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Aggravanti contestate strumentalmente, abuso del processo? (Cass. 27181/24)

10 luglio 2024, Cassazione penale

In un processo di parti non può escludersi che, in linea ipotetica, anche il P.M. possa dare corso ad un abuso del processo. 

Non è consentito al P.M. di contestare una circostanza aggravante al solo fine di superare la preclusione alla revoca della sentenza di non luogo a procedere derivante dalla avvenuta estinzione del reato. 

Non si tratta di mettere in discussione il diritto-dovere del P.M. di modificare l'imputazione secondo la previsione dell'art. 517 cod. proc. pen., né, a maggior "ragione, le prerogative, di rilievo costituzionale, dell'Organo di Accusa, il cui esercizio pacificamente non necessita di previa autorizzazione del giudice, ma di verificare se nel caso di specie si sia inteso o meno esercitare il diritto-dovere di contestazione per gli scopi suoi propri.

Si deve, cioè, valutare se debba essere preclusa non già l'ordinaria espressione del potere-dovere del P.M. di conformare l'imputazione alle emergenze processuali ma il ricorso all'esercizio di esso per finalità ultronee. Ove tale sviamento venga registrato, esso deve restare privo di effetto, in modo che non si traduca in un pregiudizio per l'interesse o il diritto di altra Parte processuale. Potrebbe parlarsi, al riguardo, in consonanza a talune proposte della dottrina, di sanzione innominata; di certo, la prospettiva ridimensiona l'importanza del profilo concernente la regola della sequenza contestazione ex art. 517 - decisione ex art. 129 cod. proc. pen.

Una volta fissato questo caposaldo, è evidente che occorre discernere i casi nei quali le scansioni processuali sono indice dell'abuso processuale da quelli ove mancano chiare tracce di esso. Ne discende, altresì, che si deve rifuggire da ogni tentativo di standardizzazione, perché l'eventuale abuso va colto nella specificità del singolo caso.

Orbene, il diritto di procedere alla contestazione suppletiva in corso di dibattimento è espressione dell'obbligo di azione previsto dall'art. 112 Cost. Esso permette al P.M. di definire l'oggetto dell'azione in termini coincidenti con i fatti penalmente rilevanti e ciò non solo quando intervengano nuove acquisizioni probatorie che facciano emergere circostanze aggravanti prima non configurabili sulla base degli atti di indagine ma anche quando l'originaria contestazione erroneamente non sia del tutto corrispondente ai fatti (ad avviso dell'Accusa) già individuabili. La giurisprudenza di legittimità  insegna che gli artt. 516 e ss. cod. proc. pen., sotto la rubrica "Nuove contestazioni", disciplinano l'esercizio dell'azione penale nel corso del dibattimento, mirando a salvaguardare il principio della necessaria correlazione tra accusa e sentenza. Il Pubblico Ministero interviene sull'imputazione enunciata nell'atto che instaura il giudizio, per adeguarla a quanto emerge dalle prove raccolte, in modo che il dibattimento possa proseguire e la decisione conformarsi alla fattispecie concreta corretta e/o ampliata. Effettuare una nuova contestazione è un potere esclusivo del Pubblico Ministero, inerente all'esercizio dell'azione penale, la cui obbligatorietà è prescritta dall'art. 112 Cost.

Del resto, in linea generale, la formulazione dell'accusa è il vero e proprio perno del processo penale e può essere osservata da due punti di vista da un lato, quello del dovere funzionale del P.M. di contestare all'imputato un'aggravante di cui ritenga sussistere l'esistenza; e, dall'altro, il diritto di difesa dell'imputato, diritto che presuppone la completa conoscenza degli addebiti.

Lo scopo precipuo della contestazione, infatti, sia originaria sia eventualmente risultante da interventi integrativi, è delimitare l'accusa onde consentire al destinatario della stessa di articolare la propria linea difensiva, così attribuendosi concreto contenuto alla solenne previsione di principio di cui all'art. 24 Cost.

In ipotesi di furto di energia elettrica, va escluso che possa ritenersi legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza la circostanza aggravante dall'essere i beni oggetto di sottrazione destinati a pubblico servizio, qualora nell'imputazione tale natura non sia esposta in modo esplicito, direttamente o mediante l'impiego di formule equivalenti ovvero attraverso l'indicazione della relativa norma: la considerazione sulla destinazione delle cose oggetto di furto a pubblico servizio implica necessariamente l'esercizio di un'opzione valutativa che si radica su elementi di fatto, ma che impone una verifica di ordine giuridico sulla natura della res e sulla sua specifica destinazione. 

 

 CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Sez. IV, Sent., (data ud. 21/02/2024) 10/07/2024, n. 27181

Composta da

Dott. DOVERE Salvatore - Presidente

Dott. CENCI Daniele - Relatore

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da

PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE TRIBUNALE DI SIRACUSA nel procedimento a carico di

A.A. nato a B il (Omissis)

avverso la sentenza del 03/04/2023 del TRIBUNALE di SIRACUSA

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELE CENCI;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.ssa FRANCESCA COSTANTINI il Proc. Gen. si riporta alla memoria in atti concludendo per l'annullamento senza rinvio del provvedimento impugnato con trasmissione atti.

udito il Difensore in difesa di A.A. è presente l'Avv. AS del Foro di Roma che conclude per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Siracusa con sentenza del 3 aprile 2023 ha dichiarato non doversi procedere, per difetto di querela, nei confronti di A.A., imputata del reato di cui agli artt. 81, comma 2, 624 e 625, n. 2, cod. pen., per essersi impossessata, con più condotte poste in essere in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, al fine di profitto e con mezzo fraudolento, consistito nel manomettere il contatore installato presso la sua abitazione, di energia elettrica per un valore complessivo di 4.577,00 euro, energia sottratta alla Spa Servizio Elettrico Nazionale ed utilizzata per rifornire la sua dimora, fatto contestato come commesso dal 21 aprile 2016 al 25 maggio 2020.

2. Nella parte motiva della decisione il Tribunale, premesso essere stato aperto il dibattimento ed ammesse le prove già all'udienza del 6 febbraio 2023, dava atto che la società persona offesa non aveva presentato querela entro il termine di tre mesi, a decorrere dal 30 dicembre 2022, data di entrata in vigore del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150.

Il giudice ha dato conto che all'udienza del 3.4.2023 il Pubblico Ministero aveva manifestato la volontà di contestare una nuova circostanza aggravante, cioè quella di cui all'art. 625, n. 7, cod. pen., sul presupposto che l'energia elettrica rientri tra i beni destinati a pubblico servizio, con l'effetto del mutamento del regime di procedibilità, non più esigente la querela ma di ufficio (ai sensi dell'art. 2, lett. i, del D.Lgs. n. 150 del 2022). Tuttavia, il giudice non aveva consentito la contestazione e, sentite le parti, si era ritirato in camera di consiglio ed aveva emesso sentenza di proscioglimento ai sensi degli artt. 129 e 529 cod. proc. pen.

