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Accusatore residente all'estero non compare: condanna impossibile? (Cass, 27918/11)

14 luglio 2011, Cassazione penale

I diritti della difesa sono limitati in modo incompatibile con le garanzie dell’art. 6 quando una condanna si basa, unicamente o in misura determinante, su deposizioni rese da una persona che l’imputato non ha potuto interrogare o fare interrogare né nella fase istruttoria né durante il dibattimento.

La deroga al principio costituzionale della formazione della prova nel contraddittorio richiede che la persona sia effettivamente residente all'estero; che sia stata citata; e che tale citazione sia avvenuta nelle forme inderogabilmente prescritte dalla legge, non potendo aversi incertezza in ordine alla verifica rigorosa della sussistenza dei presupposti della deroga, collegata all'assoluta impossibilità dell'esame dibattimentale di un soggetto che abbia avuto conoscenza legale dell'obbligo di presentarsi al processo. In particolare, le modalità di legge per la citazione del teste all'estero sono quelle previste dall'art. 727 cod. proc. pen. per le rogatorie internazionali, senza alcuna possibilità di equipollenti affidati alla libertà di forma ed all'iniziativa del singolo ufficio giudiziario in riferimento a problemi contingenti ed asseritamente dovuti a difficoltà organizzative.

Nel nuovo quadro costituzionale non è più possibile collegare la lettura dibattimentale di atti non più ripetibili alla libera determinazione del dichiarante e non è più invocabile, nemmeno ai fini di un bilanciamento, il principio di non dispersione dei mezzi di prova, non più compatibile con il nuovo principio costituzionale del contraddittorio come metodo di conoscenza dei fatti oggetto del giudizio. Nemmeno sembra più invocabile un principio di accertamento della verità reale perché le regole vigenti costituiscono esse stesse espressione di un principio assunto a regola costituzionale e costituiscono una garanzia per la stessa affidabilità della conoscenza acquisita.

Anche per il testimone residente all’estero può trovare applicazione, se non altro in via analogica, la regola sancita dall’art. 169, comma 4, cod. proc. pen. per il caso di notificazioni all’imputato, secondo la quale, se risulta che questi risiede o dimora all’estero, «il giudice o il pubblico ministero, prima di pronunciare decreto di irreperibilità, dispone le ricerche anche fuori del territorio dello Stato nei limiti consentiti dalle convenzioni internazionali».

Affinché, ai sensi dell’art. 512-bis cod. proc. pen., possa disporsi la lettura dei verbali di dichiarazioni rese da persona residente all’estero è, tra l’altro, necessario:

a) che vi sia stata una effettiva e valida notificazione della citazione del teste, secondo le modalità previste dall'art. 727 cod. proc. pen. per le rogatorie internazionali o dalle convenzioni di cooperazione giudiziaria, e che l’eventuale irreperibilità del teste sia verificata mediante tutti gli accertamenti opportuni e necessari in concreto, non essendo sufficienti la mancata notificazione o le risultanze anagrafiche o verifiche meramente burocratiche;

b) che l’impossibilità dell’esame dibattimentale del teste sia assoluta ed oggettiva, non potendo consistere nella mera impossibilità giuridica di disporre l’accompagnamento coattivo né in circostanze dipendenti dalla libera volontà del dichiarante o in situazioni temporanee o in difficoltà logistiche o economiche;

c) che sia stata inutilmente richiesta, ove possibile, la escussione del dichiarante attraverso una rogatoria internazionale «concelebrata» o «mista» del tipo di quella prevista dall’art. 4 della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959.

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sezioni Unite

udienza 25.11.2010 (dep. 14.7.2011),

sentenza n. 27918

Pres. Fazzioli, Rel. Franco


avverso la sentenza del 25/09/2009 dalla Corte di appello di Messina;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Vittorio Martusciello, che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata;
udito il difensore avv. MGL, in sostituzione dell’avv. RT, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.


RITENUTO IN FATTO


1. Con sentenza 10 marzo 2006, il Tribunale di Messina dichiarò D. F. C. colpevole del reato di cui all’art. 609-bis, ultimo comma, cod. pen. – per avere, quale custode di uno stabilimento pubblico, durante una visita guidata, costretto la studentessa danese M. Y. A. a subire atti sessuali consistiti in toccamenti e palpeggiamenti lascivi – e, con le attenuanti generiche equivalenti all’aggravante di cui all’art. 61, n. 11, cod. pen., lo condannò alla pena di un anno e otto mesi di reclusione, oltre pene accessorie e con i doppi benefici.

Il Tribunale fondò il giudizio di colpevolezza sulla denuncia presentata dalla persona offesa alla polizia, ritenendo che di essa poteva essere data lettura, ai sensi dell’art. 512-bis cod. proc. pen., stante la ritenuta impossibilità di sentire la teste in dibattimento, perché la stessa, cittadina straniera residente all’estero, «pur avvisata», non aveva ritirato il plico con la citazione, il che dimostrava la sua mancanza di volontà di tornare in Italia solo per rendere testimonianza.

Avverso tale sentenza l’imputato propose appello, censurando, tra l’altro, l’applicazione dell’art. 512-bis cod. proc. pen..

La Corte d'appello di Messina, con sentenza 25 settembre 2009, confermò la decisione di primo grado, osservando in particolare che poteva darsi lettura della denuncia della persona offesa ai sensi dell’art. 512-bis cod. proc. pen. perché erano state esperite le formalità di citazione della testimone previste dall’art. 727 cod. proc. pen. ed era realisticamente impossibile, in mancanza di strumenti coattivi, ottenerne la presenza in dibattimento in tempi ragionevoli.

2. L’imputato ha proposto ricorso per cassazione deducendo violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli art. 512-bis e 526 cod. proc. pen., nonché all’art. 111 Cost. Osserva che l’«impossibilità assoluta» di effettuare l’esame del dichiarante nel contraddittorio non sussiste allorché sia dovuta a mere difficoltà logistiche, superabili, ad esempio, con la rogatoria prevista dall’art. 4 della Convenzione europea di assistenza in materia penale. Pertanto, solo qualora la rogatoria internazionale «mista» sia impossibile diventa legittima la lettura delle dichiarazioni predibattimentali. Sono perciò erronei sia il riferimento del Tribunale all’intuibile assoluta mancanza di volontà della persona offesa, sia le generiche motivazioni della Corte d'appello.

La difesa del ricorrente ha poi depositato memoria datata 6.9.2010 con cui il motivo di ricorso è stato ulteriormente illustrato, con richiami di giurisprudenza.

3. La Terza Sezione penale, cui il ricorso era stato assegnato, con ordinanza del 28 settembre 2010, lo ha rimesso alle Sezioni Unite al fine di risolvere la questione, oggetto di incertezze giurisprudenziali, se l’assoluta impossibilità dell’esame dibattimentale, richiesta per l’utilizzazione delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dalla persona informata sui fatti, consista o meno nella totale e definitiva impossibilità di ottenere la presenza del dichiarante.

L’ordinanza di rimessione rileva che sia l’art. 111, comma quinto, Cost. sia l’art. 6, comma 3, lett. d), della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (di seguito, CEDU), impongono di dare agli artt. 512 e 512-bis cod. proc. pen. una interpretazione restrittiva, che limiti le ipotesi di compressione del diritto dell’imputato di esaminare direttamente la persona che ha reso dichiarazioni a lui sfavorevoli ai casi di effettiva impossibilità.

Osserva quindi che il bilanciamento fra le opposte esigenze, condensato negli artt. 512 e 512-bis cod. proc. pen., ha dato luogo ad interpretazioni non sempre coerenti tra loro.

Secondo una prima opzione interpretativa, infatti, la «assoluta impossibilità dell'esame dibattimentale» prevista dall'art. 512-bis cod. proc. pen. non consiste nella «totale e definitiva impossibilità materiale» di ottenere la presenza del dichiarante, assumendo invece valore decisivo la circostanza che risulti «realisticamente impossibile ottenere in tempi ragionevoli» tale presenza.

Secondo un altro indirizzo, la deroga alla regola della formazione della prova in contraddittorio richiede che siano esperite tutte le attività che l'ordinamento mette a disposizione dell'autorità giudiziaria al fine di rispettare la regola, non potendo avere rilievo le eventuali «difficoltà logistiche» all'esperimento della rogatoria internazionale.

L’ordinanza evidenzia altresì che nella specie, alla luce del rifiuto della persona offesa di ritirare il plico contenente la citazione, viene in rilievo anche l'elemento della volontà del dichiarante residente all'estero di sottrarsi all'esame dibattimentale, ai fini della applicazione dell’art. 526 cod. proc. pen. Anche su questo punto la giurisprudenza ha offerto interpretazioni non coincidenti della nozione di volontarietà della sottrazione al contraddittorio, perché alcune decisioni ritengono elemento decisivo la volontaria assenza del dichiarante all'udienza, mentre altre richiedono anche che il giudice abbia la prova diretta o logica che l'assenza sia causata dalla chiara volontà di sottrarsi all'esame in contraddittorio (sempre che non sia motivata dai timori di possibile ritorsione).

4. Il Primo Presidente, con decreto in data 15 ottobre 2010, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali per la trattazione alla pubblica udienza del 25 novembre 2010.

5. In data 9 novembre 2010, il difensore del ricorrente ha depositato ulteriore memoria difensiva.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La questione di diritto per la quale il ricorso è stato rimesso alle Sezioni Unite è la seguente: «Se l’assoluta impossibilità dell’esame dibattimentale, richiesta per l’utilizzazione delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini dalla persona informata sui fatti, consista o meno nella totale e definitiva impossibilità di ottenere la presenza del dichiarante».

2. In via preliminare, devono però essere verificate le attività processuali svolte prima che fosse disposta la lettura delle dichiarazioni rese dalla persona offesa alla polizia giudiziaria. Il ricorrente, invero, ha dedotto un error in procedendo, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., con la conseguenza che questa Corte è giudice anche del fatto e, per risolvere la relativa questione, può accedere all’esame diretto degli atti processuali.

