Home
Lo studio
Risorse
Contatti
Lo studio

Decisioni

Nessuna presunzione, conoscibilità del processo non è conoscenza (Trib. Rovereto, 148/19)

23 maggio 2019, Tribunale di Rovereto

La disciplina delle notifiche non garantisce affatto l’effettiva conoscenza dell’atto notificato ma una mera conoscibilità, spesso puramente ipotetica e astratta, che ben si armonizzava col vecchio processo contumaciale, che però, come si è visto, era gravemente contraddittorio coi principi del giusto processo.

L’art. 6 della CEDU, pur non prevedendo espressamente il diritto dell’imputato a presenziare al processo, lo presuppone implicitamente laddove riconosce il diritto di difesa e, in particolare, il diritto di difendersi personalmente o a mezzo di un difensore ed il diritto alla prova (in particolare interrogare e far interrogare i testimoni). La Corte riconosce però anche il diritto alla rinunzia volontaria alla presenza. Affinché questi diritti siano tutelati nel loro spirito autentico l’imputato deve essere effettivamente consapevole del processo, non semplicemente del procedimento a suo carico oppure, qualora questo non sia garantito, occorre che vi siano adeguati strumenti riparatori per garantire un nuovo processo con piena garanzia al diritto alla prova.

L’interpretazione convenzionalmente orientata ha dei limiti strutturali perché, se certamente consente di risolvere i dubbi interpretativi nel senso che, tra più interpretazioni consentite dal testo letterale delle norme, impone di scegliere quella maggiormente rispondente ai canoni del giusto processo fissati dall’art. 6 della CEDU e dall’art. 111 Cost., altrettanto certamente non consente di disapplicare, puramente e semplicemente, le norme di legge e di prefigurare una disciplina astratta del tutto diversa da quella scelta del legislatore. Immaginare che la nuova disciplina del processo in assenza italiano imponga l’effettiva conoscenza del processo, ossia della data di udienza, in base ad una notifica a mani dell’imputato, è in chiara contraddizione con l’art. 420-bis c.p.p. e, per di più, non solo è soluzione per nulla imposta dalla giurisprudenza di Strasburgo, ma una volta ritenuta la soluzione corretta per il caso problematico dell’elezione di domicilio al difensore di ufficio in fase investigativa, prima ancora dell’iscrizione della notizia di reato, dovrebbe essere necessariamente estesa anche ad altri casi, ossia al caso di elezione di domicilio dopo l’iscrizione della notizia di reato, al caso di nomina di difensore di fiducia, di arresto, fermo o di misura cautelare, trattandosi tutti di situazioni che, di per sé, non garantiscono affatto l’effettiva conoscenza della successiva vocatio in iudicium.

I fatti sintomatici della conoscenza del procedimento, che il legislatore prevede nella legge processuale, e primo fra tutti l’elezione di domicilio presso il difensore di ufficio nei primissimi atti di indagine, non costituiscono affatto, come troppo spesso si legge anche in sentenze di legittimità, presunzioni assolute o anche solo relative di conoscenza del processo, ma meri fatti processuali valutabili d’ufficio del giudice, che ben potrà ritenere che il fatto sintomatico previsto dal legislatore in via generale non sia in concreto idoneo per la celebrazione del processo in absentia.

Vanno rimarcate due fondamentali differenze tra la tutela successiva e quella preventiva, attinenti l’una all’oggetto dell’effettiva conoscenza e l’altra alla ripartizione dell’onere probatorio: nella tutela preventiva è sufficiente l’effettiva conoscenza del mero procedimento del procedimento ovvero che risulti che la mancata conoscenza, anche di singoli atti, sia colpevole, perché imputabile ad una volontaria sottrazione da parte dell’imputato, ma la difesa è esonerata, almeno all’apparenza, da qualsiasi prova; nella tutela successiva occorre la ben più pregnante conoscenza della celebrazione del processo, ma la prova dell’incolpevole conoscenza è fatta gravare tutta sulla difesa, con evidente e grave frizione coi principi della CEDU.

TRIBUNALE DI ROVERETO

in composizione monocratica 

sentenza 19/148 dd. 23 maggio 2019

Il Giudice dott. Riccardo Dies all'udienza di data 23.05.2019 ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente

S E N T E N Z A

nei confronti di:

KJ nato a Daegu (Corea del Sud) il .. , con domicilio eletto presso lo studio del difensore di ufficio, Avv. Giovanni Guarini del Foro di Rovereto                                     LIBERO - ASSENTE

IMPUTATO

del reato p. e p. dall’articolo 590-biscomma 1 e 8 c.p., perché alla guida della vettura a noleggio Fiat 500 tg. **, procedendo sulla SS421, in quel tratto denominata via dei Tigli, nel comune di Riva del Garda direzione Tenno, giunto all’intersezione con la subordinata strada comunale denominata viale Rosmini, posta sulla sinistra rispetto alla direzione di marcia, dava corso alla manovra di svolta a sinistra, attraversando la carreggiata di marcia di direzione opposta, senza avvedersi del sopraggiungere del motociclo marca Piaggio mod. Liberty 200 tg. **, condotta da LG che trasportava sul sedile posteriore AV, il quale procedeva regolarmente nella propria corsia di marcia in direzione Riva del Garda – centro, provocando in tal modo, per negligenza, imprudenza, imperizia, ed in particolare in violazione dell’art. 145,  2° e 10° comma del codice della strada, la collisione fra la parte anteriore del mezzo da lui condotto e la parte anteriore del motociclo condotto dal L e la conseguente rovinosa caduta a terra dello stesso e della passeggera A, e cagionando a quest’ultima una lesione personale con diagnosi di “frattura del piatto tibetale esterno ginocchio sinistro” e prognosi di guarigione pari a gg. 60 s.c.

Provocando altresì al conducente del motociclo Lanzano Gianfranco una lesione personale con diagnosi di “policontusioni e frattura primo cuneiforme piede sinistro” e prognosi di guarigione pari a gg. 60 s.c.

Fatto accaduto in Riva del Garda (TN) alle ore 12:15 del 04.10.2016.