Nell'esplicitare le ragioni della decisione, il Tribunale ha richiamato il principio fissato dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, n. 1094 del 03/11/2021, dep. 2022, Mondino, Rv. 282543), secondo cui l'energia elettrica è bene oggettivamente destinato a pubblico servizio, anche quando sia funzionale ad un'abitazione privata; ha, però, anche ritenuto la tardività dell'iniziativa del P.M., avendo lo stesso provveduto alla contestazione in un momento successivo al perfezionamento della improcedibilità del reato.

Tale giudizio è stato giustificato con il richiamo a più precedenti di legittimità (tra cui, Sez. 5, n. 48205 del 10/09/2019, B, Rv. 278039) in cui si afferma l'obbligo per il decidente di immediata dichiarazione di una causa estintiva del reato e la illegittimità della contestazione di una circostanza aggravante che determini il prolungamento del termine di prescrizione del reato avvenuta in un momento in cui il reato era già pacificamente prescritto, sulla scorta della considerazione per cui la contestazione di un'aggravante non può determinare la "reviviscenza" di un reato ormai estinto, in quanto, una volta maturata la prescrizione, la prosecuzione del processo è incompatibile con l'obbligo della immediata declaratoria della causa estintiva del reato.

Richiamandosi, altresì, al principio secondo cui "Il difetto della condizione di procedibilità (nella specie querela), impedendo la valida costituzione del rapporto processuale, inibisce ogni valutazione del fatto imputato e preclude, quindi, la pronuncia di proscioglimento, secondo la regola della prevalenza, per evidenza della causa di non punibilità nel merito" (Sez. 3, n. 43240 del 06/07/2016, O, Rv. 267937), il Tribunale ha ritenuto lo stesso estensibile anche alla situazione di mancanza sopravvenuta della condizione di procedibilità, precludendo la contestazione suppletiva del P.M., poiché alla data dell'udienza era già maturata l'improcedibilità dell'azione per difetto di querela.

Infine, nell'ultima parte della sentenza il Tribunale ha precisato che la pronunzia della sentenza di non doversi procedere non è idonea a precludere l'esercizio dell'azione penale da parte del P.M. per il medesimo fatto e contro la stessa persona, atteso che, in tale ipotesi, il nuovo esercizio dell'azione penale non determina la violazione del principio del ne bis in idem (come già ritenuto da Sez. 5, n. 4403 del 26/02/1999, Coletta G, Rv. 213108).

3. Ricorre per la cassazione della sentenza testé sintetizzata il Procuratore della Repubblica del Tribunale di Siracusa, affidandosi ad un unico, complessivo, motivo con il quale denunzia violazione di legge, sotto il profilo della inosservanza e della erronea applicazione della stessa.

Il P.M. censura il richiamo operato da parte del decidente ad alcuni precedenti di legittimità, stimati inconferenti, ed assume avere nel caso di specie il Tribunale

- nella sostanza, del tutto illegittimamente - fissato un termine di decadenza alla facoltà del P.M. di procedere alla contestazione ex art. 517 cod. proc. pen., trascurando che nella sistematica del codice di rito la contestazione è potestà riservata all'Organo dell'accusa, unico dominus dell'azione penale, la cui iniziativa, esercitabile sino alla chiusura del dibattimento, persino interrompendo a tal scopo la discussione, non è soggetta ad alcuna delibazione preventiva da parte del giudice.

Il Tribunale, dunque, avrebbe fatto cattivo governo dei principi giuridici in tema di contestazione suppletiva, peraltro estendendo erroneamente al tema della improcedibilità affermazioni giurisprudenziali effettuate a proposito del - diverso - istituto della prescrizione.

Richiamate più sentenze di legittimità stimate pertinenti, il P.M. osserva che il Tribunale avrebbe dovuto ritenere legittima e tempestiva la contestazione avente ad oggetto l'avere commesso il fatto su un bene destinato a pubblico servizio e, quindi, disporre la prosecuzione del dibattimento. Pertanto, chiede l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

4. Con memoria del 25 gennaio 2024, il P.G. della Corte di cassazione ha chiesto l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata con trasmissione degli atti al Tribunale di Siracusa.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato, per le seguenti ragioni.

2. La questione posta con il ricorso richiede di verificare in via preliminare se si verta in ipotesi di contestazione in fatto dell'aggravante dell'essere stato commesso il reato su cose destinate a pubblico servizio, poiché, ove così fosse, il provvedimento impugnato sarebbe per ciò solo da annullare, anche se per un vizio diverso da quello denunciato dal ricorrente. A tal ultimo riguardo, giova rammentare che il consolidato insegnamento del giudice di legittimità è nel senso che la preclusione derivante dall'effetto devolutivo dell'impugnazione (ed in specie del ricorso per cassazione) riguarda esclusivamente i "punti" della sentenza impugnata che, non essendo stati oggetto dei motivi, abbiano acquistato autorità di cosa giudicata; non riguarda, invece, nell'ambito dei motivi proposti, le argomentazioni e le questioni di diritto non svolte o erroneamente prospettate a sostegno del petitum, atteso che il giudice dell'impugnazione ben può - senza esorbitare dalla sfera devolutiva del gravame - accoglierlo in base ad argomentazioni proprie o diverse da quelle dell'impugnante (Sez. 1, n. 2809 del 18/02/1998, Silvestro, Rv. 210039). Risulta, altresì, precisato che non viola il principio di devoluzione il giudice di appello che valuta in termini difformi dal primo giudice l'utilizzabilità di una prova, pur in assenza di una specifica impugnazione al riguardo, atteso che il "punto" della decisione cui si riferisce l'effetto preclusivo previsto dall'art. 591, comma 1, cod. proc. pen., riguarda essenzialmente le statuizioni sostanziali, ma non le valutazioni processuali (Sez. 6, n. 1422 del 03/10/2017, dep. 2018, Gambino, Rv. 271974).

2.1. Come affermato da Sez. 4, n. 5687 del 10/01/2024, Chiola, non mass. (sub n. 5 del "considerato in diritto", p. 4), esattamente con riferimento all'aggravante di cui al n. 7 dell'art. 625 cod. pen., la contestazione in fatto di un'aggravante si distingue dalla riqualificazione giuridica del fatto come contestato in quanto quest'ultima concerne un'ipotesi criminosa difforme da quella contestata, pur se tale da potervi ricondurre il fatto materialmente descritto nell'imputazione, mentre la contestazione in fatto ricorre in presenza di una formulazione dell'imputazione che non sia espressa nell'enunciazione letterale della fattispecie circostanziale o nell'indicazione della specifica norma di legge che la prevede, ma che riporti in maniera sufficientemente chiara e precisa gli elementi di fatto che integrano la fattispecie, consentendo, quindi, all'imputato di averne piena cognizione e di espletare adeguatamente la propria difesa sugli stessi (come affermato, tra le numerose altre, da Sez. 1, n. 51260 del 08/02/2017, Archinito, Rv. 271261, da Sez. 6, n. 4461 del 15/12/2016, dep. 2017, Quaranta, Rv. 269615, e da Sez. 2, n. 14651 del 10/01/2013, Chatbi, Rv. 255793).