Ora, dall’esame degli atti risulta, tra l’altro: - che la persona offesa, di nazionalità danese, presentò denuncia-querela orale al commissariato di polizia di Taormina il 22.10.1998, esponendo che il giorno precedente, nel corso di una visita turistica ad un monumento pubblico, aveva subito attenzioni sessuali ad opera del custode dello stesso; - che la denunzia era stata raccolta dall’ispettore di polizia coadiuvato da un collega interprete di lingua inglese; - che la querelante aveva indicato la sua residenza in Copenhagen.

Quanto alla citazione della persona offesa nel giudizio di primo grado, risulta: - che il 15.7.2003 il Tribunale dispose la sua citazione, ai sensi dell’art. 727 cod. proc. pen., per l’udienza del 26.2.2004 e quindi, il 5.8.2003, inoltrò al Ministero della giustizia richiesta di notifica all’estero; - che il Ministero, con nota 26.8.2003, evidenziò che mancava la documentazione necessaria e che, peraltro, sulla base della Convenzione di applicazione per l’accordo di Schengen, l’autorità giudiziaria italiana poteva (previa traduzione) inviare gli atti del procedimento direttamente a mezzo posta (con raccomandata AR) alla persona residente in Danimarca, ai fini della notificazione (art. 52); - che il 18.9.2003, il Tribunale dispose la notifica dell’avviso ex art. 477 cod. proc. pen. e del verbale di udienza (tradotti in danese), con raccomandata AR, direttamente alla A. nell’indirizzo indicato in querela; - che il plico ritornò con l’annotazione «inconnu», tradotta dall’interprete in «sconosciuta all’indirizzo»; - che il 12.5.2005 il Tribunale dispose una nuova citazione per l’udienza del 27.10.2005, sia con notificazione allo stesso indirizzo sia per mezzo del Ministero della giustizia; - che il piego ritornò con l’annotazione «non reclamé», mentre la raccomandata inviata tramite il Ministeroritornò con l’annotazione «retour Italie»; - che il Tribunale dispose una ulteriore citazione per l’udienza del 10.3.2006 sempre con notificazione diretta al medesimo indirizzo; - che questo plico ritornò con la dicitura sulla busta «retour INC» e l’annotazione sul retro «inconnu»; - che all’udienza del 10.3.2006 furono ammesse le prove e sentiti l’ispettore di polizia e l’interprete del commissariato che avevano ricevuto la querela; - che quindi il Tribunale dichiarò che la persona offesa era stata regolarmente citata e, su richiesta del P.m. e con l’opposizione della difesa, dispose l’acquisizione della querela anche ai sensi dell’art. 512-bis cod. proc. pen.

Sul punto la sentenza di primo grado ha affermato che «almeno in relazione all’udienza del 27 ottobre 2005, la citazione della cittadina straniera, residente in Copenaghen, è formalmente regolare» perché risultava che la destinataria, pur avvisata, non si era recata nell’ufficio postale per ritirare il plico, il quale infatti era tornato con la l’annotazione «non reclamé», aggiungendo che «tale atteggiamento conferma la intuibile e comprensibile, per molteplici motivi, anche economici assoluta mancanza della volontà e della possibilità di una turista danese di tornare in Italia solo per rendere testimonianza. Peraltro per un fatto che sa già di aver diffusamente a suo tempo rappresentato e per il quale ormai non ha istanze ulteriori e diverse da rivolgere alla autorità giudiziaria italiana».

La Corte d'appello ha confermato la decisione osservando che le modalità di legge per la citazione della teste all’estero erano state osservate; che invero risultava il rifiuto dell’avviso da parte del destinatario; che era quindi possibile applicare l’art. 512-bis cod. proc. pen.

3. Ciò posto, deve ricordarsi che il testo vigente dell’art. 512-bis cod. proc. pen. – concernente le dichiarazioni predibattimentali rese da persona residente all’estero – è stato introdotto dall’art. 43 della legge 16 dicembre 1999, n. 479, al fine di adeguare la disposizione al nuovo testo dell’art. 111 Cost. adottato con la legge costituzionale n. 2 del 1999, già approvata anche se non ancora entrata in vigore.

Il testo originario dell’art. 512-bis cod. proc. pen. era stato a sua volta introdotto dall’art. 8 del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, nell’ambito della c.d. legislazione emergenziale, ed attribuiva al giudice il potere di disporre a richiesta di parte, tenuto conto degli altri elementi di prova acquisiti, la lettura dei verbali di dichiarazioni rese dal cittadino straniero residente all’estero in tutti i casi in cui questi non era stato citato ovvero essendo stato citato non era comparso.

Presupposto applicativo della disposizione e quindi della legittimità delle letture era, pertanto, l’assenza del teste, o per mancata comparizione a seguito della sua citazione o anche per omissione della stessa citazione (come ritenuto dalla giurisprudenza prevalente, anche se non da tutti condivisa). Di conseguenza, la lettura dell’atto era ancorata esclusivamente al dato oggettivo della mancata comparizione ovvero della omessa citazione, indipendentemente dalla sussistenza di una effettiva impossibilità di ottenere la presenza del soggetto in giudizio e a fortiori dalla sua sindacabilità in sede dibattimentale, nel pieno del contraddittorio. La ratio era quella di evitare la dispersione di elementi probatori ogni qualvolta uno straniero avesse lasciato il territorio nazionale dopo aver reso dichiarazioni alle autorità inquirenti italiane.

E’ opinione diffusa che tale disciplina, soprattutto nell’ipotesi di omessa citazione, poteva di fatto risolversi in un comodo espediente per ottenere la lettura degli atti senza contraddittorio, introducendo una vera e propria presunzione di irripetibilità dell’atto. Spesso la lettura dell’atto non dipendeva da difficoltà oggettive e l’unico filtro era rappresentato dal parametro incerto ed indefinito del rapporto con il materiale probatorio acquisito («tenuto conto degli altri elementi di prova acquisiti»). In buona sostanza, la previgente formulazione della disposizione aveva consentito di interpretarla in modo tale da permettere di derogare al principio dell’oralità per non disperdere, al dibattimento, attività di indagine e per soddisfare esigenze di economia processuale. Il vecchio testo dell’art. 512-bis era infatti indicato dalla giurisprudenza come espressione di un bilanciamento tra principio di oralità e principio di non dispersione dei mezzi di prova.

Poiché l’omessa citazione poteva essere finalizzata a sottrarre il teste al contraddittorio, con possibilità di proliferazione di abusi e di irreperibilità strumentali, in dottrina alcuni avevano parlato di «una sorta di espediente utile per accelerare i tempi processuali ed evitare complicate ricerche all’estero, con totale sacrificio della posizione dell’imputato»; altri di «norma indecorosa»; altri ancora di norma «concepita in una cornice socio-istituzionale ... d’emergenza», la cui ratio era quella di «un significativo risparmio di energie processuali affrancando, sic et simpliciter, le dichiarazioni rilasciate da tale soggetto durante l’attività investigativa da qualsivoglia verifica dibattimentale».

4. La vecchia disposizione era dunque generalmente ritenuta incompatibile con il nuovo testo dell’art. 111 Cost., il quale con il comma terzo enuncia il principio del contraddittorio nella formazione della prova nel processo penale sia quale metodo di accertamento giudiziale dei fatti sia quale diritto dell'imputato di confrontarsi con il suo accusatore, prevendendo al comma quinto una serie limitata e tassativa di specifiche eccezioni (consenso dell’imputato, accertata impossibilità di natura oggettiva, provata condotta illecita).

E può anche ricordarsi che il previgente testo dell’art. 512-bis cod. proc. pen., era ritenuto incompatibile, ancor prima che con il nuovo testo dell’art. 111 Cost., anche con i principi della CEDU; e che la modifica dell’art. 111 Cost. era stata dal legislatore di revisione costituzionale ritenuta necessaria proprio per adeguare il nostro ordinamento ai principi convenzionali anche a livello costituzionale.

Il nuovo testo dell’art. 512-bis prevede ora che «Il giudice, a richiesta di parte, può disporre, tenuto conto degli altri elementi di prova acquisiti, che sia data lettura dei verbali di dichiarazioni rese da persona residente all'estero anche a seguito di rogatoria internazionale se essa, essendo stata citata, non è comparsa e solo nel caso in cui non ne sia assolutamente possibile l'esame dibattimentale».

Sono chiare le finalità perseguite dalla legge n. 479 del 1999: armonizzare la disciplina delle letture col metodo dialettico di formazione della prova imposto dal novellato art. 111 Cost.; garantire i principi del contraddittorio nell’acquisizione della prova, anche se ciò può comportare un allungamento dei tempi del processo per la necessità di ulteriori accertamenti volti a verificare l’eventuale effettiva assoluta impossibilità di procedere all’esame dibattimentale; conformare l’ordinamento interno agli obblighi internazionali. La nuova formulazione dell’art. 512-bis, pertanto, se da un lato, ne ha esteso l’ambito di applicazione modificando la qualifica soggettiva della fonte di prova, che ora non è più il cittadino straniero ma qualsiasi persona residente all’estero, senza distinguere sulla nazionalità, da un altro lato, ne ha però drasticamente ridotto la portata derogatoria rispetto al principio della formazione della prova in dibattimento.

Secondo la nuova disposizione, per poter recuperare a fini probatori le dichiarazioni pregresse non è più sufficiente la mancata comparizione o, addirittura, la mancata citazione, ma occorre che la parte richiedente abbia regolarmente citato la persona residente all’estero e, qualora questa non si sia presentata, occorre, altresì, che sia accertata l’assoluta impossibilità di sottoporla ad esame dibattimentale. La nuova formulazione tende dunque a neutralizzare le così dette «irripetibilità di comodo» e si fonda principalmente sulla impossibilità di ripetizione delle dichiarazioni.

E’ opportuno precisare subito che il nuovo testo dell’art. 512-bis assume i caratteri dell’eccezionalità e della residualità rispetto al principio generale posto dall’art. 111 Cost. del favor per l’assunzione della fonte dichiarativa nel contraddittorio delle parti e innanzi al giudice chiamato a decidere. Devono quindi essere interpretati restrittivamente e rigorosamente gli elementi da esso previsti ed ai quali è condizionata la sua applicazione (richiesta della parte interessata; facoltà del giudice con obbligo di motivare adeguatamente l’accoglimento o il rigetto della richiesta; decisione tenendo conto degli altri elementi di prova acquisiti; possibilità di lettura delle sole dichiarazioni documentate con un verbale ed assunte anche a seguito di rogatoria internazionale; effettiva residenza all’estero della persona, italiana o straniera; effettiva e valida citazione del teste e mancata comparizione dello stesso; assoluta impossibilità del suo esame dibattimentale).

