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Assistenza 104: nessun obbligo di farlo durante orario di lavoro (Cass. 4106/16)

1 febbraio 2016, Cassazione penale

I permessi lavorativi ex legge 104 per familiare sono soggetti ad una duplice lettura: a) vengono concessi per consentire al lavoratore di prestare la propria assistenza con ancora maggiore "continuità"; b) vengono concessi per consentire al lavoratore, che con abnegazione dedica tutto il suo tempo al famigliare handicappato, di ritagliarsi un breve spazio di tempo per provvedere ai propri bisogni ed esigenze personali.

Da nessuna parte della legge si evince che nei casi di permesso, l'attività di assistenza dev'essere prestata proprio nelle ore in cui il lavoratore avrebbe dovuto svolgere la propria attività lavorativa. Anzi, tale interpretazione si deve escludere laddove si tenga presente che, per la legge, l'unico presupposto per la concessione dei permessi è che il lavoratore assista il famigliare handicappato "con continuità e in via esclusiva": ma, è del tutto evidente che tale locuzione non implica un'assistenza continuativa di 24 ore, per la semplice ed assorbente ragione che, durante le ore lavorative, il lavoratore non può contemporaneamente assistere il parente.

E' evidente, quindi, che la locuzione va interpretata cum grano salis, nel senso che è sufficiente che sia prestata con modalità costanti e con quella flessibilità dovuta anche alle esigenze del lavoratore.

In tema di prima notificazione all'imputato non detenuto, qualora la raccomandata spedita a seguito dell'inutile accesso ai luoghi indicati dalla legge per avvisare l'interessato dell'avvenuto deposito presso la casa comunale dell'atto da notificare non possa essere recapitata per assenza od inidoneità delle persone chiamate a riceverla e non venga ritirata nei termini, l'ufficiale giudiziario non è tenuto ad informare il destinatario della notifica del deposito e delle formalità compiute mediante la spedizione di una ulteriore raccomandata

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

(ud. 12/01/2016) 01-02-2016, n. 4106

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FIANDANESE Franco - Presidente -

Dott. RAGO Geppino - rel. Consigliere -

Dott. ALMA Marco Maria - Consigliere -

Dott. PELLEGRINO Andrea - Consigliere -

Dott. RECCHIONE Sandra - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.F., nato il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 28/02/2014 della Corte di Appello di Genova;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere dott. G. Rago;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale PINELLI Stefano Maria, che ha concluso chiedendo il rigetto;

udito il difensore, avv. MA, che ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. B.F. fu tratto a giudizio per rispondere:

a) del reato di truffa aggravata continuata perchè, nella veste di lavoratore dipendente, autorizzato a fruire di permessi mensili retribuiti a norma della L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3 per assistere la sorella affetta da sclerosi multipla, il 30/8/09 chiedeva ed otteneva un permesso, utilizzandolo invece per partecipare al Raduno Ciclistico Trofeo Missaglia, organizzato da una associazione sportiva di cui faceva parte, che prevedeva un itinerario di 85 chilometri; inoltre nel periodo dal 22/11 al 28/11/09 fruiva di due giorni di permesso, benchè la sorella fosse ricoverata a tempo pieno in un centro sanitario specializzato;

b) del reato di truffa aggravata perchè, in qualità di istruttore della Polizia Provinciale di Massa, a seguito di un infortunio durante il servizio avvenuto il 16/1/09 e dopo avere subito intervento chirurgico ed ottenuto riconoscimento di inabilità al lavoro con fruizione dell'indennità temporanea, il 28/5/09 induceva in errore il medico dell'INAIL dr. G., riferendogli falsamente di accusare ancora dolore, in tal modo ottenendo il prolungamento del periodo di inabilità sino al 3/6/09, benchè dal 13 al 17 maggio avesse partecipato al giro ciclistico della Toscana organizzato dall'Associazione di cui faceva parte, che prevedeva varie tappe lungo un itinerario complessivo di 645 chilometri;

c) del reato di falso ideologico per induzione avente ad oggetto il falso certificato medico redatto dal dr. G..