In conseguenza, ai fini dell'ammissibilità di una contestazione in fatto occorre avere riguardo al grado di precisione e di determinatezza della imputazione, che deve essere tale da garantire all'imputato una puntuale comprensione dell'accusa che gli è mossa. Sotto tale profilo, l'imputazione può considerarsi certa soltanto se il fatto sia contestato nei suoi elementi strutturali e sostanziali, sì da consentire un completo contraddittorio e il pieno esercizio del diritto di difesa. Tuttavia, occorre aver presente che la valutazione va fatta non considerando il solo capo di imputazione, ma anche l'insieme degli atti che, inseriti nel fascicolo processuale, pongono l'imputato in condizione di conoscere in modo ampio l'addebito (Sez. 5, n. 51248 del 5/11/2014, Cutrera, Rv. 261741). Deve comunque trattarsi di atti intellegibili, non equivoci e conoscibili dall'imputato.

In ogni caso, in ragione della previsione dell'art. 417, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. (secondo cui la richiesta di rinvio a giudizio contiene "l'enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l'applicazione di misure di sicurezza, con l'indicazione dei relativi articoli di legge"), deve escludersi che possa "... esigersi dall'imputato, pur se assistito da una difesa tecnica, l'individuazione dell'esito qualificativo che connota l'ipotesi aggravata in base ad un autonomo compimento del percorso valutativo dell'autorità giudiziaria sulla base dei dati di fatto contestati, trattandosi per l'appunto di una valutazione potenzialmente destinata a condurre a conclusioni diverse" (così Sez. U, n. 24906 del 18/4/2019, Sorge, Rv. 275436, sub n. 6 del "considerato in diritto", p. 11).

In tale ultima decisione si è anche precisato che la contestazione in fatto non pone particolari problemi nel caso di circostanze aggravanti "... le cui fattispecie, secondo la previsione normativa, si esauriscono in comportamenti descritti nella loro materialità, ovvero riferiti a mezzi o oggetti determinati nelle loro caratteristiche oggettive. In questi casi, invero, l'indicazione di tali fatti materiali è idonea a riportare nell'imputazione la fattispecie aggravatrice in tutti i suoi elementi costitutivi, rendendo possibile l'adeguato esercizio dei diritti di difesa dell'imputato. Diversamente avviene con riguardo alle circostanze aggravanti nelle quali, in luogo dei fatti materiali o in aggiunta agli stessi, la previsione normativa include componenti valutative; risultandone di conseguenza che le modalità della condotta integrano l'ipotesi aggravata ove alle stesse siano attribuibili particolari connotazioni qualitative o quantitative" (così sub n. 6 del "considerato in diritto", pp. 10-11).

Sulla scorta di simili premesse questo Collegio condivide l'orientamento per il quale, in ipotesi di furto di energia elettrica, va escluso che possa ritenersi legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza la circostanza aggravante di cui all'art. 625, comma 1, n. 7, cod. pen., configurata dall'essere i beni oggetto di sottrazione destinati a pubblico servizio, qualora nell'imputazione tale natura non sia esposta in modo esplicito, direttamente o mediante l'impiego di formule equivalenti ovvero attraverso l'indicazione della relativa norma (cfr. anche Sez. 5, n. 26511 del 13/4/2021, Sciortino, Rv. 281556; Sez. 4, n. 46859 del 26/10/2023, Licata, Rv. 285465; contra, però, Sez. 4, n. 48529 del 7/11/2023, Marcì, Rv. 285422-02, in cui si è affermato, in tema di furto di energia elettrica, che va ritenuta contestata in fatto la circostanza aggravante di cui all'art. 625, comma 1, n. 7, cod. pen., in quanto l'energia elettrica fornita, su cui ricade la condotta di sottrazione, è un bene funzionalmente destinato a un pubblico servizio).

Nel primo dei precedenti da ultimo citati si è precisato - in termini che qui si condividono - che la considerazione sulla destinazione delle cose oggetto di furto a pubblico servizio implica necessariamente l'esercizio di un'opzione valutativa che si radica su elementi di fatto, ma che impone una verifica di ordine giuridico sulla natura della res e sulla sua specifica destinazione. Con ciò dissentendo dall'opposto orientamento per il quale, con riguardo al bene "energia elettrica", la finalità di pubblico servizio è immanente e ricorre costantemente, indipendentemente dalle modalità concrete di esecuzione della sottrazione, dalla natura pubblica o privata dell'ente erogatore o del fruitore del bene, dall'eventuale danno provocato all'apparecchio destinato alla fornitura e dall'effettivo nocumento arrecato alla somministrazione di energia ad altri utenti.

Peraltro, come si è già ritenuto nella citata sentenza Chiola, la ricorrenza di una contestazione in fatto dell'aggravante richiede di tener conto "di tutti gli indicatori che l'imputazione contiene e di tutti gli elementi del caso specifico, proprio con riferimento ai requisiti essenziali dell'atto che contiene l'accusa, alla valutazione del disvalore del fatto operata in primo luogo dal pubblico ministero e al recepimento che di esso ha fatto il giudice anche ai fini della commisurazione della pena. Solo in tal modo è possibile un giudizio che salvaguardi effettivamente l'esercizio dei diritti di difesa dell'imputato..." (così sub n. 8 del "considerato in diritto", p. 9). In tale prospettiva, assumono rilievo tutti gli elementi dai quali emerga la volontà della Pubblica Accusa di non contestare un dato elemento circostanziale e quella del giudice di non ritenerlo contestato in fatto.

2.2. Dunque, la prima domanda cui occorre fornire risposta è se nel caso in esame sia presente o meno una contestazione in fatto, nell'accezione, di cui sì è detto, di imputazione che riporti in maniera sufficientemente chiara e precisa gli elementi di fatto che integrano la fattispecie, consentendo all'imputato di averne piena cognizione e di espletare adeguatamente la propria difesa sugli stessi.

Si addebita a A.A. "il delitto di cui agli artt. 81, comma 2, 624 e 625, n. 2) c.p. perché, con più condotte in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, al fine di profitto e con mezzo fraudolento consistito nel manomettere i tre tenoni posteriori del contatore installato presso la sua abitazione, si impossessava di energia elettrica per un valore complessivo di 4.577,00 Euro che sottraeva al Servizio Elettrico Nazionale Spa e che utilizzava per rifornire la sua dimora... con l'aggravante dell'avere commesso il fatto con mezzo fraudolento; fatto accertato in A, con condotte reiterate dal 21 aprile 2016 al 25 maggio 2020". Dunque, oggetto dell'impossessamento nel caso di specie è "energia elettrica... che sottraeva al Servizio Elettrico Nazionale Spa". In ciò starebbe -in tesi di Accusa - la contestazione dell'essere il fatto commesso su cose destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità (art. 625, n. 7, cod. pen.).

