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Trasferimento del condannato all'estero, quale ruolo del giudice italiano? (Cass. 4802/96)

21 marzo 1996, Cassazione penale

Sulla domanda di esecuzione all'estero di una sentenza di condanna alla corte di appello compete soltanto l'accertamento delle condizioni che rendono legittimo il trasferimento all'estero della persona condannata.

L'autorità giudiziaria deve limitarsi a statuire sulla sussistenza delle condizioni previste per il trasferimento del condannato (art. 3 convenzione di Strasburgo, 21 marzo 1983, ratificata con l. n. 334/88), sulla inesistenza di impedimenti all'esecuzione della condanna (art. 744 c.p.p.) e sulla adeguatezza della pena indicata dal Governo estero non rispetto ai criteri dettati dall'art. 133 c.p., bensì rispetto ai criteri sanciti dalla citata convenzione ( art. 9 e 10), che conferisce allo Stato di esecuzione la facoltà di optare tra il sistema della continuazione dell'esecuzione e quello della conversione della condanna.

Illegittimamente la corte di appello respinge la richiesta di trasferimento da parte del Governo di Ungheria di un detenuto condannato alla pena di anni tredici e mesi sei di reclusione, sulla base della considerazione che, se trasferito in Ungheria per l'esecuzione della pena, il condannato avrebbe beneficiato del fatto che, per il reato commesso, la pena massima ivi prevista è non superiore ad anni 8 di reclusione.

 

Cassazione penale 

sezione VI

(ud. 12/12/1995) 21-03-1996, n. 4802

Composta dagli Ill.mi Sigg.:

Dott. Fortunato PISANTI Presidente

Dott. Ugo CANDELA Consigliere

Dott. Francesco TRIFONE Consigliere

Dott. Giuseppe LA GRECA Consigliere

Dott. Sergio DI AMATO Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da: <G. S. E.>,

avverso la sentenza emessa il 23 marzo 1995 dalla Corte di appello di Roma,

sentita la relazione fatta dal Consigliere dott. Sergio Di Amato;

letta la requisitoria del Procuratore Generale, che ha concluso per l'annullamento con rinvio.

Svolgimento del processo

Con sentenza del 23 marzo 1995 la Corte di Appello di Roma ha respinto la richiesta di trasferimento del detenuto GSE in Ungheria, ai fini dell'esecuzione in quello Stato della pena inflittagli con sentenza, divenuta irrevocabile, emessa il 23 ottobre 1990 dalla stessa Corte di Appello.

Il diniego della deliberazione favorevole è stato argomentato col rilievo che il G, condannato alla pena di tredici anni e mesi sei di reclusione, se trasferito in Ungheria per l'esecuzione della pena, avrebbe beneficiato del fatto che in quello Stato, per il reato commesso dallo stesso G, può essere inflitta una pena non superiore ad otto anni di reclusione, che, pertanto, ai sensi dell'art. 10 della Convenzione di Strasburgo aperta alla firma il 21 marzo 1983 e ratificata con legge n. 334 del 1988, sarebbe divenuta la pena in concreto espiabile dal condannato.

Pertanto, ha proseguito la Corte di merito, poiché il trasferimento, ai sensi dell'art. 3 della citata Convenzione, "può" e non deve essere disposto se ricorrono determinate condizioni, sussistevano ragioni di opportunità per non emettere pronunzia favorevole al trasferimento.

Avverso la predetta sentenza ricorre per cassazione GSE, attraverso il suo difensore, deducendo, la nullità, per violazione di legge, della sentenza impugnata sotto il profilo che la Corte di Appello avrebbe dovuto deliberare in ordine alla sussistenza dei presupposti per l'esecuzione all'estero della sentenza, senza scendere all'esame del merito della questione, rimesso ad altre Autorità.

Il Procuratore Generale ha richiesto, con requisitoria scritta, l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

 

 Motivi della decisione

Il ricorso è fondato.

La Corte di merito ha motivato la propria sfavorevole deliberazione con l'eccessiva differenza tra la pena irrogata dallo stato italiano e quella massima che potrebbe essere irrogata a <G. S. E.> nello Stato di esecuzione nonché con l'inadeguatezza di tale ultima pena rispetto alla gravità del reato.

Tale motivazione presuppone, come del resto afferma testualmente il provvedimento impugnato, che alla Corte di appello sia rimessa la valutazione della opportunità del trasferimento del condannato, tenendo conto della adeguatezza della pena, alla stregua dei criteri dettati dall'art. 133 c.p., alla quale lo stesso condannato sarebbe sottoposto nello Stato di esecuzione della condanna. Detto presupposto è, tuttavia, errato. La deliberazione dell'autorità giudiziaria si inserisce in un complesso procedimento teso alla stipulazione, con il consenso del condannato, di un accordo di cooperazione in materia penale ed ha per oggetto l'accertamento della sussistenza delle condizioni che rendono legittimo il trasferimento all'estero della persona condannata. Per il nostro ordinamento, come emerge dall'art. 742-1 c.p.p., l'accordo rientra nella competenza esclusiva del Ministro di Grazia e Giustizia ed è solo sulla legalità di tale accordo che la Corte di appello è chiamata a decidere. Esulano, quindi, completamente dalla sfera di attribuzioni dell'Autorità giudiziaria le valutazioni che la Corte di appello ha ritenuto di porre a base della propria decisione e la stessa si deve limitare a statuire sulla sussistenza di tutte le condizioni previste per il trasferimento del condannato (art. 3 della Convenzione di Strasburgo aperta alla firma il 21 marzo 1983 e ratificata con legge n. 334 del 1988), sulla inesistenza di impedimenti alla esecuzione della condanna in Ungheria (art. 744 c.p.p.) e sulla adeguatezza della pena indicata dal governo ungherese non rispetto alla sola condanna ovvero ai criteri dettati dall'art. 133 c.p. bensì rispetto ai criteri sanciti dalla citata Convenzione (artt. 9 e 10).

A tale ultimo riguardo si deve osservare che lo Stato di esecuzione ha la facoltà di optare tra il sistema della continuazione dell'esecuzione e quello della conversione della condanna (art. 9 cit). Il primo sistema, per il quale ha optato l'Ungheria, comporta, quale regola generale, il vincolo per lo Stato di esecuzione alla natura giuridica ed alla durata della sanzione così come stabilite dallo Stato di condanna (art. 10-1 cit.), ma è proprio la Convenzione a prevedere l'adattamento della sanzione alla pena o misura previste dalla legge dello Stato di esecuzione per lo stesso tipo di reato, in modo da non eccedere il massimo della pena dalla stessa previsto (art. 10-2 cit.). E' appunto a tale disposizione che si è richiamato il governo ungherese per indicare la pena che sarà ritenuta legittima dall'autorità giudiziaria del proprio Paese.

P.Q.M.
Annulla l'impugnata sentenza con rinvio ad altra sezione della Cote di appello di Roma per nuovo esame.

Così deciso in Roma il 12 dicembre 1995.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 21 MARZO 1996.