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In dubio pro reo, anche per imputabilità (Cass. 9638/17)

27 febbraio 2017, Cassazione penale

La imputabilità integra, come già innanzi precisato, un elemento costitutivo del reato ai sensi dell'art. 85 c.p., di guisa che, se posta in dubbio totalmente ovvero soltanto parzialmente la sua ricorrenza in concreto, il relativo onere probatorio non cade a carico dell'imputato, quale prova di una eccezione, ma a carico della pubblica accusa.

Il giudice può escludere, ritenere o porre in dubbio la sussistenza della capacità di intendere e di volere al momento del fatto e che deve emettere, correlativamente, la propria decisione in forma dubitativa se non accertata al di là di ogni ragionevole dubbio la imputabilità dell'imputato.

A fronte pertanto di un quadro probatorio di evidente incertezza sulla imputabilità dell'imputato, illegittimo valorizzare  in malam partem il dubbio in tal guisa conclamato, pervenendo al riconoscimento del vizio parziale sulla base dell'erroneo percorso logico secondo cui, non provata la totale non imputabilità, ma provata comunque la grave patologia psichiatrica incidente su di essa, deve concludersi per il riconoscimento del vizio parziale di mente.  

 

Cassazione penale

Sez. I, Sent., (ud. 25/05/2016) 27-02-2017, n. 9638

 

 

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

 

Dott. VECCHIO Massimo - Presidente -

Dott. BONITO Francesco - rel. Consigliere -

 Dott. SANDRINI Enrico G. - Consigliere -

Dott. DI GIURO Gaetano - Consigliere -

Dott. MINCHELLA Antonio - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA 

sul ricorso proposto da:

C.I., N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 1/2014 CORTE APPELLO di TRENTO, del 19/01/2015;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

 udita in PUBBLICA UDIENZA del 25/05/2016 la relazione fatta dal Consigliere Dott. FRANCESCO MARIA SILVIO BONITO;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. GAETA Pietro, che ha concluso per la inammissibilità del ricorso.

Uditi, per le parti civili l'avv. ZE;

Udito il difensore avv. De Bertolini Andrea.

Svolgimento del processo

  1. Intorno alle ore 10,30 del 19 ottobre 2011, presso l'abitazione dove convivevano, venivano trovati il corpo senza vita di Ch.Ma., colpito a morte da circa trenta coltellate al collo, al volto alla regione nucale ed agli arti inferiori, e, coricata nel letto, C.I., gravemente ferita con tagli profondi all'addome ed ai polsi conseguenza di atti autolesionistici come immediatamente riferito ai soccorritori. La C., cittadina di origine moldava da tempo residente in Italia dopo aver vissuto a lungo in Romania, non ricordava nulla di quanto precedentemente accaduto al convivente, con il quale aveva programmato un prossimo matrimonio, ma l'assenza di segni di effrazione, di macchie di sangue per le scale, di sottrazione di beni, convergevano nel riferire alla donna la condotta omicida, della quale veniva pertanto accusata formalmente.
  2. Veniva chiesto il giudizio abbreviato condizionato all'espletamento di esame peritale sulla capacità di intendere e volere dell'imputata ed i periti di ufficio, D.F. e F., medico legale il primo e specialista psichiatra il secondo, ricostruite le vicende sanitarie della periziata (già nel 2001 ricoverata per disturbi psichici in un ospedale di Bucarest e successivamente sottoposta a ricoveri, terapie e controlli medici presso studi privati) fino al 18 ottobre 2011, il giorno precedente al delitto, quando, dopo la sua presentazione al pronto soccorso di (OMISSIS) unitamente al compagno, le era stato diagnosticato un disturbo depressivo del pensiero e consigliata la prosecuzione di un trattamento farmacologico con affidamento al medico curante, concludevano escludendo formulazioni diagnostiche più gravi rientranti in "asse 1", come la schizofrenia paranoide, la psicosi paranoidea, l'amnesia dissociativa, il disturbo schizoaffettivo e viceversa accreditavano, in capo all'imputata, un disturbo multassiale "di asse 1", disturbo dell'umore NAS e di "asse 2", disturbo di personalità borderline, disturbi che si erano reciprocamente contaminati e riacutizzati perchè sospese le terapie; di qui la ulteriore conclusione peritale, attesi la esplosività dello scompenso, la mancanza di un ragionevole movente, il comportamento extrapunitivo ed autopunitivo, di una degenerazione totale delle facoltà, in particolare quelle volitive.