La circostanza aggravante in parola ha natura valutativa, poiché impone una verifica di ordine giuridico sulla natura della res, sulla sua specifica destinazione e sul concetto di pubblico servizio, la cui nozione è variabile in quanto condizionata dalle mutevoli scelte del legislatore (Sez. 5, n. 3741 del 22/01/2024, Mascali, Rv. 285878, alla quale si rinvia anche per le ulteriori argomentazioni pertinenti al tema in trattazione). Invero, occorre avere piena consapevolezza che, in un mondo che cambia assai rapidamente, non sempre e non necessariamente il bene immateriale dell'energia elettrica è cosa ontologicamente (e, potrebbe dirsi immutabilmente) destinata a pubblico servizio o a pubblica utilità come è stato del resto già osservato nella citata sentenza Mascali (sub n. 5.5.1 del "considerato in diritto", p. 11), nel tempo presente è ben possibile che un privato produca direttamente energia elettrica per l'autoconsumo o per il conferimento ad altri soggetti.

È certamente vero che, nella maggioranza dei casi proposti dalla prassi, la sottrazione di energia elettrica è commessa su cose destinate ad un servizio pubblico in senso oggettivo ma ciò - si ripete - oggi non può ritenersi evenienza ineluttabile. Ne discende che, proprio per effetto dei rapidi cambiamenti tecnologici, di cui non può non tenersi conto, è necessario che sia chiaro sin dal momento cruciale della formulazione della contestazione se l'oggetto dell'appropriazione che si ipotizza sia o meno bene destinato a pubblico servizio, con valutazione da farsi necessariamente "caso per caso".

2.3. Alla stregua di quanto si è sin qui esposto va escluso che ricorra nel caso di specie l'ipotesi di contestazione in fatto. Si è in presenza di un'aggravante valutativa, in alcun modo resa riconoscibile dall'indicazione del Servizio elettrico Nazionale quale soggetto al quale il bene sarebbe stato sottratto.

D'altronde, in tal senso depone anche il comportamento processuale dello stesso P.M. che, proprio sul presupposto di non aver incluso nella descrizione del fatto contestato anche gli elementi connotativi dell'aggravante di cui all'art. 625 n. 7 cod. pen., si è determinato ad effettuarne la contestazione suppletiva.

3. Escluso che la questione posta dal ricorrente possa essere risolta alla radice, privandola di rilievo in ragione della riconoscibilità nel caso di specie di una contestazione in fatto dell'aggravante che qui occupa, si può passare all'esame dell'unitario motivo di ricorso, che verte in definitiva sul rapporto corrente tra gli artt. 129 e 517 cod. proc. pen.

Le numerose decisioni che si sono succedute al riguardo hanno delineato almeno due orientamenti contrastanti.

Un primo valorizza l'art. 517 cod. proc. pen., osservando che esso non sottopone ad alcun tipo di limite il potere-dovere del Pubblico Ministero di operare la modifica dell'imputazione, se non quella che vi sia un'istruzione dibattimentale in atto, e quindi che già non si verta in fase di discussione finale (ex multis, Sez. F, n. 43255 del 22/08/2023, Di Lanno, Rv. 285216); anzi, a fronte dell'esercizio del potere di contestazione, il giudice deve provvedere in ordine al nuovo capo di imputazione, stabilendo se sussiste o meno la responsabilità penale dell'imputato, ovvero dichiarando la propria incompetenza perché il fatto appartiene a quella di un giudice superiore (Sez. 4, n. 50258 del 22/11/2023, Gentile, Rv. 285471).

Un secondo indirizzo fa perno invece sull'art. 129 cod. proc. pen., richiamando il principio (espresso da Sez. U, n. 49783 del 24/09/2009, Martinenghi, Rv. 245163, e da Sez. 2, n. 45160 del 22/10/2015, Gioia, Rv. 265098) secondo il quale l'accertato difetto - originario o sopravvenuto - di una condizione di procedibilità preclude lo svolgimento di qualsiasi attività processuale delle Parti e di qualsiasi ulteriore accertamento in punto di fatto, comportando quindi l'obbligo in capo al giudice di dichiarare l'immediata improcedibilità dell'azione penale (ex multis, Sez. 4, n. 44157 del 03/10/2023, Rampone, Rv. 285647, massima ufficiale "In tema di reati divenuti procedibili a querela per effetto della modifica introdotta dal D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, ove sia decorso il termine previsto dall'art. 85 D.Lgs. citato senza che sia stata proposta la querela, il giudice è tenuto, ex art. 129 cod. proc. pen., a pronunciare sentenza di improcedibilità, non essendo consentito al pubblico ministero la modifica dell'imputazione ex art. 517 cod. proc. pen. mediante contestazione di un'aggravante che renda il reato procedibile d'ufficio. (Fattispecie relativa a furto di energia elettrica, in cui la Corte ha ritenuto immune da censure la decisione di improcedibilità, sul rilievo che il contestato furto con violenza sulle cose fosse divenuto procedibile a querela)").

Tuttavia, si tratta di argomentazioni - e, più in generale, di prospettive -adottate prima che sopraggiungesse Sez. U, n. 49935 del 28/09/2023, Domingo, Rv. 285517, il cui insegnamento appare a questa Corte decisivo per districare i nodi interpretativi dei quali ci si sta occupando.

Prima di farne menzione è, però, necessario rammentare la pronunzia di Sez. U, n. 12283 del 25/01/2005, De Rosa, Rv. 230531, che, ancorché con precipuo riferimento al quesito in merito al potere del giudice per le indagini preliminari, investito della richiesta del P.M. di rinvio a giudizio, di pronunciare immediatamente, in presenza di una causa di non punibilità, ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., sentenza di non luogo a procedere senza fissare l'udienza preliminare, ha formulato alcune asserzioni di indubbio rilievo per la questione che qui occupa a) l'art. 129 cod. proc. pen. non attribuisce al giudice un potere di giudizio ulteriore, inteso quale occasione - per così dire - "atipica" di decidere la res iudicanda, rispetto a quello che gli deriva dalle specifiche norme che disciplinano i diversi segmenti processuali (art. 425 per l'udienza preliminare; art. 469 per la fase preliminare al dibattimento; artt. 529, 530 e 531 per il dibattimento); b) la "regola di condotta" posta dalla disposizione in questione deve essere modellata e adeguata, di volta in volta, ai caratteri e alle peculiarità delle fasi processuali in cui essa è chiamata ad operare e non può legittimarsene l'applicazione tout court, svincolata dalle forme e dai principi che presidiano il processo e in spregio alla fondamentale garanzia del contraddittorio; c) l'espressione "immediata declaratoria", presente nella rubrica della disposizione, non indica "tempestività temporale" assoluta, ma evidenzia la precedenza che tale declaratoria deve avere, ove ne ricorrano le condizioni, su altri eventuali provvedimenti decisionali adottabili dal giudice; d) l'immediatezza non deve penalizzare il principio del contraddittorio, apprezzato come esigenza preminente sul piano dei valori da tutelare e inteso non solo come metodo di formazione della prova, ma anche come diritto delle Parti all'ascolto. Tra i diritti delle Parti, le Sezioni Unite citano esplicitamente "l'esclusiva potestà del P.M. di modificare l'imputazione" (così, testualmente, nei "motivi della decisione", p. 11).

