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Violenza in carcere e rischio di tortura impediscono estradizione (Cass. 18122/21)

10 maggio 2021, Cassazione penale

L’esistenza di una situazione caratterizzata da grave e diffusa pratica della tortura al fine di estorcere confessioni e di endemica violenza nell’intero sistema carcerario costituisce motivo ostativo alla estradizione.

La formulazione di accuse aggiuntive a carico dello estradando riferite a generiche condotte di terrorismo che, a prescindere dal concreto esercizio di un’azione penale, sono suscettibili di esporlo ad attività di indagine in relazione alle quali non è affatto remoto il pericolo di subire atti di tortura anche in ambito carcerario, impone uno sforzo aggiuntivo volto ad appurarne il concreto contenuto.


Costituisce d’altronde fatto notorio che a livello globale, nell’ambito sia di Stati che non rispettano lo stato di diritto (Arabia Saudita, Iran, Egitto, Rep. Popolare Cinese) sia di Paesi formalmente a sistema politico pluripartitico, ma connotati da forti venature autoritarie (Russia, Turchia), accuse di terrorismo mascherano frequentemente l’esercizio di attività repressive del dissenso politico manifestato anche in forma pacifica; in epoca non lontana, inoltre, anche in Paesi che rispettano la rute of law come gli Stati Uniti d’America, un’accusa di terrorismo era sufficiente a fare decadere in maniera drammatica le garanzie processuali spettanti all’imputato. 

Corte di Cassazione

sez. VI Penale, sentenza 1 aprile – 10 maggio 2021, n. 18122
Presidente Ricciarelli – Relatore Villoni

