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Agente provocatore e processo equo (Cass. 37805/13)

16 settembre 2013, Cassazione penale

Viola il processo equo la condotta del provocatore che assuma una rilevanza causale nel fatto commesso dal provocato se con essa viene suscitato un intento delittuoso prima inesistente.

Deve ritenersi che l'attività degli agenti infiltrati deve essere circoscritta e coperta da garanzie anche quando si tratta di reati di particolare gravità e che l'intervento degli agenti provocatori, quando sia determinante per la commissione del reato (nel senso che senza il loro intervento il reato non sarebbe stato commesso), se utilizzato nel processo penale, può falsare irrimediabilmente il carattere equo del processo.

Deve escludersi la violazione dell'quo processo quando risulti che l'indagato è pronto a commettere la violazione anche in mancanza dell'intervento degli agenti di polizia, i quali si limitano a disvelare un'intenzione criminale esistente, ma allo stato latente, fornendo al ricorrente l'occasione di concretizzarla.

Non lede il diritto all'equo processo l'intervento della PG (suscettibile di utilizzazione probatoria in ambito processuale) che si limiti a disvelare un'intenzione criminosa in fieri, contrasta con l'equa amministrazione della giustizia un intervento di agenti provocatori che sia essenziale per fare commettere un reato a chi non era intenzionato a porlo in essere.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

(ud. 09/05/2013) 16-09-2013, n. 37805

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SQUASSONI Claudia - Presidente -

Dott. LOMBARDI Alfredo - Consigliere -

Dott. FRANCO Amedeo - est. Consigliere -

Dott. AMORESANO Silvio - Consigliere -

Dott. GAZZARA Santi - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

J.N.B.S., nato a (OMISSIS) e da D.J.C., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza emessa il 3 febbraio 2012 dalla corte d'appello di Bologna;

udita nella pubblica udienza del 9 maggio 2013 la relazione fatta dal Consigliere Amedeo Franco;

udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. SALZANO Francesco, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

Svolgimento del processo

Il tribunale di Bologna, con sentenza 17.7.2000, dichiarò D. J.C. colpevole del reato continuato di detenzione a fini di spaccio e di offerta in vendita di Kg. 3,5 di cocaina, condannandolo alla pena di anni 9 di reclusione e L. 60 milioni di multa e J.N.B.S. colpevole dei reati continuati di ricezione di partite di cocaina e della loro offerta in vendita, condannandolo alla pena di anni 5 e mesi 8 di reclusione e L. 40 milioni di multa.

La corte d'appello di Bologna, con sentenza 7.12.2005, confermò la sentenza di primo grado.

A seguito di ricorsi per cassazione questa Corte, con sentenza del 15.1.2009, rigettando tutti gli altri motivi di gravame, annullò la sentenza di secondo grado con rinvio alla corte d'appello per la rivalutazione dell'entità della pena, quanto alla posizione di D., e quanto a J. per la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale ex art. 603 c.p.p. mediante esame del Mar.llo D. C., essendo inutilizzabile, per violazione dell'art. 238 c.p.p., comma 2 bis, la sua testimonianza assunta nel procedimento in cui non era ancora parte il predetto J..

La corte d'appello di Bologna, in sede di rinvio, con sentenza del 3 febbraio 2012, rideterminò la pena quanto a J. in anni 4 e mesi 4 di reclusione ed Euro 20.000 di multa e quanto a D. in anni 6 e mesi 8 di reclusione ed Euro 30.000 di multa.

Il D., a mezzo dell'avv. AC, propone ricorso per cassazione deducendo:

1) violazione di legge perchè la corte d'appello avrebbe dovuto escludere una pluralità di atti penalmente rilevanti quoad poenam posto che il ricorrente aveva svolto un'unica trattativa che si era sviluppata in un'ampia sequenza temporale, sicchè era ravvisabile un unico comportamento illecito di offerta di sostanza stupefacente.

2) avrebbero dovuto essere concesse le attenuanti generiche essendo passati dai fatti 15 anni, durante i quali non aveva posto in essere ulteriori condotte illecite.

Il J., a mezzo dell'avv. MC, propone ricorso per cassazione deducendo:

1) vizio di motivazione perchè nella specie si era trattato non di agenti sotto copertura ma di veri e propri agenti provocatori, in quanto la trattativa per la cessione della sostanza stupefacente di tipo cocaina aveva preso avvio esclusivamente a seguito dell'attività svolta dai carabinieri. L'azione criminosa è stata quindi determinata in modo assoluto e decisivo dalla condotta tenuta da costoro, sicchè si verte nell'ipotesi di reato impossibile e comunque si tratta di condotta non punibile. Inoltre, le dichiarazioni provocate da un agente sotto copertura non sono utilizzabili. Nè sono utilizzabili le dichiarazioni del mar. D. C..

2) violazione di legge in ordine alla mancata concessione della attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, in quanto è stato condannato unicamente sulla base delle dichiarazioni del mar. D.C. che sono inutilizzabili.

Motivi della decisione

Il primo motivo del ricorso di D. è manifestamente infondato in quanto esattamente la corte d'appello ha ravvisato l'esistenza di una pluralità di condotte criminose, riunite sotto il vincolo della continuazione, nell'accusa contestata all'imputato (capo 48) - e ritenuta provata - di avere detenuto a fini di spaccio sostanza stupefacente tipo cocaina e di averla più volte offerta in vendita a militari dei carabinieri sotto copertura dall'aprile al novembre del 1996.