L'insegnamento impartito da S.U. De Rosa appare, quindi, chiaro l'art. 129 cod. proc. pen. non può essere applicato in guisa da pregiudicare il diritto-dovere del P.M. di modificare la contestazione, derivando da esso 'soltanto' l'indicazione di come si articolano tra loro i poteri del giudice, nel processo, in presenza di una causa di non punibilità.

3.1. Tuttavia, la richiamata sentenza Domingo ha operato una revisione di tale insegnamento.

La questione posta alle S.U. ha riguardato i rapporti tra il potere-dovere del P.M. di modificare l'imputazione secondo la previsione dell'art. 517 cod. pen. e la regola che prevede l'obbligo di immediata declaratoria, d'ufficio, della causa estintiva che sia già maturata rispetto all'imputazione non modificata. Nel caso di specie, al momento della contestazione suppletiva della recidiva qualificata da parte del Pubblico Ministero, formulata ai sensi dell'art. 517 cod. proc. pen., era già maturato il termine massimo di prescrizione per il reato come originariamente contestato, senza la recidiva. Secondo la sentenza Domingo, laddove si sia già in presenza di una causa di non punibilità che il giudice del dibattimento avrebbe dovuto riconoscere e dichiarare, ai sensi dell'art. 129, comma 1, cod. proc. pen., essendogli preclusa ogni ulteriore attività, non è consentito al P.M. di operare la contestazione suppletiva della recidiva. Anche per S.U. Domingo ciò non significa che esista uno sbarramento insuperabile allo svolgersi dell'attività processuale in contraddittorio, posto che "in situazioni non agevolmente risolvibili il giudice potrà anche sollecitare un preventivo contraddittorio specifico sul punto" (così sub n. 9 del "considerato in diritto", p. 20), ma l'errore del giudice che ha omesso la pronuncia liberatoria non può tradursi nel pregiudizio all'imputato. Le S.U. hanno osservato che "L'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva del reato, previsto dall'art. 129 cod. proc. pen., se correttamente e tempestivamente adempiuto dal giudice, preclude al pubblico ministero la possibilità stessa di procedere alla contestazione suppletiva, mancando lo stesso segmento processuale nel quale esercitare la facoltà" e che, ove ciò non sia avvenuto, non può, comunque, ""rivivere", a seguito della contestazione suppletiva della recidiva qualificata, un reato per il quale era già spirato il termine massimo di prescrizione, causa di estinzione che il giudicante avrebbe dovuto riconoscere e che, "ora per allora", va riconosciuta e dichiarata" (così sub n. 9 del "considerato in diritto", p. 20).

Sulla scorta di tali premesse le S.U. hanno ritenuto che la contestazione della recidiva avvenuta nel corso (avanzato) del giudizio di primo grado, quando era già decorso il termine massimo di prescrizione, fosse preclusa.

3.2. Orbene, ove si ritenga che il principio posto dalle Sezioni Unite Domingo valga per tutte le cause di non punibilità menzionate dall'art. 129 cod. proc. pen. e per ogni ipotesi di circostanza aggravante oggetto di contestazione suppletiva

ex art. 517 cod. proc. pen. la soluzione al quesito interpretativo che si sta esaminando ne dovrebbe risultare influenzata.

In effetti, non sembra a questa Corte che nell'impianto argomentativo del S.C. assuma un particolare ruolo il fatto che oggetto di contestazione avrebbe dovuto essere la recidiva (se non per lo scopo ulteriore avuto di mira dal P.M., di cui si scriverà più avanti). Tra le tracce di ciò, vi è anche la ritenuta superfluità della questione concernente la natura, dichiarativa o costitutiva, della contestazione della recidiva. In astratto, poiché tale aggravante si distingue da ogni altra per il fatto di non essere riconosciuto all'imputato cui venga contestata ai sensi dell'art. 517 cod. proc. pen. un termine a difesa, si potrebbe ipotizzare che tanto abbia avuto un peso nella soluzione dello specifico caso. Ma si tratterebbe, ad avviso del Collegio, di un'illazione non confortata dalla complessiva lettura della sentenza Domingo. E, soprattutto, l'evocazione della peculiarità chiama in causa il diritto di difesa. Detto altrimenti, si potrebbe ipotizzare che il principio valga per il caso di contestazione della recidiva e non di altra aggravante perché solo nel primo caso la difesa risulterebbe compromessa, stante la mancata previsione di un termine per approntare, appunto, la difesa. Senonché, innanzitutto non pochi dubbi potrebbero nutrirsi nei confronti della ragionevolezza della previsione dell'art. 519 cod. proc. pen., ancorché un indirizzo tradizionale ritenga non sospetta di incostituzionalità la peculiare disciplina, in quanto essa "trova la sua ragion d'essere obiettiva nel fatto che i precedenti penali non rappresentano fatti nuovi, essendo ovviamente noti all'imputato", sicché - si conclude - la contestazione di essi non suscita l'esigenza di una speciale attività difensiva che necessiti di un termine ulteriore (cfr. Sez. 3, n. 14269 del 10/11/1999, Rosato, Rv. 214913, mass. uff. e motivazione, sub n. 5). L'argomentazione non sembra tener conto che è ormai diritto vivente l'insufficienza del solo dato formale, dovendo essere accertato che il delitto da ultimo commesso esprime effettivamente una maggiore pericolosità sociale del reo e una più accentuata colpevolezza per il fatto (ex multis, Sez. U, n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Schettino, Rv. 275319, spec. sub n. 7.2 del "considerato in diritto", pp. 17-18).

Ma appare decisivo, ai fini che qui occupano, il fatto che il diritto di difesa non è menzionato dalla sentenza Domingo come valore la cui tutela impone la soluzione adottata.

Il perno del ragionamento operato dal S.C. sembra a questa Corte sia l'affermazione della necessità di porre l'imputato al riparo dal "pregiudizio" che gli sarebbe stato evitato qualora il giudice avesse correttamente assolto al proprio dovere di dichiarare una delle cause di non punibilità di cui all'art. 129 cod. proc. pen. "La omessa pronuncia della doverosa sentenza liberatoria da parte del

giudice non può creare un pregiudizio all'imputato che di detta decisione avrebbe dovuto beneficiare..." (così sub n. 9 del "considerato in diritto", p. 20).

Prima di soffermarsi su questo punto, occorre tuttavia farsi carico del possibile opinamento per il quale, poiché nel caso specifico la decisione che si sarebbe dovuta adottare senza ritardo era quella che dichiarava l'estinzione del reato, come originariamente contestato, per l'avvenuto decorso dei termini di prescrizione, è esattamente e unicamente tale particolare causa di non punibilità a determinare il pregiudizio per evitare il quale le Sezioni Unite hanno formulato il principio.