Di tali elementi, nel presente giudizio ne vengono in rilievo essenzialmente due: quello della mancata comparizione del teste nonostante la sua effettiva regolare citazione e quello dell’adempimento dell’onere, gravante sulla parte interessata, di provare l’assoluta impossibilità dell’escussione dibattimentale.

Va ricordato che l’art. 512-bis cod. proc. pen., derogando ai principi di oralità e del contraddittorio di cui all’art. 111 Cost., è norma eccezionale, di interpretazione restrittiva, che deve essere applicata dal giudice di merito rigorosamente, previa attento vaglio e disamina dei presupposti che la legge richiede per la sua operatività. Il giudice, quindi, ove occorra, deve farsi carico degli adempimenti necessari a legittimarne l’applicazione e deve fornire adeguata e congrua motivazione della sussistenza dei presupposti per la sua operatività (cfr. Sez. 2, sent. n. 8565 del 01/06/1999, Lanzalonga, Rv. 213849).

5. La prima condizione di applicabilità della norma che viene in rilievo nel presente giudizio è quella di una corretta, effettiva e valida citazione. E’ evidente che l’accertamento della mancata comparizione del teste e della assoluta impossibilità dell’esame dibattimentale richiede logicamente la preliminare verifica del buon esito della citazione. Non potrebbe, invero, parlarsi di mancata comparizione se non si è certi che la citazione sia validamente ed effettivamente avvenuta. Del resto, la citazione andata a buon fine è uno degli elementi maggiormente significativi della disciplina posta dal nuovo testo dell’art. 512-bis cod. proc. pen., esprimendo la chiara volontà del legislatore di superare la norma precedente, che si applicava a tutti i casi di mancata comparizione in dibattimento del testimone straniero, anche in assenza di citazione. Il requisito dell’assenza del teste residente all’estero è invece ora acclarabile solo se egli sia stato correttamente citato, senza tralasciare – ove occorra – le forme della rogatoria internazionale.

Sul punto della verifica del presupposto di una effettiva e valida citazione, la giurisprudenza di questa Corte ha giustamente elaborato una linea di sicuro rigore. Già con riferimento al precedente testo dell’art. 512-bis si era affermato il principio che erano inutilizzabili le dichiarazioni rese al pubblico ministero da cittadini stranieri non comparsi senza che fosse stato esperito alcun accertamento sulla circostanza di fatto del luogo della loro residenza, tanto più che la disposizione non può essere applicata al cittadino straniero domiciliato in Italia (Sez. 2, sent. n. 8565 del 01/06/1999, Lanzalonga, cit.; Sez. 3, sent. n. 2470 del 01/12/1999, Massi, Rv. 215530). Con riferimento al nuovo testo, è stato esattamente affermato che l’accertamento della impossibilità di «natura oggettiva» di assunzione dei dichiaranti residenti all’estero presuppone una rigorosa verifica della regolare citazione all’estero delle persone e il controllo di un eventuale stato di detenzione e, in tal caso, l’attivazione delle procedure stabilite per ottenere la traduzione temporanea in Italia di dichiaranti detenuti o la loro assunzione mediante rogatoria con le garanzie del contraddittorio (Sez. 6, sent. n. 28845 del 12/04/2002, Daneluzzi, Rv. 222743).

La deroga al principio costituzionale della formazione della prova nel contraddittorio richiede pertanto che la persona sia effettivamente residente all'estero; che sia stata citata; e che tale citazione sia avvenuta nelle forme inderogabilmente prescritte dalla legge, non potendo aversi incertezza in ordine alla verifica rigorosa della sussistenza dei presupposti della deroga, collegata all'assoluta impossibilità dell'esame dibattimentale di un soggetto che abbia avuto conoscenza legale dell'obbligo di presentarsi al processo. In particolare, le modalità di legge per la citazione del teste all'estero sono quelle previste dall'art. 727 cod. proc. pen. per le rogatorie internazionali (Sez. 6, sent. n. 9964 del 04/02/2003, Benedetti, Rv. 224710), senza alcuna possibilità di equipollenti affidati alla libertà di forma ed all'iniziativa del singolo ufficio giudiziario in riferimento a problemi contingenti ed asseritamente dovuti a difficoltà organizzative (cfr. Sez. 2, sent. n. 41260 del 14/12/2006, Nicodemo, Rv. 235388, in un caso in cui la citazione del teste all’estero era stata effettuata ai sensi dell’art. 149 cod. proc. pen. solo telefonicamente a mezzo di interprete, non essendo stato l'ufficio postale in grado di trasmettere il telegramma di conferma redatto in caratteri cirillici).

In conclusione, la mancata comparizione del testimone residente all’estero è comportamento che può conseguire solo ad una citazione andata a buon fine, il che presuppone che egli sia stato correttamente citato, nelle forme dettate dalla peculiarità del caso, ivi comprese quelle della rogatoria internazionale. Presuppone altresì, nel caso in cui lanotificazione non sia stata effettuata perché il teste non è stato trovato all’indirizzo indicato (come nel caso di specie, in cui due volte su tre è risultato sconosciuto in detto indirizzo), che siano compiuti tutti quegli accertamenti necessari e opportuni per potere individuarne l’attuale domicilio. E difatti, il rispetto dell’art. 111 Cost., oltre che dell’art. 6 della CEDU, esige che l’irriperibilità di un soggetto non possa essere ritenuta solo sulla base di una verifica burocratica o di «routine», che prenda semplicemente atto del difetto di notificazione o che si limiti alle risultanze anagrafiche, ma debba conseguire ad un rigoroso accertamento che abbia comportato l’adempimento, da parte del giudice, dell’obbligo di fare tutto quanto in suo potere per reperire il dichiarante (Sez. U, sent. n. 36747 del 28/05/2003, Torcasio; Sez. 6, sent. n. 18150 del 19/02/2003, Bianchi, Rv. 225250; Sez. 2, sent. n. 43331 del 18/10/2007, Poltronieri; Sez. 3, sent. n. 25979 del 23/04/2009, Remling, Rv. 243956; Sez. 2, sent. n. 22358 del 27/05/2010, Spinella, Rv. 247434).

L’art. 111, comma quinto, Cost., evidenzia la necessità che l'impossibilità oggettiva sia «accertata», e quindi fa chiaro riferimento ad un'attività di verifica e controllo del giudice complessa, articolata e argomentata, il che impone di verificare tutte le possibilità di cui si dispone per assicurare la presenza della fonte di prova, con la conseguenza che non possono essere ritenuti sufficienti il difetto di notificazione o le risultanze anagrafiche, ma occorrono rigorose ed accurate ricerche, anche in campo internazionale, tali da consentire, nel caso concreto, di affermare con certezza l'irreperibilità del teste e, quindi, l'«impossibilità» del suo esame in contraddittorio (Sez. 2, sent. n. 43331 del 18/10/2007, Poltronieri, cit.).

Anche per il testimone residente all’estero, del resto, può trovare applicazione, se non altro in via analogica, la regola sancita dall’art. 169, comma 4, cod. proc. pen. per il caso di notificazioni all’imputato, secondo la quale, se risulta che questi risiede o dimora all’estero, «il giudice o il pubblico ministero, prima di pronunciare decreto di irreperibilità, dispone le ricerche anche fuori del territorio dello Stato nei limiti consentiti dalle convenzioni internazionali».

Si tratta, del resto, di interpretazione conforme anche alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale ha affermato che, ai fini dell’art. 6, comma 3, lett. d), della CEDU l’autorità giudiziaria deve porre in essere procedure ragionevoli per tentare di identificare la residenza di un testimone importante che l’accusato non aveva potuto interrogare (sentenze 08/06/2006, Bonev c. Bulgaria; 09/01/2007, Gossa c. Polonia; 24/02/2009, Tarau c. Romania).

D’altra parte, a ben vedere, se si applica davvero la regola che devono essere effettuate accuratamente tutte le verifiche possibili, anche in campo internazionale, per individuare il teste, l’irriperibilità di questi dovrebbe costituire un evento poco frequente, considerati gli attuali strumenti di indagine ed i doveri di segnalazione e di iscrizione in registri vari. Nel caso in esame, pertanto, non si potrebbe certamente ritenere irreperibile la teste soltanto perché una ricevuta di raccomandata recava la scritta «inconnu» ed un’altra la scritta «non reclamé».

6. La lettura delle dichiarazioni rese dalla persona residente all’estero, citata e non comparsa, è poi consentita «solo nel caso in cui non ne sia assolutamente possibile l'esame dibattimentale». Il quesito sottoposto a queste Sezioni Unite riguarda appunto specificamente i caratteri di questa assoluta impossibilità.

Secondo un primo e prevalente orientamento, la disposizione dell’art. 512-bis cod. proc. pen. deve essere interpretata alla luce di quella dell’art. 111, comma quinto, Cost. (che parla di «accertata impossibilità di natura oggettiva»), e dunque restrittivamente. L’impossibilità di comparire, pertanto, oltre ad essere «assoluta», deve avere natura oggettiva, e non soggettiva. Non può perciò dipendere esclusivamente da un elemento soggettivo, quale la volontà del teste di non realizzare il contraddittorio (Sez. 2, sent. n. 41260 del 14/11/2006, Nicodemo, cit.); e tanto meno può consistere in mere circostanze di ordine pratico, quali la constatazione di difficoltà logistiche, di spese elevate, di intralci burocratici. Queste situazioni, connesse alle procedure volte ad ottenere la ripetizione delle risultanze investigative in giudizio, non autorizzano di per sé la deroga al principio del contraddittorio nella formazione della prova (Sez. 3, sent. n. 12940 del 08/03/2006, Boscaneanu, Rv. 234637; Sez. 3, n. 25979 del 23/04/2009, Remling, Rv. 243956).

