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Timbra il cartellino del Collega: licenziato (Cass. 13269/18)

28 maggio 2018, Cassazione civile
Timbra il cartellino per un collega: si tratta, da un punto di vista oggettivo, della violazione di fondamentali doveri scaturenti dal vincolo della subordinazione oltre ad integrare fattispecie penalmente rilevante (reato di tentata truffa), mentre dal punto di vista soggettivo è comportamento idoneo a vulnerare irrimediabilmente il vincolo fiduciario sotteso al rapporto e da giustificare, in quanto proporzionata, l'irrogazione della massima sanzione disciplinare.
In merito alla verifica della legittimità del licenziamento disciplinare, il giudice deve verificare che l'infrazione contestata sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso e, in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi apprezzare in concreto la gravità dell'addebito, essendo pur sempre necessario che esso rivesta il carattere di grave negazione dell'elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a ledere irrimediabilmente la fiducia circa la futura correttezza dell'adempimento della prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore dipendente rispetto all'adempimento dei suoi obblighi.

Corte di Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 28 febbraio – 28 maggio 2018, n. 13269

Presidente Manna – Relatore Lorito

Rilevato che

La Corte d'Appello di Roma, con sentenza resa pubblica il 16/5/2016 in riforma della pronuncia resa dal giudice di prima istanza, rigettava la domanda proposta da Sa. Am. nei confronti della s.p.a. Poste Italiane, intesa a conseguire l'annullamento del licenziamento per giusta causa intimatogli in data 20/10/2010, con gli effetti reintegratori e risarcitori sanciti dall'art.18 L.300/70.
La Corte distrettuale addiveniva a tali conclusioni sul rilievo che l'articolato quadro probatorio aveva consentito di ritenere acclarata la condotta oggetto di addebito, consistita nell'aver autorizzato un collega a timbrare il badge identificativo al fine di far risultare l'ingresso in ufficio alle ore 11.35 avendo, invece, egli effettivamente iniziato la propria prestazione alle ore 12,50. Era emerso infatti, come desumibile dalle testimoniane acquisite, che il ricorrente aveva chiesto al collega Romano - unitamente agli altri dipendenti Be. e Ca. - di timbrare al suo posto il cartellino di cui aveva preventivamente indicato l'ubicazione, presumendo di poter giungere in ritardo a causa di alcuni imprevisti; circostanza, questa, confermata dal medesimo ricorrente, in sede di giustificazioni rese all'esito delle contestazioni formulate da parte aziendale.
A seguito di ampia ricognizione giurisprudenziale sull'accezione di giusta causa di recesso nel nostro ordinamento, il giudice del gravame argomentava altresì in ordine alla proporzionalità della sanzione irrogata rispetto alla mancanza commessa, ritenuta idonea a ledere gravemente ed irrimediabilmente il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro inter partes.
Avverso tale decisione Sa. Am. propone ricorso per cassazione sostenuto a due motivi.
Resiste la società Poste Italiane con controricorso successivamente illustrato da memoria ai sensi dell'art.380 bis.1 c.p.c.

