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Richiedenti asilo chiamati "clandestini": discriminatorio (Cass. 24686/23).

16 agosto 2023, Corte di Cassazione

L'esercizio della libertà di espressione politica deve essere necessariamente bilanciata con il rispetto e la tutela della dignità delle persone: la tolleranza e il rispetto per la uguale dignità di tutti gli esseri umani costituisce il fondamento di una società democratica e pluralista. In considerazione di ciò, può essere necessario come questione di principio in determinate società democratiche sanzionare o anche precludere ogni forma di espressione che diffonda, istighi, promuova o giustifichi il livore basato sull'intolleranza.

Il diritto alla libera manifestazione del pensiero, cui si accompagna quello ad organizzarsi in partiti politici, difatti, non può essere ritenuto equivalente, o addirittura prevalente, sul fondamentale principio del rispetto della dignità personale degli individui.

Nel caso specifico, infatti, è palese che il diritto, indiscutibile, a manifestare il dissenso in relazione ad una certa gestione del fenomeno dei richiedenti asilo si sarebbe potuto svolgere, correttamente, omettendo quelle considerazioni, evidenziate giustamente dalla Corte d'appello, che hanno creato intorno ai 32 cittadini extracomunitari un clima di umiliazione e di ostilità. Ed è chiaro che il diritto alla libera manifestazione del pensiero, se realizzato con modalità intolleranti, come nel caso di specie, deve essere considerato recessivo rispetto al diritto dei singoli al rispetto della propria dignità personale.

 

 CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

(data ud. 22/05/2023) 16/08/2023, n. 24686

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Presidente -

Dott. SESTINI Danilo - Consigliere -

Dott. SCODITTI Enrico - Consigliere -

Dott. CIRILLO Francesco M. - rel. Consigliere -

Dott. VINCENTI Enzo - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 27571 del 2020 proposto da:

Lega Nord - Lega Lombarda, in persona del Commissario Nazionale, rappresentata e difesa dagli Avvocati **;

- ricorrente -

e Lega Nord per l'indipendenza della Padania, in persona dell'Amministratore Federale, rappresentata e difesa dall'avvocato CE **;

- ricorrente - contro

Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione (ASGI) - APS in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, NAGA - Organizzazione di volontariato per l'assistenza sociosanitaria e per i diritti di cittadini stranieri rom e sinti, in persona della Presidente e legale rappresentante pro tempore, entrambe rappresentate e difese, per entrambi i ricorsi, dagli avvocati AG e LN;

- controricorrenti -

avverso la sentenza n. 418/2020 della CORTE D'APPELLO di MILANO, depositata il 06/02/2020;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/05/2023 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e di quello incidentale;

udito l'avvocato EF, per delega degli avvocati **

udito l'avvocato GDF per la Lega Nord per delega dell'avvocato **

udito l'avvocato LN, per ASGI.

Svolgimento del processo

1. Con ricorso proposto ai sensi del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44 l'Associazione degli studi giuridici sull'immigrazione (ASGI) e NAGA, Associazione volontaria di assistenza socio-sanitaria e per i diritti di cittadini stranieri, rom e sinti, convennero in giudizio, davanti al Tribunale di Milano, la Lega Nord, Sezione di Saronno, chiedendo che fosse condannata al risarcimento dei danni conseguenti alla condotta discriminatoria dalla stessa tenuta in relazione ad un episodio di accoglienza di richiedenti asilo.

A sostegno della domanda esposero che, avendo una locale società cooperativa concordato con la Prefettura di Varese di mettere a disposizione una struttura sita in  Saronno per accogliere 32 richiedenti asilo, era stata organizzata dalla Lega Nord di Saroono una manifestazione in occasione della quale erano stati affissi nel territorio comunale circa 70 cartelli, recanti il simbolo del partito Lega Nord, con il seguente contenuto: "saronno non vuole i clandestini; A.A. e B.B. vogliono mandare a Saronno 32 clandestini: vitto, alloggio e vizi pagati da noi. Nel frattempo, ai saronnesi tagliano le pensioni ed aumentano le tasse; Alfano e Renzi complici dell'invasione". Quei cartelli erano rimasti affissi per circa un mese e il segretario della Lega Nord di Saronno aveva rilasciato dichiarazioni relative all'opposizione all'accoglienza dei clandestini.

Ritenendo sussistente un comportamento discriminatorio e molesto, per ragioni di razza e origine etnica, rilevante ai sensi del D.Lgs. 9 luglio 2003, n. 215, art. 2, comma 3, le suindicate associazioni chiesero il risarcimento dei danni, affermando, tra l'altro, che dovevano considerarsi superati i limiti della critica politica.

Si costituì in giudizio C.C., quale Segretario della Lega Nord, Sezione di  Saronno, eccependo la carenza di legittimazione passiva della parte convenuta, non avendo la stessa alcuna autonoma esistenza giuridica. Nel merito, chiese il rigetto di tutte le domande.

Con successivo provvedimento il Tribunale ordinò alle parti di integrare il contraddittorio nei confronti della Lega Nord-Lega Lombarda e della Lega Nord per l'indipendenza della Padania, ritenendo trattarsi di causa comune.

Integrato il contraddittorio, si costituirono in giudizio entrambe le parti ora indicate, chiedendo il rigetto di tutte le domande.

All'esito della discussione, il Tribunale pronunciò un'ordinanza con la quale dichiarò il carattere discriminatorio dell'espressione "clandestini" contenuta nei manifesti in questione; ordinò la pubblicazione dell'intestazione e del dispositivo dell'ordinanza stessa a cura e spese dei resistenti, su alcuni quotidiani e siti internet; condannò la Lega Nord, Sezione di (Omissis), la Lega Nord-Lega Lombarda e la Lega Nord per l'indipendenza della Padania al pagamento, in favore delle Associazioni attrici, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, della somma di Euro 5.000 con gli interessi legali dalla data del provvedimento al saldo e al pagamento delle spese di giudizio.

2. L'ordinanza è stata impugnata dalla Lega Nord-Lega Lombarda e dalla Lega Nord per l'indipendenza della Padania e la Corte d'appello di Milano, con sentenza del 6 febbraio 2020, ha rigettato l'appello, condannando gli appellanti alla rifusione delle ulteriori spese del grado.

2.1. Procedendo alla trattazione in parte unitaria e in parte separata dei motivi dei due appelli, la sentenza ha premesso, innanzitutto, che, a seguito dell'ordinanza con la quale il Tribunale aveva disposto la chiamata in causa, ai sensi dell'art. 107 c.p.c., della Lega Nord-Lega Lombarda e della Lega Nord per l'indipendenza della Padania, il procuratore delle parti ricorrenti aveva precisato che le domande formulate nel ricorso dovevano "essere estese nei confronti di tutti i soggetti odierni convenuti". Vi era stata, pertanto, un'esplicita manifestazione di volontà di estendere le domande originarie, proposte contro la Lega Nord-Sezione (Omissis), nei confronti dei terzi chiamati. Tale estensione, che non poteva ritenersi tardiva, faceva sì che le domande risarcitorie proposte dalle due Associazioni attrici fossero da considerarsi ritualmente e tempestivamente proposte anche nei confronti delle terze chiamate.