 

Il GUP del Tribunale di Trento, preso atto delle conclusioni peritali, con sentenza del 25 giugno 2013 dichiarava l'imputata non punibile in relazione all'omicidio aggravato dal rapporto di coabitazione per vizio totale di mente al momento del fatto ed applicava alla prevenuta la misura di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario per la durata minima di cinque anni.

  1. Avverso la sentenza del GUP proponevano appello il P.M., su richiesta della parte civile R.A., madre della vittima, ai sensi dell'art. 572 c.p.p., la stessa R.A. e la sorella del Ch., Ch.An..

Il P.M. evidenziava che non era stato provato il vizio totale di mente riconosciuto dal giudice di primo grado, che l'imputata aveva condotto una esistenza tutto sommato normale, sposandosi una prima volta e poi separandosi, svolgendo attività lavorative a contatto con il pubblico, intrecciando con la vittima una relazione sentimentale accettata normalmente dai familiari; rilevava ancora il rappresentante della pubblica accusa che il tentato suicidio andava interpretato come consapevolezza della gravità della condotta appena consumata e che, dopo l'omicidio, la prevenuta aveva provveduto ad attività di pulizia degli indumenti sporchi di sangue e dell'arma del delitto, lasciando poi aperta la porta di ingresso ai soccorritori e rispondendo senza incoerenze alle domande degli inquirenti. Lamentava ancora il P.M. appellante la mancata considerazione, da parte del GUP, sia della perizia di ufficio del dott. B. eseguita nel corso di incidente probatorio, che aveva concluso per il riconoscimento di un parziale vizio di mente, sia di quella delle parti civili.

Concludeva il P.M. denunciando, da una parte, una incoerenza della motivazione impugnata rispetto alle stesse conclusioni dei periti di ufficio là dove risultavano valorizzati i sintomi di una psicosi importante ed un quadro dissociativo della personalità anch'esso importante, entrambi in realtà esclusi dai periti e, dall'altra, l'omessa dimostrazione della sussistenza del nesso causale tra l'infermità mentale dell'imputata e l'atto omicida.

Le parti civili, da parte loro, ancorchè con atti separati, convergevano nel ritenere non provato il vizio di mente attribuito alla prevenuta ed acriticamente recepite le conclusioni della perizia D.F.- F.. 

  1. Tutti gli appellanti insistevano per un nuovo accertamento psichiatrico in sede di appello, richiesta che la corte territoriale accoglieva nominando i professori T.G.B. e M.M., i quali depositavano un argomentato elaborato con il quale formulavano la seguente diagnosi: "disturbo dell'umore bipolare con manifestazioni ansiose e psicotiche congruenti all'umore (soprattutto presenza di idee di persecuzione) in un soggetto con disturbo borderline di personalità, tratti istrionici di personalità e ricorrenti sintomi somatici, anche a valenza post traumatica", diagnosi dagli stessi periti giudicata non dissimile da quelle formulate dal perito dell'incidente probatorio, dott. B., e dai periti nominati nel corso del giudizio abbreviato, dott.ri F. e D.F. e, soprattutto, diagnosi compatibile sia con la totale che con la parziale incapacità di intendere e volere. Quanto invece al nesso di causalità tra i disturbi diagnosticati e la condotta omicida, rispetto al quale tra i periti di ufficio e quelli di parte si registra una radicale diversità di conclusioni, i periti T. e M. evidenziavano che la mancanza di qualsiasi indicazione da parte dell'imputata del suo stato mentale al momento dei fatti e la loro mancata ricostruzione da parte sua impedivano di formulare valutazioni in ordine alla incidenza dell'assetto psicopatologico della prevenuta sulla capacità di intendere e di volere al momento del fatto, dovendosi per questo ricorrere a semplici ipotesi, scientificamente plausibili ma senza possibile riscontro.

 Su tali premesse la Corte di assise di appello di Trento, con sentenza del 19 gennaio 2015, in parziale riforma della sentenza di prime cure, dichiarava l'imputata colpevole dell'omicidio aggravato contestatole, riconosceva il vizio parziale di mente, valutava prevalente la riconosciuta seminfermità sull'aggravante di cui all'art. 577 c.p., comma 1, n. 4 e la condannava alla pena di anni dodici di reclusione, applicando nel contempo la misura di sicurezza della casa di cura e custodia per la durata di anni tre a decorrere dalla compiuta espiazione della pena. 