1.1. Con sentenza del 03/05/2012, il giudice monocratico del Tribunale di Massa, assolveva l'imputato dal reato sub a) perchè il fatto non costituisce reato e dai reati sub b) c) perchè il fatto non sussiste.

1.2. Proposto appello da parte del Pubblico Ministero, la Corte di Appello di Genova, con sentenza del 28/02/2014, in riforma della predetta sentenza, riteneva l'imputato colpevole di tutti i reati ascrittigli e, ritenuta la continuazione fra i medesimi, lo condannava alla pena di anni uno e mesi sei di reclusione.

2. Contro la suddetta sentenza, l'imputato, a mezzo del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione deducendo i seguenti motivi:

2.1. violazione dell'art. 157 cod. proc. pen., comma 8: la difesa ha eccepito la nullità della notifica dell'atto di impugnazione del Pubblico Ministero in quanto essendo stata eseguita mediante il deposito presso la Casa comunale del Comune di residenza del B., era stata, poi, omessa la comunicazione dell'avvenuto deposito mediante nuova lettera raccomandata con avviso di ricevimento;

2.2. In relazione all'imputazione di cui al capo a), la difesa ha sostenuto la violazione della L. n. 104 del 1992, art. 33, sotto i seguenti profili:

2.2.1. quanto alla condotta del 30/08/2009, che l'interpretazione della Corte di Appello - secondo la quale deve esistere una totale coincidenza tra il tempo dedito all'assistenza della persona disabile e quello che il lavoratore non dedica al proprio servizio - sarebbe frutto di un'erronea applicazione della normativa secondo la quale, invece, il lavoratore può gestire liberamente quanto dedicare all'assistenza e quanto alle proprie esigenze personali;

2.2.2. quanto alla condotta del 22/11/2009, che la Corte territoriale non avrebbe considerato che la struttura presso la quale la sorella dell'imputato era stata ricoverata, non era assimilabile a quella di un ospedale o luogo di cura che garantiva assistenza continuativa di carattere medico, infermieristico e socio sanitario. Quindi, come ritenuto anche dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità, l'imputato aveva diritto ad usufruire del permesso;

2.2.3. quanto al permesso del 28/11/2009, che la decisione della Corte territoriale, era fondata su un travisamento delle risultanze istruttorie in quanto si era accertato con certezza che la sorella della B. aveva lasciato la struttura presso la quale era stata ricoverata non il 28/11 ma il 27/11/2009;

2.2.4. la violazione dell'art. 6 CEDU in quanto la Corte aveva riformato integralmente la sentenza di primo grado senza rinnovare l'istruttoria dibattimentale e, quindi, sulla base di quelle stesse risultanze istruttorie che avevano convinto il primo giudice ad assolvere l'imputato. La Corte, poi, non solo non aveva analiticamente confutato la decisione di primo grado, ma aveva indebitamente invertito l'onere probatorio nella parte in cui aveva sostenuto che il B. non aveva dimostrato "di essersi preso cura di lei (la sorella) proprio quando venne dimessa, per esempio accompagnandola a casa o attendendola nell'abitazione per prestarle l'assistenza necessaria".

2.2.5. la violazione dell'art. 640 cod. pen. per non avere la Corte chiarito in cosa fossero consistiti gli artifizi e raggiri in considerazione della regolamentazione interna che la Provincia si era data proprio per la concessione automatica dei permessi. Carente, poi, era anche l'accertamento sull'elemento soggettivo del dolo di truffa;

2.3. in relazione alle imputazione di cui ai capi sub b) c), la difesa ha sostenuto:

2.3.1. che la condanna si basava su elementi privi di prova, tanto più che la Corte non si era misurata con l'opposta decisione alla quale era pervenuto il primo giudice: con il che, era incorsa nella violazione dell'art. 6 CEDU e in quella dell'art. 192 cod. proc. pen.;

