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Truffa sentimentale non è (quasi) mai reato (Tr. Milano 14/7/15)

8 settembre 2015, Tribunale di Milano

E' ipotizzabile il caso di un soggetto che, attraverso  un’artificiosa messa in scena, faccia credere ad una persona che esistano d eterminati  sentimenti di affetto o di amore reciproci all’unico e preciso scopo di ottenere da  quest’ultima un atto di disposizione patrimoniale.

Il  semplice  mentire  sui  propri  sentimenti  (la  nuda  menzogna)  non  integra  una  condotta  tipica  di  truffa.

Il  dolo  sopravvenuto  non  dà  luogo  al  delitto  di  truffa, dato che l’agente  deve  avere  fin  dall’inizio  voluto  ingannare  la  vittima  e  ottenere  una  prestazione   patrimoniale   ingiusta   con   altrui   danno. 

Perché   possa   dirsi   integrato   il   delitto   di   truffa   occorre   la  certezza,   al   di   là   di   ogni  ragionevole   dubbio,   che   l’agente   abbia,   fin   dall’inizio   della   condotta   fraudolenta,  voluto   ottenere   da   questa   un   atto   di   disposizione   patrimoniale   che   altrimenti   non  avrebbe  potuto  ottenere.

Non  c’è  reato  se  la  scelta  della  vittima  di  porre  in  essere  l’atto  di  disposizione  patrimoniale  non   è   stata   effettivamente   determinata   dall’errata   convinzione   che   la   controparte  provasse  determinati  sentimenti,  avesse  determinati  propositi  per  il  futuro,  ecc., bastando quindi il ragionevole dubbio che la  "vittima" avrebbe comunque effettuato le dazioni patrimoniali (per avere ad es. un tornaconto prsonale).

Non  può  esservi  appropriazione  indebita  di  denaro, tantomeno se  consegnato senza specifico vincolo di destinazione.

La mancata restituzione di somme di denaro date in prestito è penalmente irrilevante. Essa può dar luogo solo ad una violazione contrattuale rilevante in sede civile, ma non al delitto di appropriazione indebita né a qualsivoglia altro illecito penale.

 

 Tribunale di Milano

Sez. III, sent. 14 luglio 2015 (dep. 8 settembre 2015)

 

1 . MOTIVI DELLA DECISIONE

Svolgimento del processo Con decreto di citazione diretta a giudizio del 17.04.2014, E. C. è stato rinviato a  giudizio della III Sezione del Tribunale di Milano, per rispondere del reato di cui al  capo di imputazione indicato in epigrafe.

Alla prima udienza del 16.12.2015, avanti al giudice dott.ssa Valentina Boroni, non  comparso l’imputato, dato atto della regolarità delle notifiche, non essendoci  questioni preliminari, si è disposto procedersi in assenza di E. C. ed è stato aperto il  dibattimento.  Il PM ha richiesto l’esame della persona offesa I. N. e ha prodotto documentazione  come da elenco (contratto di prestito, ricevute di versamento, estratto conto,  raccomandata avv. T).  La Difesa ha chiesto il controesame del teste, l’esame dell’imputato e si è riservata  produzione documentale. Il giudice ha ammesso le prove richieste dalle parti, ha acquisito la documentazione  prodotta dal PM e ha rinviato il processo per l’istruttoria e la discussione. All’udienza del 03.03.2015, avanti al giudice dott. Ilio Mannucci Pacini, assente  l’imputato, le parti hanno acconsentito alla rinnovazione del provvedimento di  ammissione delle prove mediante lettura. Il PM ha chiesto un differimento, non  avendo reperito la teste presso l’indirizzo anagrafico rilevato. Il giudice ha rinviato il  processo. All’udienza del 12.05.2015, assente l’imputato, il PM ha chiesto un termine per la  ricerca del teste I. N., facendo presente di averle notificato la convocazione per  l’udienza senza ottenerne la comparizione. Il giudice ha rinviato il processo. All’udienza del 30.06.2015, assente l’imputato, si è proceduto all’esame e al  controesame del teste I. N. All’udienza del 14.07.2015, presente l’imputato e la parte offesa I. N., si è proceduto  all’esame dell’imputato E. C.  Il giudice ha dichiarato chiusa l’istruttoria dibattimentale.  Le parti hanno concluso come da intestazione e il giudice ha dato lettura in aula del  dispositivo.