Con l’intervento del Pubblico Ministero, Avv. Elisa Beltrame e del difensore d’ufficio dell’imputato, Avv. Giovanni Guarini del Foro di Rovereto.

Le parti hanno concluso come segue: il PM chiede la condanna dell’imputato alla pena di mesi 3 di reclusione; la difesa chiede, in via principale, l’assoluzione perché il fatto non è punibile per particolare tenuità del fatto, a norma dell’art. 131-bis c.p. e, in via subordinata, minimo della pena previa concessione delle circostanze attenuanti generiche e del risarcimento del danno. 

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione diretta il nominato in oggetto era tratto a giudizio per rispondere del reato in rubrica indicato. All’udienza del 24.01.2019, respinte le eccezioni preliminari della difesa e dichiarato assente l’imputato, veniva aperto il dibattimento ed ammesse le prove richieste dalle parti.

All’udienza dell’11 aprile 2019 venivano esaminati i testi (..) e all’odierna udienza le parti concludevano come in epigrafe.

MOTIVAZIONE

Ritiene questo Giudice di dover dichiarare non doversi procedere contro l’imputato in ordine al reato di cui all’art. 590 c.p., così diversamente qualificato il fatto di cui all’imputazione, limitatamente alle lesioni procurate a GL, per difetto della condizione di procedibilità della querela. Ritiene, invece, che provata è la penale responsabilità dell’imputato in ordine al reato ascrittogli, con riferimento alle lesioni procurate a VA, emergendo dall’istruttoria dibattimentale svolta, la relativa prova, oltre ogni ragionevole dubbio.

Appare opportuno esporre diffusamente i motivi a fondamento dell’ordinanza di rigetto delle eccezioni preliminari della difesa, dettata a verbale dell’udienza del 24.01.2019, perché la verbalizzazione riassuntiva non dà adeguatamente conto della complessità della motivazione.

La difesa ha anzitutto contestato la nullità del verbale di elezione di domicilio, firmato dall’imputato nell’immediatezza del fatto in data 05.10.2016 perché redatto solo in lingua italiana ed inglese e non nella lingua madre dell’imputato (coreano).

L’eccezione è infondata perché il PM ha esibito in udienza la notizia di reato, a norma dell’art. 187, comma 2 c.p.p., nella quale si da espressamente atto che l’imputato, pur non comprendendo la lingua italiana, parla e comprende la lingua inglese e, pertanto, la traduzione in detta lingua del verbale di elezione di domicilio e degli atti successivi deve ritenersi conforme alle garanzie previste dagli artt. 143 ss c.p.p., perché secondo costante giurisprudenza della Cassazione queste norme non impongono tassativamente la traduzione nella lingua madre dell’imputato, ma in una lingua comunque da lui conosciuta, come da sue stesse dichiarazione, in quanto ciò è già sufficiente per un compiuto e concreto esercizio del diritto di difesa (cfr., da ultimo, Cass., 11.07.2018, n. 47534, rv. 274136 e Cass., 13.12.2016, n. 2673, rv. 268863). 

La difesa ha poi contestato che l’elezione di domicilio effettuata nell’immediatezza del fatto dall’imputato presso il difensore di ufficio non è sufficiente a garantire l’effettiva conoscenza del processo, imposto dalla giurisprudenza EDU, alla quale si deve conformare l’interpretazione degli artt. 420-bis ss. c.p.p. e, pertanto, si  sarebbe dovuto procedere ad un tentativo di notifiche a mani, a norma dell’art. 420-quater c.p.p. e, in caso di esito negativo, sospendere il procedimento. Assume, in particolare, la difesa che presupposto dell’effettiva conoscenza del procedimento sia una formale contestazione dell’accusa, che non può esservi quando l’elezione o dichiarazione di domicilio sia avvenuta nell’immediatezza del fatto, prima ancora dell’iscrizione del nominativo dell’indagato nel registro degli indagati e dell’invio in Procura della relativa notizia di reato ed ha citato a sostegno una recente pronunzia della Suprema Corte (cfr. Cass., 24 gennaio 2017, n. 9441, rv. 269221; in senso analogo cfr. anche Cass. 02.03.2017, n. 16416, rv. 269843). 

Sennonché le due pronunzie sopra citate devono ritenersi, allo stato, ancora minoritarie, perché il prevalente orientamento della Cassazione lega una presunzione di effettiva conoscenza del procedimento all’elezione di domicilio, anche se compiuta presso il difensore di ufficio ed effettuata nei primissimi atti di indagine, in sede di verbale di identificazione, con la conseguenza che l’eventuale mancanza di conoscenza della data di udienza e della stessa imputazione dovrebbe essere interpretata come una sua condotta di volontaria sottrazione alla conoscenza degli atti del procedimento (cfr. Cass., 13.07.2017, n. 40848, rv. 271015 e, sia pur con riferimento all’istituto collegato della rescissione del giudicato, Cass., 07.07.2016, n. 36855, rv. 268322; Cass., 23.05.2018, n. 25996, rv. 272987; Cass., 18.09.2018, n. 57899, n.m., Cass., 16.10.2018, n. 49916, rv. 273999).

Che la questione sia assai seria, è confermato dalla circostanza che con ordinanza 29.01.2019, nr. 9144, la prima sezione penale della Suprema Corte ha investito le Sezioni Unite su questo specifico quesito: se per la valida pronunzia della dichiarazione di assenza di cui all’art. 420-bis c.p.p., integri presupposto sufficiente – particolarmente nell’ipotesi della sua identificazione da parte della polizia giudiziaria, con nomina di difensore di ufficio – il fatto che l’indagato elegga contestualmente il domicilio presso il suddetto difensore di ufficio, oppure tale elezione non sia di per sé sufficiente e se, in questo caso, possa tuttavia diventarlo sulla base di altri elementi che convergano nel far risultare con certezza che lo stesso è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento stesso o di atti del medesimo”.

L’udienza per la decisione è attualmente fissata per il 27 giugno 2019. 

Il presupposto interpretativo dal quale muove la difesa deve ritenersi corretto, essendo certamente un obbligo del giudice domestico fornire un’interpretazione convenzionalmente conforme e, pertanto, la disciplina interna deve essere, nei limiti del possibile, armonizzata coi principi di cui alla CEDU, così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte Edu.