2.3.2. la violazione dell'art. 48 cod. pen. in quanto il preteso comportamento omissivo tenuto dal B. (e cioè di avere taciuto al medico dell'Inail, dott. G., di aver partecipato al cd. Giro della Toscana) non costituirebbe un falso per induzione, sia perchè la condotta ingannatoria dev'essere attiva, sia perchè il B. non aveva alcun dovere giuridico di dichiarare il vero rispetto ai propri dati anamnestici "posto che la valutazione delle condizioni di salute della persona visitata è attività rimessa ope legis alla persona abilitata e solo a lui, per le sue competenze. La valutazione che consegue è dunque solo figlia degli accertamenti operati sul paziente". Stessa cosa dicasi per la pretesa attività ingannatoria consistita nella lamentata dolorabilità alla digitopressione del ginocchio, affermazione questa che non considera che l'accertamento era stato fatto dal medico il quale non poteva essere ingannato così facilmente;

2.3.3. la violazione dell'art. 640 cod. pen., per non essersi la Corte soffermata sugli elementi costitutivi del reato di truffa e cioè nè sugli artifizi e raggiri (sotto il profilo della loro idoneità ad ingannare il medico) nè sull'elemento psicologico;

2.3.4. la violazione dell'art. 27 Cost., comma 2 e art. 533 cod. proc. pen. per avere la Corte condannato l'imputato nonostante la prova a suo carico non fosse così pregnante da far ritenere la sua colpevolezza "oltre ogni ragionevole dubbio".

Con memoria depositata il 21/12/2015, è stata ulteriormente illustrato il motivo di censura in ordine alla dedotta violazione dell'art. 6 Cedu e dell'obbligo della motivazione rafforzata.

Motivi della decisione

1. violazione dell'art. 157 cod. proc. pen., comma 8: la censura è infondata per le ragioni di seguito indicate.

In punto di fatto, va premesso che la notificazione fu effettuata a norma dell'art. 157 cod. proc. pen., comma 8 come si desume dall'ordinanza con la quale la Corte ha disatteso la medesima eccezione adducendo la seguente motivazione "vista la L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 8 ritenuta la ritualità della notifica dell'impugnazione del Pubblico Ministero essendo stata eseguita con raccomandata con avviso di ricevimento all'imputato non reperito presso l'indirizzo ed essendo decorso 10 gg dal deposito".

Sostiene, invece, il ricorrente che, essendo stata omessa la comunicazione dell'avvenuto deposito mediante nuova lettera raccomandata con avviso di ricevimento, la notifica deve ritenersi nulla in quanto, a norma dell'art. 157 cod. proc. pen., comma 8 "gli effetti della notificazione decorrono dal ricevimento della raccomandata".

Il ricorrente, poi, motiva l'eccezione nei seguenti testuali termini:

"Invero, come si ricava dalle forme della notificazione dell'appello documentate dalle relazioni agli atti è accaduto che: alla notifica si sia proceduto a mani proprie mediante consegna del plico in via (OMISSIS); ciò ha dato luogo a due distinti accessi (il 12/10/2012 e il 13/10/2012) che sono risultati inutili; conseguentemente il 17/10/2012 il funzionario dell'ufficio UNEP di Massa inviava una lettera raccomandata n. (OMISSIS); non si dispone del contenuto della missiva, ma essa presumibilmente conteneva l'avviso che l'atto era stato depositato alla casa comunale, posto che lo stesso documento riferisce di aver lasciato avviso sull'uscio; il plico raccomandato di cui si è detto non è stata recapitato e quindi è rimasto in giacenza per i giorni prescritti, dopo di che dall'ufficio postale veniva restituito al mittente con nuova raccomandata (OMISSIS). Posta la regola contenuta a chiusura dell'art. 157 c.p.p., comma 8 la notifica non è avvenuta. Non è nel caso in discussione che si potesse adottare una diversa modalità. Unico dato da considerare è che si è proceduto con determinate forme (quelle dell'art. 157 c.p.p., comma 8) senza conseguire il risultato della formale conoscenza dell'atto".

