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Udienze sempre pubbliche? (Corte Cost., 109/15)

15 giugno 2015, Corte Costituzionale

La pubblicità del giudizio - specie di quello penale - rappresenta un principio connaturato ad un ordinamento democratico: il principio non ha valore assoluto, potendo cedere in presenza di particolari ragioni giustificative, purché, tuttavia, obiettive e razionali, e, nel caso del dibattimento penale, collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale.

 

CORTE COSTITUZIONALE

SENTENZA 109 - del 15 GIUGNO 2015

1. 

La Corte di cassazione, terza sezione penale - investita di un ricorso inerente alla confisca in sede esecutiva di un bene di interesse artistico e archeologico illecitamente esportato - dubita della legittimità costituzionale degli artt. 666, 667, comma 4, e 676 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non consentono che la parte possa richiedere al giudice dell’esecuzione lo svolgimento dell’udienza in forma pubblica».
Ad avviso della Corte rimettente, le norme censurate violerebbero gli artt. 111, primo comma, e 117 della Costituzione, ponendosi in contrasto - non superabile in via di interpretazione - con il principio di pubblicità dei procedimenti giudiziari, sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
2.In via preliminare, va rilevato che, malgrado il generico riferimento del dispositivo dell’ordinanza di rimessione ai procedimenti che si svolgono davanti al «giudice dell’esecuzione», nella motivazione di detta ordinanza la Corte rimettente afferma espressamente che i dubbi di legittimità costituzionale prospettati attengono alla «procedura di incidente di esecuzione per l’applicazione della confisca»: e ciò in assonanza sia con l’oggetto del procedimento a quo che con le deduzioni poste a sostegno delle censure, calibrate anch?esse sull’ipotesi dell’applicazione della confisca in executivis.
Si deve, pertanto, ritenere che la questione sottoposta all’esame di questa Corte attenga in modo specifico ed esclusivo al procedimento di esecuzione volto all’applicazione di detta misura patrimoniale.
3.Ciò puntualizzato, la questione è fondata, nei termini di seguito specificati.
Questa Corte, con le sentenze n. 93 del 2010, n. 135 del 2014 e n. 97 del 2015, ha già dichiarato costituzionalmente illegittime - per contrasto, nel primo caso, con l’art. 117, primo comma, Cost. e, negli altri due, con entrambi i parametri costituzionali oggi evocati - le disposizioni regolative, rispettivamente, del procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione (art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, recante «Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità», e art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575, recante «Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere»), del procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza (artt. 666, comma 3, 678, comma 1, e 679, comma 1, cod. proc. pen.) e del procedimento davanti al tribunale di sorveglianza (artt. 666, comma 3, e 678, comma 1, cod. proc. pen.), nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, le procedure stesse si svolgano nelle forme dell’udienza pubblica, quanto ai gradi di merito (la medesima esigenza costituzionale non è stata ritenuta, invece, ravvisabile relativamente al ricorso per cassazione, in quanto giudizio di impugnazione destinato alla trattazione di questioni di diritto: sentenza n. 80 del 2011).
Considerazioni analoghe a quelle svolte in tali occasioni valgono anche in riferimento alla questione oggi in esame. Essa investe, per quanto detto, le modalità di svolgimento del procedimento per l’applicazione della confisca, che l’art. 676, comma 1, cod. proc. pen. demanda alla competenza del giudice dell’esecuzione.
Al di là delle peculiari vicende del giudizio a quo, il problema di legittimità costituzionale si pone, più propriamente, in rapporto al procedimento di opposizione avverso l’ordinanza in materia di confisca. Ai sensi dell’art. 667, comma 4, cod. proc. pen., cui il citato art. 676, comma 1, rinvia, sulla confisca non disposta nel giudizio di cognizione il giudice dell’esecuzione decide, infatti, in prima battuta de plano (ossia «senza formalità con ordinanza comunicata al pubblico ministero e notificata all’interessato»), salva la facoltà degli interessati di instaurare una fase in contraddittorio davanti allo stesso giudice proponendo opposizione: fase che, sul piano procedimentale, è regolata dall’art. 666 cod. proc. pen. (richiamato, a sua volta, dall’art. 667, comma 4, cod. proc. pen.).
Tanto precisato, il dato normativo è univoco nell’escludere la partecipazione del pubblico al procedimento in questione. Il comma 3 del citato art. 666 prevede, infatti, la fissazione di una «udienza in camera di consiglio»: formula che, in assenza di previsioni derogatorie, rende operante la disciplina generale del procedimento camerale dettata dall’art. 127 cod. proc. pen. e, segnatamente, dal suo comma 6, in forza del quale «L’udienza si svolge senza la presenza del pubblico».