Anche rispetto a tale ipotesi non sono rintracciabili conferme nell'impianto della sentenza Domingo. Né una diversità di disciplina sembra imposta dal fatto che, in un caso, si tratta di causa di estinzione del reato e, nell'altro, di una condizione di procedibilità. Entrambe sono considerate dall'art. 129, comma 1, cod. proc. pen., in termini di totale equiparazione. Non così, invece, il comma 2 di tale disposizione, che non menziona le cause di improcedibilità. Ma ciò - lungi dal far ritenere che soltanto in presenza di una causa di estinzione del reato il giudice debba accordare precedenza alla innocenza di cui risulti l'evidenza, risultando l'improcedibilità ipotesi di 'rango inferiorÈ o, per lo meno, di altra fattura - è spiegato con il fatto che "Il difetto della condizione di procedibilità (nella specie querela), impedendo la valida costituzione del rapporto processuale, inibisce ogni valutazione del fatto imputato e preclude, quindi, la pronuncia di proscioglimento, secondo la regola della prevalenza, per evidenza della causa di non punibilità nel merito" (Sez. 3, n. 43240 del 06/07/2016, O., Rv. 267937).

Insomma, non sono rinvenibili plausibili motivi per ritenere che il principio posto dalla sentenza Domingo non debba valere anche per la improcedibilità del reato.

3.3. Non è solo l'ossequio che si deve alla pronuncia del massimo organo di nomofilachia - che, peraltro, si condivide - a condurre verso la soluzione di una inefficacia (ma sul profilo occorrerà tornare) di una contestazione suppletiva che voglia intervenire (o intervenga) quando l'improcedibilità dell'azione è ormai dato definitivo.

Tutte le decisioni che si sono sin qui prodotte sul tema che occupa si sono interrogate intorno alla ammissibilità della contestazione suppletiva, valutata alla stregua delle implicazioni del principio di obbligatorietà dell'azione penale (tesi favorevole), della 'forza preclusiva' dell'art. 129 cod. proc. pen. (tesi opposta) e, intervenuta la sentenza Domingo, della 'pari dignità' della causa di improcedibilità ai fini della immediata declaratoria di cui all'art. 129, comma 1, cod. proc. pen. (sentenza Mascali).

Ebbene, alla luce di quanto appena sostenuto, è evidente che qui si condivide l'avviso della sentenza Mascali (la sola, alla data odierna, ad argomentare tenendo conto del recente arresto del S.C.); ma si ritiene anche che occorra mettere ulteriormente a fuoco il nucleo della questione.

3.4. Ad avviso del Collegio, pare utile considerare che l'effetto del principio formulato dalla sentenza Domingo è stato quello di porre l'imputato al riparo dall'esercizio da parte del P.M. di un diritto che le norme processuali riconoscono alla Pubblica Accusa. Un'evenienza non ordinaria, poiché, di regola, l'esercizio del diritto è ammesso anche se da esso possono derivare effetti pregiudizievoli per coloro che vengono coinvolti dall'esplicazione del diritto.

Tuttavia, un'evenienza non ignota agli ordinamenti giuridici, che la ammettono quando il diritto viene esercitato con modalità e per finalità che travalicano le ragioni per le quali viene riconosciuto.

Le diverse manifestazioni vengono ricondotte al concetto di abuso del diritto, che, nel peculiare contesto del processo penale, si propone come abuso del processo. La giurisprudenza di legittimità, nella sua massima espressione, ne ha fornito una definizione "L'abuso del processo consiste in un vizio, per sviamento, della funzione, ovvero in una frode alla funzione, e si realizza allorché un diritto o una facoltà processuali sono esercitati per scopi diversi da quelli per i quali l'ordinamento processuale astrattamente li riconosce all'imputato, il quale non può in tale caso invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà effettivamente perseguiti" (Sez. U, n. 155 del 29/09/2011, dep. 2012, Rossi, Rv. 251496). In applicazione di tale principio, la S.C., escluso che nel caso di specie si fosse determinata una qualche violazione del diritto alla Difesa, ha ravvisato, per contro, un concreto pregiudizio dell'interesse obiettivo dell'ordinamento, e di ciascuna delle Parti, alla celebrazione di un giudizio equo in tempi ragionevoli, atteso che lo svolgimento e la definizione del processo di primo grado erano stati ostacolati da un numero esagerato di iniziative difensive -attraverso il reiterato avvicendamento di difensori in chiusura del dibattimento, la proposizione di eccezioni di nullità manifestamente infondate e di istanze di ricusazione inammissibili - con il solo obiettivo di ottenere una reiterazione tendenzialmente infinita delle attività processuali.

Più di recente si è scritto che "L'abuso del processo consiste in un vizio per sviamento della funzione ovvero in una frode della funzione e si realizza allorché un diritto o una facoltà processuali vengono esercitati per scopi diversi da quelli per i quali l'ordinamento processuale astrattamente li riconosce, con la conseguenza che la parte che ha perpetrato tale abuso non può invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà effettivamente perseguiti" (Sez. 5, n. 20891 del 17/03/2021, Maier Rian, Rv. 281311-02, ancora in relazione ad un comportamento ritenuto "abusivo", nell'accezione di cui si è detto, degli indagati, i quali avevano strumentalmente eccepito, solo in sede di legittimità, la nullità dell'avviso di fissazione dell'udienza di riesame per violazione delle norme procedimentali, alla cui verificazione gli stessi avevano dolosamente dato causa).

In un processo di Parti non può escludersi che, in linea ipotetica, anche il P.M. possa dare corso ad un abuso del processo. Già con riferimento ad un modello processuale ben lontano da quello accusatorio, eccellente dottrina insegnava che la lealtà processuale si pone fra i principi fondamentali del processo penale e che il dovere di lealtà in capo al Pubblico Ministero "si prospetta in tanti aspetti, in particolare 1) come obbligo di tempestivo promovimento dell'azione penale...; 2) come dovere di adeguare l'imputazione alla realtà di fatto risultante dal processo senza ricorrere a quel fenomeno - non del tutto raro - di gonfiare l'imputazione nella configurazione giuridica... o nella introduzione di circostanze tali da determinare modificazioni Sulla competenza ovvero da incidere sull'obbligatorietà dell'ordine o mandato di cattura". Nel codice di rito vigente non mancano disposizioni la cui ratio è stata identificata nella deterrenza dell'abuso processuale perpetrabile dal Pubblico Ministero. Con riferimento all'art. 63, comma 2, cod. proc. pen., Sez. U, n. 1282 del 09/10/1996, dep. 1997, Carpanelli ed altri, Rv. 206846, ha affermato che si tratta di disposizione dettata "in funzione deterrente rispetto alle prassi illiberali di sentire una persona senza le garanzie dell'imputato o dell'indagato al fine di poter continuare a svolgere indagini informali, ignorando deliberatamente l'esistenza di indizi di reità a suo carico, e che persegu(e) lo scopo... di evitare il pericolo di dichiarazioni, compiacenti o negoziate, a carico di terzi" (così sub n. 5.3 dei "motivi della decisione", p. 32). Anche la disciplina delle c.d. contestazioni a catena può essere intesa come volta ad evitare l'abusivo uso del diritto del P.M. di sollecitare la misura cautelare; ed ora anche le previsioni codicistiche in tema di retrodatazione del termine di inizio delle indagini preliminari, introdotte dal D.Lgs. n. 150/2022 (art. 335-quater cod. proc. pen., sotto la rubrica "Accertamento della tempestività dell'iscrizione nel registro delle notizie di reato").