Non è tuttavia condivisibile il rimedio proposto dall’orientamento innovativo, essenzialmente fondato su un dato formale, costituito dal fatto che l’elezione di domicilio avvenga prima o dopo l’iscrizione della notizia del reato, che a sommesso avviso di questo Giudice non appare per nulla significativo in relazione al concreto esercizio del diritto di difesa nel processo in assenza, che la giurisprudenza EDU mira a salvaguardare. Detto altrimenti la circostanza che il nominativo dell’indagato sia o meno già iscritto nel registro degli indagati non aggiunge e non toglie nulla rispetto ai presupposti conosciutivi in capo all’imputato per poter ritenere che il processo svolto in sua assenza risponda ai requisiti minimi di un giusto processo, ai sensi dell’art. 6 CEDU o 111 Cost. e ciò perché la mera iscrizione nel registro degli indagati, se potrà avere un suo rilievo riguardo alla fissazione dell’inizio del procedimento, non cristalizza certo l’accusa, che potrà invece essere rimodulata dal PM, persino dopo la notifica dell’avviso delle conclusioni delle indagini di cui all’art. 415-bis c.p.p., sino all’esercizio dell’azione penale.

D’altra parte ritiene questo Giudice che non si possa fare applicazione letterale dell’art. 420-bis, comma 2c.p.p. in tutti i casi in cui l’imputato “nel corso del procedimento abbia dichiarato o eletto domicilio (…)”, come in buona sostanza ritenuto dall’orientamento prevalente, ipotizzando una forma di presunzione di conoscenza, perché se è vero che si tratta di un’interpretazione giustificata dalla lettera della legge, una soluzione così rigida violerebbe certamente i principi del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU, come interpretati dalla Corte di Strasburgo.

Assumono, al riguardo, in particolare 3 fondamentali sentenze della Corte Edu:

1) 12.02.1985 Colozza c. Italia pronunziata ancora sotto la vigenza del vecchio codice di procedura penale italiano;

2) 18.05.2004 Somogyi c. Italia;

3) 10.11.2004 Sejdovic c. Italia.

Le ultime due hanno determinato la riforma della disciplina in materia di restituzione in termini di cui all’art. 175, comma 2 c.p.p. del 2005 (d.l. 17 del 2005 convertito in legge 22.04.2005 n. 60), oggi superata per effetto della legge n. 67 del 2014.

Come chiarito anche dalla Corte Costituzione (cfr. Corte Cost. n. 317 del 2009), l’art. 6 della CEDU, pur non prevedendo espressamente il diritto dell’imputato a presenziare al processo, lo presuppone implicitamente laddove riconosce il diritto di difesa e, in particolare, il diritto di difendersi personalmente o a mezzo di un difensore ed il diritto alla prova (in particolare interrogare e far interrogare i testimoni). La Corte riconosce però anche il diritto alla rinunzia volontaria alla presenza. Affinché questi diritti siano tutelati nel loro spirito autentico l’imputato deve essere effettivamente consapevole del processo, non semplicemente del procedimento a suo carico oppure, qualora questo non sia garantito, occorre che vi siano adeguati strumenti riparatori per garantire un nuovo processo con piena garanzia al diritto alla prova.

La rinunzia ad essere presente al processo deve essere volontaria e non equivoca e la prova dell’effettiva conoscenza deve essere data dallo Stato, oltre ogni ragionevole dubbio, anche se si ammette che possa essere desunta da determinati fatti sintomatici.

Insomma, come correttamente osservato dalla Cassazione nell’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite della presente questione, “la giurisprudenza europea non impone l’obbligo della notifica a mani della vocatio in iudicium, ma la necessità che gli Stati membri predispongano regole alla cui stregua si possa stabilire che l’assenza dell’imputato al processo possa essere ritenuta espressione di una consapevole rinunzia a parteciparvi”.

Questi principi del giusto processo erano violati in modo manifesto dal processo contumaciale italiano ante 2005 perché, da un lato, la disciplina italiana delle notifiche non garantisce affatto l’effettiva conoscenza della vocatio in iudiciumma solo una mera conoscibilità e, dall’altro, per ottenere la restituzione in termine per appellare una sentenza contumaciale, era fatto gravare sul condannato il diabolico onere probatorio di dimostrare l’incolpevole mancanza di conoscenza (art. 175, comma 2, versione ante 2005).

Dopo ripetute condanne dello Stato italiano a Strasburgo, il legislatore è intervenuto modificando l’art. 175, comma 2 col decreto legge n. 17 del 2005, convertito in legge 22.04.2005 n. 60, facendo gravare sullo Stato l’onere di provare che il contumace fosse effettivamente consapevole del procedimento, con ciò risolvendo, in gran parte, la questione, come riconosciuto anche dalla Corte EDU (cfr. sentenza 25.11.2008 Cat Berro c. Italia) e garantendo un vero e proprio diritto ad un nuovo giudizio nel merito.

Residuavano, tuttavia, ulteriori profili problematici e di frizione con la CEDU, anche con specifico riferimento all’oggetto dell’effettiva conoscenza, previsto dalla legge come presupposto per la restituzione in termini, perché letteralmente l’art. 175, comma 2 c.p.p., vecchio testo, faceva riferimento alla conoscenza del mero “procedimento”, non del processo.

Anche su questo specifico punto sono state chiamate a pronunziarsi le Sezioni Unite che, con sentenza resa il 28.02.2019 (nel procedimento Innaro), di cui non è ancora disponibile la motivazione, hanno stabilito, secondo l’informazione provvisoria disponibile, che la conoscenza deve essere riferita all’accusa contenuta in un provvedimento formale di vocatio in iudicium,non essendo sufficiente neppure la conoscenza dell’accusa contenuta nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all’art. 415-bis c.p.p., che non è di per se sufficiente a garantire all’imputato anche quella del processo, fermo restando che l’imputato non deve aver rinunziato a comparire ovvero a proporre impugnazione oppure non deve esservi deliberatamente sottratto a tale conoscenza.