4.Siffatto regime si rivela, peraltro, incompatibile con la garanzia della pubblicità dei procedimenti giudiziari, sancita dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, così come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, e, di conseguenza, con l’art. 117, primo comma, Cost., rispetto al quale la citata disposizione convenzionale assume una valenza integrativa, quale «norma interposta».
L’art. 6, paragrafo 1, della CEDU stabilisce - per la parte conferente - che «Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata [...], pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale [...]», soggiungendo, altresì, che «La sentenza deve essere resa pubblicamente, ma l’accesso alla sala d’udienza può essere vietato alla stampa e al pubblico durante tutto o parte del processo nell’interesse della morale, dell’ordine pubblico o della sicurezza nazionale in una società democratica, quando lo esigono gli interessi dei minori o la protezione della vita privata delle parti in causa, o, nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale, quando in circostanze speciali la pubblicità possa portare pregiudizio agli interessi della giustizia».
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha già avuto modo di ritenere in contrasto con l’indicata garanzia convenzionale taluni procedimenti giurisdizionali dei quali la legge italiana prevedeva la trattazione in forma camerale. Ciò è avvenuto, in specie, con riguardo al procedimento applicativo delle misure di prevenzione (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, sulla cui scia sentenza 26 luglio 2011, Paleari contro Italia; sentenza 17 maggio 2011, Capitani e Campanella contro Italia; sentenza 2 febbraio 2010, Leone contro Italia; sentenza 5 gennaio 2010, Bongiorno e altri contro Italia; sentenza 8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia) e al procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione (sentenza 10 aprile 2012, Lorenzetti contro Italia).
La Corte europea è pervenuta a tale conclusione richiamando la propria costante giurisprudenza, secondo la quale la pubblicità delle procedure giudiziarie tutela le persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico, e costituisce anche uno strumento per preservare la fiducia nei giudici, contribuendo così a realizzare lo scopo dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU: ossia l’equo processo.
Come attestano le eccezioni previste dalla seconda parte della norma, questa non impedisce, in assoluto, alle autorità giudiziarie di derogare al principio di pubblicità dell’udienza. La stessa Corte europea ha, d’altra parte, ritenuto che alcune situazioni eccezionali, attinenti alla natura delle questioni da trattare - quale, ad esempio, il carattere «altamente tecnico» del contenzioso - possano giustificare che si faccia a meno di un?udienza pubblica. In ogni caso, tuttavia, l’udienza a porte chiuse, per tutta o parte della durata, deve essere «strettamente imposta dalle circostanze della causa».
Con particolare riguardo al procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione, la Corte di Strasburgo non ha negato che detta procedura possa presentare «un elevato grado di tecnicità» e far emergere, altresì, esigenze di protezione della vita privata di terze persone. Ma ha rilevato che l’entità della «posta in gioco» - rappresentata (nel caso delle misure patrimoniali) dalla confisca di «beni e capitali» - e gli effetti che la procedura stessa può produrre sulle persone non consentono di affermare «che il controllo del pubblico» - almeno su sollecitazione del soggetto coinvolto - «non sia una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell’interessato». Di conseguenza, ha ritenuto «essenziale», ai fini della realizzazione della garanzia prefigurata dalla norma convenzionale, «che le persone [?] coinvolte in un procedimento di applicazione delle misure di prevenzione si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello» (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia).
In termini similari la Corte europea si è espressa con riferimento al procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione, non ravvisando, anche in tal caso, alcuna circostanza eccezionale atta a giustificare la deroga generale e assoluta al principio di pubblicità dei giudizi, insita nella previsione della sua trattazione in forma camerale (art. 315, comma 3, in relazione all’art. 646, comma 1, cod. proc. pen.). Nell’ambito di tale procedura, infatti, i giudici interni sono chiamati essenzialmente a valutare se l’interessato abbia contribuito a provocare la sua detenzione intenzionalmente o per colpa grave: sicché non si discute di «questioni di natura tecnica che possono essere regolate in maniera soddisfacente unicamente in base al fascicolo» (sentenza 10 aprile 2012, Lorenzetti contro Italia).
5.Come già rilevato da questa Corte con le citate sentenze n. 93 del 2010, n. 135 del 2014 e n. 97 del 2015, la norma convenzionale, come interpretata dalla Corte europea, non contrasta con le conferenti tutele offerte dalla nostra Costituzione (ipotesi nella quale la norma stessa rimarrebbe inidonea a integrare il parametro dell’art. 117, primo comma, Cost.), ma si pone, anzi, in sostanziale assonanza con esse.