Ora, posto che è pacifico che la notificazione è avvenuta, legittimamente, a mezzo del servizio postale, le suddette modalità (avviso di deposito dell'atto presso l'ufficio postale; invio di una lettera raccomandata; giacenza di giorni dieci) sono state tutte puntualmente rispettate come si desume da quanto scrive lo stesso ricorrente: di conseguenza, come correttamente ha rilevato la Corte territoriale, la notifica deve considerarsi ritualmente avvenuta allo scadere dei dieci giorni dal deposito: nessun'altra comunicazione prevede la legge, come pretende il ricorrente.

Va, quindi, ribadito il consolidato principio di diritto secondo il quale "In tema di prima notificazione all'imputato non detenuto, qualora la raccomandata spedita a seguito dell'inutile accesso ai luoghi indicati dalla legge per avvisare l'interessato dell'avvenuto deposito presso la casa comunale dell'atto da notificare non possa essere recapitata per assenza od inidoneità delle persone chiamate a riceverla e non venga ritirata nei termini, l'ufficiale giudiziario non è tenuto ad informare il destinatario della notifica del deposito e delle formalità compiute mediante la spedizione di una ulteriore raccomandata": ex plurimis Cass. 14183/2015.

2. CAPO SUB A. L'imputato è stato ritenuto colpevole del delitto di truffa in relazione ai tre permessi del 30/08/2009, 22/11/2009, 28/11/2009. In punto di fatto, va premesso che:

a) la sorella della B. era affetta da sclerosi multipla sicchè, il B. aveva diritto ad usufruire dei permessi previsti dalla L. n. 104 del 1991;

b) all'epoca dei fatti, la L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3 stabiliva che: ".... colui che assiste una persona con handicap in situazione di gravità, parente o affine entro il terzo grado, convivente, ha(nno) diritto a tre giorni di permesso mensile, fruibili anche in maniera continuativa a condizione che la persona con handicap in situazione di gravità non sia ricoverata a tempo pieno"; a sua volta, la L. n. 53 del 2000, art. 20, comma 1 disponeva che le disposizioni della L. 5 febbraio 1992, n. 104, art. 33 "si applicano ai familiari lavoratori, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assistono con continuità e in via esclusiva un parente o un affine entro il terzo grado portatore di handicap, ancorchè non convivente".

2.1. Permesso del 30/08/2009.

In punto di fatto, è pacifico che il B., il 30/08/2009 (giorno in cui aveva ottenuto un permesso per assistere la sorella handicappata), partecipò ad una gara ciclistica (Trofeo Missaglia) con partenza alle ore 8,30, che prevedeva un percorso di 85 Km (pag. 6 sentenza di primo grado).

Il primo giudice assolse l'imputato avendo dato credito alla tesi dell'imputato secondo la quale, terminato il giro ciclistico, egli si era recato in visita dalla sorella per aiutarla nelle incombenze quotidiane: la sorella, esaminata sul punto, non aveva saputo riferire se quel giorno il fratello fosse andato a farle visita (pag. 6-7 sentenza di primo grado).

La Corte territoriale, invece, ha condannato l'imputato adducendo la seguente testuale motivazione: "E' provato ed indiscusso infatti che il B. partecipò al Raduno Ciclistico Trofeo Missaglia durante la giornata del 30 agosto 2009, partendo ad un orario che i testi non hanno saputo indicare, ma da collocarsi certamente nella prima mattinata, quando avrebbe dovuto trovarsi al lavoro. Il Tribunale ha pronunciato assoluzione nel dubbio che quel giorno fosse stato veramente accanto alla sorella, poichè ella non lo ha escluso nel corso della sua deposizione testimoniale. Osserva questa Corte che tale circostanza, se pure fosse provata, non potrebbe scagionare B. da responsabilità. Non ha alcun rilievo infatti che quel giorno, come altri, egli si fosse recato dalla parente, certamente bisognosa di cure. Ciò che è provato è che, nelle ore in cui avrebbe dovuto svolgere attività lavorativa, l'imputato non si trovasse affatto al capezzale della sorella, unica ragione che potesse giustificare non solo la sua assenza dal lavoro, ma anche la percezione della retribuzione, nonostante appunto l'assenza. Aver raggiunto l'ammalata, sempre quel giorno, ma in altro momento, come accadeva anche quando B. lavorava regolarmente e trovava il tempo di farle visita e prendersi cura di lei quando era libero, noti lo esonera da responsabilità".