Ritenuto in fatto

1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Torino ha dichiarato sussistenti le condizioni per l’accoglimento della domanda di estradizione avanzata dalle autorità della Repubblica dell’India (Stato del Gujarat) nei confronti di S.S.S. , fatto segno di mandato di arresto interno con l’accusa di associazione per delinquere e importazione di tre partite di droga per complessivi 300 kg. circa di eroina ai sensi degli artt. (Sections) 8(c), 21(c), 24, 25, 27(a) e 29 del Narcotic Drugs and Psychotropic Substances (NPDS) Act del 1985, disciplina normativa indiana per il contrasto al traffico delle sostanze stupefacenti.
Preso atto dell’assenza di una convenzione bilaterale di estradizione tra Italia e India e della possibilità di esaminare ed eventualmente accogliere la richiesta a titolo di cortesia internazionale, con garanzia di reciprocità e sulla base della Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di sostanze stupefacenti e psicotrope sottoscritta a Vienna il 21 dicembre 1988, la Corte di appello ha ritenuto sussistenti gravi indizi di colpevolezza del reato per cui si procede (art. 705 c.p.p., comma 1), ha escluso la sussistenza di un rischio di sottoposizione dell’estradando a pena capitale, ha ravvisato nella legislazione indiana una garanzia normativa assoluta in tal senso (art. 34(c) dello Extradition Act del 1962), ha parimenti escluso il rischio di sottoposizione dell’estradando a trattamenti degradanti o non rispettosi dei diritti umani, ha demandato alla decisione del Ministro la risoluzione del contrasto determinato dall’accoglimento della domanda di estradizione rispetto alla concessione da parte della Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Torino di una protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, con proposta al Questore di rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale ai sensi della stessa normativa.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione l’estradando che deduce i seguenti motivi di censura.
2.1. Violazione dell’art. 698 c.p.p., comma 2, in reazione al rischio effettivo di essere condannato a morte.
Il ricorrente sostiene di correre effettivamente, ai sensi dell’art. 31(a) della normativa antidroga (NPDS Act del 1985), il rischio di essere condannato a morte, non già per il reato per il quale viene chiesta l’estradizione, ma in ragione dell’esistenza di un altro procedimento pendente a suo carico per reati connessi alla produzione ed al commercio di stupefacenti davanti all’autorità giudiziaria dello Stato del Punjab e della conseguente applicabilità della suddetta previsione, la quale stabilisce che può essere applicata la pena di morte nei confronti di una persona, già condannata per uno dei reati previsti dagli artt. 19, 24 e 27(a) che successivamente venga condannata per un reato relativo alla produzione, al possesso, al traffico, alla importazione o esportazione, trasbordo delle sostanze stupefacenti elencate nella colonna A della tabella e nelle quantità indicate della colonna B.
2.2. Violazione dell’art. 705 c.p.p., comma 2, lett. a) in relazione al fatto che il procedimento penale in India non assicura il rispetto dei diritti fondamentali con riferimento all’inversione dell’onere della prova previsto dagli artt. 35 e 54 del NPDS Act del 1985.
Secondo il ricorrente le previsioni di legge penale indiane applicabili (35 e 54 NDPS Act) derogano espressamente al principio di presunzione di non colpevolezza sia sotto il profilo dell’accertamento dell’elemento soggettivo sia riguardo alla ascrivibilità della condotta all’agente, atteggiandosi ad insuperabili ostacoli alla concedibilità della estradizione in quanto disposizioni contrarie ai principi fondamentali delle Stato italiano.
2.3. Violazione dell’art. 705 c.p.p., comma 2, lett. a) in relazione alla circostanza che il procedimento estero non assicura il rispetto dei diritti fondamentali con riferimento alla mancanza di un termine predefinito di durata massima della custodia cautelare.
Nonostante l’ordinamento processuale indiano preveda in via generale un meccanismo di computo dei termini massimi di custodia cautelare, la legge antidroga (Sec. 37 NDPS Act) stabilisce che qualora l’imputazione coinvolga "quantità commerciali" di rilievo, i termini massimi sono neutralizzati sulla base di una mera conferma, da parte della Corte procedente, della gravità indiziaria inizialmente ritenuta, venendo di fatto consentita la custodia sine die, residuando unicamente l’eventualità di un rilascio su cauzione.
La protrazione indefinita della custodia cautelare nel sistema processuale indiano, dovuto soprattutto ad inadeguatezze di natura strutturale, ha del resto fornito oggetto anche di critica al livello internazionale, nella sostanziale indifferenza del sistema giudiziario e legislativo del Paese.
2.4. Violazione dell’art. 698 c.p.p., comma 1 e art. 705 c.p.p., comma 2, lett. c) in reazione al rischio effettivo di essere sottoposto a trattamenti crudeli, inumani o degradanti.
Il ricorrente deduce che la Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Torino ha rilevato l’iscrizione a suo carico di un ulteriore procedimento per reati di terrorismo, per i quali molte fonti indipendenti attestano la prevalenza di abusi durante la custodia e gli interrogatori di polizia.
Inoltre l’India non ha mai ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e molte fonti indipendenti attendibili (interrogazione scritta del 6 luglio 2007 all’apposita Commissione del Parlamento Europeo; documento di Human Rights Asia, rapporto della Law Commission of India del 30/10/2017, etc.) indicano una diffusa e grave situazione di pratica della tortura al fine di estorcere confessioni nonché di endemica violenza all’interno del sistema carcerario dello Stato indiano.
2.5. Violazione dell’art. 698 c.p.p., comma 1, in reazione al rischio di essere sottoposto ad atti persecutori o discriminatori.
Ulteriore ragione ostativa all’estradizione è l’appartenenza del ricorrente alla minoranza Sikh e la sua origine della regione del Punjab, in relazione allo acclarato ricorso all’uso massiccio della tortura da parte delle forze di polizia indiane a danno di appartenenti alla minoranza separatista del Punjab (documento dell’Human Rights Watch del 27 settembre 2013 versato in atti).