Il secondo motivo del D. è inammissibile per intervenuto giudicato. Invero, la doglianza per la mancata concessione delle attenuanti generiche era già stata proposta dall'imputato con il precedente ricorso per cassazione e respinta dalla sentenza di questa Corte.

Il ricorso del D. deve pertanto essere dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza dei motivi. In applicazione dell'art. 616 cod. proc. pen., segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi che possano far ritenere non colpevole la causa di inammissibilità del ricorso, al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma, che, in considerazione delle ragioni di inammissibilità del ricorso stesso, si ritiene congruo fissare in Euro 1.000,00.

Il ricorso di J. è invece infondato.

Quanto al motivo con cui si deduce l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall'imputato al militare dei carabinieri che agiva sotto copertura, è sufficiente ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, "In tema di indagini per l'accertamento dei reati concernenti le sostanze stupefacenti, gli investigatori operanti "sotto copertura" possono rendere testimonianza su quanto hanno appreso dall'imputato nel corso dell'investigazione, dal momento che, nell'ambito dell'operazione svolta, sono stati soggetti partecipanti all'azione e non hanno agito come ufficiali di polizia giudiziaria con i poteri autoritativi e certificatori connessi alla qualifica" (Sez. 6, 5.12.2006, n. 41730, Ani, m. 235590, Sez. 4, 30.11.2004, n. 6702 del 2005, Meta, m.230720).

Quanto al motivo secondo cui si sarebbe trattato non già di agenti sotto copertura ma di veri e propri agenti provocatori, va ricordato in proposito che secondo la più recente e condivisibile giurisprudenza di questa Corte non sono lecite le operazioni sotto copertura consistenti nell'incitamento o nell'induzione alla commissione di un reato da parte soggetto indagato, in quanto all'agente infiltrato non è consentito commettere azioni illecite diverse da quelle dichiarate non punibili e di quelle strettamente e strumentalmente connesse. Una simile condotta, oltre a determinare responsabilità penale dell'infiltrato, produce, quale ulteriore conseguenza, l'inutilizzabilità della prova acquisita e rende l'intero procedimento suscettibile di un giudizio di non equità ai sensi dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (Sez. 2, n. 38488 del 9 ottobre 2008; Sez. 3, n. 26763 del 3 luglio 2008; Sez. 3, n. 17199 del 7.4.2011, Ediale).

Per potersi ritenere esistente la figura dell'agente provocatore, però, occorre che la condotta del provocatore assuma una rilevanza causale nel fatto commesso dal provocato nel quale venga suscitato un intento delittuoso prima inesistente.

La giurisprudenza di questa Corte ha considerato la questione con riferimento ad ipotesi in cui veniva invocata, quale conseguenza dell'attività dell'agente provocatore, l'applicazione dell'art. 49 c.p., evidenziando come assuma rilievo la circostanza che l'azione delittuosa sia voluta e realizzata dal reo in base ad impulsi e modalità concrete a lui autonomamente riconducibili e non derivi in via assoluta ed esclusiva dall'istigazione dell'agente provocatore, la cui attività viene a rappresentare un fattore estrinseco che ha solo dato spunto all'azione del provocato (Sez. 5, n. 11915 del 26 marzo 2010; Sez. 6, n. 16163 del 17/04/2008; Sez. 1, n. 9370 del 28 ottobre 1996).

In sostanza, anche secondo la giurisprudenza CEDU, deve ritenersi che l'attività degli agenti infiltrati deve essere circoscritta e coperta da garanzie anche quando si tratta di reati di particolare gravità e che l'intervento degli agenti provocatori, quando sia determinante per la commissione del reato (nel senso che senza il loro intervento il reato non sarebbe stato commesso), se utilizzato nel processo penale, può falsare irrimediabilmente il carattere equo del processo. Ciò, invece, deve escludersi quando risulti che l'indagato è pronto a commettere la violazione anche in mancanza dell'intervento degli agenti di polizia, i quali si limitano a disvelare un'intenzione criminale esistente, ma allo stato latente, fornendo al ricorrente l'occasione di concretizzarla. In altri termini, mentre non lede il diritto all'equo processo l'intervento della PG (suscettibile di utilizzazione probatoria in ambito processuale) che si limiti a disvelare un'intenzione criminosa in fieri, contrasta con l'equa amministrazione della giustizia un intervento di agenti provocatori che sia essenziale per fare commettere un reato a chi non era intenzionato a porlo in essere.

Nel caso di specie emerge in modo evidente che non si è verificata una situazione di questo genere, perchè i carabinieri non hanno determinato in modo essenziale il J. (che altrimenti non avrebbe avuto intenzione di compiere una azione del genere) a ricevere dal D. varie partite di 2-3 etti di cocaina e poi cederle a terzi fra cui i militari sotto copertura, ma hanno solo disvelato una intenzione criminale palesemente già esistente, anche se allo stato latente, fornendo all'imputato unicamente l'occasione per concretizzarla.

Quanto all'attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, la corte d'appello la ha esclusa con congrua, specifica ed adeguata motivazione, osservando che era emerso che i quantitativi di cui J. disponeva (etti di cocaina per volta), garantendo contestualmente forniture seriali e non solo occasionali ai potenziali acquirenti, non rientravano nei parametri ponderali di cui alla attenuante in esame.

Il ricorso di J. deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE dichiara inammissibile il ricorso di D.J.C., che condanna pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Rigetta il ricorso di J.N.B.S., che condanna al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, il 9 maggio 2013.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2013