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Lavoratore lavora in malattia: truffa aggravata (Cass. 47286/18)

19 ottobre 2018, Cassazione penale

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L'indebito conseguimento dell'indennità di malattia da parte del lavoratore che in realtà  lavora in malattia  configura il reato di truffa aggravata.

 

Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza 14 settembre – 17 ottobre 2018, n. 47286
Presidente Diotallevi – Relatore Pellegrino

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza in data 29/06/2016, la Corte di appello di L'Aquila confermava la pronuncia di primo grado resa dal Tribunale di Teramo in data 12/03/2014 con la quale Ma. Ar. era stato condannato alla pena di mesi nove di reclusione ed Euro 150,00 di multa per il reato di truffa.
Secondo l'accusa il Ma., quale dipendente della Todima s.r.l., con artifici e raggiri consistiti nel produrre al datore di lavoro certificazione medica attestante la sua malattia dal 2 al 10 febbraio 2010 ed effettuare, in data 5.2.2010, un trasporto di terra alla guida di autocarro di proprietà della ditta SC Trasporti di Fantozzi Simonetta, induceva in errore l'INPS di Teramo circa l'effettivo ammontare della somma dovuta a titolo di indennità di malattia, così procurandosi un ingiusto profitto corrispondente alla somma indebitamente percepita, con pari danno per la persona offesa.
2. Avverso detta sentenza, nell'interesse di Ma. Ar., viene proposto ricorso per cassazione per lamentare:
-violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla configurabilità del reato contestato (primo motivo): si assume che la semplice presentazione di un certificato medico dal contenuto veritiero non è in grado di integrare in alcun modo l'elemento degli artifici e raggiri né, del pari, può essere considerata tale la condotta tenuta dal Ma. successivamente e concretizzatasi nella conduzione di un autoarticolato. Inoltre, non essendo stata corrisposta dalla SC Trasporti ovvero dalla proprietaria del mezzo alla cui guida si trovava il Ma. il 05/02/2010, v'è da chiedersi se l'ingiusto profitto possa essere identificato con l'indennità di malattia corrisposta dall'INPS: indennità di malattia la cui corresponsione non risulta provata. E così la prestazione di attività lavorativa non accompagnata dalla corresponsione della retribuzione durante il periodo di malattia non può integrare il reato di truffa non essendo possibile ravvisare il doppio requisito del danno patrimoniale e dell'ingiusto profitto; -violazione di legge in relazione all'art. 131 bis cod. pen. (secondo motivo): dalla lettura della busta paga emerge che il danno derivante dalla condotta contestata al Ma. sarebbe pari ad Euro 172,43, importo di così lieve entità che avrebbe dovuto indurre l'applicazione della speciale causa di non punibilità.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile.
2. Manifestamente infondato è il primo motivo.
Secondo il costante e risalente insegnamento della giurisprudenza di legittimità, l'indebito conseguimento dell'indennità di malattia da parte del lavoratore (elargizione da parte dell'INPS pienamente provata, come attestato dalle sentenze di merito) configura il reato di truffa aggravata ex art. 640, comma 2, n. 1 cod. pen. (cfr., Sez. 1, n. 6843 del 04/12/1997, dep. 1998, conf. comp. in proc. Lazzaro, Rv. 209537; Sez. 1, n. 2286 del 19/03/1999, conf. comp. in proc. Marrano, Rv. 213349; Sez. 1, n. 4240 del 08/06/1999, Campana e altri, Rv. 213949).
3. Parimenti manifestamente infondato è il secondo motivo.
3.1. Come è noto, la causa di esclusione della punibilità ex art. 131 bis cod. pen. risulta essere stata introdotta nel nostro ordinamento con il D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28: nella fattispecie, all'atto della proposizione dell'appello, che porta data 17/07/2014, non poteva ovviamente essere invocata. Tuttavia, in sede di discussione del giudizio di secondo grado e, al più tardi, con le conclusioni finali (la sentenza di secondo grado, come si è visto, è del 29/06/2016), la parte si trovava nelle condizioni per invocare il beneficio, ma ciò non risulta avvenuto.