A fronte di una decisione, tanto autorevole e così recente, si potrebbe essere tentati a ricercare una soluzione affine anche con riferimento all’attuale disciplina del processo in assenza.

Ritiene, tuttavia, questo Giudice si tratti di una strada impercorribile per due concorrenti motivi, attinenti l’uno ai limiti dell’interpretazione convenzionalmente orientata e, l’altro, alle profonde differenze dell’attuale disciplina del processo in assenza rispetto alla disciplina previgente, essenzialmente fondata sull’art. 175 c.p.p.

Quanto al primo aspetto, l’interpretazione convenzionalmente orientata ha dei limiti strutturali perché, se certamente consente di risolvere i dubbi interpretativi nel senso che, tra più interpretazioni consentite dal testo letterale delle norme, impone di scegliere quella maggiormente rispondente ai canoni del giusto processo fissati dall’art. 6 della CEDU e dall’art. 111 Cost., altrettanto certamente non consente di disapplicare, puramente e semplicemente, le norme di legge e di prefigurare una disciplina astratta del tutto diversa da quella scelta del legislatore. Immaginare che la nuova disciplina del processo in assenza italiano imponga l’effettiva conoscenza del processo, ossia della data di udienza, in base ad una notifica a mani dell’imputato, è in chiara contraddizione con l’art. 420-bis c.p.p. e, per di più, non solo è soluzione per nulla imposta dalla giurisprudenza di Strasburgo, ma una volta ritenuta la soluzione corretta per il caso problematico dell’elezione di domicilio al difensore di ufficio in fase investigativa, prima ancora dell’iscrizione della notizia di reato, dovrebbe essere necessariamente estesa anche ad altri casi, ossia al caso di elezione di domicilio dopo l’iscrizione della notizia di reato, al caso di nomina di difensore di fiducia, di arresto, fermo o di misura cautelare, trattandosi tutti di situazioni che, di per sé, non garantiscono affatto l’effettiva conoscenza della successiva vocatio in iudicium.

Insomma, si finirebbe col prefigurare una disciplina del processo in absentia in via giurisprudenziale radicalmente diversa da quella di fonte legale, magari del tutto opportuna sotto il profilo della politica del diritto, ma che inevitabilmente comporterebbe sostanzialmente una disapplicazione della disciplina di fonte legale,  in chiara violazione della riserva di legge in materia penale, vigente anche sul versante processuale, a norma dell’art. 111, comma 1 Cost.

Ad avviso di questo Giudice per ottenere un risultato di simile portata è indispensabile o un’auspicabile riforma da parte del legislatore o un intervento manipolativo della Corte Costituzionale, assai complesso anche solo da immaginare.

 Sotto il secondo aspetto la nuova disciplina del processo in absentia introdotta con la legge nr. 67 del 2014 è radicalmente diversa dalla disciplina del precedente processo contumaciale.

 Per ciò che qui interessa, vanno evidenziate due tratti qualificanti della nuova disciplina, i quali possono essere considerati il primo come il grande difetto originario ed il secondo come il grande pregio e novità rispetto al passato: da un lato il pieno mantenimento del sistema delle notifiche, la cui disciplina è rimasta del tutto immutata; dall’altro la previsione di un sistema di garanzie preventive che consente, in talune ipotesi, al Giudice di disporre la notifica della vocatio in iudicium a mani dell’imputato, con la previsione che nel caso in cui ciò sia impossibile il procedimento resti sospeso, fino al maturare della prescrizione, salvo che l’imputato sia successivamente rintracciato (cfr. artt. 420-quater e 420-quinques c.p.p.).

Il primo aspetto è un grave difetto perché la disciplina delle notifiche non garantisce affatto l’effettiva conoscenza dell’atto notificato ma una mera conoscibilità, spesso puramente ipotetica e astratta, che ben si armonizzava col vecchio processo contumaciale, che però, come si è visto, era gravemente contraddittorio coi principi del giusto processo.

L’aver scelto di mantenere ferma la disciplina della notifica appesantisce inutilmente il controllo della regolare costituzione delle parti perché il Giudice dovrà prima verificare che la notifica non sia nulla, sulla base di criteri puramente formali e, qualora, ravvisi una nullità deve disporre la rinnovazione della vocatio in iudicium, ancora secondo le regole formali proprie delle notifiche. Qualora questo prima vaglio sia superato, non per questo si potrà senz’altro procederein absentia,perché l’attuale disciplina prevede la stranezza di notifiche pienamente valide ed efficaci, perché conformi al modello legale, ma che impongono ciò nondimeno la notifica mani, ai sensi dell’art. 420-quater c.p.p.

Il caso più eclatante in cui la conoscibilità è meramente virtuale è dato dalla notifica all’imputato presso il difensore, a seguito di decreto di irreperibilità (art. 159 c.p.p.), che è senz’altro il caso per il quale il rimedio preventivo prefigurato dal nuovo art. 420-quater c.p.p. è stato pensato. Qualora la notifica sia regolarmente avvenuta col c.d. rito degli irreperibili e non vi siano elementi per affermare che l’imputato sia a conoscenza del procedimento ai sensi dell’art. 420-bis c.p.p., il Giudice dovrà disporre la notifica a mani, ai sensi dell’art. 420-quater c.p.p. e qualora questa non risulti possibile, perdurante lo stato di irreperibilità dell’imputato, il procedimento sarà obbligatoriamente sospeso. Ma va sottolineato come la notifica ad un irreperibile non è, in quanto tale, una notifica né nulla né inefficace, come confermato dal fatto che produce tutti gli effetti suoi propri nei procedimenti in camera di consiglio per i quali non trova applicazione la disciplina di cui all’art. 420-bis c.p.p. (ad es. procedimenti di esecuzione, opposizione a richiesta di archiviazione, ecc…), mentre in quest’ambito produce effetti diversi rispetto a quelli per i quali è pensata una notifica, autorizzando il Giudice a disporre un’ulteriore notifica a mani dell’imputato, che sarebbe altrimenti preclusa e, in caso di esito negativo, la sospensione del processo.