2. La contestazione

E. C. è accusato dei reati di truffa e appropriazione indebita  ex artt. 81 co. 2, 640, 646  c.p. aggr.  ex art. 61 n. 7 c.p. in quanto avrebbe  – con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso  – indotto in errore  I. N. , sfruttando il sentimento  affettivo di tale donna nei suoi confronti. In particolare, assicurando a quest’ultima  che l’avrebbe portata in Perù ove avrebbe iniziato un’attività commerciale, si sarebbe  fatto corrispondere svariate somme di denaro per un importo complessivo di  16.500,00 euro circa, che non avrebbe mai più restituito nonostante le ripetute  richieste della donna. Il fatto sarebbe stato commesso a Milano fino al 1° febbraio  2009.

3. I  fatti e il quadro probatorio

omissis [per quanto rileva, una donna presta varie somme di denaro ad un uomo, con cui intrattiene da alcuni mesi una relazione sentimentale, ricevendo da quest'ultimo promesse circa la costruzione insieme di una famiglia e rassicurazioni sulla futura restituzione del denaro. L'uomo, poco tempo dopo aver ricevuto tali somme interrompe la relazione e restituisce solo una minima parte del denaro prestato, rifiutandosi - nonostante le reiterate richieste della donna, anche mediante raccomandata - di onorare il proprio debito.]

4. Valutazione delle prove acquisite e qualificazione giuridica dei fatti

La teste e persona offesa  I. N.  afferma di aver prestato varie somme di denaro  all’imputato  – con cui, ai tempi del fatto, intratteneva da alcuni mesi una relazione  sentimentale  – e di aver ricevuto da  quest’ultimo illusioni sulla costruzione insieme  di una famiglia e rassicurazioni sulla restituzione del denaro. Sostiene inoltre che  l’imputato non le restituì le somme dovute né quando gliene fece richiesta oralmente  né in seguito alla formalizzazione della richiesta mediante lettera raccomandata di  un avvocato.

La deposizione della teste e persona offesa  I. N.  appare attendibile e le sue  affermazioni sono logicamente coerenti rispetto alla documentazione prodotta dal  PM (in particolare, la ricevuta di trasferimento presso  Money King’s e l’estratto conto  da cui risulta la restituzione dei 280 euro eseguita dall’imputato con bonifico del  28.08.2009). Al contrario, appare inverosimile la prospettazione difensiva, secondo cui l’imputato  ricevette 1.974 euro,  il 21 luglio, dalla sig.ra  I. N.  mediante  money transfer come  rimborso del prezzo del biglietto aereo della sig.ra  I. N., da lui precedentemente  acquistato per conto della donna.

Tale spiegazione  – astrattamente plausibile  – non è  infatti stata offerta dall’imputato immediatamente durante l’esame, ma è stata  avanzata solo quando si è palesata la scarsa credibilità della sua precedente versione  (quella per cui la somma gli sarebbe servita per le spese di trasporto dalla casa in  Perù all’aeroporto).

La tesi difensiva non è inoltre suffragata da alcun riscontro  documentale: l’imputato avrebbe, ad esempio, potuto presentare la ricevuta di  acquisto dei biglietti o una copia del proprio estratto-­conto da cui risultasse  l’acquisto del biglietto aereo per la donna.  La spiegazione, inoltre, è resa ancor più  irrealistica dal fatto, provato e ammesso dall’imputato, del trasferimento di 280 euro  eseguita con bonifico del 28.08.2009: se davvero la sig.ra  I. N.  non aveva prestato ad  E. C.  alcuna somma di denaro  – e l’unica  dazione avvenne a titolo di rimborso di una  precedente spesa dell’imputato  – non si comprende come mai quest’ultimo, quando  la relazione tra i due era già terminata, decise di effettuare tale trasferimento di  denaro.

L’unica spiegazione ragionevole sembra  perciò essere quella offerta dalla  persona offesa: il trasferimento di denaro corrispondeva ad una parte delle somme  che l’imputato si era impegnato a restituire alla donna. Pur non potendosi dire provato l’esatto importo delle somme trasferite dalla sig.ra  I.  N. all’imputato, essendo queste ultime avvenute in contanti e pertanto prive di un  riscontro documentale, è possibile affermare con ragionevole certezza che del denaro  fu dalla donna consegnato ad  E. C.  e che l’ammontare minimo di tale dazione fu di  1.974 euro.