Considerato che

1. Con due motivi - sotto il profilo di violazione e falsa applicazione degli artt.2106, 2119, 1455 c.c., degli artt. 54,55,56 c.c.n.l. di settore 11/7/2007 in relazione all'art.360 comma primo n.3 c.p.c, nonché di omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione circa fatti determinanti al fine del decidere ex art.360 comma primo n.5 c.p.c. - il ricorrente censura l'impugnata sentenza per avere errato nell'esegesi del principio di giusta causa di licenziamento e di proporzionalità della sanzione irrogata rispetto alla condotta ascritta, criticandola altresì sotto il profilo della non corretta interpretazione della gravità dell'inadempimento ascritto al lavoratore, secondo la regola generale di matrice codicistica, della non scarsa importanza.
Si duole che la Corte distrettuale abbia ritenuto, con ragionamento non immune da vizi logico-giuridici e con motivazione inadeguata ed incongrua, di negare rilevanza a circostanze ed elementi determinanti -quali la portata della patologia da cui era affetto il ricorrente (poliomelite arto inferiore, ansia libera e somatizzata, attacchi di panico), la mancanza di precedenti disciplinari, l'occasionalità dell'evento - omettendo di operare una compiuta ed obiettiva valutazione della gravità dei fatti addebitati sia sotto il profilo soggettivo che sotto quello oggettivo.
2. I motivi, da trattarsi congiuntamente siccome connessi, vanno disattesi.
Al di là di ogni pur assorbente considerazione in ordine ai profili di inammissibilità che connotano le censure - formulate promiscuamente in relazione a vizi riconducibili ai nn.3 e 5 del comma primo art.360 c.p.c. non consentendo al giudice di isolare le critiche proponibili onde ricondurle ad uno dei mezzi di impugnazione enunciati dall'art.360 comma primo c.p.c. - va rimarcato che la quaestio facti rilevante in causa è stata trattata in conformità ai criteri valutativi di riferimento.
3. Occorre al riguardo premettere che, secondo quanto affermato da questa Corte, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici (vedi Cass. 9/7/2015 n. 14324).
Il giudice di merito investito della domanda con cui si chieda l'invalidazione d'un licenziamento disciplinare, accertatane in primo luogo la sussistenza in punto di fatto, deve quindi verificare che l'infrazione contestata sia astrattamente sussumibile sotto la specie della giusta causa o del giustificato motivo di recesso e, in caso di esito positivo di tale delibazione, deve poi apprezzare in concreto la gravità dell'addebito, essendo pur sempre necessario che esso rivesta il carattere di grave negazione dell'elemento essenziale della fiducia e che la condotta del dipendente sia idonea a ledere irrimediabilmente la fiducia circa la futura correttezza dell'adempimento della prestazione dedotta in contratto, in quanto sintomatica di un certo atteggiarsi del lavoratore dipendente rispetto all'adempimento dei suoi obblighi (cfr., ex aliis, Cass. 13/2/2012 n. 2013, Cass.24/6/2016 n.13149).
Mentre il giudizio di sussunzione è giudizio di diritto, in quanto tale sottoponibile anche a questa Corte, quello di mera proporzionalità in concreto fra illecito disciplinare e relativa sanzione è giudizio di fatto riservato al giudice di merito, che deve operarlo tenendo conto di tutti i connotati oggettivi e soggettivi della vicenda come, ad esempio, l'entità del danno, il grado della colpa o l'intensità del dolo, l'esistenza o meno di precedenti disciplinari a carico del dipendente.
Orbene, non può sottacersi che a siffatti principi si sia conformata la gravata pronuncia, che con motivazione immune da censure ha accertato nella sua portata oggettiva la condotta assunta dal lavoratore, rapportandola agli standards valutativi insiti nella coscienza generale, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale, e ne ha rimarcato la gravità, rammentando che la falsa attestazione della presenza in ufficio, mediante timbratura del badge identificativo ad opera di un terzo, implicava la violazione di fondamentali doveri scaturenti dal vincolo della subordinazione oltre ad integrare fattispecie penalmente rilevante (reato di tentata truffa).
Né la Corte di merito ha omesso di considerare i riflessi di natura soggettiva della fattispecie, avuto riguardo alle condizioni personali del lavoratore, portatore di handicap, o al dedotto guasto alla autovettura che avrebbe indotto l'Am. ad indurre il collega a timbrare il cartellino in sua assenza, avendo ritenuto, all'esito di una ponderata valutazione di tutti gli elementi acquisiti, di ravvisare comunque il requisito di gravità della condotta, idoneo a vulnerare irrimediabilmente il vincolo fiduciario sotteso al rapporto e da giustificare, in quanto proporzionata, l'irrogazione della massima sanzione disciplinare.
3. A tale ricostruzione il ricorrente ne contrappone una difforme - intesa a valorizzare la mancanza di intenzionalità della condotta dettata da un mero imprevisto occasionale, oltre che la sua situazione personale, in quanto portatore di handicap - non censurando puntualmente quella svolta in sentenza sotto il profilo di un vizio validamente scrutinabile ai sensi e per gli effetti del novellato testo di cui all'art.360 comma primo n.5 c.p.c, ma proponendo una diversa valorizzazione degli elementi probatori raccolti con incedere argomentativo inidoneo a scalfire la pronuncia impugnata, congrua e conforme a diritto per quanto sinora detto, ed i cui esiti appaiono peraltro coerenti con quelli propri del diverso giudizio (promosso dal collega dell'odierno ricorrente Ciro Be.), attinente ai medesimi fatti dibattuti nella presente sede (cfr. Cass. 25/5/2016 n.10842).
I giudici di legittimità, confermando gli approdi ai quali era pervenuta la Corte di merito partenopea, in detta pronuncia hanno infatti dato atto dell'intensità dell'elemento soggettivo che sorreggeva la condotta posta in essere dal lavoratore, il quale aveva ceduto il cartellino marcatempo ad un collega, alterando il sistema di registrazione dell'inizio della propria attività lavorativa e così ponendo in essere un comportamento gravemente irregolare ed assolutamente anomalo, oltre che inadempiente agli obblighi inerenti al proprio ufficio, contrario agli interessi del datore di lavoro e idoneo a ledere in misura significativa il sotteso vincolo fiduciario.
4. In definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso va rigettato. Il ricorrente, secondo la regola della soccombenza, va condannato al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore di controparte nella misura in dispositivo liquidata.
La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell'applicabilità del D.P.R. n. 115/2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228/2012, art. 1, comma 17 e di provvedere in conformità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell'arti 3, comma 1- quater, D.P.R.115/2002, dichiara sussistenti i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso ex art.13, comma 1-bis.