Vale la pena di osservare che la problematicità della notifica all’imputato irreperibile era avvertita anche nel sistema dell’originaria disciplina, tanto è vero che trova applicazione solo in via residuale e previa rigorosa osservanza dei criteri formali e temporali di ricerca fissati dall’art. 159 e 160 c.p.p., la cui inosservanza determina nullità sia del decreto di irreperibilità che della successiva notifica..

Snodo essenziale della disciplina delle notificazioni era ed è costituito dalle norme dettate in tema di notificazioni presso il domicilio eletto o dichiarato ai sensi degli artt. 161, 162, 163, 164 e 169 c.p.p., essendo previsto che nel primo atto di contatto tra autorità procedente e l’indagato, questi sia invitato ed eleggere o dichiarare domicilio in Italia, con la precisazione che, in caso di rifiuto o se l’elezione o la dichiarazione risulti inidonea ovvero la notificazione presso il domicilio indicato risulti impossibile, tutte le notificazioni successive avverranno legittimamente presso il difensore, di ufficio o di fiducia.

In buona sostanza quando si procede legittimamente alla notifica della vocatio in iudiciumall’imputato presso il difensore, in forza di queste norme, la legge si accontenta di una mera conoscibilità formale della data di udienza, sulla scorta del rilievo che il soggetto avrebbe potuto venirne facilmente a conoscenza con l’adempimento di un minimo onere di collaborazione, contattando il difensore che è, pertanto, dato come presupposto dell’intero sistema. 

Ma l’aspetto più qualificante ed apprezzabile della vigente disciplina del processo in assenza consiste nella tutela preventiva accordata dall’art. 420-quaterc.p.p. il quale consente al Giudice di disporre la notifica a mani dell’imputato (comma 1) e, quando questa non risulti possibile di sospendere il processo in attesa che l’imputato sia trovato (comma 2).

Si è già detto che questa disciplina trova naturale applicazione ai processi con imputati irreperibili e, secondo una autorevole opinione dottrinale, sarebbe limitata a questi casi.

La limitazione si giustifica, sul piano letterale, dalla clausola di esclusione con la quale si apre il comma 1 dell’art. 420-quater c.p.p.: “fuori dai casi previsti dagli articoli 420-bis e 420-ter e fuori dalle ipotesi di nullità della notificazione”.Tralasciando gli ovvi casi di casi di legittimo impedimento dell’imputato, cui si riferisce l’art. 420-ter c.p.p. e di nullità della notificazione, fondamentale è pertanto il rapporto sistematico con l’art. 420-bisc.p.p. che definisce, in positivo, i casi in cui sia possibile procedere in assenza.

Ciò è possibile, in particolare, quando l’imputato, anche se detenuto, rinunzi espressamente a comparire (comma 1), ovvero quando l’imputato abbia, nel corso del procedimento, dichiarato o eletto domicilio ovvero sia stato arrestato, fermato o sottoposto a misura cautelare ovvero abbia nominato un difensore di fiducia, nonché nel caso in cui l’imputato abbia ricevuto personalmente la notificazione dell’avviso dell’udienza ovvero risulti comunque con certezza che lo stesso è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo”.

Poi il comma 4 del cit. art. prevede, come tutela successiva ma ancora interna al processo di primo grado, che qualora nel corso del processo l’imputato fornisca la prova “che l’assenza è stata dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo”, possa richiedere il rinvio dell’udienza, la rinnovazione delle prove già acquisite e richiedere nuove prove. Per completare il complesso quadro legale va detto che il medesimo presupposto, ossia che “l’imputato provi che l’assenza sia dovuta ad una incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo”vale ad attivare gli ulteriori rimedi successivi, ossia la dichiarazione in appello di nullità della sentenza di primo grado con l’invio degli atti al giudice di primo grado per la rinnovazione del processo, prevista dall’art. 605, comma 5 c.p.p. e la rescissione del giudicato, prevista dall’art. 629-bis c.p.p.

Vanno rimarcate due fondamentali differenze tra la tutela successiva e quella preventiva, attinenti l’una all’oggetto dell’effettiva conoscenza e l’altra alla ripartizione dell’onere probatorio: nella tutela preventiva è sufficiente l’effettiva conoscenza del mero procedimento del procedimento ovvero che risulti che la mancata conoscenza, anche di singoli atti, sia colpevole, perché imputabile ad una volontaria sottrazione da parte dell’imputato, ma la difesa è esonerata, almeno all’apparenza, da qualsiasi prova; nella tutela successiva occorre la ben più pregnante conoscenza della celebrazione del processo, ma la prova dell’incolpevole conoscenza è fatta gravare tutta sulla difesa, con evidente e grave frizione coi principi della CEDU. 

Tornando ai casi in cui l’art. 420-bis c.p.p. consente di procedere in assenza che rilevano, in negativo, per definire l’effettiva portata all’art. 423-quater c.p.p. del potere del giudice di disporre la notifica a mani e, in caso di esito negativo, la sospensione del processo, vanno distinti i casi in cui l’imputato sia sicuramente a conoscenza non solo del procedimento ma anche del processo e che, pertanto, sono pienamente compatibili coi principi del giusto processo – espressa rinunzia a presenziare o ricezione personale, ossia a mani dell’interessato, della notifica – dai casi in cui, invece, l’imputato è a conoscenza solo del procedimento ma, a rigore, non del processo, che proprio per questo motivo pongono dei delicati problemi coi principi del giusto processo.

Questa seconda categoria è definitiva, anzitutto, attraverso alcuni “fatti sintomatici” che, secondo il legislatore, dovrebbero essere indicativi del fatto che l’imputato non merita alcuna ulteriore tutela e ciò in quanto l’interessato avrebbe potuto ottenere l’effettiva conoscenza adempiendo l’onere di collaborazione presupposto dalla legge: elezione o dichiarazione di domicilio nel corso del procedimento, arresto o fermo, sottoposizione a misura cautelare o nomina a difensore di fiducia.