Secondo questo indirizzo, quindi, l’impossibilità, dovendo essere oggettiva ed assoluta, presuppone che il giudice abbia praticato ogni possibile tentativo di superare l’ostacolo che si frappone all’ordinaria formazione dialettica della prova, e che in particolare abbia verificato la possibilità di assumere la testimonianza mediante rogatoria internazionale «concelebrata» o «mista», con garanzie simili a quelle del sistema accusatorio. Soltanto quando ciò non sia stato possibile per ragioni di natura obiettiva, potrà ritenersi presente una assoluta impossibilità di esame del teste in contraddittorio (in questo senso, Sez. 3, sent. n. 10199 del 22/11/2005, dep. 2006, Marku, Rv. 234561; Sez. 3, sent. n. 12940 del 08/03/2006, Boscaneanu, Rv. 234637; Sez. 2, n. 41260 del 14/11/2006, Nicodemo, Rv. 235388; Sez. 3, sent. n. 25979 del 23/04/2009, Remling, Rv. 243956; Sez. 2, sent. n. 5101 del 17/12/2009, dep. 2010, Gentile, Rv. 246277).

7. L’altro, e minoritario, orientamento citato dall’ordinanza di rimessione ritiene invece che il richiamo alla assoluta impossibilità dell’esame dibattimentale, «va inteso nel senso della concretezza e della ragionevolezza, non della totale e definitiva impossibilità materiale», di modo che la lettura dei verbali delle dichiarazioni anteriori rese da persona residente all’estero è consentita «quando appaia realisticamente impossibile ottenere in tempi ragionevoli la presenza del dichiarante in dibattimento, oppure quando non vi siano strumenti atti a vincere
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coattivamente la sua riluttanza a deporre» (Sez. 2, sent. n. 32845 del 21/06/2007, Lombardo, Rv. 237757, che, conseguentemente, ritenne sufficiente la rituale citazione della persona offesa e la sua non comparizione). Secondo questo orientamento – seguito nella specie dai giudici del merito – sarebbe quindi sufficiente che il teste sia stato citato e non sia comparso in dibattimento, dal momento che non esistono mezzi giuridici per ottenere l’accompagnamento del teste residente all’estero.

Va però osservato che in sede di legittimità il contrasto è inconsapevole, in quanto la decisione appena citata non dà atto del diverso e prevalente orientamento e quindi non indica le ragioni per le quali ritiene di disattenderlo. Sembra pertanto che in realtà si sia trattato di un mero richiamo alla (ormai superata) giurisprudenza formatasi sul previgente testo dell’art. 512-bis cod. proc. pen.

Il contrasto appare poi anche isolato perché non risulta che altre decisioni massimate abbiano ritenuto che, alla stregua del nuovo testo dell’art. 512-bis cod. proc. pen., per considerare accertata l’assoluta impossibilità dell’esame del teste residente all’estero sia sufficiente l’avvenuta regolare citazione e la mancata comparizione, senza necessità diulteriore attivazione da parte del giudice. Questa tesi minoritaria, a ben vedere, non è stata seguita nemmeno dalle altre decisioni richiamate dalla ordinanza di rimessione, dal momento che alcune di esse si limitano a rilevare che nel caso preso in esame il teste non era stato regolarmente citato (Sez. 2, sent. n. 41260 del 14/12/2006, Nicodemo, cit.; Sez. 6, sent. n. 9964 del 4.2.2003, Benedetti, Rv. 224710), mentre altre sottolineano espressamente la necessità che si tratti di una impossibilità di natura oggettiva (Sez. 6, sent. n. 28845 del 12/04/2002, Daneluzzi, cit.).

8. Ritengono le Sezioni Unite che debba senz’altro essere confermato l’orientamento più restrittivo e prevalente, se non altro perché una diversa interpretazione, quale quella seguita dall’altro orientamento - al pari di ogni altra interpretazione troppo elastica sul requisito della impossibilità oggettiva di assunzione diretta del dichiarante – si porrebbe in contrasto con i principi posti dall’art. 111 Cost.

Deve invero ricordarsi che la Corte costituzionale, subito dopo la modifica costituzionale, con la sentenza n. 440 del 2000, dette una prima definizione della portata e dell’estensione del principio del contraddittorio nella formazione della prova nel processo penale, osservando che il nuovo testo dell’art. 111 Cost. enuncia ora espressamente il principio sia nella sua dimensione oggettiva, ossia quale metodo di accertamento giudiziale dei fatti – disponendo nella prima parte del quarto comma che «Il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova» - sia anche nella sua dimensione soggettiva, ossia quale diritto dell'imputato di confrontarsi con il suo accusatore – riconoscendo, nel terzo comma, alla persona accusata «la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico» -. La seconda parte del quarto comma puntualizza poi il principio dettando la regola secondo cui la «colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore»; mentre il quinto comma prevede che eccezionalmente, nei casi regolati dalla legge, «la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell'imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita».

Proprio alla luce del nuovo principio costituzionale, la citata sentenza n. 440 del 2000 ritenne non più sostenibile l’interpretazione dell’art. 512 cod. proc. pen. che era stata data dalla precedente sentenza n. 179 del 1994, la quale - in considerazione di un ritenuto principio di non dispersione dei mezzi di prova – aveva affermato che tra le circostanze imprevedibili, che rendono impossibile la ripetizione dell'atto, ai sensi dell’art. 512 cod. proc. pen., rientravano anche quelle che, pur se dipendenti dalla volontà del dichiarante, di fatto determinavano comunque l'impossibilità di procedere all'esame dibattimentale (come nel caso di dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da prossimi congiunti dell’imputato che in dibattimento si fossero poi avvalsi della facoltà di non deporre ai sensi dell’art. 199 cod.proc. pen.). Secondo la sentenza n. 440 del 2000, invece, tale conclusione (comprensione, tra le cause che determinano l’impossibilità di procedere all’esame, anche dei fatti dipendenti dalla volontà del dichiarante) è divenuta ora incompatibile con il nuovo testo costituzionale, ed in particolare sia col principio del contraddittorio nella formazione della prova nel processo penale sia «con la sfera di applicazione della specifica ipotesi di deroga al contraddittorio per accertata impossibilità di natura oggettiva» (art. 111, comma quinto, Cost.). La sentenza, quindi, anche alla luce del testuale riferimento, contenuto nel quarto comma, alle «dichiarazioni di rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio», affermò che il richiamo dell’art. 512 cod. proc. pen. «alla “impossibilità di natura oggettiva” non può che riferirsi a fatti indipendenti dalla volontà del dichiarante, che di per sé rendono non ripetibili le dichiarazioni rese in precedenza, a prescindere dall'atteggiamento soggettivo, così come d'altronde emerge dagli stessi lavori parlamentari». Pertanto, tra le cause di impossibilità di «natura oggettiva» non rientra l'esercizio della facoltà legittima di astenersi dal deporre, che è riconosciuta al prossimo congiunto attribuendo rilievo ad una sua manifestazione di volontà.

Gli stessi principi sono stati poi successivamente ribaditi dalla Corte costituzionale con la sent. n. 32 del 2002 e le ordd. n. 36 e 292 del 2002.

In particolare, la nozione di oggettiva impossibilità di ripetizione dell’atto dichiarativo è stata precisata con l’ord. n. 375 del 2001, che ha rilevato che essa potrebbe ricorrere, ad esempio, nei casi di morte, irreperibilità, infermità che determina una totale amnesia del testimone e si differenzia dalla mera incapacità dedotta dal teste di richiamare alla memoria il contenuto dell'atto assunto durante le indagini preliminari.

Successivamente, la Corte ha anche meglio precisato il profilo oggettivo del contraddittorio – il «principio del contraddittorio nella formazione della prova» come metodo di accertamento dei fatti nel processo penale, enunciato dal comma quarto dell’art. 111 Cost. – rilevando che esso resta pur sempre correlato con quello soggettivo e costituisce anch’esso un aspetto del diritto di difesa, come risulta dal fatto che il successivo quinto comma, nell'ammettere la deroga al principio, fa riferimento anzitutto al consenso dell'imputato (sentenze n. 117 del 2007, n. 29 del 2009, n. 184 del 2009).

Queste precisazioni, però, non hanno intaccato il principio, sin dall’inizio enunciato dalla Corte costituzionale, che l’oggettiva impossibilità di ripetizione della dichiarazione deve comunque riferirsi a fatti indipendenti dalla volontà del testimone.

9. Nel nuovo quadro costituzionale, pertanto, non è più possibile collegare la lettura dibattimentale di atti non più ripetibili alla libera determinazione del dichiarante e non è più invocabile, nemmeno ai fini di un bilanciamento, il principio di non dispersione dei mezzi di prova, non più compatibile con il nuovo principio costituzionale del contraddittorio come metodo di conoscenza dei fatti oggetto del giudizio. Nemmeno sembra più invocabile un principio di accertamento della verità reale (sul quale v. Sez. 3, sent. n. 8400 del 28/11/2006, Spezzani, Rv. 236562) perché le regole vigenti costituiscono esse stesse espressione di un principio assunto a regola costituzionale e costituiscono una garanzia per la stessa affidabilità della conoscenza acquisita (Corte cost., ordinanze n. 36 e 292 del 2002; Sez. U, sent. n. 36747 del 24/10/2003, Torcasio).

Le uniche deroghe al contraddittorio ora consentite sono quelle enucleate dall’art. 111, comma quinto, Cost. e sono evidentemente tassative e non suscettibili di una interpretazione estensiva. Ne consegue che una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 512-bis cod. proc. pen. non può che ricondurre «l’assoluta impossibilità dell’esame» di cui esso parla alla «accertata impossibilità oggettiva», prevista quale deroga costituzionale al contraddittorio dall’art. 111, comma quinto, Cost., così come interpretata dalla Corte costituzionale.

Pertanto, l’assoluta impossibilità di ripetizione dell’esame non può consistere (come nella specie si è ritenuto) in una impossibilità, di tipo giuridico, rappresentata dalla mera circostanza che al giudice italiano non è consentito ordinare, ex art. 133 cod. proc. pen., l’accompagnamento coattivo di persona residente all’estero. Se così fosse, del resto, si vanificherebbe sostanzialmente il requisito, dal momento che una impossibilità giuridica di questo genere è sempre presente in tutte le ipotesi di testimone che risiede all’estero. D’altra parte, la sola impossibilità di ordinare l’accompagnamento coattivo non determina nemmeno una impossibilita giuridica assoluta, essendo praticabili, come si vedrà, altri strumenti, quali la rogatoria internazionale.