Il ricorrente, in questa sede, ha addotto la doglianza illustrata al 2.2.1. della presente parte narrativa con la quale, sostanzialmente, non contestando i fatti, si è limitato a confutare l'interpretazione che la Corte ha dato della normativa di cui alla L. n. 104 del 1991.

Pacifici i fatti, la questione consiste, quindi, nello stabilire se, nell'usufruire dei permessi, il lavoratore deve far coincidere l'assistenza alla persona handicappata proprio negli orari lavorativi.

La risposta al suddetto quesito è negativa per le ragioni di seguito indicate.

Il presupposto fattuale che, all'epoca dei fatti, consentiva al lavoratore di usufruire dei permessi, era l'assistenza continuativa ed in via esclusiva del parente handicappato.

Ora, in punto di fatto, non è in discussione che il B. assistesse la sorella in via continuativa ed esclusiva: la stessa Corte territoriale, infatti, nonostante il puntuale motivo di appello con il quale il Pubblico Ministero aveva messo in discussione proprio questo punto, non ha affrontato la suddetta questione, ritenendo, evidentemente, assorbente l'interpretazione in puro diritto che ha dato della normativa.

Di conseguenza, poichè nè il primo giudice, nè il giudice di appello, hanno mai messo in discussione il suddetto dato fattuale, deve darsi per pacifico che il B. assisteva la sorella in via continuativa ed esclusiva.

Se cosi è, allora l'interpretazione che la Corte ha dato dell'art. 33 della legge cit. deve ritenersi infondata.

La suddetta legge, infatti, è tutta parametrata sugli interessi della persona handicappata e su una serie di benefici a favore delle persone che ad essa si dedicano.

In tale ottica, i suddetti permessi lavorativi, sono soggetti ad una duplice lettura: a) vengono concessi per consentire al lavoratore di prestare la propria assistenza con ancora maggiore "continuità"; b) vengono concessi per consentire al lavoratore, che con abnegazione dedica tutto il suo tempo al famigliare handicappato, di ritagliarsi un breve spazio di tempo per provvedere ai propri bisogni ed esigenze personali.

Qualunque sia la lettura che si voglia dare della suddetta normativa (e, comunque, l'una non esclude l'altra), quello che è certo è che, da nessuna parte della legge, si evince che, nei casi di permesso, l'attività di assistenza dev'essere prestata proprio nelle ore in cui il lavoratore avrebbe dovuto svolgere la propria attività lavorativa.

Anzi, tale interpretazione si deve escludere laddove si tenga presente che, per la legge, l'unico presupposto per la concessione dei permessi è che il lavoratore assista il famigliare handicappato "con continuità e in via esclusiva": ma, è del tutto evidente che tale locuzione non implica un'assistenza continuativa di 24 ore, per la semplice ed assorbente ragione che, durante le ore lavorative, il lavoratore non può contemporaneamente assistere il parente.

E' evidente, quindi, che la locuzione va interpretata cum grano salis, nel senso che è sufficiente che sia prestata con modalità costanti e con quella flessibilità dovuta anche alle esigenze del lavoratore.