La categoria è poi ulteriormente definita da una clausola di chiusura aperta così descritta: “ovvero risulti comunque con certezza che lo stesso è a conoscenza del procedimento o si è volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento o di atti del medesimo”.Detta clausola aperta è molto importante a livello sistematico perché rende evidente ed indiscutibile il fatto che la legge preveda un onere di collaborazione dell’imputato per ottenere l’effettiva conoscenza del processo che, come già si è visto, già apparteneva al nostro sistema sulla base della disciplina delle notifiche, in particolare sulle norme in tema di notifica in caso di elezione o dichiarazione di domicilio. Il punto problematico consiste che questo onere di collaborazione non è definito e disciplinato con precisione della legge, ma dato come presupposto e lasciato alla libera interpretazione da parte del Giudice, in relazione alle infinite peculiarità del singolo rapporto processuale.

Se interpretato in modo formale e rigoroso, in linea di continuità a quanto suggerito dalla disciplina delle notifiche, rimasta immutata, in tutti i casi in cui vi sia una elezione di domicilio è facile imputare l’ignoranza della data di udienza ad una volontaria sottrazione da parte dell’imputato all’effettiva conoscenza del processo e, pertanto, a prima vista l’opinione che relega la tutela preventiva di cui all’art. 420-quater c.p.p. ai soli imputati dichiarati irreperibili ai sensi dell’art. 159 c.p.p. appare fondata perché legittimata dalla lettera della legge. Infatti, la lettera della legge sembra proprio escludere il tentativo di notifica a mani in tutti i casi in cui vi sia stata comunque un’elezione di domicilio, una nomina di difensore di fiducia, un arresto o fermo ovvero applicazione di una misura cautelare, con la conseguenza che i casi residuali sono appunti solo i processi fondati su notifiche agli irreperibili.

Con ciò si vuol sottolineare come la lettera della legge sembra essere del tutto refrattaria alla disquisizione, tutta incentrata su dati puramente formali, circa l’inizio o meno del procedimento, perché, da un lato, i casi descritti dall’art. 420-bis c.p.p. prescindono totalmente da questo elemento e, dall’altro, quand’anche si volesse ritenere rilevante residuerebbe la possibilità di ritenere integrato il caso residuale della volontaria sottrazione alla conoscenza del procedimento, appunto perché la norma si riferisce alla conoscenza non del processo ma del procedimento.

 Sennonché una simile interpretazione sarebbe sicuramente non conforme ai principi del giusto processo e, quindi, anche alla nostra costituzione perché ai fini delle garanzie difensive nel processo in assenza conta non l’effettiva conoscenza del mero procedimento ma quella del processo.

Che ciò sia vero è confermato non solo dalla costante giurisprudenza EDU, sopra citata, ma anche da un atto normativo di origine europea, la direttiva  UE 2016/343 del Parlamento e del Consiglio del 9 marzo 2016, “sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali”, che essendo particolareggiata e scaduta il 01.04.2018, risulta direttamente applicabile, anche previa disapplicazione delle norme interne ritenute con essa in contraddizione. Nel considerando nr. 36 si afferma espressamente che è possibile “in determinate circostanze” procedere in assenza ma a condizione che l’imputato “sia stato informato in tempo utile del processo” e ciò va inteso “nel senso che l’interessato è citato personalmente o è informato ufficialmente con altri mezzi della data e del luogo fissati per il processo in modo da garantirgli di venire a conoscenza del processo”.

Fondamentali sono anche i considerando nr. 38 e 39.

Il primo afferma: “nell’esaminare se il modo in cui sono state fornite le informazioni sia sufficiente per assicurare l’interessato sia a conoscenza del processo, si dovrebbe, se del caso, prestare particolare attenzione anche alla diligenza delle autorità pubbliche nell’informare l’interessato e alla diligenza di cui ha dato prova l’interessato al fine di ricevere le informazioni a lui destinate”.

Il secondo ammette espressamente la possibilità di procedere contro irreperibili o latitanti purché però siano informati, una volta presa conoscenza della decisione, “soprattutto in caso di arresto (…), anche della possibilità di impugnare la decisione e del diritto a un nuovo processo, o a un altro mezzo di ricorso giurisdizionale”.

Alla luce di queste premesse l’art. 8 della direttiva che, al primo comma, riconosce il diritto di indagati ed imputati di presenziare la proprio processo e, al secondo comma, ammette che il processo possa essere svolto in absentia a condizione che l’indagato sia informato in tempo adeguato del processo, deve essere interpretato nel senso che non sia sempre imposta una notifica a mani, essendo ammessa anche una informazione ufficiale con altri mezzi tali da garantirgli di venire a conoscenza della data e del luogo del processo con l’ordinaria diligenza.

Si deve cioè pervenire alla conclusione che la normativa processuale italiana sia sostanzialmente conforme alla direttiva, a condizione, da un lato, che venga interpretata nel senso che oggetto finale della conoscenza o della colpevole ignoranza non può essere semplicemente un qualsiasi atto del procedimento ma del processo, ossia della data e del luogo dell’udienza e, dall’altro, che sia valutata con cura non solo la sua diligenza ad acquisire le informazioni fornite ma anche della diligenza dell’autorità nel fornire le informazioni necessarie.

Alla luce di queste premesse si deve pervenire alla conclusione che l’art. 420-quaterc.p.p. non sia relegato ai soli imputati irreperibili, nei confronti dei quali, peraltro, è ben possibile procedere in assenza, pur senza una notifica a mani, qualora si possa provare una effettiva conoscenza del processo (si pensi ad una nomina a difensore di fiducia a seguito della notifica eseguita presso il difensore di ufficio o al caso che in udienza il difensore di ufficio dichiari di aver avuto un concreto contatto col cliente e lo ha informato dell’udienza, magari esibendo una procura speciale per un rito alternativo) ovvero del procedimento ed un volontaria sottrazione alla conoscenza del processo, ma debba essere esteso alla ricorrenza dei fatti sintomatici definiti dall’art. 420-bis c.p.p. e detti fatti, primo fra tutti l’elezione di domicilio presso il difensore di ufficio nei primissimi atti di indagine, non costituiscono affatto, come troppo spesso si legge anche in sentenze di legittimità, presunzioni assolute o anche solo relative di conoscenza del processo, ma meri fatti processuali valutabili d’ufficio del giudice, che ben potrà ritenere che il fatto sintomatico previsto dal legislatore in via generale non sia in concreto idoneo per la cellebrazione del processo in absentia.

