compiuti da chi deve espiare una pena mal si concilia con la vanificazione, in tutto o in parte, degli stessi, per effetto di una mera successione delle leggi nel tempo. Le diverse valutazioni di carattere generale e preventivo, operate dal legislatore in ordine alla previsione di misure alternative alla detenzione o di benefici penitenziari, non possono incidere negativamente sui risultati già utilmente raggiunti dal condannato. Nell'ipotesi di una sopravveniente normativa che escluda da un beneficio una data categoria di soggetti, l'applicazione della nuova restrizione a chi aveva già maturato, secondo la previgente disciplina, le condizioni per godere del beneficio stesso, rappresenta, rispetto all'iter rieducativo, una brusca interruzione, senza che ad essa abbia in alcun modo corrisposto un comportamento colpevole del condannato... Tale interruzione pone nel nulla le positive esperienze già registrate ed ostacola il raggiungimento della finalità rieducativa della pena prescritta dalla Costituzione". In tal modo l'opzione repressiva finisce per relegare nell'ombra il profilo rieducativo al di fuori di qualsiasi concreta ponderazione dei valori coinvolti (sentenza n. 257 del 2006).

Dalle decisioni della Consulta sinora richiamate emerge una trama interpretativa unitaria, in base alla quale l'automatica preclusione dell'accesso ai benefici penitenziari in ragione di una scelta general - preventiva si porrebbe in evidente contrasto con la finalità rieducativa della pena e vanificherebbe i principi di proporzione e di individualizzazione della stessa che caratterizzano il trattamento penitenziario.

2. In questa cornice di principi generali, recepiti in due recenti decisioni delle Sezioni Unite (Sez. Un. 28 marzo 2006, ric. Alloussi; Sez. Un. 30 maggio 2006, ric. Aloi), il Collegio ritiene che l'ammissione ad una misura alternativa alla detenzione in carcere (nel caso di specie, la detenzione domiciliare) di un soggetto nei cui confronti sia intervenuta affermazione di penale responsabilità per il delitto di evasione non possa essere automaticamente preclusa dalla intervenuta condanna per il reato previsto dall'art. 385 c.p. a prescindere da qualsiasi valutazione in ordine all'avvenuta realizzazione di tutte le condizioni per usufruire del beneficio richiesto.

Piuttosto, una lettura costituzionalmente orientata della norma impone al giudice, in presenza di una condanna per questo titolo di reato, un'analisi particolarmente approfondita sulla personalità del condannato, sulla sua effettiva, perdurante pericolosità sociale alla luce delle condotte rilevanti ai sensi dell'art. 385 c.p., oggetto di accertamento definitivo, sui progressi trattamentali compiuti e il grado di rieducazione compiuto prima dell'entrata in vigore della L. n. 251 del 2005.

Le considerazioni sinora svolte non si pongono in contrasto con il precedente citato dal Procuratore generale ricorrente (Cass., Sez. 1^, 13 febbraio 2007, n. 9719, Taranto), intervenuto in epoca antecedente alla parziale declaratoria di incostituzionalità della norma in esame, e si pongono in una linea di coerenza interpretativa con un'altra decisione di questa Sezione (Cass., Sez. 1^, 12 marzo 2008, Ahmetovic, rv. 240142) che ha affermato principi analoghi.

3. Il provvedimento impugnato non appare pienamente conforme ai principi sinora enunciati nella parte in cui, nel concedere la detenzione domiciliare a L.P., ha omesso di valutare le date di commissione dei delitti di evasione, l'entità delle pene inflitte in relazione agli stessi, il numero delle condanne intervenute per tale titolo di reato, l'incidenza di tali pronunzie, espressive di una perdurante pericolosità sociale, sull'intero percorso trattamentale e rieducativi) effettuato prima dell'entrata in vigore della L. n. 251 del 2005.

P.Q.M.
Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di sorveglianza di Taranto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 6 maggio 2009.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2009