Altrettanto verosimile  – per le ragioni anzidette  – è che si trattasse di un  prestito della donna e non di un mero rimborso all’imputato.

Ciononostante, il fatto che l’imputato abbia omesso di restituire somme di denaro a  lui prestate non integra alcuno dei reati contestati all’imputato (la truffa e  l’appropriazione indebita) ed anzi esula dall’area della rilevanza penale.

Non risulta anzitutto integrato il delitto di  truffa.

Quest’ultimo è un  delitto contro il patrimonio commesso mediante la cooperazione  della vittima, carpita con la frode, la cui condotta tipica consta di quattro eventi tra  loro collegati e cronologicamente successivi:

  • il soggetto deve porre in essere un  comportamento fraudolento che comprenda artifici o raggiri ( condotta tipica a forma  vincolata );
  • a causa di tali atti fraudolenti, il soggetto passivo della condotta dev’essere  indotto in errore ( primo evento );
  • a causa di tale errore, il soggetto ingannato deve  compiere un atto di disposizione patrimoniale ( secondo evento, implicito );
  • da tale atto  debbono derivare un danno ingiusto ad altri ( terzo evento ) e un profitto ingiusto del  soggetto agente ( quarto evento ).

Perché possa dirsi integrata una truffa occorrerebbe dunque provare che  E. C. abbia,  con una  condotta fraudolenta , indotto in errore  I. N. sulle proprie intenzioni familiari e  lavorative future, così da convincerla a corrispondergli quelle somme di denaro,  naturalmente con l’ iniziale e perdurante intento  di ingannare la donna circa i propri  sentimenti e di non restituire il denaro ricevuto.

In termini più generali  – e con la cautela che ogni astrazione dal caso concreto  richiede  – è lecito domandarsi se sia concepibile una truffa quando una persona  inganni il proprio ‘compagno’ (o la propria ‘compagna’) circa i propri sentimenti, al  solo scopo di ottenere un vantaggio patrimoniale con altrui danno.

La risposta può  essere affermativa: è infatti ipotizzabile il caso di un soggetto che, attraverso  un’artificiosa messa in scena, faccia credere ad una persona che esistano d eterminati  sentimenti di affetto o di amore reciproci all’unico e preciso scopo di ottenere da  quest’ultima un atto di disposizione patrimoniale.

Si pensi ad un soggetto che  contatti una persona su un social - network e intraprenda con questa una  corrispondenza offrendo dati falsi circa le proprie qualità, i propri interessi, e la  propria professione e riuscendo, in tal modo, a far invaghire la persona, a farle  credere che i sentimenti affettivi siano reciproci e infine a farle effettuare una  prestazione patr imoniale a proprio favore. 

Un’analoga condotta è d’altronde ipotizzabile anche qualora l’agente agisca ‘di  persona’ e non tramite internet.  

In   simili   ipotesi  –   astrattamente   qualificabili   come   truffa  –   è   tuttavia   più   che   mai  doveroso   vagliare   con   cura   ogni   singolo   elemento   costitutivo   della   fattispecie   di  reato,  onde  evitare  una  spropositata  estensione  dell’area  della  rilevanza  penale. 

Un  primo  aspetto  da  vagliare  con  stretto  scrutinio  è  la  concreta  portata  fraudolenta  della   condotta:   non   c’è   truffa   allorché   l’inganno   non   sia   stato   tessuto   in   modo  artificioso  attraverso  un’alterazione  della  realtà  esterna,  simulatrice  dell’inesistente  o  dissimulatrice  dell’esistente  (artificio)  o  con  unamenzogna  corredata  da  ragionamenti  idonei  a  farla    scambiare  per  realtà  (raggiro).  Il  semplice  mentire  sui  propri  sentimenti  (la  nuda  menzogna)  non  integra  una  condotta  tipica  di  truffa.