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato in relazione al quarto motivo di ricorso, concernente il pericolo di sottoposizione dell’estradando a trattamenti inumani e degradanti, costituente motivo di rifiuto all’estradizione ai sensi dell’art. 698 c.p.p., comma 1 e art. 705 c.p.p., comma 2, lett. c).
Come anticipato, il ricorrente allega che la Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Torino ha rilevato l’iscrizione a proprio carico di un ulteriore procedimento per reati di terrorismo, segnatamente quelli di cui alle Sections 17 e 18 dello Unlawful Activities Act (UAPA) del 1967 facenti riferimento ad atti di natura terroristica e che, pur a fronte della richiesta di informazioni supplementari, il governo indiano non ha fornito spiegazioni sulla natura di tali imputazioni, che si aggiungono a quelle contenute nella domanda di estradizione.
Deduce, inoltre, che molte fonti indipendenti attestano la prevalenza di abusi durante la custodia e gli interrogatori di polizia, che sfociano nell’uso della tortura per estorcere confessioni nell’ambito del sistema penitenziario indiano.
L’India non ha del resto mai ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e molte fonti indipendenti attendibili (interrogazione scritta rivolta il 6 luglio 2007 all’apposita Commissione del Parlamento Europeo e risposta da questa fornita; documento di Human Rights Asia sulla pratica della tortura in India con rinvio a documenti di altre organizzazioni internazionali, rapporto della Law Commission of India del 30/10/2017, rapporto del Comitato di vigilanza per i diritti umani, PVCHR, sulla tortura in India del 2008; documento di Human Rights Watch allegato alla memoria del 09/0à020) indicano l’esistenza di una situazione caratterizzata da grave e diffusa pratica della tortura al fine di estorcere confessioni e di endemica violenza nell’intero sistema carcerario federale indiano.
Il Collegio osserva che la formulazione di accuse aggiuntive a carico dello estradando riferite a generiche condotte di terrorismo che, a prescindere dal concreto esercizio di un’azione penale, sono suscettibili di esporlo ad attività di indagine in relazione alle quali non è affatto remoto il pericolo di subire atti di tortura anche in ambito carcerario, impone uno sforzo aggiuntivo volto ad appurarne il concreto contenuto.
Costituisce d’altronde fatto notorio che a livello globale, nell’ambito sia di Stati che non rispettano lo stato di diritto (Arabia Saudita, Iran, Egitto, Rep. Popolare Cinese) sia di Paesi formalmente a sistema politico pluripartitico, ma connotati da forti venature autoritarie (Russia, Turchia), accuse di terrorismo mascherano frequentemente l’esercizio di attività repressive del dissenso politico manifestato anche in forma pacifica; in epoca non lontana, inoltre, anche in Paesi che rispettano la rute of law come gli Stati Uniti d’America, un’accusa di terrorismo era sufficiente a fare decadere in maniera drammatica le garanzie processuali spettanti all’imputato.
Anche tenuto conto della reciproca indipendenza tra il presente procedimento estradizionale e quello amministrativo dinanzi alla Commissione Territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, non può, pertanto, farsi a meno di considerare che segnali della possibile esposizione dell’estradando al pericolo di tortura sono stati già raccolti in quella sede.
Spetterà, dunque, ad altra sezione della Corte territoriale procedere ai dovuti approfondimenti presso le autorità indiane al fine di acquisire elementi di conoscenza sulla natura delle ulteriori imputazioni ipotizzate o formulate a carico dell’estradando, da valutare unitamente all’acquisizione di informazioni per quanto possibile aggiornate in ordine alla pratica della tortura nell’ambito del sistema carcerario indiano.
2. Vanno, invece, disattesi gli altri motivi di doglianza formulati in ricorso.
2.1. Quanto al rischio per l’estradando di essere condannato a pena capitale, vale osservare che esso appare in realtà solo potenziale poiché riferito ad altro procedimento in corso nel diverso Stato del Punjab (di cui il ricorrente è originario) e che in caso di condanna con recidiva potrebbe in effetti comportare l’applicazione della pena di morte.
Sul punto la Corte di appello ha, tuttavia, già congruamente rilevato che l’estradando non ha rinunciato al principio di specialità e che, pertanto, non potrà essere sottoposto, ove consegnato, a procedimento per fatti anteriori a quelli per cui viene estradato; inoltre, la presenza dell’art. 34(c) della legge di estradizione indiana del 1962 costituisce sufficiente garanzia di non applicazione della pena capitale, stabilendo la prevalenza della legge dello Stato concedente (nella specie, l’Italia) ove non contempli detta pena.
Il Collegio aggiunge a tali considerazioni quella che, nonostante l’assenza di una base convenzionale bilaterale o multilaterale volta a disciplinare la presente procedura di estradizione, lo Stato richiedente resta obbligato sul piano internazionale con lo Stato concedente al rispetto dei limiti stabiliti con il provvedimento di consegna, la cui infrazione potrebbe pregiudicare, in maniera verosimilmente significativa, ulteriori possibilità di cooperazione in materia giudiziaria penale.