Non possono essere ritenute presunzioni, anche solo relative, per due dirimenti ragioni.

In primo luogo perché non sussiste alcuna massima di esperienza, minimamente verificabile, che consenta di affermare razionalmente che una elezione di domicilio presso un difensore di ufficio nei primissimi atti di indagine magari da parte di un soggetto privo di fissa dimora, sia davvero indicativa di una effettiva conoscenza della data e del luogo dell’udienza, sulla base di una notifica eseguita presso il difensore.

In secondo luogo vale una ragione più propriamente tecnica, perché si è visto come la tutela preventiva, in piena conformità coi principi espressi dalla giurisprudenza europea, non grava la difesa di alcun onere probatorio, perché la clausola di chiusura prevista dall’art. 420-bis, comma 2 c.p.p. si apre con l’espressione “ovvero risulti comunque con certezza” che rende evidente come sia il Giudice a dover argomentare o dimostrare l’effettiva conoscenza o la volontaria sottrazione alla conoscenza.

Né varrebbe obiettare che questa clausola di chiusura è letteralmente concepita come ipotesi ulteriore rispetto a quelle precedenti, che definiscono i fatti sintomatici, perché ciò è senz’altro vero ma questo limite formale può e deve essere superato alla luce di una interpretazione orientata in senso costituzionale e/o convenzionale. Il medesimo obbligo dell’interpretazione costituzionalmente orientata impone anche di considerare che oggetto della effettiva conoscenza o della volontaria sottrazione alla conoscenza non è semplicemente il procedimento ma il processo.

Se il vaglio cui è chiamato il Giudice fallisce ben si potrà e si dovrà disporre una notifica a mani e, in caso di esito negativo, la sospensione del processo, pur in presenza di una valida ed efficace (ai fini della notifica) elezione di domicilio.

Questa conclusione va affermata, in linea di principio, con riferimento a tutti i fatti sintomatici di cui all’art. 420-bis, comma 2 c.p.p.

Così, per esemplificare, diffusa è l’opinione che una nomina di un difensore di fiducia elimini ogni problema, per la ricorrente sussistenza di un intenso vincolo fiduciario e rapporto professionale. In realtà questo dato formale, in relazione all’effettiva conoscenza del processo, assume diversi significati a seconda di variabili non preventivabili in via astratta. E’ normalmente dirimente, ad es., se interviene dopo la notifica all’imputato della vocatio in iudicium, pur non avvenuta a mani, perché fortemente indicativa del fatto che l’imputato ne ha preso conoscenza. Ma si ipotizzi il caso limite, per nulla così raro nella prassi, che un indagato senza fissa dimora ed irreperibile, nei primissimi atti di indagine ed in sede di verbale di identificazione nomini come proprio difensore di fiducia un famoso “principe del foro” di altra città, il quale immediatamente dimetta il mandato osservando di non aver avuto modo di contattare il cliente, tanto da imporre la nomina di un nuovo difensore di ufficio. In un caso di questo tipo, questo Giudice non avrebbe alcun dubbio della necessità di procedere ad una notifica a mani a norma dell’art. 420-quater c.p.p., per la scarsa o nulla rilevanza di quell’atto sulla effettiva conoscenza del processo.

L’esempio dimostra come l’attuale disciplina del processo inabsentia imponga al Giudice, soprattutto nei casi problematici, di mutare abito mentale nell’effettuare il controllo preliminare della corretta instaurazione del rapporto processuale: è ancora necessario, ma non più sufficiente, il controllo formale di una notifica valida ed efficace, ma la ricorrenza dei fatti processuali sintomatici di cui all’art. 420-bis, comma 2 c.p.p. non può essere verificata solo sul piano della logica formale, perché vanno vagliati in concreto, in relazione alla singola vicenda processuale.

Venendo ad applicare al caso concreto i principi sopra esposti il verbale di identificazione ed elezione di domicilio dd. 04.10.2016, redatto nell’immediatezza del fatto, reca in modo chiaro il nome, l’indirizzo dello studio del difensore di ufficio col numero di telefono e contiene una precisa e chiara descrizione del fatto contestato, qualificato come “art. 590-bis lesioni personali stradali gravi”, con indicazione dei nominativi delle persone offese. Se si aggiunge che il fatto contestato - non aver concesso la precedenza dovuta nell’eseguire una manovra di svolta a sinistra, era chiarissimo ed evidente anche dalla contestuale contestazione amministrativa per violazione al codice della strada – non ha subito modificazione alcuna durante le indagini preliminari, si deve ritenere che l’indagato abbia avuto piena contezza del nucleo essenziale del fatto ed avvertito che un procedimento penale sarà intrapreso a suo carico, che tutte le comunicazioni in merito avverranno presso il difensore, al quale dovrà e potrà rivolgersi per ogni comunicazione.

In un simile contesto, il totale disinteresse mostrato dall’imputato al procedimento a suo carico, non può che essere interpretato che come volontaria sottrazione alla conoscenza non solo del procedimento ma anche del processo, perché sarebbe stato sufficiente contattare il difensore per aver ogni informazioni in merito.

Il rilievo difensivo circa la non formalizzazione dell’accusa coglie un possibile aspetto problematico dell’atto di elezione di domicilio redatto nei primissimi atti di indagine, ossia la circostanza che il fatto addebitato non sia con chiarezza descritto, vista la fluidità dell’accusa, ovvero che subisca rilevanti modificazioni a seguito delle indagini espletate. In entrambi i casi si dovrebbe, ad avviso di questo Giudice, procedere ai sensi dell’art. 420-quater c.p.p., ma si tratta di casi che non ricorrono nel caso di specie.