A sostegno della decisione i giudici di secondo grado rilevavano che non risultava raggiunta la prova che l'atto delittuoso era stato commesso nell'ambito di un episodio psicotico acuto ovvero di spinte psicopatologiche e, quindi, in condizioni di totale incapacità di intendere e di volere, che è però indubbio che i disturbi diagnosticati dai periti avevano natura strutturale ed erano quindi presenti al momento del fatto, che essi apparivano fortemente relazionabili alle persone verso le quali si ripongono aspettative più intense e sulle quali ricadono i timori correlati, che nei giorni precedenti l'imputata aveva palesato sentimenti di gelosia e timori di abbandono da parte del compagno ovvero di non accettazione da parte dei suoi familiari, che tutto ciò consentiva di ritenere sussistente il vizio parziale di mente al momento del fatto e la relazione causale tra esso e la consumazione del reato.

  1. Ricorre per cassazione l'imputata, assistita dal difensore di fiducia, il quale nel suo interesse, dopo una corposa e diffusa premessa sulle vicende processuali, sugli accertamenti peritali e di parte, sui principi teorici in tema di incapacità di intendere e volere, sui contenuti delle sentenze di primo e secondo grado, sviluppa i seguenti motivi di impugnazione.

5.1 Denuncia in particolare la difesa ricorrente violazione degli artt. 575, 42, 43, 88 e 89 c.p., in subordine degli artt. 62-bis e 69 c.p., nonchè vizio della motivazione, in particolare osservando: la corte territoriale perviene al riconoscimento soltanto parziale del vizio di mente assumendo come esclusivamente rilevante a tal fine il grave disturbo di personalità border line, con ciò ignorando (e travisando) il dato, accertato dai periti, della comorbidità di disturbi di rilevanza psichiatrica e post traumatici idonei a provocare uno scompenso psicotico così come accreditato dai periti D.F. e F.; la corte ha inoltre richiamato la perizia B., eseguita senza "l'osservazione longitudinale del paziente", circostanza che la rende inaffidabile ed erronea nelle sue conclusioni; la corte territoriale, inoltre, ha fatto proprie le argomentazioni della perizia ultima, T.- M., la quale, come è noto, è pervenuta ad una "non conclusione" per la impossibilità di procedere ad una ricostruzione del fatto narrato dalla periziata, racconto ritenuto necessario per valutarne la capacità di intendere e di volere al momento del fatto, ma ha, nel contempo, negato tali conclusioni pervenendo alla decisione sulla sussistenza, nella fattispecie, del vizio parziale; viceversa i due diversi periti incaricati nel giudizio di primo grado, acriticamente tacciati di illogicità, avevano operato con metodo scientifico rigoroso, utilizzando il c.d. metodo Fornari per giungere alla conclusione che l'imputata, al momento del fatto, agì in stato di scompenso psicotico e dunque in stato di incapacità di intendere e volere; la Corte territoriale ha messo a confronto metodi scientifici fra loro incompatibili, posto che quello utilizzato dagli ultimi due periti presuppone dati di conoscenza, l'apporto narrativo della periziata, non necessari per l'altro metodo e non richiesto dalle stesse ss.uu.; la sentenza impugnata valorizza il breve tempo intercorso tra la visita al pronto soccorso e l'ora dell'omicidio, tempo scientificamente irrilevante e non ostativo al riconoscimento dello stato psicotico al momento del fatto; lo stesso dicasi delle condizioni dell'imputata al momento dei soccorsi e del suo ricovero in ospedale dopo l'omicidio, giacchè lo scompenso psicotico ben può regredire repentinamente; tanto era avvenuto in passato alla prevenuta e tanto si è ripetuto il (OMISSIS) per riconoscimento degli stessi periti; anche sulla condotta suicidaria la corte dà una interpretazione del tutto erronea e non confermata da alcuno dei periti; la corte erra ancora quando accredita un atteggiamento reticente dell'imputata e non tiene conto di considerazioni contrarie pur espresse dai periti nel corso dell'udienza del 1.12.2014; l'imputata è stata di recente dichiarata invalida psichica al 100%; la corte ha deciso negando la totale infermità perchè non provata, ma perviene a tale conclusione sulla base di un ragionamento nel quale illustra un insanabile dubbio, che avrebbe dovuto condurre, secondo regole generali, a risolverlo in senso favorevole all'imputata perchè in dubbio la sua imputabilità; del tutto illogico oltre che illegittimo si appalesa il diniego delle attenuanti generiche sul rilievo che l'imputata, reticente, non avrebbe assunto un atteggiamento processualmente collaborativo.