Poiché il richiamo costituzionale ad una impossibilità di natura oggettiva si riferisce a fatti indipendenti dalla volontà del dichiarante, deve escludersi che l’impossibilità possa comunque dipendere esclusivamente dalla volontaria sottrazione del testimone al dibattimento, fatta ovviamente eccezione per l’ipotesi in cui la volontà di non presentarsi si sia determinata «per effetto di provata condotta illecita».

L’impossibilità, oltre che oggettiva, deve essere assoluta. Non può pertanto discendere, ad esempio, dalla constatazione di difficoltà logistiche, di spese elevate, di intralci burocratici, connessi alle procedure volte ad ottenere la ripetizione delle risultanze investigative in giudizio. Nemmeno potrebbe integrare una impossibilità assoluta una precaria assenza del testimone dal suo domicilio, o una infermità provvisoria, o il caso in cui il teste, residente all’estero, pur non presentandosi, abbia comunicato la propria disponibilità a rendere l’esame in una data successiva.

In ogni caso, il giudice non può limitarsi a constatare la validità della citazione e la mancata presenza del testimone, ma, pur non potendone disporre l’accompagnamento, deve attivarsi per compiere non solo tutte le indagini occorrenti per localizzarlo, ma anche tutte le attività necessarie perché il teste stesso possa essere in qualche modo sottoposto ad un esame in contraddittorio tra le parti.

Allo specifico quesito posto dall’ordinanza di rimessione, deve dunque rispondersi che fra queste attività che il giudice deve compiere vi è anche quella di disporre, ove sia possibile, una rogatoria internazionale così detta «concelebrata» o «mista»del teste residente all’estero, con garanzie simili a quelle del sistema accusatorio, conformemente del resto a quanto affermato dalla prevalente giurisprudenza dianzi ricordata. Difatti, poiché l’impossibilità di comparire deve essere, oltre che «oggettiva», anche «assoluta», essa richiede che il giudice abbia esplorato, senza successo, tutte le possibilità e tutti gli strumenti a sua disposizione per cercare di superare gli ostacoli e di pervenire alla formazione della prova in contraddittorio.

Ora, l’ordinamento italiano, nell’ipotesi di testimone residente all’estero, prevede appunto lo strumento della possibilità di assunzione della testimonianza o di altro atto istruttorio mediante rogatoria internazionale c.d. «concelebrata», secondo il modello previsto dall’art. 4 della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale, firmata aStrasburgo il 20 aprile 1959, ratificata dall’Italia in data 23 agosto 1961 e resa esecutiva con l’art. 2 della legge 23 febbraio 1961, n. 215. Il suddetto art. 4 dispone che, se l’autorità richiedente lo domanda espressamente e l’autorità richiesta lo consente, l’autorità richiedente e le parti processuali possono assistere all’esecuzione della rogatoria. Pertanto, anche se è pur sempre l’autorità straniera richiesta a compiere l’atto istruttorio secondo le regole previste dalla legge locale, tuttavia l’autorità italiana richiedente, titolare del processo, e le parti dello stesso processo, possono essere ammesse secondo le convenzioni internazionali e la disponibilità della stessa autorità straniera, a formulare o suggerire domande secondo lo spirito del modello accusatorio.

Una conferma di questo risultato ermeneutico può trovarsi nel testo dell’art. 431 cod. proc. pen., come novellato dall’art. 26 legge n. 479 del 1999, il quale alle lettere d) ed f) dispone che sono inclusi nel fascicolo del dibattimento, e quindi sono suscettibili di essere letti ex art. 511 cod. proc. pen., non solo tutti i «documenti» acquisiti all’estero mediante rogatoria internazionale, ma anche i verbali degli «atti assunti» per rogatoria internazionale quando si tratti di atti non ripetibili o di atti ai quali i difensori sono stati posti in grado di assistere e di esercitare le facoltà loro consentite dalla legge italiana.

Si tratta di un normale strumento giuridico che l’ordinamento mette a disposizione del giudice, il quale quindi è tenuto ad utilizzarlo allorché si renda necessario sentire in contraddittorio il teste residente all’estero.

In conclusione, può ritenersi che, per rispettare il principio del contraddittorio nella formazione della prova fissato dall’art. 111, comma 4, Cost., è necessario e sufficiente che le parti abbiano avuto la possibilità di interloquire dialetticamente nell’assunzione della prova, anche se in concreto non l’abbiano esercitata. Per rispettare poi la deroga consentita dall’art. 111, comma quinto, Cost., è necessario che sia stata ritualmente, ma inutilmente, richiestal’escussione del dichiarante attraverso una rogatoria internazionale «concelebrata» o «mista» del tipo di quella prevista dall’art. 4 della citata Convenzione, potendo in tal caso ritenersi verificata un’assoluta ed oggettiva impossibilità di procedere all’esame dibattimentale nel contraddittorio delle parti.

In altre parole, un’assoluta impossibilità di assumere la prova in contraddittorio si potrà verificare solo quando il giudice, dopo avere esperito tutte le opportune e necessarie attività dirette a localizzare il teste, lo abbia inutilmente citato a comparire ed abbia tentato, altrettanto inutilmente, di fare assumere la prova per rogatoria internazionale «concelebrata» o «mista», senza raggiungere lo scopo per ragioni a lui non imputabili e insuperabili, ad esempio per la mancanza di convenzioni di assistenza giudiziaria con lo Stato di residenza del teste (cfr., in questo senso, Sez. 3, sent. n. 10199 del 22/11/2005, dep. 2006, Marku, Rv. 234561; Sez. 3, sent. n. 12940 del 08/03/2006, Boscaneanu, Rv. 234637; Sez. 2, sent. n. 41260 del 14/11/2006, Nicodemo, Rv. 235388; Sez. 3, sent. n. 25979 del 23.4.2009, Remling, Rv. 243956; Sez. 2, sent. n. 5101 del 17.12.2009, dep. 2010, Gentile, Rv. 246277).

Una impossibilità assoluta ed oggettiva di esame in contraddittorio si potrà anche verificare nel caso di irreperibilità del soggetto residente all’estero (cfr. Corte cost., ord. n. 375 del 2001). Anche in questa ipotesi andrà applicata – sempre che il soggetto fosse effettivamente residente all’estero già al momento in cui rese le dichiarazioni della cui lettura si tratta - la disposizione dell’art. 512-bis cod. pen., la quale detta appunto, per le «dichiarazioni rese da persona residente all'estero», una disciplina speciale e derogatoria rispetto a quella più generale posta dall’art. 512 cod. pen. in ordine alla lettura di atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione. Con la conseguenza che non è necessario il requisito della imprevedibilità della sopravvenuta impossibilità di ripetizione, requisito richiesto dall’art. 512 ma non dall’art. 512-bis cod. proc. pen., stante la finalità della norma che riguarda soggetti che possono trovarsi anche per brevissimo tempo e di passaggio in Italia. Se invece il soggetto al momento della deposizione era anche di fatto residente in Italia, non vi sono ragioni per non applicare l’art. 512 e derogare alla necessita del requisito, altresì, della imprevedibilità.

10. In conclusione, va affermato il seguente principio di diritto.
«Affinché, ai sensi dell’art. 512-bis cod. proc. pen., possa disporsi la lettura dei verbali di dichiarazioni rese da persona residente all’estero è, tra l’altro, necessario: a) che vi sia stata una effettiva e valida notificazione della citazione del teste, secondo le modalità previste dall'art. 727 cod. proc. pen. per le rogatorie internazionali o dalle convenzioni di cooperazione giudiziaria, e che l’eventuale irreperibilità del teste sia verificata mediante tutti gli accertamenti opportuni e necessari in concreto, non essendo sufficienti la mancata notificazione o le risultanze anagrafiche o verifiche meramente burocratiche; b) che l’impossibilità dell’esame dibattimentale del teste sia assoluta ed oggettiva, non potendo consistere nella mera impossibilità giuridica di disporre l’accompagnamento coattivo né in circostanze dipendenti dalla libera volontà del dichiarante o in situazioni temporanee o in difficoltà logistiche o economiche; c) che sia stata inutilmente richiesta, ove possibile, la escussione del dichiarante attraverso una rogatoria internazionale «concelebrata» o «mista» del tipo di quella prevista dall’art. 4 della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959».

11. L’ordinanza di rimessione ha posto un quesito anche in relazione alla applicazione dell’art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen. ed all’elemento della volontà del dichiarante residente all'estero di sottrarsi all'esame dibattimentale.

Come è noto l’art. 111, comma quarto, seconda parte, Cost. dispone che «La colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato o del suo difensore».

In puntuale applicazione di questo principio costituzionale, il comma 1-bis dell’art. 526 cod. proc. pen. (aggiunto dall’art. 19 legge 1° marzo 2001, n. 63) dispone a sua volta che «La colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'esame da parte dell'imputato o del suo difensore». Trattasi, come è evidente, di una disposizione riproduttiva della norma costituzionale.

Al fine di dare una corretta interpretazione della disposizione, è però indispensabile tenere anche presenti le norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata il 4 novembre 1950 e resa esecutiva nel nostro ordinamento con legge 4 agosto 1955, n. 848, ed in particolare l’art. 6, comma 3, lett. d) - riprodotto pressoché identicamente nell’art. 14, comma 3, lett. e), del Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato il 16 dicembre 1966, ratificato dall’Italia il 15 settembre 1978 e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881 – il quale prevede che «ogni accusato ha in particolare il diritto di interrogare o far interrogare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’interrogatorio dei testimoni a discarico nelle medesime condizioni dei testimoni a carico», sancendo il diritto dell’imputato di confrontarsi con il suo accusatore. Nella giurisprudenza della Corte EDU (sent. 6 maggio 1985, Bonish c. Austria) questa disposizione costituisce specificazione del principio di equità processuale ed espressione della disciplina concernente qualsiasi tipo di prova, sicché il diritto alla prova implica anche quello alla sua effettiva assunzione in contraddittorio.