Il   secondo   fondamentale   aspetto   concerne   il   dolo.   Esso   deve   essere   presente   al  momento  (dell’inizio)  della  condotta.  Il  dolo  sopravvenuto  non  dà  luogo  al  delitto  di  truffa.  L’agente  deve  avere  fin  dall’inizio  voluto  ingannare  la  vittima  e  ottenere  una  prestazione   patrimoniale   ingiusta   con   altrui   danno.  

Sono   dunque   penalmente  irrilevanti  le  condotte  poste  in  essere  nell’ambito  di  una  relazione  che  non  sia  stata  ab  origine  intrapresa   con   quel   preciso   intento   criminoso.  

Tale   incontestabile   rilievo   di  carattere  sostanziale  comporta  un’evidente  difficoltà  di  tipo  processuale‑probatorio. 

Perché   possa   dirsi   integrato   il   delitto   di   truffa   occorre   la  certezza,   al   di   là   di   ogni  ragionevole   dubbio,   che   l’agente   abbia,   fin   dall’inizio   della   condotta   fraudolenta,  voluto   ottenere   da   questa   un   atto   di   disposizione   patrimoniale   che   altrimenti   non  avrebbe  potuto  ottenere.

Un   terzo   aspetto   riguarda   il   rapporto  causale-consequenziale   tra   errore   e   atto   di  disposizione  patrimoniale. 

Si  ha  truffa  solo  se  l’errore  è  causa  dell’atto  dispositivo  e  cioè  quando,  in  assenza  di  esso,  quell’atto  non  sarebbe  stato  posto  in  essere. 

Non  c’è  reato  se  la  scelta  della  vittima  di  porre  in  essere  l’atto  di  disposizione  patrimoniale  non   è   stata   effettivamente   determinata   dall’errata   convinzione   che   la   controparte  provasse  determinati  sentimenti,  avesse  determinati  propositi  per  il  futuro,  ecc. 

Ciò  è  rilevante   in   quanto,   spesso,   non   è  possibile   provare   tutte   le   componenti   di   una  relazione  di  coppia,  e  cioè  tutte  le  ragioni  per  cui  una  persona  desidera  ‘stare’  con  un’altra   e   disporre   anche   patrimonialmente   a   favore   di   quest’ultima.  

In   tali   casi   è  normalmente  impossibile  provare  che  non  sussistano  altre  cause  di  per  sé  sufficienti  a   giustificare   l’atto   dispositivo.  

Ciò,   peraltro,   evita   che   condotte   palesemente  immeritevoli  di  pena  possano  essere  qualificate  come  truffa.  Si  pensi,  a  mero  titolo  esemplificativo,  al  caso  di  un  nobile  e  ricco  erede  che  intraprenda  una  relazione  con  una   giovane   e   bellissima   donna,   ricoprendola   di   doni   e   spendendo   a   suo   favore  ingenti  capitali. 

In  tal  caso  –   anche  qualora  si  raggiunga  la  prova  che  la  donna,  fin  dall’inizio,    non    provava    alcun    sentimento    nei    confronti    dell’uomo    e  fraudolentemente   lo   illuse   del   contrario   all’unico   scopo   di   ottenere   benefici  economici  –non   potrà   dirsi   integrato   il   delitto   di   truffa   finché   permanga   il  ragionevole   dubbio   che   la   presunta   vittima,   essendo   ben   lieto   di   accompagnarsi  all’avvenente  ragazza,  anche  sapendo  della  reale  intenzione  della  stessa,  si  sarebbe  comportato   allo   stesso   modo. 

In   casi   simili   andrebbe   anzitutto   accertata   la   reale  sussistenza  di  uno  stato  di  errore della  presunta  vittima,  il  che  è  tutt’altro  che  scontato  al  momento  che  (come  ribadito  da  autorevoli  tesi  dottrinali  e  giurisprudenziali)  il  ‘dubbio  concreto’  sulla  possibilità  di  essere  ingannati  esclude  la  configurabilità  della  truffa. 

Andando  poi  ad  accertare  il  menzionato  rapporto  causale-­‐‑consequenziale  tra  errore  e  atto  dispositivo,  si  dovrebbe  verosimilmente  constatare  l’insussistenza  della  prova  che  a  determinare  il  soggetto  all’atto  patrimoniale  sia  stato  proprio  tale  errore  e  non  già  altre  componenti  della  relazione  di  coppia,  diverse  dai  sentimenti  amorosi  oggetto  dell’inganno. 