2.2. Era infondato, poi, anche il motivo di appello col quale entrambe le appellanti avevano lamentato la presunta contraddizione logica nella quale sarebbe incorso il Tribunale per avere, da un lato, ritenuto sussistente la legittimazione passiva della Lega Nord-Sezione di (Omissis) ed avere, d'altro lato, pronunciato le contestate statuizioni attinenti all'accertamento del carattere discriminatorio delle espressioni "clandestini" e alla condanna risarcitoria anche nei confronti della Lega Nord per l'indipendenza della Padania e della Lega Nord-Lega Lombarda.

La sentenza ha affermato, in proposito, che i manifesti oggetto della causa, affissi in occasione della manifestazione organizzata dalla Lega Nord, Sezione di (Omissis), riportavano "al centro il simbolo appartenente al Movimento Lega Nord per l'indipendenza della Padania e quello, più piccolo, della "Nazione" Lega Nord-Lega Lombarda". Poichè, in base all'art. 3 dello Statuto della Lega Nord per l'indipendenza della Padania, il simbolo della stessa apparteneva esclusivamente alla Lega Nord, mentre la Sezione di (Omissis) era solo l'organo territoriale di base per la realizzazione e diffusione dei relativi programmi politici, l'utilizzo, nei cartelli in oggetto, delle espressioni della cui valenza discriminatoria si discuteva era direttamente riferibile alle associazioni politiche individuate dal giudice di prime cure, che aveva correttamente riconosciuto una responsabilità concorrente delle stesse. Era evidente, d'altra parte, che le "istanze superiori" della Lega dovevano considerarsi pienamente coinvolte nella vicenda, avendo almeno consentito la diffusione dei contestati cartelli "sotto l'egida del simbolo della Lega Nord senza esercitare la dovuta vigilanza e controllo".

2.3. La Corte d'appello ha poi affrontato il punto centrale della vicenda, consistente nella necessità di accertare se l'utilizzo dell'espressione "clandestini" contenuta nei manifesti potesse avere o meno un'effettiva valenza discriminatoria; questione alla quale la Corte ha dato risposta positiva.

Richiamato il contenuto del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 43, e del D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 2 la sentenza ha confermato il giudizio già dato dal Tribunale, sostenendo che il contenuto dei manifesti integrava "gli estremi della discriminazione, ponendosi in contrasto con i fattori di protezione rappresentati dall'etnia, dalla razza e dalla nazionalità". Nel caso in esame, infatti, il termine "clandestini" era stato riferito "a persone straniere che hanno presentato allo Stato italiano domanda di protezione internazionale, esercitando in tal modo un diritto fondamentale dell'individuo, riconosciuto dall'art. 10 Cost.". Nelle more della procedura finalizzata ad accertare se tale richiesta fosse o meno accoglibile, i richiedenti asilo non potevano essere qualificati con l'appellativo generico di clandestini, termine che "individua la posizione di chi fa ingresso o si trattiene nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni normative che regolano l'immigrazione (rapportabile al reato contravvenzionale di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 10-bis)". Tanto che, in pendenza del giudizio di valutazione dell'istanza, la questura rilascia allo straniero un permesso di soggiorno come richiedente asilo, che consente anche di svolgere attività lavorativa.

L'utilizzo del termine suindicato anche da parte del legislatore non consentiva, secondo la Corte d'appello, di ritenere la legittimità dell'utilizzo di tale espressione per identificare 32 persone nella condizione di richiedenti la protezione internazionale; così come non poteva avere alcuna valenza la circostanza, di fatto, per cui la maggior parte delle richieste di asilo venga poi rigettata. La definizione di "clandestini" nei manifesti, pertanto, letta nel suo contesto complessivo e "collegata alla presentazione dei 32 richiedenti asilo come usurpatori, "per vitto alloggio" e non precisati "vizi", di risorse economiche ai danni degli abitanti del Comune", aveva il sicuro effetto di violare la dignità dei cittadini stranieri e di creare intorno a loro un clima ostile, "umiliante ed offensivo, per motivi di razza, origine etnica e nazionalità".

In considerazione, poi, del collegamento tra la tutela contro gli atti discriminatori e i diritti inviolabili della persona, la Corte milanese ha aggiunto che la libertà di manifestazione del pensiero politico deve essere necessariamente bilanciata con il rispetto e la tutela della dignità delle persone, cosa che nella specie non era avvenuta.

2.4. In relazione, infine, alla liquidazione dei danni, la sentenza ha premesso che, trattandosi di un'ipotesi di discriminazione collettiva, atteso che non erano individuabili in modo diretto e immediato i 32 richiedenti asilo qualificati come clandestini, le associazioni appellate erano legittimate ad agire per il risarcimento ai sensi del D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 5 essendo le stesse inserite nell'elenco ivi previsto. Da ciò conseguiva la legittimità della condanna inflitta dal Tribunale in favore delle Associazioni ASGI e NAGA, secondo la previsione del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 28. Ricorreva infatti, secondo la Corte d'appello, un'ipotesi, prevista espressamente dalla legge, di risarcibilità del danno non patrimoniale anche al di fuori di un'ipotesi di reato.

La somma di Euro 5.000, non oggetto di specifiche e particolari censure, è apparsa alla Corte di merito "del tutto congrua e proporzionata, tenuto conto del franco contenuto discriminatorio delle espressioni contenute nei manifesti, dell'ampia diffusione di questi ultimi e della particolare attitudine della condotta a generare un pericoloso clima denigratorio e ostile nei confronti dei richiedenti asilo presenti nel territorio".

Doveva poi essere anche confermata l'ulteriore previsione della sentenza di primo grado contenente l'obbligo di pubblicazione della pronuncia su alcuni giornali e siti internet, ritenuto "strumento proporzionato e funzionale a contrastare o quanto meno attenuare gli effetti provocati dalla diffusione sul territorio dei manifesti contenenti la più volte citata espressione discriminatoria pregiudizievole".

3. Contro la sentenza della Corte d'appello di Milano ricorre la Lega Nord-Lega Lombarda con atto affidato a cinque motivi.

Un ulteriore separato ricorso è stato proposto dalla Lega Nord per l'indipendenza della Padania, con atto affidato a cinque motivi.

Resistono l'Associazione degli studi giuridici sull'immigrazione (ASGI) e NAGA, Associazione volontaria di assistenza sociosanitaria e per i diritti di cittadini stranieri rom e sinti, con due separati controricorsi, diretti ciascuno contro uno dei due ricorsi.

La Lega Nord per l'indipendenza della Padania ha depositato memoria.

Il Procuratore generale ha depositato conclusioni per iscritto, chiedendo alla Corte di rigettare entrambi i ricorsi.
Motivi della decisione
Ricorso della Lega Nord-Lega Lombarda.

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione degli artt. 107, 702-bis e 702-ter c.p.c. e del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 3.