Non si tratta, quindi, di mettere in discussione il diritto-dovere del P.M. di modificare l'imputazione secondo la previsione dell'art. 517 cod. proc. pen. (richiamandosi le considerazioni al riguardo svolte nella parte motiva di Sez. 4, n. 44157 del 03/10/2023, Rampone, cit., sub n. 4 del "considerato in diritto", pp. 3-4), né, a maggior "ragione, le prerogative, di rilievo costituzionale, dell'Organo di Accusa, il cui esercizio pacificamente non necessita di previa autorizzazione del giudice (cfr., ex plurimis, Sez. 4, n. 48347 del 04/10/2023, Scalora, Rv. 285682; Sez. 2, n. 9039 del 17/01/2023, P.M. in proc. Palumbo, Rv. 284289; Sez. 3 n. 29877 del 15/12/2017, dep. 2018, P.M. in proc. Rigotti, Rv. 273688; Sez. 2, n. 5180 del 05/11/1999, P.M. in proc. Saraceno, Rv. .215184), ma di verificare se nel caso di specie si sia inteso o meno esercitare il diritto-dovere di contestazione per gli scopi suoi propri.

Si deve, cioè, valutare se debba essere preclusa non già l'ordinaria espressione del potere-dovere del P.M. di conformare l'imputazione alle emergenze processuali ma il ricorso all'esercizio di esso per finalità ultronee. Ove tale sviamento venga registrato, esso deve restare privo di effetto, in modo che non si traduca in un pregiudizio per l'interesse o il diritto di altra Parte processuale. Potrebbe parlarsi, al riguardo, in consonanza a talune proposte della dottrina, di sanzione innominata; di certo, la prospettiva ridimensiona l'importanza del profilo concernente la regola della sequenza contestazione ex art. 517 - decisione ex art. 129 cod. proc. pen.

Una volta fissato questo caposaldo, è evidente che occorre discernere i casi nei quali le scansioni processuali sono indice dell'abuso processuale da quelli ove mancano chiare tracce di esso. Ne discende, altresì, che si deve rifuggire da ogni tentativo di standardizzazione, perché l'eventuale abuso va colto nella specificità del singolo caso.

Orbene, il diritto di procedere alla contestazione suppletiva in corso di dibattimento è espressione dell'obbligo di azione previsto dall'art. 112 Cost. Esso permette al P.M. di definire l'oggetto dell'azione in termini coincidenti con i fatti penalmente rilevanti e ciò non solo quando intervengano nuove acquisizioni probatorie che facciano emergere circostanze aggravanti prima non configurabili sulla base degli atti di indagine ma anche quando l'originaria contestazione erroneamente non sia del tutto corrispondente ai fatti (ad avviso dell'Accusa) già individuabili. Come rammenta Sez. 4, n. 50258 del 22/11/2023, Gentile, cit., in motivazione (sub n. 5.1 del "considerato in diritto", pp. 4-5), la giurisprudenza di legittimità (Sez. 6, n. 37577 del 15/10/2010, Marcolin, Rv. 248539, in motivazione, sub n. 2 dei "Motivi della decisione, pp. 2 e ss.), insegna che gli artt. 516 e ss. cod. proc. pen., sotto la rubrica "Nuove contestazioni", disciplinano l'esercizio dell'azione penale nel corso del dibattimento, mirando a salvaguardare il principio della necessaria correlazione tra accusa e sentenza. Il Pubblico Ministero interviene sull'imputazione enunciata nell'atto che instaura il giudizio, per adeguarla a quanto emerge dalle prove raccolte, in modo che il dibattimento possa proseguire e la decisione conformarsi alla fattispecie concreta corretta e/o ampliata. Effettuare una nuova contestazione è un potere esclusivo del Pubblico Ministero, inerente all'esercizio dell'azione penale, la cui obbligatorietà è prescritta dall'art. 112 Cost.

Del resto, in linea generale, la formulazione dell'accusa è il vero e proprio perno del processo penale e può essere osservata da due punti di vista da un lato, quello del dovere funzionale del P.M. di contestare all'imputato un'aggravante di cui ritenga sussistere l'esistenza; e, dall'altro, il diritto di difesa dell'imputato, diritto che presuppone la completa conoscenza degli addebiti.

Lo scopo precipuo della contestazione, infatti, sia originaria sia eventualmente risultante da interventi integrativi, è delimitare l'accusa onde consentire al destinatario della stessa di articolare la propria linea difensiva, così attribuendosi concreto contenuto alla solenne previsione di principio di cui all'art. 24 Cost.

3.5. Se si considera il caso all'esame delle S.U. Domingo, è agevole rilevare che la contestazione dell'aggravante della recidiva non rispondeva alla necessità di adempiere compiutamente al dovere di esercizio dell'azione penale, bensì aveva lo scopo di travolgere un effetto estintivo che, rispetto al reato originariamente contestato, si era ormai prodotto.

In altra occasione la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che non sia consentito al P.M. di contestare una circostanza aggravante al solo fine di superare la preclusione - ritenuta operante anche a fronte dell'attuale testo dell'art. 434 cod. proc. pen. - alla revoca della sentenza di non luogo a procedere derivante dalla avvenuta estinzione del reato. In tali casi, "a garanzia della legalità della procedura, e a fugare ogni dubbio che la contestazione dell'aggravante sia stata lo strumento per aggirare l'intervenuta estinzione del reato, (è necessario) che la detta contestazione sia ancorata a dati nuovi incontestabili e che sia assicurata la correttezza formale dell'agire pubblico. È significativo rammentare come, sull'onda di copiose risalenti riflessioni dottrinali (e) giurisprudenziali, le Sezioni Unite civili nel 2007 siano giunte a rinvenire un vero e proprio statuto costituzionale della nozione di overuse affermando che nessun procedimento giudiziale appare conforme al fair trial ove rappresenti il frutto di abuso del processo "per l'esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltre che la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi". Come ha affermato una dottrina, "l'aggressione di un diritto fondamentale costituzionalmente tutelato che costituisce nella sua accezione oggettiva anche interesse pubblico processuale, rende, già su un piano teorico, necessario un sindacato a tutela della parte debole del rapporto processuale"" (così, testualmente, Sez. 1, n. 39358 del 15/07/2015, Papalia, Rv. 264942, sub n. 2 del "considerato in diritto", p. 8).