Per  tutti  i  suindicati  motivi  può  affermarsi  che  la  truffa,  per  così  dire,  “sentimentale”  è  astrattamente  concepibile  ma  in  concretodifficilmente  ravvisabile.

Nel  caso  in  esame  difettano  tanto  una  condotta  fraudolenta  tipica  quanto  un  dolo  di  truffa.

Anzitutto   non   può   ritenersi   che   gli   artifici   o   i   raggiri   richiesti   dall’art.   640   c.p.  consistano   nell’aver   fatto   credere   alla   donna   che   quelle   somme   sarebbero   state  destinate  all’investimento  in  un’attività  imprenditoriale  in  Perù;  ciò  in  quanto  è  ben  possibile   che   quella   fosse   effettivamente   la   reale   intenzione   dell’imputato   o  addirittura  la  reale  destinazione  che  l’imputato  diede  alle  somme  ricevute:  nel  primo  caso   difetterebbe   senz’altro   il   dolo   di   truffa,   nel   secondo   mancherebbe   tanto   una  condotta  menzognera  dell’agente  quanto  un  errore  del  soggetto  passivo. 

Invero,   per   ritenere   integrata   una   truffa,   occorrerebbe   provare   che   l’imputato  intraprese   la   relazione   con   la   donna   con   lo   specifico   intento   di   creare   in   capo   a  quest’ultima  la  falsa  apparenza  di  un  rapporto  sentimentale  all’interno  del  quale  la  stessa  avrebbe  facilmente  accolto  la  richiesta  di  un  prestito  di  denaro. 

Inoltre,  ai  fini  della  prova  del  dolo,  occorrerebbe  altresì  dimostrare  che  l’imputato,  una  volta  creato  artificiosamente   tale   contesto   di   intimità,   indusse   la   donna   ad   effettuare   gli   atti  patrimoniali  con  l’originaria  e  perdurante  intenzione  di  disattendere  la  promessa  di  restituzione  delle  somme  prestate.

Anche   tali   prove,   tuttavia,   difettano.  

La   ricostruzione   dei  fatti   emersa   durante  l’istruttoria   dibattimentale   permette   anzi   di   ritenere   che   l’imputato   intraprese   la  frequentazione   con   la   donna   senza   adoperare   alcuna   malizia   e   che   l’intenzione   di  non   restituire   le   somme   ricevute   sorse   solo   successivamente,   allorché  la   relazione  sentimentale  tra  i  due  terminò  e  i  loro  rapporti  si  deteriorarono.   

Per  tali  motivi,  l’imputato  dev’essere  assolto  dall’imputazione  per  truffa  in  quanto  difettano  gli  elementi  oggettivi  e  soggettivi  di  tale  reato.

L’assenza  di  una  condotta  fraudolenta  e  di  un  dolo  iniziale  di  truffa  lasciano  tuttavia  residuare  la  necessità  di  vagliare  il  possibile  inquadramento  della  fattispecie  concreta  all’interno   del   delitto   di  appropriazione   indebita,   di   cuiall’art.   646   c.p.,   norma   che  punisce  “chiunque,  per  procurare  a  sé  o  ad  altri  un  ingiusto  profitto,  si  appropria  il  denaro  o  la  cosa  mobile  altrui  di  cui  abbia,  a  qualsiasi  titolo,  il  possesso”. 

Trattasi  di  delitto  il  cui  presupposto  fondamentale  risiede  nell’esistenza,  in  capo  al  soggetto   agente,   di   una   situazione   possessoria   in   senso   lato,   da   intendersi   come  rapporto  di  disponibilità  materiale  sulla  cosa. 

L’art.  646  c.p.  si  esprime  in  termini  di  possesso  “a  qualsiasi  titolo”  della  cosa  mobile  da  parte  del  soggetto  agente  ma,  a  ben  vedere,  deve  trattarsi  di  un  possesso   di   tipo   derivativo   svincolato   dal   diritto   di   proprietà  sulla   cosa:   proprietario   della   cosa   dev’essere   un   diverso   soggetto,   normalmente   il  soggetto  passivo  della  condotta. 

Ciò  è  ricavabile  dalla  lettera  dell’art.  646  c.p.,  il  quale  richiede  che  l’agente  si  sia  “appropriato”  del  bene  mobile  “altrui”.