La ricorrente ricorda che la sentenza impugnata ha disatteso la tesi difensiva di C.C., già segretario della Sezione di (Omissis), secondo la quale questa era priva di legittimazione passiva, in tal modo implicitamente riconoscendo alla Sezione una sua capacità processuale. Trattandosi, nella specie, di una chiamata in causa iussu iudicis, le domande proposte dalle parti attrici nei confronti della parte convenuta non si estenderebbero anche ai terzi chiamati. Oltre a ciò, la trattazione della causa col rito sommario, prevista dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28 non consentirebbe di chiamare in causa un terzo per ordine del giudice, ma soltanto la chiamata in garanzia da parte del convenuto; ciò comporta che la chiamata in causa, per essere legittima, avrebbe dovuto essere accompagnata dall'ordinanza di conversione del rito di cui all'art. 702-bis, comma 3, cit., norma peraltro inapplicabile alla fattispecie in base alla previsione del medesimo D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 3. In conclusione, vi sarebbe l'illegittimità del provvedimento con cui il Tribunale ha ordinato l'integrazione del contraddittorio e la conseguente carenza di legittimazione passiva della ricorrente nel presente giudizio. Oltre a questo, aver esteso alla ricorrente le domande rassegnate in ricorso solo al termine dell'esposizione delle proprie tesi in sede di discussione determinerebbe la tardività delle domande stesse ed il conseguente vizio di ultrapetizione.

2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione degli artt. 81, 115 e 116 c.p.c., dell'art. 24 Cost., dell'art. 2043 c.c. e del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28.

Osserva la parte ricorrente che l'unico simbolo che compare in calce ai manifesti per cui è causa è un simbolo di fantasia, non riconducibile alla Lega Nord-Lega Lombarda e neppure alla Lega Nord per l'indipendenza della Padania. Da questo deriva che la sentenza avrebbe considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione, come invece la Corte di merito avrebbe dovuto fare esaminando lo statuto della Lega Nord che era a sua disposizione. Trattandosi, nella specie, di una domanda di risarcimento danni proposta ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28 che attenua l'onere della prova a carico del danneggiato rispetto all'art. 2043 c.c., la ricorrente rileva che dalla lettura dell'originario ricorso risulterebbe in modo chiaro che le parti attrici non avevano rivolto alcuna domanda nei confronti della Lega Nord-Lega Lombarda. Di conseguenza, aver esteso la domanda risarcitoria anche verso quest'ultima tramite l'istituto della chiamata in causa per ordine del giudice sarebbe un atto del tutto arbitrario, tale da porre a carico dell'odierna ricorrente una sorta di responsabilità oggettiva, o meglio una presunzione di responsabilità di carattere assoluto. Il richiamo, poi, alla mancata attivazione della Lega Nord-Lega Lombarda per fermare l'iniziativa della pubblicazione dei cartelli costituirebbe un "processo alle intenzioni".

3. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione della disciplina di cui al D.Lgs. n. 215 del 2003 in tema di discriminazione razziale.

Secondo la ricorrente, l'interpretazione data dalla Corte d'appello alla normativa in esame, con riconoscimento del contenuto discriminatorio dell'espressione "clandestini", non sarebbe condivisibile. Il citato decreto, attuativo di una direttiva comunitaria, avrebbe l'obiettivo di "incentivare l'uguaglianza tra gli individui nelle sempre più multietniche società Europee, evitando che cittadini appartenenti ad una determinata etnia o razza siano trattati in modo diverso rispetto ai cittadini nazionali o appartenenti ad altre razze e/o etnie". La discriminazione sussiste nel momento in cui la condotta dell'agente comporta la lesione di un diritto umano o di una libertà fondamentale, da ritenere un comportamento oggettivamente valutabile e tale da determinare "un trattamento meno favorevole, o anche solo una posizione di particolare svantaggio nei confronti del discriminato e ciò per ragioni legati alla razza, etnia e/o nazionalità ed indipendentemente dalla percezione soggettiva del discriminato". Il termine "clandestino", però, è usato nel vocabolario italiano ed è utilizzato per indicare i casi in cui l'immigrazione avviene in modo illegale, come risulta dall'art. 12 del t.u. di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998. Non si tratta quindi, secondo la ricorrente, di un termine di per sè offensivo, anche perchè esso viene usato in modo associato al problema dell'immigrazione anche da parte di esponenti politici che seguono opinioni diverse rispetto a quelle della Lega ricorrente. Il manifesto di cui si discute non potrebbe definirsi discriminatorio, in quanto "non critica o differenzia coloro che provengono da un determinato Paese del mondo per la propria origine, ma ne contesta ed avversa le modalità di ingresso nel nostro Paese".

L'errore commesso dalla sentenza impugnata consisterebbe, dunque, nell'aver ritenuto che il cartello potesse avere portata offensiva nei confronti degli stranieri, mentre i veri obiettivi erano gli onorevoli A.A. e B.B., oppositori della Lega Nord e destinatari della critica politica; che non riguardava affatto, invece, i 32 immigrati richiedenti asilo. In altre parole, secondo la ricorrente, "la circostanza che il termine clandestino configuri una situazione di illegittimità e, pertanto, possa essere percepito come una condizione negativa non è in sè per sè sufficiente ad integrare una condotta discriminatoria se non è accompagnata da un trattamento sfavorevole nei confronti del cittadino straniero".

4. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 5 e del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28.

Ad avviso della ricorrente, la Corte d'appello avrebbe confuso la legittimazione ad agire, riconosciuta dalla legge alle associazioni iscritte nei registri di cui all'art. 5 cit., con la titolarità del diritto al risarcimento del danno. In altri termini, "la circostanza che la legge preveda la legittimazione di dette Associazioni ad agire in giudizio per la tutela dei diritti dei discriminati, non contempla automaticamente che le stesse abbiano diritto ad ottenere un risarcimento danni in assenza di una prova della sua sussistenza". L'ammissibilità del risarcimento del danno non patrimoniale prevista dall'art. 28 cit. "non significa che il ricorrente sia esonerato dal dimostrare, anche solo in via presuntiva, che l'asserita condotta discriminatoria possa avergli recato un danno". Richiamati i limiti entro i quali si deve ritenere ammissibile il risarcimento del danno non patrimoniale, la Lega ricorrente sostiene che l'impugnata sentenza avrebbe riconosciuto una nuova figura di danno di tal genere, costituito dal vulnus alle finalità di salvaguardia e promozione sociale che le associazioni si prefiggono di realizzare. Ma questo non sarebbe corretto, perchè la lamentata frustrazione dell'oggetto dell'attività dell'associazione "non costituisce lesione di un diritto costituzionalmente garantito". In definitiva, dunque, la Corte d'appello non avrebbe considerato che la circostanza per cui "le associazioni presentino a livello statutario finalità di tutela·di interessi simili a quelli delle vittime di discriminazione non comporta ex se che siano titolari del relativo diritto al risarcimento del danno, in assenza di un reale pregiudizio o della lesione di un loro diritto di rango costituzionale, non potendosi qualificare tale la lesione di un interesse che l'ente ponga fra le proprie finalità". Diversamente, ogni associazione iscritta presso il citato registro potrebbe agire per ottenere un analogo risarcimento, con il rischio per il danneggiante di vedersi esposto al pagamento di somme non determinate ma certamente sproporzionate rispetto all'obiettivo perseguito dal legislatore.

5. Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e n. 5), l'erronea valutazione del rapporto tra gli artt. 3 e 21 Cost. in relazione al bilanciamento tra diritti entrambi di livello costituzionale.

Secondo la ricorrente, la libertà di manifestare le proprie idee "è cardine del nostro ordinamento in relazione alla strumentalità di tale libertà nell'esercizio delle attività associative e politiche che sottendono alle dinamiche ed ai principi democratici che informano il sistema costituzionale". Ciò comporta che la compressione della libertà di manifestazione del pensiero richiede, di per sè, "motivazioni e ragioni di tale gravità da costituire di per sè sole, un pericolo per il corretto e democratico esercizio della sovranità popolare". La sentenza in esame, invece, con una motivazione definita laconica, avrebbe indebitamente attribuito maggior rilievo al diritto di cui all'art. 3 rispetto a quello di cui all'art. 21 Cost., non considerando che l'uso del termine "clandestini", nel contesto politico di riferimento, "non assume la gravità in astratto necessaria per legittimare la compressione del diritto di espressione".

Ricorso della Lega Nord per l'indipendenza della Padania.

6. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione dell'art. 2043 c.c., del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44 e del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28.

La parte ricorrente osserva che le due sentenze di merito hanno riconosciuto un'autonoma legittimazione passiva in capo alla Sezione di (Omissis) della Lega Nord; ciò nonostante, la Corte d'appello ha stabilito che, pur essendo stati i manifesti predisposti materialmente a livello locale, sussisteva una responsabilità anche degli organi centrali della Lega. In tal modo, però, violando la disposizione dell'art. 2043 cit., la sentenza avrebbe posto a carico della parte ricorrente una sorta di responsabilità oggettiva (basata sull'art. 35 dello Statuto della Lega Nord), non valutando che per aversi violazione dell'art. 2043 occorre non una generica antidoverosità del comportamento, quanto "un vero e proprio obbligo di impedire l'evento". Di ciò si trarrebbe conferma anche dall'art. 44 cit., il quale prevede una condotta attiva ovvero una condotta omissiva in presenza di un dovere giuridico di attivazione; mentre l'art. 28 cit. dispone che sia il ricorrente a fornire la prova dell'esistenza del comportamento antidiscriminatorio.

7. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 2, comma 3, e del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 43 in tema di discriminazione razziale.

Il motivo pone censure in tutto analoghe a quelle del terzo motivo del precedente ricorso, esaminando la valenza discriminatoria dell'utilizzo del termine "clandestino". La ricorrente evidenzia la differenza tra la valenza diffamatoria del termine - in relazione alla quale la legittimazione attiva sarebbe spettata soltanto ai diretti interessati - e la valenza discriminatoria, rilevando che quest'ultima esige una condotta che distingua le persone in forza del criterio della razza, del colore, dell'ascendenza o dell'origine nazionale e che, nello stesso tempo, abbia come scopo quello di compromettere il godimento o l'esercizio dei diritti fondamentali. Nella specie, al contrario, mancherebbe qualsiasi effettivo intento discriminatorio, nè i 32 cittadini stranieri avrebbero subito alcun pregiudizio nel loro diritto di richiedere la protezione internazionale. Si ribadisce, come nel precedente ricorso, che il termine "clandestino" non sarebbe di per sè offensivo.

8. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione degli artt. 107, 702-bis e 702-ter c.p.c. e del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28.

La ricorrente pone censure in tutto sovrapponibili a quelle del primo motivo del ricorso della Lega Nord-Lega Lombarda.

9. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e n. 5), la violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 21 e 49 Cost. in relazione al bilanciamento tra diritti entrambi di livello costituzionale.

La parte ricorrente, con argomentazioni che in parte ricalcano quelle del quinto motivo del ricorso della Lega Nord-Lega Lombarda, critica il giudizio di bilanciamento tra valori costituzionali compiuto dalla sentenza in esame. In particolare, il motivo pone in luce la centralità del diritto costituzionale di libera manifestazione del pensiero; indi, richiamato l'art. 49 Cost. sulla libertà dei partiti politici, osserva che con i manifesti in questione si voleva contestare l'iniziativa politica degli onorevoli A.A. e B.B. in relazione alla destinazione di risorse pubbliche nel piano dispositivo a favore dei migranti. Di talchè i manifesti contestati sarebbero da considerare ricompresi nell'esercizio del diritto di critica politica.

10. Con il quinto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 215 del 2003, artt. 4, 4-bis e 5, comma 3, e del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44.

La ricorrente osserva che la legittimazione di cui al D.Lgs. n. 215 del 2013, art. 5 avrebbe carattere residuale - cioè esercitabile solo se non sono identificabili in modo diretto le persone lese dalla discriminazione - mentre nella specie i 32 soggetti ai quali il manifesto si riferiva erano "perfettamente individuabili". La sentenza impugnata, poi, non avrebbe tenuto conto del fatto che la norma citata, "introducendo una legittimazione ad agire di carattere straordinario e sussidiario, deve essere limitata alla tutela dell'atto discriminatorio attraverso l'ottenimento di un provvedimento inibitorio", senza ricomprendere anche lo svolgimento di azioni risarcitorie.

Decisione dei ricorsi.

11. La Corte ritiene che i cinque complessi motivi di ciascuno dei due ricorsi siano tra loro assimilabili, per cui possono essere trattati raggruppandoli insieme con riferimento alle rispettive connessioni logico-giuridiche.

12. Ragioni di ordine logico impongono di esaminare i ricorsi cominciando dai motivi procedurali, che vengono posti nel primo motivo del ricorso della Lega Nord-Lega Lombarda e nel terzo motivo del ricorso della Lega Nord per l'indipendenza della Padania, i quali vanno quindi trattati congiuntamente.

La questione procedurale che tali motivi pongono ha ad oggetto la chiamata in causa iussu iudicis nei procedimenti trattati col rito sommario, alla luce del testo dell'art. 702-bis c.p.c. applicabile nella presente fattispecie ratione temporis (prima dell'abrogazione dello stesso, disposta dal D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, art. 3, comma 48).

L'art. 702-bis cit., com'è noto, dopo aver regolato l'avvio del procedimento sommario e la costituzione del convenuto, prevede nel suo comma 5 che se "il convenuto intende chiamare un terzo in garanzia deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella comparsa di costituzione e chiedere al giudice designato lo spostamento dell'udienza. Il giudice, con decreto comunicato dal cancelliere alle parti costituite, provvede a fissare la data della nuova udienza assegnando un termine perentorio per la citazione del terzo. La costituzione del terzo in giudizio avviene a norma del comma 4". La norma non contiene un'espressa previsione della chiamata in causa di un terzo per ordine del giudice e da tale silenzio le parti ricorrenti deducono che questa chiamata non sarebbe consentita, se non previa conversione del rito (ai sensi dell'art. 702-ter c.p.c., comma 3), nella specie neppure consentita, trattandosi di un caso nel quale il rito sommario è previsto dalla legge (D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28).