2.2. Quanto, invece, alla doglianza di mancato rispetto dei diritti fondamentali dell’imputato per inversione dell’onere della prova nella normativa applicabile (artt. 35 e 54 del NPDS Act del 1985), vale preliminarmente rilevare che la censura non è stata tempestivamente dedotta dinanzi alla Corte di appello e non può, pertanto, formare parametro di riferimento al fine di stabilire la legittimità o meno del provvedimento impugnato.
Dall’esame dalle norme indicate dalla difesa del ricorrente è dato, tuttavia, solo ricavare che le stesse semplificano il compito dell’accusa di provare, tanto sotto il profilo dell’accertamento dell’elemento soggettivo (art. 35) quanto della imputabilità della condotta (art. 54), la responsabilità dell’imputato in relazione a determinate situazioni di fatto, similmente a quanto avviene anche nel nostro ordinamento nei casi di detenzione di una res il cui possesso sia presunto come illecito (armi, sostanze stupefacenti, cose di provenienza illecita, v. in particolare l’art. 54 del NPDS Act - Presunzione dal possesso di articoli illeciti), salva la possibilità per la difesa di fornire prova contraria.
Non è dato, pertanto, individuare in tali presidi normativi disposizioni contrarie ai principi fondamentali delle Stato italiano e del resto la loro concreta applicazione nell’ambito del sistema processuale indiano sfugge evidentemente a valutazioni operabili in questa sede, anche a fronte della acquisite evidenze probatorie.
2.3. Va disattesa anche la doglianza riferita al mancato rispetto dei diritti fondamentali (art. 705 c.p.p., comma 2, lett. a) in relazione all’art. 5, par. 3, Conv. EDU) sotto il profilo che il sistema processual-penale indiano non parrebbe prevedere nel caso concreto termini massimi di custodia cautelare.
Il Collegio osserva che nello stesso ricorso si dà correttamente atto della circostanza che il sistema processuale indiano prevede in termini generali termini massimi di custodia cautelare, stabiliti alla Section 436-A del c.p.p. di cui è riportato il testo tradotto in lingua italiana (pag. 24 ricorso).
Il ricorrente lamenta, piuttosto, che in relazione al reato per cui si procede, una specifica disposizione della legge antidroga (Sec. 37 NPDS Act) consente di superare sine die il termine massimo stabilito dalla legge in via generale (metà della pena detentiva prevista) sulla base di una mera conferma, da parte dell’autorità giudiziaria procedente, della gravità indiziaria inizialmente ritenuta, ferma restando la sola possibilità di una rimessione in libertà su cauzione.
Ciò che in definitiva si allega non è, dunque, l’inesistenza di un meccanismo processuale di predeterminazione dei termini massimi di custodia cautelare, ma il fatto che in relazione al delitto di importazione di rilevanti quantità ("quantità commerciali", secondo la terminologia penalistica indiana) di stupefacenti come nel caso in esame, è molto probabile che la custodia cautelare si protragga fino alla condanna ed all’esecuzione della pena.
Anche in questo caso, pertanto, non può una determinata prassi processuale interna allo Stato richiedente costituire da ostacolo alla consegna, specialmente quando un meccanismo processuale - formalmente rispettoso del principio fondamentale che si assume violato - effettivamente esista.
2.4. Anche la doglianza basata sulle possibili discriminazioni che l’estradando potrebbe subire per via della sua appartenenza alla minoranza religiosa Sikh non è stata dedotta dinanzi alla Corte di merito.
Nel ricorso tale appartenenza viene collegata all’uso frequente della tortura da parte delle forze di polizia indiane in occasione di manifestazioni separatiste risalenti all’anno 2013.
La censura appare oltre modo generica e come tale deve essere disattesa.
Costituisce oltre tutto fatto notorio che azioni separatiste della minoranza Sikh avvennero nello Stato del Punjab nel corso egli anni 1983-1984, quando in una spirale di azioni e ritorsioni, vi furono pogrom ed assassini di appartenenti alla minoranza nonché l’uccisione del primo ministro indiano dell’epoca (I.G. ) da parte di una sua guardia del corpo di etnia Sikh.
È però altrettanto notorio che da allora la maggiore autonomia concessa allo Stato del Punjab e il pieno riconoscimento, sul piano religioso, culturale e legale, della minoranza, abbia attenuato notevolmente quelle tensioni, configurando una situazione che, se non esclude l’esistenza di gruppi marginali che coltivano ancora idee separatiste e di rivalsa, non può, tuttavia, definirsi oppressiva o discriminatoria ai danni di quella comunità.
3. La sentenza impugnata va, pertanto, annullata limitatamente al punto suindicato con rinvio degli atti ad altra sezione della Corte territoriale per nuovo giudizio.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Torino. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 203 disp. att. c.p.p..