L’assenza di un esplicito richiamo, non scalfisce, infatti, il valore costituzionale del principio di pubblicità delle udienze giudiziarie, peraltro consacrato anche in altre carte internazionali dei diritti fondamentali. La pubblicità del giudizio - specie di quello penale - rappresenta, in effetti, un principio connaturato ad un ordinamento democratico (ex plurimis, sentenze n. 373 del 1992, n. 69 del 1991 e n. 50 del 1989). Il principio non ha valore assoluto, potendo cedere in presenza di particolari ragioni giustificative, purché, tuttavia, obiettive e razionali (sentenza n. 212 del 1986), e, nel caso del dibattimento penale, collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale (sentenza n. 12 del 1971).
6.Ciò posto, deve escludersi che, con riguardo al procedimento oggi in esame, siano ravvisabili ragioni atte a giustificare una deroga generalizzata e assoluta al principio di pubblicità delle udienze.
Il procedimento in questione è finalizzato, infatti, all’applicazione di una misura distinta ed ulteriore rispetto a quelle adottate in sede cognitiva: misura che incide su un diritto munito di garanzia convenzionale ai sensi dell’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, firmato a Parigi il 20 marzo 1952, ratificato e reso esecutivo con legge 4 agosto 1955, n. 848. La «posta in gioco» in tale procedimento può risultare, d’altra parte, assai elevata, come attesta eloquentemente il caso oggetto del giudizio a quo, attinente alla confisca di un bene (una statua in bronzo attribuibile allo scultore greco Lisippo, rinvenuta in mare) di altissimo valore artistico ed archeologico (e, dunque, anche economico).
Non si tratta, altresì, in linea generale, di un contenzioso a carattere tipicamente e spiccatamente «tecnico», rispetto al quale il controllo del pubblico sull’esercizio dell’attività giurisdizionale possa ritenersi non necessario alla luce della peculiare natura delle questioni trattate: e ciò - contrariamente a quanto sostenuto dall’Avvocatura generale dello Stato - neppure nel caso della confisca disposta, come nella specie, ai sensi dell’art. 66 della legge 1° giugno 1939, n. 1089 (Tutela delle cose d’interesse artistico e storico), attualmente trasfuso, in parte qua, nell’art. 174, comma 3, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137).
La decisione postula, in effetti, accertamenti di natura anche e prima di tutto fattuale, attinenti, da un lato, al collegamento tra il bene oggetto della misura ed un fatto di reato, e, dall’altro, nel caso di confisca di un bene di proprietà o in possesso di terzi, alle condizioni che consentono di adottare la misura nei suoi confronti.
In tale ipotesi, inoltre - come nuovamente attesta il caso oggetto del procedimento a quo - il provvedimento ablativo può colpire un soggetto rimasto estraneo al giudizio di cognizione e che non ha avuto, quindi, neppure la possibilità di fruire della garanzia della pubblicità delle udienze nell’ambito di detto giudizio.
È significativo, d’altra parte, che la prima pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha sancito l’incompatibilità con la CEDU di una procedura camerale prevista dalla legge processuale italiana (la citata sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia) abbia riguardato proprio un procedimento finalizzato all’applicazione della confisca, quale misura di prevenzione patrimoniale.
Deve, di conseguenza, concludersi che, anche nel caso in esame, ai fini del rispetto della garanzia prevista dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, occorre che le persone coinvolte nel procedimento abbiano la possibilità di chiedere il suo svolgimento in forma pubblica: con la precisazione che, per quanto attiene all’art. 666 cod. proc. pen. - censurato nella sua interezza dalla Corte rimettente, unitamente agli artt. 667, comma 4, e 676 cod. proc. pen. - la conseguente declaratoria di illegittimità costituzionale va riferita, più specificamente, come nei casi decisi dalle sentenze n. 135 del 2014 e n. 97 del 2015, alla disposizione del comma 3, che prevede la trattazione del procedimento in forma camerale.
7.Gli artt. 666, comma 3, 667, comma 4, e 676 cod. proc. pen. vanno dichiarati, pertanto, costituzionalmente illegittimi, nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento di opposizione contro l’ordinanza in materia di applicazione della confisca si svolga, davanti al giudice dell’esecuzione, nelle forme dell’udienza pubblica.

Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 666, comma 3, 667, comma 4, e 676 cod. proc. pen., nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento di opposizione contro l’ordinanza in materia di applicazione della confisca si svolga, davanti al giudice dell’esecuzione, nelle forme dell’udienza pubblica.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 aprile 2015.


F.to:
Alessandro CRISCUOLO, Presidente
Giuseppe FRIGO, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 15 giugno 2015.