Il Collegio osserva come la mancata regolazione, nella normativa sul rito sommario, dell'istituto dell'intervento per ordine del giudice abbia dato luogo a numerose perplessità. In particolare, ciò che desta dubbi è il fatto che l'art. 702-bis cit. sembra ammettere, nell'ambito della figura generale della chiamata in causa su istanza di parte, soltanto la chiamata in garanzia, con esclusione di tutte le altre. Le ragioni di questo silenzio non appaiono facilmente spiegabili, tanto che da parte di autorevoli voci della dottrina processualistica si è parlato di una "svista" ovvero di una "dimenticanza" del legislatore, priva di un'effettiva giustificazione. Pur essendo indubbio, infatti, che il rito sommario è tale proprio in quanto ha (o dovrebbe avere) ad oggetto un contenzioso di minore complessità, restano assai poco comprensibili le ragioni di una limitazione che potrebbe finire - se interpretata alla lettera - col rendere troppo di frequente impraticabile un rito destinato a promuovere esigenze molto sentite di maggiore celerità.

12.1. Ciò premesso, la Corte ritiene che i due motivi in questione siano entrambi privi di fondamento.

E' opportuno ricordare che il D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 3 prevedeva (nel testo applicabile ratione temporis, prima delle modifiche di cui al D.Lgs. n. 149 del 2022) che per le controversie disciplinate dal capo III (fra cui rientrano quelle dell'art. 28 decreto stesso) "non si applicano l'art. 702-ter c.p.c., commi 2 e 3", il che vuol dire che in simili cause non è prevista la conversione nel rito ordinario.

Ora, se tanto la logica giuridica quanto la necessità di un'interpretazione conforme a Costituzione portano in linea di principio ad affermare che l'art. 702-bis cit. non preclude nessun tipo di intervento in causa - nè su istanza di parte nè per ordine del giudice - tale conclusione è obbligata nel caso in esame, nel quale il rito sommario non è frutto di una scelta delle parti, ma è imposto dalla legge. Le stesse parti ricorrenti, infatti, cadono nell'evidente contraddizione di affermare che la chiamata per ordine del giudice sarebbe possibile solo a seguito della conversione del rito, per poi riconoscere che tale conversione non è consentita ex ore legis. Ed è evidente che rendere obbligatoria l'applicazione di un determinato rito e non consentire, nello stesso tempo, la chiamata in causa per ordine del giudice equivale ad ipotizzare un sistema del tutto privo di logica e con fondati dubbi di legittimità costituzionale.

Deve essere dichiarata infondata, quindi, la principale censura contenuta nei motivi qui in esame; e va parimenti dichiarata l'infondatezza anche dell'altra doglianza, avente ad oggetto la presunta tardività dell'estensione della domanda. Il Collegio, infatti, intende ribadire il principio, già enunciato nell'ordinanza 19 febbraio 2019, n. 4724, secondo cui la manifestazione, da parte dell'attore, della volontà di estendere la domanda originaria nei confronti del terzo chiamato in causa iussu iudicis non è assoggettata ad alcun termine perentorio, potendo essere disposto l'intervento ai sensi dell'art. 107 c.p.c. in ogni momento del processo (in tal senso già, sia pure indirettamente, la sentenza 7 febbraio 2008, n. 2901).

I motivi in esame, quindi, devono essere rigettati, enunciandosi il seguente principio di diritto: "Nelle cause trattate col rito sommario sulla base dell'espressa previsione di legge contenuta nel capo III del D.Lgs. n. 150 del 2011, fra le quali rientrano le controversie in materia di discriminazione, deve ritenersi sempre consentita la chiamata in causa per ordine del giudice, ai sensi dell'art. 107 c.p.c., benchè non espressamente prevista dall'art. 702-bis c.p.c., comma 5".

13. Devono essere esaminati, a questo punto, il secondo motivo del ricorso della Lega Nord-Lega Lombarda e il primo motivo del ricorso della Lega Nord per l'indipendenza della Padania, i quali vanno trattati congiuntamente in quanto hanno entrambi ad oggetto il problema della legittimazione passiva delle ricorrenti e dell'estensione della domanda originariamente proposta nei soli confronti della Lega Nord, Sezione di (Omissis).

13.1. I motivi sono entrambi infondati.

La Corte d'appello, con una ricostruzione dei fatti del tutto plausibile e correttamente motivata, ha spiegato che i manifesti di cui si discute erano sì da ricondurre alla Sezione locale della Lega Nord, ma che ciò non escludeva, in virtù dell'uso del simbolo, la responsabilità degli organi centrali del partito. A questa conclusione la Corte milanese è pervenuta mettendo in luce la circostanza, la quale costituisce un accertamento di fatto insindacabile in questa sede, per cui i manifesti riportavano al centro il simbolo della Lega Nord per l'indipendenza della Padania e quello, più piccolo, della Lega Nord-Lega lombarda.

Ne consegue che è del tutto ragionevole la conclusione della sussistenza di una responsabilità di quelle che la sentenza ha definito le "istanze superiori" del partito; tale responsabilità, è bene ricordarlo, non ha - come vorrebbero le ricorrenti - natura oggettiva, ma è pur sempre una responsabilità per colpa, se non altro a titolo di culpa in vigilando, perchè un partito politico è tenuto comunque a garantire, a livello centrale, una forma attiva di sorveglianza per evitare che le sedi locali assumano iniziative ritenute eccentriche o in contrasto con il programma politico del partito stesso (ipotesi, peraltro, nella specie, non predicabile). Nè, d'altra parte, risulta da alcun atto del processo che le odierne parti ricorrenti abbiano in qualche modo manifestato la volontà di prendere le distanze rispetto alla posizione assunta dalla Lega saronnese, il che equivale ad ammettere, anche se per implicito, che quella posizione era condivisa.

14. La Corte deve procedere, a questo punto, ad esaminare il terzo motivo del ricorso della Lega Nord-Lega Lombarda e il secondo motivo del ricorso della Lega Nord per l'indipendenza della Padania, i quali vanno trattati congiuntamente in quanto hanno entrambi ad oggetto il problema dell'accertamento, compiuto dai giudici di merito, dell'esistenza di un comportamento discriminatorio.

14.1. Appare utile, a questo proposito, compiere una breve premessa per la ricostruzione del quadro normativo di riferimento.

Com'è noto, la complessa materia in esame non è oggetto di regolazione nel solo ambito nazionale, ma ha ricevuto ampia e crescente attenzione anche nella legislazione sovranazionale.

Pur dovendosi necessariamente prendere avvio dagli artt. 3 e 10 Cost. repubblicana, dai quali si traggono i principi fondamentali riguardanti la pari dignità dei cittadini e la tutela degli stranieri in senso lato, va ricordato che l'art. 14 della CEDU prevede il divieto di discriminazione, stabilendo che il godimento dei diritti e delle libertà ivi riconosciuti "deve essere garantito, senza alcuna distinzione, fondata soprattutto sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o altre opinioni"; parametro, quest'ultimo, che è stato in più occasioni richiamato dalla Corte di Strasburgo come diritto alla non discriminazione. L'elenco dei "fattori di protezione" di cui all'art. 14 cit., inoltre, ha carattere "aperto", così come riconosciuto dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo che, in applicazione di tale principio, ha ritenuto di applicare l'art. 14 anche con riferimento ad ipotesi in cui i fattori da proteggere non comparivano espressamente nella norma in parola (quali, ad esempio, l'orientamento sessuale e l'identità di genere: Corte EDU, 16 settembre 2021, X c. Polonia, n. 20741/10, p. 70).