3.2. Invero, secondo l'ormai consolidata giurisprudenza di legittimità (cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 23174 del 21/03/2018, Sarr, Rv. 272789), la questione dell'applicabilità dell'art. 131 bis cod. pen. non può essere dedotta per la prima volta in cassazione, ostandovi il disposto di cui all'art. 606, comma 3 cod. proc. pen., se il predetto articolo era già in vigore alla data della deliberazione della sentenza impugnata, né sul giudice di merito grava, in difetto di una specifica richiesta, alcun obbligo di pronunciare comunque sulla relativa causa di esclusione della punibilità (Sez. 5, n. 57491 del 23/11/2017, Moio, Rv. 271877; Sez. 3, n. 19207 del 16/03/2017, Celentano, Rv. 269913; Sez. 6, n. 20270 del 27/04/2016, Gravina, Rv. 266678).
3.3. Nel dare continuità al siffatto principio, osserva il Collegio come lo stesso tragga il proprio fondamento sulla riconosciuta natura atipica della menzionata «speciale causa di non punibilità» come rubrica l'art. 131 bis cod. pen.
Questa Corte di legittimità ha già affermato che la particolare tenuità del fatto costituisce una causa di non punibilità atipica (Sez. 3, n. 21014 del 07/05/2015, Fregolent, non mass.) per gli effetti negativi che produce per l'imputato (anzitutto la possibile rilevanza nei giudizi civili ed amministrativi ed, ancora, l'iscrizione del provvedimento nel casellario giudiziale) e la sua applicazione presuppone, tra l'altro, l'accertamento della responsabilità penale ossia l'accertamento dell'esistenza del reato e della sua attribuibilità all'imputato. Ed ancora, è stato affermato che la citata causa di non punibilità ha natura sostanziale essendo applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del d. Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, ivi compresi quelli pendenti in sede di legittimità, nei quali la Corte di cassazione può anche rilevare di ufficio ai sensi dell'art. 609, comma 2, cod. proc. pen. la sussistenza delle condizioni di applicabilità del predetto istituto, fondandosi su quanto emerge dalle risultanze processuali e dalla motivazione della decisione impugnata e, in caso di valutazione positiva, deve annullare la sentenza con rinvio al giudice di merito (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266594; Sez. U, n. 13682 del 25/02/2016, Coccimiglio, Rv. 266595; Sez. 3, n. 15449 del 08/04/2015, Mazzarotto, Rv. 263308).
3.4. Sulla scia delle citate pronunce, si è formato un minoritario indirizzo ermeneutico secondo cui la causa di esclusione della punibilità può essere rilevata d'ufficio nel giudizio di legittimità, in presenza di un ricorso ammissibile, anche se non dedotta nel corso del giudizio di appello pendente alla data di entrata in vigore della norma, a condizione che i presupposti per la sua applicazione siano immediatamente rilevabili dagli atti e non siano necessari ulteriori accertamenti fattuali a tal fine (Sez. 6, n. 7606 del 16/12/2016, Curia, Rv. 269164, Sez. 3, n. 6870 del 28/04/2016, Fontana, Rv. 269160). Tale indirizzo giurisprudenziale non è condivisibile poiché fondato su una parziale lettura da quanto affermato dalle citate sentenze Tushaj e Coccimiglio, in quanto in motivazione, le menzionate decisioni assunte dalle Sezioni Unite, hanno espressamente vincolato la rilevabilità d'ufficio della causa di esclusione della punibilità nel giudizio di legittimità all'obbligo di applicazione della lex mitior sopravvenuta e, dunque, presuppongono che la sentenza impugnata sia anteriore alla entrata in vigore del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28.
3.5. Nel caso in scrutinio, la sentenza impugnata è stata emessa in data 29/06/2016 e, dunque, successivamente alla data di entrata in vigore del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, e - come detto - il ricorrente non aveva chiesto l'applicazione né nei motivi di appello e neppure sollecitata in sede di conclusioni del giudizio di secondo grado.
4. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro duemila

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila alla Cassa delle ammende.