In particolare, deve considerarsi l’interpretazione e l’attuazione data al suddetto principio convenzionale dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale lo ha specificato enunciando la regola che le dichiarazioni destinate a un impiego determinante ai fini decisori e, quindi, gli elementi di prova sui quali si può fondare una condanna penale devono essere assunti in presenza dell’imputato e in una udienza pubblica, sempre che l’imputato non abbia volontariamente rinunciato al contraddittorio o esso non si sia potuto espletare per effetto di una condotta illecita. Questa regola, secondo la Corte, presenta poi due eccezioni. La prima prevede che, qualora in determinate circostanze sia necessario fare ricorso a deposizioni raccolte in segreto prima del dibattimento, queste possono essere ammesse e utilizzate «soltanto se all’imputato sia concessa un’occasione adeguata e sufficiente di contestare la testimonianza a carico» e cioè di interrogare l’autore della dichiarazione o al momento della deposizione o anche successivamente (sentenze 27 febbraio 2001, Lucà c. Italia; 19 ottobre 2006, Majadallah c. Italia; 13 ottobre 2005, Bracci c. Italia).

Secondo la Corte europea, quindi, il confronto non deve avvenire necessariamente nel dibattimento, essendo sufficiente anche un contraddittorio differito e cioè successivo alla dichiarazione. La seconda eccezione prevede che,quando non sia stata assicurata all’imputato una occasione adeguata e sufficiente di contestare la dichiarazione raccolta in segreto, è necessario che la sentenza di condanna non si fondi né in modo esclusivo né in modo determinante sulle dichiarazioni dell’accusatore rese in assenza di contraddittorio. Occorre, cioè, che la condanna sia basata anche su altri elementi di prova, i quali rendano non rilevante il mancato rispetto del diritto a confrontarsi con l’accusatore.

Ne deriva che l’acquisizione come prova di dichiarazioni assunte senza contraddittorio non risulta di per sé in contrasto con l’art. 6 della CEDU, ma sussistono precisi limiti alla loro utilizzazione probatoria, al fine di impedire che l’imputato possa essere condannato sulla base esclusiva o determinante di esse. Pertanto, l’ammissibilità di una prova testimoniale unilateralmente assunta dall’accusa può risultare conforme al dettato del citato art. 6, ma affinché il processo possa dirsi equo nel suo insieme in base ad una lettura congiunta dell’art. 6, commi 1 e 3 lett. d), una condanna non deve fondarsi esclusivamente o in maniera determinante su prove acquisite nella fase delle indagini e sottratte alla verifica del contraddittorio, anche se differito.

Il principio affermato dalla giurisprudenza europea è dunque che «i diritti della difesa sono limitati in modo incompatibile con le garanzie dell’art. 6 quando una condanna si basa, unicamente o in misura determinante, su deposizioni rese da una persona che l’imputato non ha potuto interrogare o fare interrogare né nella fase istruttoria né durante il dibattimento» (sent. 14 dicembre 1999, A.M. c. Italia; sent. 13 ottobre 2005, Bracci, cit.; sent. 9 febbraio 2006, Cipriani c. Italia; sent. 19 ottobre 2006, Majadallah, cit.; sent. 18 maggio 2010, Ogaristi c. Italia), e ciò anche quando il confronto è divenuto impossibile per morte del dichiarante o per le sue gravi condizioni di salute (sent. 7 agosto 1996, Ferrantelli e Santangelo c. Italia; sent. 5 dicembre 2002, Craxi c. Italia), ovvero quando l’irreperibilità del dichiarante sia giuridicamente giustificata da un diritto di costui al silenzio, come nel caso di coimputati (sent. 20 aprile 2006, Carta c. Italia) o di imputati di reato connesso (sent. 27 febbraio 2001, Lucà c. Italia).

In sostanza, dall’art. 6 della CEDU, per come costantemente e vincolativamente interpretato dalla Corte di Strasburgo, discende una norma specifica e dettagliata, una vera e propria regola di diritto - recepita nel nostro ordinamento tramite l’ordine di esecuzione contenuto nell’art. 2 della legge 4 agosto 1955, n. 848 - che prescrive un criterio di valutazione della prova nel processo penale, nel senso che una sentenza di condanna non può fondarsi, unicamente o in misura determinante, su deposizioni rese da una persona che l’imputato non ha potuto interrogare o fare interrogare né nella fase istruttoria né durante il dibattimento.

12. L’ordinanza di rimessione ha posto il quesito esclusivamente con riguardo alla norma nazionale dell’art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen., ed in particolare limitatamente alla valutazione dell’elemento della volontà del dichiarante residente all'estero di sottrarsi all'esame dibattimentale, prospettando che, secondo alcune decisioni, è decisivo che la mancata presenza del teste all’esame sia volontaria, mentre, per altre decisioni, occorre la prova (diretta o logica) che l’assenza sia determinata da una chiara volontà di sottrarsi al contraddittorio.

Se ci si pone in questa prospettiva - ossia se si considera esclusivamente la norma nazionale - il dubbio va risolto preferendo l’interpretazione adeguatrice che riduca al massimo i possibili casi di contrasto con la norma ed i principi convenzionali (e quindi sia maggiormente conforme agli stessi), ossia l’interpretazione che assegni il significato più ampio all’elemento della volontaria sottrazione all’esame per libera scelta, così determinando la più estesa applicazione della regola probatoria che impedisce al giudice di fondare la condanna su risultanze pure ritualmente acquisite alla sua conoscenza. L’elemento in esame, pertanto, deve ravvisarsi tutte le volte che la mancata presenza del teste residente all’estero debba ritenersi volontaria, perché il soggetto, avendone comunque avuto conoscenza, non si è presentato all’esame in dibattimento o in rogatoria, quali che siano i motivi della mancata presentazione, purché ovviamente riconducibili ad una sua libera scelta, e cioè ad una scelta non coartata da elementi esterni. Al quesito proposto dalla sezione rimettente deve quindi rispondersi nel senso che non occorre la prova di una specifica volontà di sottrarsi al contraddittorio, ma è sufficiente la volontarietà dell’assenza del teste determinata da una qualsiasi libera scelta (anche per difficoltà economiche, disagi del viaggio, mancanza di interesse, e così via), sempre che non vi sia la prova o la presunzione di una illecita coazione, di una violenza fisica o psichica, o di altre illecite interferenze o elementi esterni che escludano una libera determinazione (ad es., soggetto detenuto all’estero; grave infermità fisica; timori per le propria incolumità per altre vicende personali; pressioni di tipo economico).

Nel caso di specie, i giudici hanno espressamente ritenuto che l’impossibilità dell’esame era dovuta alla totale mancanza di volontà della teste di tornare in Italia per mancanza di interesse. Pertanto, a prescindere dal rilevato errore sulla acquisibilità delle dichiarazioni, avrebbero comunque dovuto applicare il criterio dell’art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen., col conseguente divieto di affermare la responsabilità dell’imputato esclusivamente sulla base di tali dichiarazioni.

Nel presente processo, peraltro, il problema della volontarietà dell’assenza si potrebbe riproporre qualora, nel giudizio di rinvio, si dovesse accertare l’irriperibilità della teste (dato che in ben due su tre notificazioni la stessa è stata qualificata come «inconnu»). Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la irreperibilità del teste è un elemento neutro, in base al quale soltanto non si può presumere una volontà di sottrarsi all’esame, quando manchino indici sintomatici in questo senso, quale l'avvenuta citazione del teste per l'udienza, dato che l'irreperibilità sopravvenuta a tale notizia può certamente assumere il connotato della libera scelta di sottrarsi all'esame (Sez. U, sent. n. 36747 del 28/05/2003, Torcasio, Rv. 225470; Sez. 6, sent. n. 39985 del 09/10/2008, Iamundo, Rv. 241864; Sez. I, sent. n. 23571 del 20/06/2006, Ogaristi, Rv. 234281). Va peraltro anche ricordato che proprio in relazione a quest’ultima sentenza è di recente intervenuta condanna dell’Italia da parte della Corte EDU (sent. 18/05/2010, Ogaristi c. Italia). Occorre quindi precisare – al fine di giungere, anche per questa ipotesi, ad una interpretazione che eviti il più possibile i contrasti con la norma europea – che non è indispensabile che il teste sia stato raggiunto da una citazione, ai fini della dimostrazione della sua volontà di sottrarsi al contraddittorio, in quanto tale volontà potrebbe presumersi anche sulla base di elementi diversi dalla avvenuta citazione.

13. Il giudice del rinvio, se le dichiarazioni saranno acquisibili dovrà comunque valutare se esse siano utilizzabili a fini di ritenere provata la colpevolezza dell’imputato e compiere altresì il necessario vaglio sulla loro attendibilità soggettiva e oggettiva che è sempre richiesto ma che, in casi come questo, è dovuto con la massima oculatezza e rigore, in ragione della peculiare natura delle dichiarazioni acquisite, in assenza di contraddittorio, da una sola delle parti deputate alla ricerca degli elementi utili al processo.