Vanno poi ricordati gli artt. 20-23 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea - non a caso inseriti nel Capo III che si intitola "Uguaglianza" - e, fra questi, soprattutto l'art. 21, il quale vieta "qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali". E la versione consolidata del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea prevede all'art. 10 che nella definizione e attuazione delle sue politiche "l'Unione mira a combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale".

Ancora, con riferimento alle fonti, appare significativo ricordare che, secondo l'orientamento seguito dalla Corte di giustizia sin dalla sentenza Mangold (CGCE 22 novembre 2005, C144/04), quelli di cui si discute rappresentano principi generali di diritto dell'Unione Europea, caratterizzati da un innegabile effetto di drittwirkung e, come tali, aventi efficacia diretta orizzontale, cioè ricognitivi di un diritto che può essere invocato anche nei rapporti tra privati.

Sul piano del diritto interno, non è senza significato l'orientamento della Corte costituzionale predicativo del principio secondo il quale "esiste un rapporto di mutua implicazione e di feconda integrazione" tra i divieti di discriminazione prescritti dal diritto dell'Unione e i diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione nazionale (ordinanza n. 182 del 2020, punto 3.2. del Considerato in diritto); di tal che viene ritenuto suo indefettibile compito quello "di assicurare una tutela sistemica, e non frazionata, dei diritti presidiati dalla Costituzione, anche in sinergia con la Carta di Nizza, e di valutare il bilanciamento attuato dal legislatore, in una prospettiva di massima espansione delle garanzie" (Corte costituzionale, sentenza n. 54 del 2022, punto 10).

Questo inquadramento generale rappresenta la necessaria premessa per una corretta lettura della normativa nazionale di diretto interesse nel giudizio odierno, costituita principalmente dal D.Lgs. n. 286 del 1998 (in particolare agli artt. 43 e 44), dal D.Lgs. n. 215 del 2003 (che contiene all'art. 2 l'espressa definizione di discriminazione) e dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28 che, nel dettare le norme processuali sulle controversie in tema di discriminazione, contiene anche significative disposizioni di carattere sostanziale.

Il D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 43 prevede, al comma 1, che "costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica", mentre il comma 2 contiene specificamente un elenco di atti discriminatori. Il successivo art. 44, ampiamente rimodellato da norme successive e oggi sostanzialmente rifluito nel D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28 (con significative aggiunte e modifiche), già prevedeva nel suo testo originario la possibilità di "ricorrere all'autorità giudiziaria ordinaria per domandare la cessazione del comportamento pregiudizievole e la rimozione degli effetti della discriminazione".

Il D.Lgs. n. 215 del 2003, attuativo della direttiva 2000/43/CE, prevede, all'art. 2, una distinzione tra la discriminazione diretta e quella indiretta, fa salvo il disposto del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 43, commi 1 e 2, e stabilisce, al comma 3, che sono considerate "come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo". Il D.Lgs. n. 215, art. 4 prevede, inoltre, che i giudizi civili avverso gli atti e i comportamenti discriminatori siano regolati dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28 mentre il successivo art. 5 riconosce, in favore delle associazioni ed enti "inseriti in un apposito elenco approvato con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro per le pari opportunità ed individuati sulla base delle finalità programmatiche e della continuità dell'azione", la possibilità di agire nei casi discriminazione collettiva, "qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione".

Si deve invece al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, comma 4, la specifica previsione in base alla quale, se il ricorrente "fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l'esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l'onere di provare l'insussistenza della discriminazione". Norma, questa, che, nel riconoscere una forte valenza presuntiva agli elementi ivi indicati, realizza nei giudizi in questione un'agevolazione probatoria in favore dell'attore, mediante lo strumento di una parziale inversione dell'onere della prova (così la sentenza 28 marzo 2022, n. 9870).

14.2. Tanto premesso da un punto di vista normativo, il Collegio ricorda che le Sezioni Unite di questa Corte, con l'ordinanza 30 marzo 2011, n. 7186, hanno affermato, in relazione all'azione di cui al T.U. n. 286 del 1998, art. 44 che il legislatore, al fine di garantire parità di trattamento e di vietare ingiustificate discriminazioni per ragioni di razza ed origine etnica, ha configurato una posizione di diritto soggettivo assoluto a presidio di un'area di libertà e potenzialità del soggetto, possibile vittima delle discriminazioni, rispetto a qualsiasi tipo di violazione posta in essere sia da privati che dalla P.A., senza che assuma rilievo, a tal fine, che la condotta lesiva sia stata attuata nell'ambito di procedimenti per il riconoscimento, da parte della P.A., di utilità rispetto a cui il privato fruisca di posizioni di interesse legittimo (si trattava, in quel caso, di un giudizio promosso per contrastare la decisione dell'amministrazione datrice di lavoro di escludere dalle procedure di stabilizzazione alcuni lavoratori extracomunitari perchè privi del requisito della cittadinanza italiana).

Che il diritto a non essere discriminati si configuri come un diritto soggettivo assoluto era stato, peraltro, già affermato dalle medesime Sezioni Unite nella precedente ordinanza 15 febbraio 2011, n. 3670 (nella nota vicenda di illegittima revoca del c.d. bonus bebè disposto da un Comune che l'aveva in origine concesso solo alle famiglie con almeno un genitore italiano).

Deve poi essere menzionata, a ulteriore dimostrazione del necessario rigore ermeneutico riservato dalle Sezioni Unite di questa Corte al fenomeno delle discriminazioni, la sentenza 20 aprile 2016, n. 7951, la quale, enunciando il principio di diritto nell'interesse della legge, ha stabilito che la P.A. che inserisca nel bando di selezione dei volontari per i progetti del servizio civile nazionale il requisito della cittadinanza italiana pone in essere una discriminazione diretta per ragioni di nazionalità ai danni del cittadino straniero regolarmente residente in Italia, che può pertanto esercitare l'azione antidiscriminatoria di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44.

Analogamente, va rammentata la recente ordinanza 1 febbraio 2022, n. 3057, con la quale le Sezioni Unite hanno affermato che l'azione promossa contro un atto di una federazione sportiva che produce una discriminazione per motivi di nazionalità in relazione al tesseramento degli atleti, esula dalla giurisdizione amministrativa in ordine alle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa di atti delle federazioni sportive, che si configurano come decisioni amministrative aventi rilevanza per l'ordinamento statale, ma rientra nella giurisdizione del giudice ordinario, ai sensi del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 44 e del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28 essendo finalizzata alla tutela di un diritto soggettivo della persona, qualificabile come diritto assoluto.

14.3. Alla luce di quest'ampia premessa, necessaria al fine di inquadrare la specifica questione oggi in esame in un contesto più ampio, la Corte ritiene che i due motivi di ricorso in esame siano del tutto privi di fondamento.

Il punto centrale delle censure ivi contenute riguarda l'uso del termine "clandestini" compiuto nei manifesti per cui è causa e la risposta data dalla Corte d'appello.