Di conseguenza, se è considerata assistenza continua quella che il lavoratore presta nei giorni in cui lavora (e, quindi, l'assistenza che presta dopo l'orario di lavoro, al netto, pertanto, delle ore in cui, lavorando, non assiste il parente handicappato), ne consegue che non vi è ragione per cui tale nozione debba mutare nei giorni in cui il lavoratore usufruisce dei permessi: infatti, anche in quei giorni egli è libero di graduare l'assistenza al parente secondo orari e modalità flessibili che tengano conto, in primis, delle esigenze dell'handicappato; il che significa che nei giorni di permesso, l'assistenza, sia pure continua, non necessariamente deve coincidere con l'orario lavorativo, proprio perchè tale modo di interpretare la legge andrebbe contro gli stessi interessi dell'handicappato (come ad es. nelle ipotesi in cui l'handicappato, abbia bisogno di minore assistenza nelle ore in cui il lavoratore presta la propria attività lavorativa).

In conclusione, sul punto, la sentenza della Corte territoriale va annullata senza rinvio.

2.2. Permesso del 28/11/2009.

In punto di fatto, risulta che, a seguito delle indagini di Polizia Giudiziaria, fu acquisita l'attestazione redatta da Ca.

A., responsabile Area Risorse Fondazione don Carlo Gnocchi Onlus, dalla quale risultava che la sorella del B. era stata ricoverata presso il centro S. Maria alla Pineta, dal 31/10/2009 al 28/11/2009 (cfr pag. 7 sentenza di primo grado).

Era stata, però, anche acquisita la relazione di dimissione del fisiatra, dott. C., che recava la data del 27/11/2009.

Il primo giudice assolse il B. dalla suddetta imputazione perchè ritenne che non si fosse raggiunta la prova che il 28/11/2009 la sorella fosse ancora ricoverata presso la suddetta struttura "essendo i documenti contrastanti sul punto ed essendo il ricorso di B.R. nel senso di essere uscita dalla struttura il giorno precedente".

A diversa conclusione, invece, è pervenuta la Corte Territoriale sostenendo che "certamente il 28 novembre la sorella era ancora ricoverata, nè il B. ha dimostrato di essersi presa cura di lei proprio quando venne dimessa, per esempio accompagnandola a casa o attendendola nell'abitazione per prestarle l'assistenza necessaria", evidentemente dando maggior credito all'attestazione redatta dal Ca. e non a quella del C. che attestava solo che la B. non aveva più bisogno di essere ricoverata, attestazione che ben poteva essere stata redatta il giorno prima.

Ora, anche a volere ritenere che la sorella dell'imputata fosse stata dimessa il 28/11/, tuttavia da quel giorno la B. aveva bisogno dell'assistenza, in quanto, presumibilmente, fu dimessa fin dal mattino una volta espletate tutte le pratiche burocratiche. Ed infatti, la stessa Corte prende in considerazione tale ipotesi, ma ricade nel vizio interpretativo secondo il quale chi usufruisce del permesso deve stare a disposizione della persona handicappata 24 ore.

Quindi, anche per tale episodio si può giungere all'assoluzione (con conseguente annullamento della sentenza impugnata senza rinvio) ritenendo che, essendo stata dimessa il 28/11, anche quel giorno la B. aveva diritto all'assistenza e, quindi, giustificato era il permesso sulla base delle considerazioni di cui si è detto.

2.3. Permesso del 22/11/2009 In punto di fatto, è pacifico che la sorella del B. venne ricoverata, presso il Centro S. Maria alla Pineta a tempo pieno, dal 31/10/2009 al 28/11/2009.

Il primo giudice, pur ritenendo che l'imputato non avesse diritto alla concessione del permesso perchè la sorella si trovava ricoverata a tempo pieno, lo assolse sotto il profilo della mancanza di dolo ("perchè il fatto non costituisce reato") avendo "agito con disattenzione e non con il deliberato intento di trarre in inganno la Provincia di Massa Carrara, nella persona del Dirigente Settore Personale, perchè convinto che, pur nel regime di degenza presso la struttura, la sorella avesse bisogno di sostegno psicologico e di assistenza non potendo muoversi autonomamente" (pag. 9 sentenza di primo grado).