In particolare, il giudice dovrà tenere conto sia della regola di inutilizzabilità probatoria desumibile dall’art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen. – inutilizzabilità soggettivamente orientata (riguardando la posizione del solo imputato) e oggettivamente delimitata (attenendo alla sola prova della «colpevolezza») - sia delle regole di valutazione discendenti dalla norma convenzionale dianzi richiamata. Su questo punto, infatti, la giurisprudenza di questa Corte più recente ed assolutamente maggioritaria ritene che è possibile, e quindi doveroso, dare alle norme di valutazione probatoria nazionali una interpetrazione adeguatrice che le renda conformi alla norma della CEDU. Si è in questo senso affermato che l’art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen. pone «una norma di chiusura, che impone una regola di valutazione della prova sempre applicabile anche con riferimento a dichiarazioni che risultino legittimamente acquisite alla stregua della disciplina sulle letture dibattimentali, le quali, quindi, non potrebbero, di per sè sole, fondare la dichiarazione di colpevolezza dell'imputato» e che, in ogni caso, anche non accogliendo questa soluzione, si può giungere ugualmente ad una doverosa interpretazione adeguatrice attraverso «una rigorosa applicazione di consolidati principi giurisprudenziali, formulati con specifico riferimento alla testimonianza della persona offesa o danneggiata dal reato [...] ma estensibili in ogni caso di dichiarazioni predibattimentali dell'irreperibile», con la conseguenza che le dichiarazioni acquisite mediante lettura, alla luce dei principi posti dall’art. 111 Cost. e dall’art. 6 della CEDU, come interpretato dalla Corte EDU, «devono essere valutate dal giudice di merito con ogni opportuna cautela, non solo conducendo un'indagine positiva sulla credibilità sia soggettiva che oggettiva, ma anche ponendo in relazione la testimonianza con altri elementi emergenti dalle risultanze processuali» (Sez. 2, sent. n. 43331 del 18/10/2007, Poltronieri, Rv. 238199). Nello stesso senso si è sostenuto che, nel caso di dichiarazione predibattimentale legittimamente acquisita, deve poi comunque trovare applicazione il principio ricavabile dall’art. 6, commi 1 e 3, lett. d), della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo - principio che «bene può integrare gli approdi interpretativi in materia di valutazione della prova ex art. 192 cod. proc. pen.» - secondo cui «la dichiarazione accusatoria della persona offesa, acquisita fuori dalla fase processuale vera e propria ed in assenza della possibilità presente o futura di contestazione del mezzo stesso in contraddittorio con la difesa, per sostenere l'impianto accusatorio deve trovare conforto in ulteriori elementi che il giudice, con la doverosa disamina critica che gli è richiesta dalle norme di rito, individui nelle emergenze di causa». E ciò perché si tratta «di una regola di giudizio tutt'altro che estranea al sistema vigente così come già interpretato dalla giurisprudenza» in caso di responsabilità ritenuta, senza riscontri oggettivi, esclusivamente sulla base di dichiarazioni della persona offesa (Sez. 5, sent. n. 21877 del 26/03/2010, T., Rv. 247466). E si è anche rilevato - in un caso in cui il giudice del merito aveva escluso la volontaria scelta del teste di sottrarsi all’esame dell’imputato – che una sentenza di condanna che si fonda sulle sole dichiarazioni rese dai testi fuori del contraddittorio con la difesa ed acquisite a norma dell'art. 512 cod. proc. pen. è in sintonia con i principi costituzionali ma non con quelli
desumibili dall’art. 6 della CEDU, con la conseguenza che l’obbligo del giudice nazionale di dare alle norme interne una interpretazione conforme ai precetti della CEDU come interpretati dalla Corte EDU, viene adempiuto ritenendo che «La regola dettata dall'art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen., vieta al giudice di fondare, in modo esclusivo o significativo, l'affermazione della responsabilità penale su atti di cui è stata data lettura per sopravvenuta impossibilità di ripetizione» (Sez. 3, sent. n. 27582 del 15/06/2010, Rotaru, Rv. 248052; nel senso della possibilità, e quindi della necessità, di una interpretazione adeguatrice delle norme di valutazione probatoria nazionali con la norma CEDU, v. anche Sez. 1, sent. n. 44158 del 23/09/2009, Marinkovic, Rv. 245556; Sez. 1, sent. n. 20254 del 06/05/2010, Mzoughin, Rv. 247618).

In senso contrario si riscontra un solo precedente massimato, secondo il quale, nella valutazione delle dichiarazioni predibattimentali ritualmente acquisite di soggetti per i quali non possa dirsi provata la volontà di sottrarsi all’esame in contraddittorio, non rileva l’eventuale violazione dell'art. 6, comma terzo, lett. d), della CEDU, in quanto le norme della Convenzione «ancorché direttamente vincolanti, nell'interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo, per il giudice nazionale, non possono tuttavia comportare la disapplicazione delle norme interne con esse ipoteticamente contrastanti, se e in quanto queste ultime siano attuative di principi affermati dalla Costituzione, cui anche le norme convenzionali devono ritenersi subordinate, condizione soddisfatta, nella specie, dall'applicabilità dell'art. 111, comma quinto, Cost.» (Sez. 5, sent. n. 16269 del 16/03/2010, Benea, Rv. 247258). Questa conclusione non può però essere condivisa sia perché, come subito si vedrà, non sussiste il ritenuto contrasto con l’invocata norma costituzionale, sia comunque perché essa in sostanza è elusiva della questione, la quale non consiste semplicemente nello stabilire se la norma nazionale incompatibile abbia valore costituzionale o sia attuativa di principi costituzionali, bensì nel verificare se alla norma nazionale (legislativa o costituzionale) possa darsi una interpretazione tale da renderla non incompatibile con quella convenzionale.

14. Orbene, una siffatta interpretazione adeguatrice deve ritenersi possibile. Non vi sono pertanto ostacoli alla conferma del ricordato indirizzo maggioritario, che peraltro è quello che consente di allinearsi alla giurisprudenza europea e di rispettare gli obblighi internazionali assunti dall’Italia, evitando di incrementare la lunga collezione di condanne da parte della Corte di Strasburgo.

Va ricordato che la norma in questione, essendo stata recepita con un atto avente forza di legge, ha anch’essa, quanto meno, forza e valore di legge, anche se poi, sotto altri profili, funge anche da parametro di costituzionalità, ossia da norma interposta, ai sensi dell’art. 117, comma primo, Cost., tanto da essere stata anche collocata ad un livello sub-costituzionale (Corte cost., sentenze nn. 348 e 349 del 2007 e successive). Inoltre, non si tratta di una norma-principio, ossia di una norma generica ed aspecifica, che di solito si ritiene, in quanto tale, insuscettibile di automatica operatività e di immediata applicazione da parte del giudice (Sez. 1, sent. n. 2549 del 16/04/1996, Persico, Rv. 204733), bensì di una norma che è stata resa specifica e dettagliata dalla giurisprudenza della Corte EDU, sicché non vi sono ostacoli alla sua immediata operatività ed alla sua diretta applicabilità da parte del giudice italiano (come perspicuamente affermato da Sez. U, sent. n. 15 del 23/11/1988, dep. 1989, Polo Castro, Rv. 181288, che esattamente ha rilevato che «ove l'atto o il fatto normativo internazionale contenga il modello di un atto interno completo nei suoi elementi essenziali, tale cioè da poter senz'altro creare obblighi e diritti, l'adozione interna del modello di origine internazionale è automatica (adattamento automatico)»).

Si è però da alcuni ritenuto che la norma stessa sarebbe in contrasto: a) da un lato, con l’art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen., il che dovrebbe appunto comportare la sua inapplicabilità, quale che sia poi la sua posizione nel sistema delle fonti (restando invero in questa sede irrilevante stabilire se la norma convenzionale è, rispetto a quella interna, posteriore o anteriore nel tempo e se, in tal caso, essa sia stata implicitamete abrogata, rectius sia stato abrogato in parte qua l’ordine di esecuzione, sempre che fosse ancora possibile la risoluzione dell’antinomia anche con il criterio cronologico dopo la modifica dell’art. 117, comma primo, Cost. e salva appunto l’illegittimità costituzionale della norma legislativa successiva per violazione indiretta dell’art. 117, comma primo, Cost.); b) in ogni caso, da un altro lato, con l’art. 111, comma quinto, Cost. nonché con l’art. 111, comma quarto, seconda parte, Cost., il che dovrebbe comportare la sua (eventualmente sopravvenuta) illegittimità costituzionale.

Se veramente vi fosse incompatibilità tra norme interne e norma convenzionale, spetterebbe alla Corte costituzionale risolvere sia la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni legislative interne per contrasto con la norma CEDU, sia la questione dell’eventuale contrasto tra la norma CEDU e la norma costituzionale (eventualmente operando una adeguata interpretazione di quest’ultima o un ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione).

E’ però principio pacifico ed innumerevoli volte ribadito dalla Corte costituzionale che il giudice ha il precipuo obbligo di tentare preliminarmente, attraverso l’utilizzo di tutti gli ordinari strumenti ermeneutici, di giungere ad una interpretazione convenzionalmente adeguatrice del sistema normativo nazionale, tale da renderlo conforme alle norme della CEDU o non incompatibile con le stesse.

Nella specie, come già rilevato, una tale interpretazione adeguatrice è senz’altro possibile.

Ed infatti, quanto all’art. 111, comma quinto, Cost., può rilevarsi che questo detta norme sulla formazione ed acquisizione della prova, mentre la regola convenzionale in esame pone un criterio di valutazione della prova dichiarativa regolarmente acquisita (Sez. 5, sent. n. 16269 del 16/03/2010, Benea, Rv. 247258). La deroga al principio della formazione dialettica della prova autorizza l’acquisizione al processo dell’atto compiuto unilateralmente, ma non pregiudica la questione del valore probatorio che ad esso, in concreto, va attribuito. Non vi è quindi incompatibilità tra la norma CEDU e l’art. 111, comma quinto, Cost.

Quanto all’art. 111, comma quarta, seconda parte, Cost. ed all’art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen., può, in primo luogo farsi ricorso al tradizionale criterio ermeneutico della presunzione di conformità delle norme interne successive rispetto ai vincoli internazionali pattizi, ossia alla presunzione che il legislatore (di revisione costituzionale ed ordinario) non abbia inteso sottrarsi all’obbligo internazionale assunto dallo Stato, non volendo incorrere nella conseguente responsabilità per inadempimento nei rapporti con gli altri Stati. Il criterio della interpretazione conforme alle norme dei trattati è stato del resto di recente riaffermato dalla Corte costituzionale (sent. n. 349 del 2007), secondo la quale anzi il criterio opera anche quando l’obbligo internazionale è successivo alla disciplina legislativa interna e trova fondamento positivo nell’art. 117, comma primo, Cost.