Occorre innanzitutto ricordare che la Corte milanese ha correttamente posto in luce come il termine di cui sopra fosse stato riferito a persone straniere che avevano presentato allo Stato italiano domanda di protezione internazionale. Osserva, in proposito, il Collegio che, in base a quanto previsto dal D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 142, art. 1, commi 2 e 3, del le misure di accoglienza devono applicarsi fin dal momento della manifestazione della volontà di chiedere la protezione internazionale, e che la presentazione di tale domanda implica il rilascio di un apposito permesso di soggiorno (per richiedenti asilo) che consente di svolgere anche attività lavorativa. In particolare, il citato D.Lgs. n. 142 del 2015, anch'esso attuativo di una direttiva dell'Unione Europea, prevede all'art. 4, comma 1, che al richiedente venga rilasciato un permesso di soggiorno valido per sei mesi e rinnovabile fino alla decisione della domanda, permesso che costituisce documento di riconoscimento. Il successivo art. 22 del D.Lgs. n. 142 cit. dispone che il permesso ora descritto "consente di svolgere attività lavorativa, trascorsi sessanta giorni dalla presentazione della domanda, se il procedimento di esame della domanda non è concluso ed il ritardo non può essere attribuito al richiedente".

Coloro che "temono a ragione di essere perseguitati" e che correrebbero il rischio di essere sottoposti a trattamenti contrari all'art. 3 della CEDU, in ossequio al c.d. principio di non refoulement (principio consolidato di diritto internazionale consuetudinario), non possono essere respinti alle frontiere (cfr. art. 31, 32 e 33 della Convenzione di Ginevra, art. 18 TFUE, art. 18 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea). Gli stranieri che fanno ingresso nel territorio dello stato italiano, perchè temono a ragione di essere perseguitati o perchè corrono il rischio effettivo, in caso di rientro nel paese d'origine, di subire un "grave danno", non possono, pertanto, e a nessun titolo, considerarsi irregolari e non sono, dunque, "clandestini".

E' quindi corretta l'affermazione della Corte di merito là dove ha escluso che il termine "clandestini" fosse in concreto riferibile ai 32 cittadini di Paesi terzi richiedenti asilo ai quali si rivolgeva il manifesto ritenuto discriminatorio, non essendo nei loro confronti raffigurabile una situazione come quella del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 10-bis che prevede il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato.

La Corte d'appello, poi, con una ricostruzione e valutazione dei fatti che costituisce un giudizio di merito insindacabile in questa sede - anche perchè argomentato in modo ineccepibile - ha aggiunto che, al di là dell'illegittimità nell'uso del termine, quell'uso andava inquadrato nel contesto complessivo dei manifesti in questione, i quali presentavano i 32 richiedenti asilo come "usurpatori, per vitto, alloggio e non precisati vizi, di risorse economiche ai danni degli abitanti del Comune", costringendo questi ultimi a subire la c.d. invasione, con conseguente incremento delle tasse e riduzione delle pensioni.

Giova ricordare, al riguardo, che il suindicato D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 2 definisce come discriminazione indiretta la situazione nella quale "una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone"; e aggiunge nel comma 3, a mò di norma di chiusura, che sono considerate "come discriminazioni, ai sensi del comma 1, anche le molestie ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza o di origine etnica, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo".

Con riferimento a tale aspetto, la recente ordinanza 26 maggio 2023, n. 14836, di questa Corte ha chiarito che la molestia per ragioni di razza o di etnia, equiparata alle ipotesi di discriminazione diretta e indiretta tutelata dal D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 2, comma 3, è integrata da qualsiasi comportamento che sia lesivo della dignità della persona e sia potenzialmente idoneo a creare o incrementare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo nei confronti della predetta etnia, e che si ha discriminazione anche nel caso in cui vi sia l'associazione di tale etnia a comportamenti delittuosi.

Ne consegue che appare del tutto conforme a diritto la decisione impugnata anche là dove, leggendo il riferimento al termine "clandestini" nello specifico e più ampio contesto nel quale era stato utilizzato, ha ritenuto di individuare in tale uso un comportamento discriminatorio, in quanto volto a creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo nei confronti dei 32 richiedenti asilo.

Si tratta, cioè, di una discriminazione indiretta determinata da ragioni di razza e di origine etnica. E tanto va affermato a prescindere dalla concreta possibilità di qualificare la fattispecie in esame in termini di discriminazione diretta, alla luce di quanto la Corte di giustizia UE ha ripetutamente chiarito sostenendo che, laddove una condotta svantaggiosa sia fondata (anche, ma non solo) su stereotipi o pregiudizi connessi al fattore protetto, come nel caso in esame, ci si trovi al cospetto di una discriminazione diretta (sentenza 16 luglio 2015, Chez, C-83/14, p. 82).

E' fermo convincimento di questa Corte, poi, che un termine come quello di cui si discute ("clandestini") abbia assunto concretamente, nell'utilizzo corrente, un contenuto spregiativo e una valenza fortemente negativa; ciò non significa che esso non possa venire utilizzato nella sua originaria accezione strettamente lessicale, ma che il contesto della struttura sociale in cui esso si cala esige comunque, da parte di chi lo evochi, un'estrema attenzione. Se è vero, infatti, che uno dei valori fondanti della Costituzione repubblicana è quello della pari dignità delle persone, è anche vero che il termine di cui si discute può facilmente prestarsi (e indurre), specie se inserito in un contesto verbale come quello del manifesto in questione, ad abusi i quali, creando un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo, si risolvono appunto in un comportamento discriminatorio.

La formula usata dal D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 2 volutamente ampia, ha come obiettivo proprio quello di fornire al giudice uno strumento per punire comportamenti che non possono essere tutti esattamente indicati a priori; per cui l'elenco di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 43, comma 2, è da intendere come integrato dalla norma più recente, grazie alla prudente interpretazione del giudice di merito.

Non giova alle parti ricorrenti, inoltre, il richiamo alla valenza asseritamente solo politica del messaggio veicolato dal manifesto in questione, il quale avrebbe l'unico obiettivo di manifestare un dissenso rispetto a scelte compiute dagli allora Presidente del Consiglio e Ministro dell'interno. Non è questo il luogo, ovviamente, per richiamare la cospicua giurisprudenza di questa Corte relativa ai confini entro i quali deve mantenersi la critica politica; qui giova solo ricordare che non è comunque consentito, in nome del diritto a manifestare una posizione di legittimo dissenso, agire con un comportamento discriminatorio assunto, tra l'altro, nei confronti di soggetti assai di frequente neppure consapevoli dei loro diritti e, perciò, in una posizione obiettiva di debolezza (e non sembra casuale la circostanza che nessuno di loro, nel caso in esame, abbia agito a tutela del proprio diritto).

La Corte, infine, non può esimersi dal rilevare come sia totalmente priva di fondamento l'affermazione - contenuta specialmente nel secondo motivo del ricorso della Lega Nord per l'indipendenza della Padania - secondo cui per aversi un comportamento discriminatorio occorre che esso abbia come scopo quello di compromettere il godimento o l'esercizio dei diritti fondamentali. Tale affermazione contrasta in modo evidente con la lettera della legge, la quale ha voluto riconoscere carattere di illiceità a quei comportamenti caratterizzati tutti dal comune denominatore della creazione di un contesto in vario modo ostile, anche a prescindere dall'accertamento della lesione di un diritto fondamentale.