5.2 Anche la parte civile R.A. ha depositato atto difensivo argomentando: c'è incertezza sulla malattia dell'imputata, nel corso degli anni diagnosticata in tredici modi diversi, spesso antitetici tra loro; per il comportamento reticente della prevenuta ad oggi non è dato sapere cosa sia successo la notte del (OMISSIS) e perchè la stessa abbia commesso il gesto omicidiario; è quindi impossibile accertare il nesso eziologico tra il disturbo mentale ed il fatto reato richiesto dalla giurisprudenza e questo deve condurre a negare il riconoscimento della attenuanti collegate dall'ordinamento al vizio totale o parziale di mente, giacchè non provati; l'incertezza è comprovata dalle conclusioni diverse alle quali sono pervenute le tre perizie disposte nel corso del processo; delle tre merita menzione particolare la prima, affidata al dott. B., perchè eseguita nella immediatezza dei fatti; in essa si legge della difficoltà di pervenire a risposte certe per l'amnesia sui fatti di causa opposta dalla periziata; anche sul tentato suicidio non possono darsi letture se non equivoche e contrastanti, sia favorevoli alle tesi difensive, sia contrarie; la scena del delitto e le lesioni accertate sulla vittima e sull'imputata evidenziano che vi fu tra i due una colluttazione le cui ragioni rimangono ignote perchè taciute dalla prevenuta, la quale, per il perito B., ebbe evidentemente una reazione impulsiva eccessiva ed incontrollata in seguito ad una violenta discussione; le carte processuali provano una forte gelosia della prevenuta; la reticenza dell'imputata è dato confermato da tutti i periti e consulenti di parte che hanno operato nel processo ed è poco compatibile con lo stato di incapacità di intendere e volere; d'altra parte la prevenuta ha mostrato un comportamento normale e collaborativo presso l'azienda ospedaliera dove è stata ricoverata dopo i fatti di causa ed ha beneficiato di permessi vissuti adeguatamente e correttamente, comportamenti che diventavano diversi ogni qual volta si procedeva agli esami peritali; vi è incertezza anche sulla diagnosi dello stato mentale della C.; di qui la osservazione che non è dimostrato che l'imputata era incapace di intendere e volere al momento dell'omicidio, di guisa che, se è incerta la patologia diagnosticabile a suo carico, se non sappiamo cosa sia successo prima e perchè venne consumato il delitto, rimane altresì incerto ed indimostrato il nesso causale tra disturbo mentale e reato contestato; tale conclusione è stata peraltro confermata anche dai periti M. e T.; la sentenza della corte di assise trentina appare adeguatamente provata là dove evidenzia i numerosi profili di incertezza sin qui esposti e non è ammissibile la pretesa difensiva di applicare alla fattispecie, l'art. 530 c.p., comma 3, giacchè insussistente un principio di prova dello stato psicologico dell'imputata al momento del fatto. 

Motivi della decisione

  1. Il ricorso è fondato nei limiti che si passa ad esporre.

1.1 Costituisce principio fondante dell'ordinamento penale fissato dall'art. 533 c.p.p., comma 1, (oltre che acquisizione culturale del comune sentire giuridico attuale) che il giudice pronuncia sentenza di condanna quando la colpevolezza dell'imputato è provata al di là di ogni ragionevole dubbio. Sussiste il ragionevole dubbio e si impone viceversa la sentenza assolutoria, ai sensi dell'art. 530 c.p.p., comma 2, quando manca ovvero è insufficiente ovvero è contraddittoria la prova che il fatto sussiste, che l'imputato lo abbia commesso, che il fatto costituisca reato ovvero, infine, che il reato sia stato commesso da persona imputabile.

L'accertamento sulla imputabilità, inoltre, inerisce ad un presupposto necessario ed indispensabile del reato ai sensi dell'art. 85 c.p., di guisa che spetta al giudice stabilire se l'imputato, al momento del fatto, era o non libero di determinarsi, diversamente da quanto avviene per le cause di giustificazione del reato (forza maggiore, caso fortuito) per le quali l'onere obbligatorio incombe invece sul giudicabile.

Da tutte le esposte premesse consegue, in conclusione, che, in applicazione dell'art. 530 c.p.p., comma 2, il giudice può escludere, ritenere o porre in dubbio la sussistenza della capacità di intendere e di volere al momento del fatto e che deve emettere, correlativamente, la propria decisione in forma dubitativa se non accertata al di là di ogni ragionevole dubbio la imputabilità dell'imputato.