A diversa conclusione è pervenuta la Corte territoriale secondo la quale, invece, poichè "l'ammalata era affidata alle cure della struttura" il B., per legge, "non avrebbe potuto ottenere il permesso retribuito, condizione che gli era nota da quando gli fu accordato il trattamento previsto dalla L. n. 104 del 1992 e che non poteva ignorare, perchè precetto integrante la norma penale.

Avanzando domanda al datore di lavoro, B. attestò la ricorrenza dei presupposti del permesso retribuito, che in realtà non sussistevano".

2.4. Prolungamento del periodo di inabilità al lavoro (capi sub B- C) In punto di fatto è pacifico che il B.:

- a seguito di un infortunio, venne sottoposto il 16/04/2009 ad un intervento chirurgico di meniscectomia mediale selettiva con prognosi di trenta giorni (pag. 11 sentenza di primo grado);

- nei giorni dal 13 al 17/05/2009, partecipò, come ciclista, al cd.

"Giro della Toscana" che prevedeva un percorso di 645 Km;

- il 28/05/2009 si sottopose ad una visita medico-fiscale ed il dr. G., medico dell'Inail, prolungò il periodo di inabilità fino al 30/06/2009.

Secondo la tesi accusatoria recepita dalla Corte di Appello, l'imputato riuscì ad ottenere il prolungamento del periodo di inabilità perchè, con artifizio ed inganno consistiti nel tacere al dr. G. che aveva pochi giorni prima aveva partecipato al Giro della Toscana, e lamentando falsamente ancora dolorabilità al ginocchio operato, lo indusse a concedergli il prolungamento del periodo di inabilità sino al 3/6/09.

Il primo giudice, assolse l'imputato:

a) perchè si dedicò all'attività ciclistica proprio su consiglio del medico ortopedico (dott. M.) e del fisiatra (dott. Bo.) ai quali si era rivolto dopo l'intervento chirurgico;

b) perchè "l'esercizio fisico, quale è risultato corrispondere al "Giro della Toscana", appare compatibile con l'obiettivo del recupero dopo l'intervento chirurgico di meniscectomia mediale selettiva;

pertanto, la partecipazione all'itinerario ciclistico non è in contrasto con le sue reali condizioni di salute del maggio 2009" (pag. 14 sentenza di primo grado).

La Corte di Appello ha riformato la sentenza rilevando che:

a) "La tesi difensiva, secondo cui il Giro della Toscana non era una gara, ma un raduno a scopo meramente turistico, e che l'imputato avrebbe evitato i percorsi impegnativi, non è suffragata da prove";

b) "Se l'imputato prese parte al Giro della Toscana, egli era dunque in grado di affrontare percorsi piuttosto impegnativi, tanto per la durata quanto per la difficoltà, che presupponevano l'avvenuta guarigione. Ma B." la tacque al dott. G., prospettandogli falsamente persistente dolorabilità, allo scopo di ottenere il prolungamento della malattia, mentre era in condizione di riprendere il servizio, proprio perchè una decina di giorni prima aveva partecipato ad intensa attività ciclistica durata alcune ore e per alcune giornate. Prova ne è che al medico non parlò affatto della partecipazione al Giro della Toscana, poichè altrimenti non gli avrebbe creduto. Servendosi dell'ignaro medico dell'INAIL, l'imputato ottenne una falsa certificazione sulle sue condizioni di salute, espediente per continuare a percepire, senza averne titolo, l'indennità temporanea corrisposta dall'Ente previdenziale".

La difesa ha censurata la suddetta motivazione adducendo le doglianze illustrate ai pp. 2.3. ss..

3. Le doglianze, relative ai precedenti pp. 2.3. (permesso del 22/11/2009) e 2.4. (prolungamento del periodo di inabilità al lavoro) possono essere trattati congiuntamente, perchè la sentenza impugnata va annullata senza rinvio per le stesse ragioni ed esattamente per violazione dell'art. 6 CEDU e per violazione del principio della motivazione rafforzata.