L'ʹappropriazione,  a  parere  della  giurisprudenza  e  della  dottrina  consolidata,  si  verifica  nel   momento   in   cui   il   detentore   attua   la   cosiddetta   “interversione  del   possesso”  consistente  nell'ʹattuare  sul  bene  (di  proprietà  altrui)  atti  di  disposizione  uti  dominus(come  se  ne  fosse  proprietario)  e,  quindi,  nell'ʹintenzione  di  convertire  il  possesso  in  proprietà (Cfr.     Cass.  pen.,  Sez.  II,  03  ottobre  2014,  n.  44557). 

È  evidente,  quindi,  che  non  può  esservi  appropriazione  indebita  di  un  bene  da  parte  di  chi  è  proprietario  di  quel  bene  stesso,  in  quanto  difetterebbe  tanto  la  condotta   tipica   appropriativa   quanto   l’oggetto   materiale   del   reato:   fondamentale  attributo   di   quest’ultimo,   infatti,   è   l’altruità.  

Tale   concetto   normativo   svolge  un’essenziale  funzione  negativa,  indicando  che  la  cosa  non  deve  essere  propria.

L’orientamento  più  tradizionale  considera  “altrui”  la  cosa  che  è  in  proprietà  di  altri  secondo  le  norme  del  diritto  civile.  Avendo  le  parti,  nel  caso  in  esame,  pattuito  una  futura  restituzione  da  parte  dell’imputato  delle  somme  consegnate,  rectiusprestate,  l’operazione  è  giuridicamente  qualificabile  come  contratto  di  mutuo.  Come  noto,  al  momento   della  consegna   del   denaro   (o   di   altra   cosa   fungibile)   il   mutuatario   ne  acquista  la  proprietà  (art.  1814  c.c.):  la  somma  esce  dal  patrimonio  del  mutuante  e  si  realizza  l'ʹacquisizione  della  medesima  al  patrimonio  della  controparte. 

Nel  caso  in  esame,  dunque,  la  proprietà  delle  somme  di  denaro  passò  all’accipiens  (l’imputato),  la  cui  condotta  futura  rimase  tuttavia  vincolata  all’obbligo  di  restituire  il  tantundem. 

Secondo  tale  orientamento,  dunque,  il  denaro  di  cui  l’imputato  dispose  non  poteva  dirsi  “altrui”  e  la  suamancata  restituzione  può  dar  luogo  solo  ad  un  torto  civile,  ma  non   al   delitto   di   appropriazione   indebita,   proprio   per   difetto   del   requisito  dell’altruità  della  cosa  oggetto  della  condotta. 

Va   dato   atto,   tuttavia,   di   una   più   recente   tesi   giurisprudenziale   secondo   cui   il  riferimento  al  concetto  civilistico  di  altruitànon  potrebbe  invece  trovare  applicazione  nell’ambito   dell’appropriazione   indebita   e   il   delitto   si   configurerebbe   allorché  l’agente  disponga  delle  somme  di  denaro  dando  loro  una  destinazione  incompatibile  con  il  titolo  e  le  ragioni  che  ne  giustificano  il  possesso.  Secondo  tale  orientamento,  dunque,   il   discrimine   tra   acquisto   del   possesso   a   titolo   derivativo   di   denaro   cui   si  accompagna  l’acquisto  del  diritto  di  proprietà  e  acquisto  svincolato  dal  trasferimento  della  proprietà  risiede,  essenzialmente,  nell’esistenza  o  meno  di  un  vincolo  attuale  di  destinazione  a  uno  scopo  cui  altri  ha  interesse. 

In  tal  modo  –come  autorevole  dottrina  ha  sottolineato  –“l’altruità  viene  a  coincidere,  in  tema  di  appropriazione  indebita,  con  un  vincolo  attuale  di  destinazione  ad  uno  scopo  cui  altri  ha  interesse”.

Dunque,   anche   qualora   la   consegna   abbia  –in   termini   civilistici  –trasferito   la  proprietà  del  denaro  in  capo  all’accipiens,  la  cosa  può  comunque  considerarsi  “altrui”  ai  fini  penalistici  purché  vi  sia  stata  un’espressa  limitazione  all’uso  o  uno  specifico  vincolo  di  destinazione  nell'ʹinteresse  del  tradens.