1.2 Tornando ora al caso concretamente portato all'esame della Corte, va posto in evidenza che il giudice di secondo grado è pervenuto alla condanna dell'imputata dopo averla ritenuta seminferma di mente al momento dell'omicidio, escludendo la ricorrenza in suo favore di un vizio totale di mente, viceversa riconosciuto dal giudice di prime cure. Siffatte decisive circostanze la corte territoriale ha fatto proprie ed ha posto a premessa del sillogismo decisionale, richiamando la perizia psichiatrica disposta in sede di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale di secondo grado, perizia formulata dai periti T. e M., la quale peraltro non aveva affatto accertato la seminfermità mentale della prevenuta al momento del fatto, ma, in applicazione di un preciso insegnamento teorico in materia, preso atto della impossibilità di acquisire il racconto della periziata sulla ricostruzione dei fatti, aveva concluso nel senso della impossibilità di affermare con certezza se l'imputata fosse del tutto ovvero soltanto parzialmente capace di intendere e di volere nel momento in cui accoltellava ripetutamente la vittima. 

Di qui la palese incongruenza logica della motivazione sviluppata dalla corte territoriale la quale, pur in costanza di conclusioni peritali di tale nettezza nella definizione di una situazione di incertezza conoscitiva, ha comunque escluso la piena infermità mentale dell'imputata, viceversa riconosciuta in prime cure sulla base di una perizia di ufficio la quale, applicando il c.d. metodo scientifico "Fornari", aveva dichiarato la prevenuta totalmente incapace di intendere e di volere al momento dell'omicidio.

Giova quindi ribadire: che i periti T. e M., officiati dalla corte territoriale, hanno diagnosticato a carico della prevenuta, un "disturbo dell'umore bipolare con manifestazioni ansiose e psicotiche congruenti all'umore (soprattutto presenza di idee di persecuzione) in un soggetto con disturbo borderline di personalità, tratti istrionici di personalità e ricorrenti sintomi somatici, anche a valenza post traumatica"; che tale diagnosi è stata giudicata dai predetti periti non dissimile da quelle formulate dal perito dell'incidente probatorio, dott. B., e dai periti nominati nel corso del giudizio abbreviato, dott.ri F. e D.F.; che tale diagnosi, sempre secondo i periti nominati nel corso del giudizio di appello, è compatibile sia con la totale quanto con la parziale incapacità di intendere e volere.

A fronte pertanto di un quadro probatorio di evidente incertezza sulla imputabilità dell'imputato, la corte di assise di appello, pur riconoscendolo, valorizzava poi in malam partem il dubbio in tal guisa conclamato, pervenendo al riconoscimento del vizio parziale sulla base dell'erroneo percorso logico secondo cui, non provata la totale non imputabilità, ma provata comunque la grave patologia psichiatrica incidente su di essa, deve concludersi per il riconoscimento del vizio parziale di mente. 

Palese, per un verso, l'errore logico e, per altro verso, quello in diritto, posto che la imputabilità integra, come già innanzi precisato, un elemento costitutivo del reato ai sensi dell'art. 85 c.p., di guisa che, se posta in dubbio totalmente ovvero soltanto parzialmente la sua ricorrenza in concreto, il relativo onere probatorio non cade a carico dell'imputato, quale prova di una eccezione, ma a carico della pubblica accusa (Cass., sez. 1, 33750 del 5.5.2011; rv. 185807 del 1990; rv. 120431 del 1971). 

Nel caso di specie la imputabilità della prevenuta è stata negata dai periti nominati in sede di giudizio abbreviato, i quali hanno concluso per la totale infermità di mente, prima di loro è stata invece parzialmente riconosciuta dal perito dell'incidente probatorio ed è stata infine dichiarata non ricostruibile nella sua reale dimensione al momento dei fatti dai periti nominati in sede di appello, i quali, appare utile ribadirlo, hanno concluso nel senso detto, in assenza di una collaborazione della periziata, nella fattispecie non assicurata, la quale soltanto consentirebbe una conclusione certa sul punto.

 

In conclusione, alla stregua di quanto sin qui argomentato, si impone l'annullamento della sentenza attesa la formale inosservanza della regola di giudizio stabilita dall'art. 530 c.p.p., comma 2, con rinvio al giudice territoriale affinchè provveda a verificare la possibilità di superare il dubbio emerso dal processo sulla imputabilità dell'imputata, di poi provvedendo in applicazione delle regole innanzi richiamate.

 

In ordine alla liquidazione delle spese e degli onorari di difesa dell'imputato, ammesso al gratuito patrocinio e delle parti civili, rimette la Corte la relativa decisione al giudice di rinvio.

 

P.Q.M.

La Corte, annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di assise di appello di Bolzano.

 

Così deciso in Roma, il 25 maggio 2016.

 

Depositato in Cancelleria il 27 febbraio 2017