15. La Corte deve procedere, a questo punto, ad esaminare il quarto motivo del ricorso della Lega Nord-Lega Lombarda e il quinto motivo del ricorso della Lega Nord per l'indipendenza della Padania, aventi entrambi ad oggetto la legittimazione attiva delle associazioni ricorrenti e il problema della prova del danno.

15.1. I motivi sono entrambi infondati.

Come si è detto in precedenza ricostruendo il quadro normativo di riferimento, discendono da specifiche (e innovative) disposizioni di legge sia la legittimazione, in capo alle associazioni di cui al D.Lgs. n. 215 del 2003, art. 5 ad agire a tutela dei diritti lesi da atti discriminatori, sia la previsione della risarcibilità anche del danno non patrimoniale e della parziale inversione dell'onere della prova in presenza di elementi che consentano di presumere l'esistenza di atti o comportamenti discriminatori (D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, commi 4 e 5).

La Corte d'appello ha illustrato, con argomentazioni corrette e prive di vizi logici, le ragioni per cui ha ritenuto dimostrata l'esistenza di un danno; ha richiamato, a sostegno della decisione, anche la sentenza 8 maggio 2017, n. 11165, di questa Corte, evidenziando che nel caso specifico si trattava di una discriminazione collettiva e che perciò le associazioni erano legittimate ad agire anche per il danno non patrimoniale, non essendo state individuate le persone oggetto del manifesto di protesta (in tal senso v. anche la successiva sentenza 8 novembre 2021, n. 32388).

Deve anche essere rilevato, in proposito, che "nella materia della tutela contro le discriminazioni collettive, la legittimazione ad agire in capo ad un soggetto collettivo non rappresenta un'eccezione ma una regola funzionale all'esigenza di apprestare tutela, attraverso un rimedio di natura inibitoria, ad una serie indeterminata di soggetti per contrastare il rischio di una lesione avente natura diffusiva e che perciò deve essere, per quanto possibile, prevenuta o circoscritta nella propria portata offensiva" (così la sentenza 7 novembre 2019, n. 28745).

A fronte di questa ricostruzione si infrangono i motivi qui in discussione; e la Corte ritiene di dover espressamente rilevare la manifesta infondatezza della considerazione, contenuta nel ricorso della Lega Nord per l'indipendenza della Padania, secondo cui la legittimazione attiva in capo alle associazioni portatrici dell'interesse ad agire sarebbe limitata alla fase inibitoria, senza potersi estendere alla successiva fase risarcitoria. Si tratta di un rilievo palesemente eccentrico, che non trova alcun riscontro nella lettera della legge - il cui testo dimostra l'esatto contrario - e che, se fosse esatto, finirebbe con lo svuotare di contenuto la stessa previsione legislativa.

16. Rimangono da esaminare, infine, il quinto motivo del ricorso della Lega Nord-Lega Lombarda e il quarto motivo del ricorso della Lega Nord per l'indipendenza della Padania, da trattare congiuntamente siccome aventi entrambi ad oggetto il preteso bilanciamento dei valori costituzionali sotteso alla vicenda in esame.

I motivi qui in esame sottolineano, come si è detto, l'importanza di coordinare la tutela dei diritti degli stranieri ed immigrati con i principi costituzionali della libertà di manifestazione del pensiero (art. 21 Cost.) e della libertà dei cittadini di associarsi liberamente in partiti politici (art. 49 Cost.).

16.1. I motivi sono entrambi privi di fondamento.

Il problema del bilanciamento tra valori entrambi di rilevanza costituzionale è un problema complesso, che esigerebbe una trattazione ben più ampia e articolata di quella della presente sentenza, alla luce anche delle numerose sentenze della Corte costituzionale che hanno affrontato la questione nelle diverse discipline (si possono indicare, a mero titolo di esempio, la sentenza n. 162 del 2016, a proposito della negoziazione assistita nelle cause di risarcimento del danno da circolazione di veicoli e natanti, e la sentenza n. 210 del 2015, sui limiti alla libertà d'iniziativa economica nel quadro di un bilanciamento con altri interessi costituzionalmente rilevanti).

Osserva il Collegio che la sentenza impugnata ha esaminato funditus la questione e, con una motivazione caratterizzata da correttezza ed equilibrio, ha evidenziato come la tutela contro gli atti discriminatori si basi "sui principi fondamentali della Costituzione in tema di diritti inviolabili della persona", cioè sui principi di pari dignità e di uguaglianza davanti alla legge, che trovano riscontro nell'art. 14 della CEDU sul divieto di discriminazione. Ed ha aggiunto che l'esercizio della libertà di espressione politica "deve essere necessariamente bilanciata con il rispetto e la tutela della dignità delle persone".

Tali argomentazioni meritano integrale conferma.

La Corte EDU (Gunduz c. Turchia, ric. n. 35071/97, 4 dicembre 2003, pp. 40-41), chiamata a pronunciarsi su espressioni concrete di incitamento all'odio, ha affermato come "la tolleranza e il rispetto per la uguale dignità di tutti gli esseri umani costituisce il fondamento di una società democratica e pluralista. In considerazione di ciò, può essere necessario come questione di principio in determinate società democratiche sanzionare o anche precludere ogni forma di espressione che diffonda, istighi, promuova o giustifichi il livore basato sull'intolleranza".

Fermo restando che il bilanciamento tra valori di rilevanza costituzionale è affidato alla concreta valutazione del giudice di merito, il Collegio osserva che nel caso di specie tale bilanciamento è stato correttamente compiuto. Il diritto alla libera manifestazione del pensiero, cui si accompagna quello ad organizzarsi in partiti politici, difatti, non può essere ritenuto equivalente, o addirittura prevalente, sul fondamentale principio del rispetto della dignità personale degli individui.

Nel caso specifico, infatti, è palese che il diritto, indiscutibile, a manifestare il dissenso in relazione ad una certa gestione del fenomeno dei richiedenti asilo si sarebbe potuto svolgere, correttamente, omettendo quelle considerazioni, evidenziate giustamente dalla Corte d'appello, che hanno creato intorno ai 32 cittadini extracomunitari un clima di umiliazione e di ostilità. Ed è chiaro che il diritto alla libera manifestazione del pensiero, se realizzato con modalità intolleranti, come nel caso di specie, deve essere considerato recessivo rispetto al diritto dei singoli al rispetto della propria dignità personale.

17. I ricorsi, in conclusione, sono entrambi rigettati.

A tale esito segue la condanna dei ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, da distrarre in favore degli avvocati Alberto Guariso e Livio Neri che si sono dichiarati antistatari.

Sussistono inoltre le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per il versamento, da parte di ciascuno dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta entrambi i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate per ciascun controricorso in complessivi Euro 3.300, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali ed accessori come per legge, da distrarre in favore degli avvocati Alberto Guariso e Livio Neri che si sono dichiarati antistatari.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte di ciascun ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 22 maggio 2023.

Depositato in Cancelleria il 16 agosto 2023