D'altro canto, si è già fatto cenno all'esistenza di un consistente, ancorché contrastato, orientamento del giudice di legittimità per il quale le aggravanti non possono essere contestate quando ormai il reato sia estinto per prescrizione. Il principio enunciato è che, ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, l'aumento di pena per una circostanza aggravante (nella specie, si trattava di quella della fidefacenza dell'atto prevista dall'art. 476, comma 2, cod. pen.) non può essere valutato qualora essa sia stata oggetto di contestazione suppletiva dopo la decorrenza del termine di prescrizione computato con riferimento all'originaria imputazione, in quanto, una volta maturato il termine di prescrizione, la prosecuzione del processo è incompatibile con l'obbligo di immediata declaratoria della causa estintiva del reato (Sez. 5, n. 48205 del 10/09/2019, B., Rv. 278039). Nella relativa motivazione si spiega (sub n. 2 del "considerato in diritto", p. 3) che "la contestazione di una circostanza aggravante, con il conseguente prolungamento dei termini prescrizionali, non può determinare la reviviscenza di un reato ormai estinto, trattandosi di una contestazione di natura costitutiva. Ciò è stato già affermato per la contestazione della recidiva (Cass., n. 55748 del 14/9/2017; n. 47449 del 22/9/2015, rv 265560-01; n. 4439 del 301/1/2014, rv 258734-01), ma non è meno vero per la contestazione della circostanza aggravante dell'art. 476, comma 2, cod. pen., essendo comune l'origine del divieto e comune ad entrambe le fattispecie l'effetto sulla perseguibilità del reato".

Orbene, ad avviso di questo Collegio, è utile soffermarsi sull'interesse presidiato dalla regola dell'immediata declaratoria della causa estintiva. Come già posto in luce dalla citata sentenza di S.U. De Rosa (sub n. 3b dei "motivi della decisione", p. 7) - e rammentato dalla stessa decisione Domingo - l'art. 129, comma 1, cod. proc. pen. è ancillare al principio di ragionevole durata del processo infatti, "Si è di fronte ad una prescrizione generale di tenuta del sistema, nel senso che, nella prospettiva di privilegiare l'exitus processus ed il favor rei, s'impone al giudice il proscioglimento immediato dell'imputato, ove ricorrano determinate e tassative condizioni, che svuotano di contenuto - per ragioni di merito - l'imputazione o ne fanno venire meno - per la presenza di ostacoli processuali (difetto di condizioni di procedibilità) o per l'avverarsi di una causa estintiva - la effettiva ragion d'essere". Canone della ragionevole durata che, nello specifico, si concreta nella riduzione al minimo necessario della sottoposizione dell'imputato al processo perché - come è stato da più parti, e condivisibilmente, scritto - il processo è già pena.

3.6. Tornando al caso che qui occupa, in modo che appare del tutto analogo rispetto alle ipotesi rammentate, non si è in presenza dell'ordinario esercizio del diritto di contestare nel corso del dibattimento una circostanza aggravante per far sì che la imputazione corrisponda in pieno a quanto emerge dagli atti processuali ma di travolgere un effetto connesso alla imputazione originaria, ovvero l'improcedibilità dell'azione per la definitiva mancanza della querela.

È di assoluto rilievo il particolare regime instaurato dal combinato disposto dagli artt. 2, 85 e 99-bis del D.Lgs. n. 150 del 2022. Per effetto di tali disposizioni il delitto di furto, cosi come contestato in origine nel presente procedimento, è divenuto improcedibile dal 30.12.2022. Ciò implica che la pronuncia di improcedibilità avrebbe potuto essere adottata, in astratto, già da tale data. Infatti, il termine previsto dall'art. 85 del D.Lgs. n. 150 del 2022 è stato accordato alla persona offesa per la presentazione della querela, se la stessa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato. Ma l'ordinamento non vieta la declaratoria di improcedibilità in pendenza del termine per presentare la querela proprio per tale ragione l'art. 345 cod. proc. pen. prevede che la presentazione della querela successivamente alla declaratoria di improcedibilità può consentire l'esercizio dell'azione penale per il medesimo fatto. Tuttavia, una volta decorso il termine, ove il giudice dichiari l'improcedibilità, non è consentito al P.M. esercitare nuovamente l'azione penale per il medesimo fatto sulla scorta di una inedita contestazione di circostanze che lo hanno reso perseguibile di ufficio. In tale ipotesi, si incorre nel divieto di bis in idem (Sez. 5, n. 32918 del 23/06/2023, Mirra, Rv. 285010). Dal combinato disposto degli artt. 649 e 345 cod. proc. pen. si ricava che non si incorre nel divieto di bis in idem solo qualora l'imputato sia stato destinatario di una precedente sentenza di proscioglimento per difetto di querela e quest'ultima sopravvenga.

Ciò posto, nella prospettiva qui tracciata risulta decisivo che il P.M. abbia avuto o meno la possibilità di operare la contestazione suppletiva prima del 30.3.2023. Al riguardo, giova rammentare che le modifiche della contestazione ai sensi degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. possono essere effettuate una volta dichiarato aperto il dibattimento. Infatti, secondo l'insegnamento di Sez. U, n. 4 del 28/10/1998, dep. 1999, Barbagallo, Rv. 212757, "In tema di nuove contestazioni, la modifica dell'imputazione di cui all'art. 516 c.p.p. e la contestazione di un reato concorrente o di una circostanza aggravante di cui all'art. 517 c.p.p. possono essere effettuate dopo l'avvenuta apertura del dibattimento e prima dell'espletamento dell'istruzione dibattimentale, e dunque anche sulla sola base degli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari".

Ove la dichiarazione di apertura del dibattimento sia successiva al 30.3.2023 non si può ipotizzare nemmeno in linea astratta un uso sleale del potere di contestazione, perché il P.M. non ha avuto altra occasione per emendare l'errore nell'originaria contestazione.

Diversamente, ove tale occasione ci sia stata, deve ritenersi che la contestazione sopraggiunta all'inutile spirare del termine accordato alla persona offesa per proporre querela abbia il solo scopo di ovviare a tale mancanza.

4. Tirando a questo punto le fila del ragionamento svolto, va rilevato che la prima udienza nel processo di merito si è celebrata il giorno 6.2.2023; come si desume dalla sentenza impugnata (e dal ricorso medesimo) nel corso della stessa è stata verificata la regolare instaurazione del contraddittorio, è stato dichiarato aperto il dibattimento e sono state ammesse le prove; infine, si è rinviato all'udienza del 3.4.2023.

In conseguenza, deve affermarsi che la iniziativa integrativa del P.M. all'udienza del 3.4.2023 è stata adottata al solo scopo di ovviare alla - ormai consolidata - improcedibilità del reato come originariamente contestato, per difetto della prescritta querela. Correttamente, quindi, il giudice ha assunto la decisione contro la quale qui si ricorre.

Donde il rigetto del ricorso.

Nulla per le spese, attesa la natura di Parte pubblica del ricorrente.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Così deciso il 21 febbraio 2024. Depositato in Cancelleri il 10 luglio 2024.