 

Ad ulteriore conforto della necessità di procedere in assenza nel caso di specie, gioca un ulteriore rilievo, ossia il fatto che l’imputato non sia un soggetto irreperibile, ma un cittadino coreano con indirizzo indicato già nel verbale di elezione di domicilio, con la conseguenza che l’applicazione dell’art. 420-quater c.p.p., invocato dalla difesa, non comporterebbe senz’altro la notifica a mani, perché le ricerche fornirebbero il suo indirizzo coreano e, pertanto, si dovrebbe fare applicazione dell’art. 169 c.p.p., con mero invio in Corea di una richiesta di elezione di domicilio in Italia, senza una apprezzabile differenza di tutela della garanzia difensiva, perché l’interessato sarebbe naturalmente indotto a reiterare l’elezione di domicilio presso il difensore d’ufficio, unico contatto con l’Italia, ovvero a disattendere l’invito, procurando una ulteriore notifica presso il difensore. Certo, si avrebbe il vantaggio che potrebbe essergli comunicata, con l’invito ad eleggere domicilio in Italia, l’accusa definitiva operata dal PM con l’esercizio dell’azione penale, ma senza significative differenze con quanto già appreso al momento del fatto dalla polizia.

 

Venendo finalmente al merito, l’esame dibattimentale dei testi e la documentazione fotografica e planimetrica redatta nell’immediatezza del fatto dalla polizia stradale intervenuta sul posto, consente di ritenere accertato, oltre ogni ragionevole dubbio, il fatto nei termini che seguono.

In data 4 ottobre 2016, in via dei Tigli di Riva del Garda (TN) l’odierno imputato procedeva su una Fiat 500 presa a noleggio, con direzione Tenno e, giunto all’intersezione con la subordinata via Rosmini, procedeva alla svolta sulla propria sinistra, senza concedere la dovuta precedenza al motociclo Piaggio condotto da GL e sul quale era trasportata anche VA, che sopraggiungeva nell’opposto senso di marcia.

Entrambi i testi L e A  hanno confermato che la manovra è stata del tutto inaspettata ed improvvisa, mentre il teste R, appartenente alla polizia stradale e che è intervenuto nell’immediatezza del fatto, ha precisato che la dinamica del sinistro emergeva in modo assolutamente chiaro, anche dai danni e dalle posizioni di quiete dei veicoli coinvolti, come è confermato anche dalla documentazione fotografica, tanto da aver immediatamente proceduto alla contestazione della violazione amministrativa al conducente.

In particolare i danni riportati sulla parte frontale confermano che l’urto è avvenuto nella primissima fase della manovra di svolta e, pertanto, a causa della omissione della precedenza dovuta. 

Dalle dichiarazione dei testi L e A e dalla documentazione clinica in atti emerge con certezza che mentre la A ha riportato lesioni gravi, consistite nella frattura del piatto tibiale esterno del ginocchio sinistro, con una malattia di giorni 60, il L ha riportato solo policontusioni e la frattura del cuneiforme al piede sinistro, con una malattia di giorni 30 (cfr. certificato medico sub fg. 5). Entrambi i testi hanno confermato di aver ricevuto dalla compagnia assicurativa degli acconti risarcitori sul maggior danno subito. 

In assenza di elementi a discarico il fatto può ritenersi provato, oltre ogni ragionevole dubbio, nei termini sopra descritti, come del resto neppure contestato dalla difesa che si è limitata a richiedere l’applicazione dell’art. 131-bis c.p.

Tali essendo gli estremi del fatto accertato, le lesioni procurate al L vanno diversamente qualificate come lesioni colpose ai sensi dell’art. 590 c.p., con la conseguenza che va pronunziata sentenza di non doversi procedere per mancanza della condizione di procedibilità della querela, mentre la competenza va affermata a norma dell’art. 6 d.lvo n. 274 del 2000, considerando il concorso formale col delitto di lesioni stradali gravi ai danni della A.

Invece sussiste, in tutti i suoi elementi costitutivi, oggettivi e soggettivi, il contestato delitto di lesioni stradali gravi, con riferimento alle lesioni procurate alla A. 

Non merita accoglimento la richiesta difensiva di applicazione dell’art. 131-bis c.p. perché per le modalità della condotta e l’intensità della colpa l’offesa non può ritenersi di particolare tenuità, considerando che la manovra sconsiderata avrebbe potuto arrecare danni alle persone ben più gravi, anche se va rimarcato che non si tratta neppure di una offesa grave. 

Circa la determinazione della pena, con riferimento agli elementi tutti di cui all’art. 133 c.p., concesse le circostanze attenuanti generiche, giustificate dallo stato di assoluta incensuratezza, dalla non particolare gravità oggettiva del reato posto in essere e dal positivo comportamento susseguente al reato e dal parziale risarcimento del danno, stimasi congrua la pena di mesi 3 di reclusione (pena base mesi 4 e giorni 15, ridotta nella misura indicata per il rito). Naturalmente va esclusa l’ipotesi di cui all’art. 590-bis u.c. c.p. perché le lesioni procurate al L rientrano nell’art. 590 c.p.

Va pure applicata la sanzione amministrativa accessoria della sospensione della patente di guida dell’imputato per mesi 1, misura che si ritiene adeguata per la gravità del reato commesso.

Sussistendo i presupposti di legge e dovendosi ritenere che l’imputato ai asterrà dal commettere ulteriori reati, attesa la sua incensuratezza, la non particolare gravità del reato posto in essere e l’assenza di un qualsiasi elemento dal quale poter desumere la sua pericolosità sociale, va concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena.

In relazione alla complessità della motivazione in diritto, in ordine alle questioni preliminari, va fissato il termine di giorni 60 per il deposito dei motivi.

PQM 

Letto l’art. 529 c.p.p.;

dichiara non doversi procedere contro l’imputato in ordine al reato di cui all’art. 590 c.p., così diversamente qualificato il fatto di cui all’imputazione, limitatamente alle lesioni procurate a GL , perché l’azione penale non doveva essere esercitata pe difetto della condizione di procedibilità della querela.

Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p.;

dichiara l’imputato colpevole del reato ascrittogli limitatamente alle lesioni procurate a VA, con esclusione dell’ipotesi di cui all’art. 590-bis u.c. e, concesse le circostanze attenuanti generiche, lo condanna alla pena di mesi 3 di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.

 Dispone la sospensione della patente dell’imputato per mesi 1.

Concede la sospensione condizionale della pena.

Motivi in giorni 60. 

Rovereto, 23 maggio 2019.

 

                                                                                  IL GIUDICE

                                                                                              dott. Riccardo Dies