Nel caso di specie questo criterio ermeneutico acquista poi tanto più valore in quanto è pacifico – per espressa dichiarazione di intenti del legislatore – che il comma 1-bis dell’art. 526 cod. proc. pen. è stato introdotto dall’art. 19 della legge 1° marzo 2001, n. 63, a mo’ di traduzione codicistica (con aggiustamenti esclusivamente formali) del precetto recato dall’art. 111, comma quarto, seconda parte, Cost., come novellato dalla legge costituzionale n. 2 del1999, e che quest’ultima, a sua volta, si proponeva proprio di rendere espliciti a livello costituzionale i principi del giusto processo enunziati dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, così come elaborati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. Sarebbe quindi incongruo ritenere che il legislatore, proprio nel momento in cui ha operato una revisione dell’art. 111 Cost. al fine introdurvi i principi convenzionali sul giusto processo, abbia poi posto invece una norma incompatibile con quella convenzionale. La differenza di formulazione rispetto alla norma CEDU non può pertanto essere intesa nel senso di una volontà del legislatore di impedire l’applicazione della regola convenzionale. La diversità di articolazione delle norme non esclude che esse costituiscono comunque applicazione di un identico o analogo principio generale inteso a porre un rigoroso criterio di valutazione delle dichiarazioni dei soggetti che la difesa non ha mai avuto la possibilità di esaminare e ad eliminare o limitare statuizioni di condanna fondate esclusivamente su tali dichiarazioni. Le norme nazionali e convenzionali, dunque, rispondono ad una ratio e perseguono finalità non dissimili. E’ stato perciò esattamente osservato che proprio la circostanza che il nuovo testo dell’art. 111 Cost. trova la sua origine in fonti convenzionali internazionali «invita l'interprete a non isolarsi in un contesto nazionale, ma a cercare quella che è stata chiamata una "osmosi" tra le diverse formulazioni, della normativa convenzionale e di quella nazionale, ordinaria e costituzionale» (Sez. 2, sent. n. 43331 del 18/10/2007, Poltronieri, cit.). Ben può escludersi, pertanto, una totale non conformità tra l’art. 111, comma quarto, Cost. e la regola convenzionale in esame, come enucleata dalla Corte EDU, e tanto più può escludersi che vi sia tra questa regola e l’art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen. una assoluta e puntuale incompatibilità, tale da far sì che l’applicazione dell’una escluda l’applicazione dell’altro.

Da un altro punto di vista può rilevarsi che l’art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen. (riproducendo l’art. 111, comma quarto, Cost.) pone un limite alla utilizzazione probatoria delle dichiarazioni non rese in contraddittorio valevole per alcune determinate ipotesi. La norma convenzionale pone una analoga regola di valutazione probatoria delle stesse dichiarazioni valevole anche per altre ipotesi. Ora, la norma nazionale dice solo che in quelle ipotesi si applica quella regola, ma non dice anche che in ipotesi diverse debba valere un opposto criterio, ossia non esclude che anche nelle altre ipotesi possa applicarsi un analogo criterio di valutazione probatoria, ricavato in via interpretativa dalle norme o dai principi in materia o anche posto da una diversa norma comunque operativa nell’ordinamento. La norma nazionale, in applicazione del principio generale del giusto processo, pone una determinata tutela per l’imputato, ma non esclude che una tutela più estesa possa essere posta o ricavata da norme diverse.

Del resto, se si considera il rapporto tra il principio generale del contraddittorio nella formazione della prova nel processo penale posto dalla prima parte del quarto comma dell’art. 111 Cost. e la regola posta dalla seconda parte del medesimo comma, si deve convenire che questa regola va intesa non già come eccezione, bensì come svolgimento ed attuazione del principio generale. Essa pertanto non può essere considerata come eccezionale, sicché identica o analoga regola di valutazione probatoria legittimamente può essere prevista per ipotesi ulteriori.

E proprio in questa direzione si è posto il prevalente indirizzo interpretativo dianzi ricordato che ha ricavato una regola di valutazione identica o analoga a quella convenzionale (e valevole anche al di là delle ipotesi specificamente previste dall’art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen.) dai consolidati principi giurisprudenziali, formulati in riferimento alla testimonianza della persona offesa o danneggiata dal reato o anche dagli approdi interpretativi in materia di valutazione della prova ex art. 192 cod. proc. pen., ossia da regole di giudizio già presenti nel sistema vigente.

Ed effettivamente, il criterio di valutazione posto dalla norma convenzionale ben si integra nel sistema degli altri criteri di valutazione ricavati da norme nazionali. Può, ad esempio, farsi riferimento ad una interpretazione sistematica del principio costituzionale del contraddittorio nella formazione della prova e della regola di giudizio formalizzata nell'art. 533, comma 1, cod. proc. pen., e compendiata nella formula «al di là di ogni ragionevole dubbio», per dedurne che, nel caso concreto, il dato probatorio costituito esclusivamente da dichiarazioni rese senza la possibilità di contraddittorio e prive di qualsiasi elemento di riscontro, ha un ridotto valore euristico, costituisce una fonte ontologicamente meno affidabile, e quindi non è idoneo a fondare la certezza processuale della responsabilità dell’imputato. Nella stessa prospettiva, si è richiesta una rigorosa applicazione dei principi giurisprudenziali sulla valutazione delle dichiarazioni rilasciate dalla persona offesa o danneggiata dal reato, ritenuti - stante l’identità di ratio - estensibili a tutti i casi di impossibilità di ripetizione di dichiarazioni predibattimentali e che impongono al giudice una cauta ed approfondita indagine sulla credibilità di dette dichiarazioni, da valutarsi ponendole in relazione con altri elementi emergenti dalle risultanze processuali (Sez. 2, sent. n. 43331 del 18/10/2007, Poltronieri, Rv. 238199, cit.). Analogamente, si è fatto ricorso all’applicazione analogica dell’art. 192, comma 3, cod. proc. pen., che prevede, per le dichiarazioni di certi soggetti, la valutazione unitamente ad altri elementi di prova che ne confermino l'attendibilità (Sez. 5, sent. n. 21877 del 26/03/2010, T., Rv. 247466, cit.).

E’ quindi conforme al sistema ritenere che analoghi criteri valutativi, ed in particolare la necessità di esaminare le dichiarazioni congiuntamente ad altri elementi di riscontro, debbano operare anche quando l’imputato non abbia mai avuto la possibilità di interrogare il dichiarante, considerando che l’assenza del controesame abbassi fortemente il grado di attendibilità della prova, rispetto al modello ideale della testimonianza raccolta con l’esame incrociato. Del resto, nel quadro di una razionale e motivata valutazione delle prove, il metodo con cui è stata assunta la dichiarazione è rilevante almeno quanto la qualifica del dichiarante (che in alcuni casi, come per l’imputato di reato connesso o del testimone assistito, richiede la presenza di riscontri esterni che ne confermino l'attendibilità).

15. Venendo al caso di specie, va anzitutto osservato che è meramente apparente la motivazione della sentenza impugnata sulla effettività e regolarità della notificazione della citazione alla teste persona offesa residente all’estero. La Corte d'appello ne ha, invero, ritenuto la validità perché vi sarebbe stato il rifiuto della destinataria di ricevere l’avviso.

Sennonché, come già evidenziato, dagli atti emerge che, delle tre raccomandate inviate alla persona offesa, due (la prima e la terza) ritornarono con l’annotazione «inconnu», ossia «sconosciuta all’indirizzo», mentre la seconda (quella ritenuta dai giudici del merito regolare) ritornò con la crocetta apposta non già sulla casella con la dicitura «refusé», ossia «rifiutato» (come affermato dalla corte d'appello), bensì sulla casella con la dicitura «non reclamé», ossia «non richiesta» o «non ritirata».

Si tratta cioè di una situazione che pare riconducibile all’ipotesi della «compiuta giacenza» presso l’ufficio postale, la quale presuppone che il destinatario non abbia personalmente opposto il rifiuto sopraindicato. Non risulta poi che, a fronte del mancato reperimento della destinataria nell’indirizzo indicato, siano stati effettuati ulteriori avvisi da parte dell’agente postale e compiute altre attività di indagine e comunque nemmeno risulta che, a fronte della obiettiva incertezza derivante dalle diverse indicazioni contenute nelle varie notifiche, sia stata disposta e compiuta, ex art. 187 cod. proc. pen., una qualche attività probatoria, necessaria per accertare la reale residenza della teste o la sua eventuale irreperibilità. In ogni modo, la Corte d'appello non poteva ritenere sufficiente la circostanza (peraltro non corrispondente al vero) che nella seconda notifica la teste avrebbe rifiutato di ricevere il plico senza tenere conto che sia nella precedente sia nella successiva notificazione la destinataria era risultata sconosciuta. In sostanza, manca una adeguata e congrua motivazione sull’esistenza del presupposto per l’applicazione dell’art. 512-bis cod. proc. pen., consistente nell’avvenuta regolare citazione del teste.

In secondo luogo, la motivazione è erronea laddove la Corte d'appello ha ritenuto che vi fosse una oggettiva ed assoluta impossibilità di ripetizione dell’esame in contraddittorio esclusivamente per la mancanza di strumenti coattivi che consentissero realisticamente di ottenere la presenza della teste in dibattimento in tempi ragionevoli. Questa interpretazione si pone contro i principi di diritto dianzi enunciati in tema di impossibilità assoluta ed oggettiva diriesame del teste residente all’estero, impossibilità che non può ravvisarsi qualora non sia stata nemmeno tentata la rogatoria internazionale «concelebrata», secondo il modello previsto dall’art. 4 della Convenzione europea di assistenza giudiziaria in materia penale.

Infine, la motivazione è erronea anche laddove il Tribunale ha ravvisato «la intuibile e comprensibile, per molteplici motivi, anche economici, assoluta mancanza della volontà e della possibilità di una turista danese di tornare in Italia solo per rendere testimonianza» e la Corte d'appello, non correggendola, ha in sostanza confermato questa motivazione, senza poi trarne le dovute conseguenze in relazione alla applicazione dell’art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen. Ed invero, se era stata accertata la volontà della teste (per molteplici motivi, anche economici) di non tornare in Italia solo per rendere testimonianza, risultava anche accertato che la teste si era volontariamente sottratta, per sua libera scelta, all’esame. In ogni caso, quindi, i giudici avrebbero dovuto accertare se sussistevano altri elementi probatori di riscontro alle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, le quali di per sé sole non erano idonee a fondare una affermazione di colpevolezza (tanto più in considerazione dei particolari aspetti del caso concreto: natura del toccamento, denuncia tradotta da un agente di polizia interprete di lingua inglese e non di lingua danese).

16. La sentenza impugnata deve dunque essere annullata per violazione di legge e per vizio di motivazione, con rinvio per nuovo esame alla Corte d'appello di Reggio Calabria (avendo quella di Messina una sola sezione), che si uniformerà ai principi di diritto dianzi enunciati.

P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di appello di Reggio Calabria.
Così deciso il 25 novembre 2010.

Il Componente estensore Amedeo Franco

Depositato in Cancelleria 14 LUG. 2011