Coerentemente,  la  più  recente  giurisprudenza  di  legittimità (Cass.  pen.,  Sez.  V,  26  maggio  2014,  n.  46475) ha  sottolineato  come,  in  tali   ipotesi,   il   fondamento   del   reato   di   cui   all'ʹart.   646   c.p.   vada   individuato   nella  volontà  del  legislatore  di  sanzionare  penalmente  il  fatto  di  chi,  avendo  l'ʹautonoma  disponibilità  della  cosa,  dia  alla  stessa  una  destinazioneincompatibile  con  il  titolo  e  le   ragioni   che   ne   giustificano   il   possesso,   anche   qualora   si   tratti   di   una   somma   di  denaro. 

Anche  seguendo  tale  secondo,  e  più  recente,  orientamento  –quindi  –la  soluzione  del  caso  in  esame  non  muterebbe. 

Invero,  secondo  quanto  riferito  dalla  stessa  persona  offesa,   le   somme   di   denaro   furono   consegnate   all’imputato   nell’ambito   di   un  rapporto  di  intima  amicizia  senza  prevedere  uno  specifico  vincolo  di  destinazione.

Non   può   infatti   considerarsi   tale   l’accordo,   intercorso   tra   le   parti,   di   utilizzare   il  denaro  prestato  per  far  fronte  alle  spese  del  viaggio  e  per  tentare  di  intraprendere  un’attività  imprenditoriale  in  Perù  (è  tra  l’altro  verosimile  che  le  somme  siano  state  destinate  dall’imputato  proprio  a  tale  scopo).

Ciò  che  è  stato  contestato  all’imputato,  infatti,  non  è  la  mancata  destinazione  delle  somme  consegnate  ad  uno  scopo  prefissato  nell’interesse  della  proprietaria,  bensì  il  mancato  rispetto  dell’obbligo  di  restituire  l’equivalente  di  quelle  somme  dopo  averle  utilizzate.  

Non   si   contesta,   cioè,   una  destinazione   incompatibile   con   le   ragioni   che  giustificano  il  possesso  del  denaro.  Può  dunque  pacificamente  affermarsi  che,  nel  caso  in  esame,  la  consegna  del  denaro    trasferì  la  proprietà  di  quest’ultimo  in  capo  all’imputato,  il  quale  dispose  di  una  cosa  che  non  era  altrui,  né  ai  fini  civilistici  (exart.  1814  c.c.)  né  ai  fini  penalistici  (secondo  entrambi  gli  orientamenti  giurisprudenziali  citati).  La   mancata   restituzione   di   una   somma   di   denaro   equivalente   nell’ammontare   a  quella  prestata,  dunque,  può  dar  luogo  solo  ad  una  violazione  contrattuale  rilevante  in  sede  civile,  ma  non  al  delitto  di  appropriazione  indebita  (proprio  per  difetto  del  requisito  dell’altruità  della  cosa  oggetto  della  condotta)  né  a  qualsivoglia  altro  illecito  penale.L’imputato  deve  pertanto  essere  assolto  perché  il  fatto  non  sussiste.

Si  ritiene,  infine,  di  dover  trasmettere  gli  atti  al  PM  perché  valuti  la  deposizione  di  E.  C.    nella   parte   in   cui   ha   riferito   che  I.   N.  lo   minacciò   telefonicamente,   affermando:  “tornati  dal  Perù  praticamente,  lei  mi  fa  una  minaccia  alle  due  del  mattino  dicendomi  che  “se  non  ti  sposi  con  me  dico  tutta  la  relazione  che  ho  avuto  con  te  a  Nicoletta,  Nicoletta   era   la   mia   ex   ragazza”,   poi   confermando   tale   versione   su   domanda   di  questo  Tribunale.

P.Q.M.visto  l’art.  530  c.p.p.  assolve

E.  C.  dai  reati  lui  ascritti  perché  il  fatto  non  sussiste.

Visto  l’art.  544  comma  3  c.p.p.fissa il  termine  di  60  giorni  per  il  deposito  della  motivazione. Dispone  la  trasmissione  degli  atti  al  PM in  relazione  alle  dichiarazioni  dell’imputato.