Come risulta dalla descrizione della vicenda processuale i giudici di merito, in ordine ai suddetti fatti, sono giunti a soluzioni diametralmente opposte.

Ora, com'è ben noto, in tema di motivazione della sentenza, il giudice di appello sia che riformi la decisione di condanna di primo grado, (Cass. 7630/2004 Rv. 231136; Cass 46742/2013 Rv. 257332; Cass. 1253/2013 Rv. 258005; Cass. 50643/2014 Rv. 261327) sia che riformi una decisione assolutoria (Cass. 35762/2008 Rv. 241169; Cass. 42033/2008 Rv. 242330; Cass. 22120/2009 Rv. 243946), ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (SSUU 33748/2005 Rv. 231679).

Si è, infatti, osservato che, in tali fattispecie, la motivazione della sentenza di appello si caratterizza per un obbligo peculiare e "rafforzato" di tenuta logico-argomentativa, che si aggiunge a quello generale della non apparenza, non manifesta illogicità e non contraddittorietà (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dovendo il giudice di appello non solo indicare l'iter logico argomentativo posto a sostegno del proprio alternativo ragionamento probatorio, ma anche di confutare specificamente i più rilevanti argomenti contenuti nella motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, non potendosi limitarsi ad imporre la propria valutazione del compendio probatorio perchè ritenuta preferibile a quella del primo giudice: da ultimo, per un'ampia ricostruzione della problematica Cass. 41736/2015 Rv.

264682.

Orbene, applicando i suddetti notori e pacifici principi ai fatti per cui è processo, è del tutto evidente che la Corte territoriale è incorsa nel suddetto vizio in quanto, a fronte dell'ampia ed articolata motivazione con la quale il primo giudice aveva ritenuto di assolvere il B. dalle suddette imputazioni, si è limitata ad offrire una propria alternativa ricostruzione dei fatti, senza avere cura di prendere in esame la motivazione del primo giudice, spiegare le ragioni per cui questi aveva errato ed eventualmente, riaprire l'istruttoria dibattimentale sui punti di fatto controversi (ad es. sul giorno in cui la sorella dell'imputato era stata dimessa;

sulla natura della Casa di Cura e cioè se prestava assistenza continuativa; sulla natura del Giro ciclistico e sulle modalità con le quali si era svolto e, quindi, se consentiva al B., anche se operato di meniscectomia, di parteciparvi: la Corte, sul punto, sostiene che non vi è prova che l'imputato aveva evitato percorsi impegnativi; ma non è chiaro sulla base di quale riscontro processuale abbia effettuato tale affermazione laddove si tenga presente che il primo giudice ha affermato il contrario avendo tratto tale conclusione da un preciso dato processuale e cioè che il B., in una tappa impegnativa, fu visto a bordo di un'auto: il che rende plausibile l'affermazione difensiva secondo la quale non si trattava affatto di una gara ma di un semplice raduno ciclistico amatoriale dove non vi erano regole rigorose sulla modalità di partecipazione; se e in che termini quell'attività fisica fosse stata consigliata al B. da specialisti proprio al fine della riabilitazione: sul punto, la sentenza motiva sulla base di precisi riscontri processuali - testimonianze - completamente omesse dalla Corte la quale, peraltro, ha valutato la testimonianza del dott. G., in senso accusatorio differentemente da quanto fatto dal primo giudice, senza avvertire la necessità di sentirlo nuovamente).

Questa essendo la situazione processuale, ritiene questa Corte che la sentenza, anche sugli ultimi due episodi (permesso del 22/11/2009 e prolungamento del periodo di inabilità al lavoro), debba essere annullata senza rinvio ai sensi dell'art. 620 c.p.p., lett. f), in quanto i fatti, così come risultano ricostruiti nella sentenza di primo grado, sono tali che non consentono l'alternativa e diversa ricostruzione dei medesimi nei termini prospettati dalla Corte territoriale in modo assertivo e senza alcun riscontro probatorio.

P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè i fatti non sussistono.

Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2016