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Testimone irreperibile, prova .. superflua (Cass. 8422/20)

2 marzo 2020, Cassazione penale

E' viziata da nullità relativa l'ordinanza con la quale il giudice abbia revocato il provvedimento di ammissione dei testi della difesa in difetto di motivazione sul necessario requisito della loro superfluità, integrando una violazione del diritto della parte di "difendersi provando", stabilito dall'art. 495 c.p.p., comma 2, corrispondente al principio della "parità delle armi" sancito dall'art. 6, comma 3, lett. d), della CEDU, al quale si richiama l'art. 111 Cost., comma 2, in tema di contraddittorio tra le parti (cfr., ex plurimis, Cass., sez. V, n. 2511 del 24/11/2016, rv. 269050).

La legge preveda solo la revoca delle prove superflue: il diritto di difendersi provando, pertanto, viene leso se la revoca non è giustificata, dovendosi ritenere, per converso, consentita, perchè giustificata, con particolare riferimento alla prova testimoniale, pur decisiva, la revoca di una testimonianza precedentemente ammessa, determinata da malattia o da irreperibilità del teste.

Nell'esercizio del potere discrezionale di revoca di una prova testimoniale in precedenza ammessa, pertanto, il giudice deve trovare un punto di equilibrio tra due valori costituzionali di fondamentale rilievo: il diritto della parte di difendersi attraverso l'assunzione della prova di cui ha chiesto l'ammissione e il principio della ragionevole durata del processo. Ed una volta che tale potere sia stato esercitato, anche valutando le condotte dei soggetti processuali, attraverso un percorso motivazionale logicamente coerente e non in contrasto con le regole del giusto processo, esso non sarà censurabile in sede di legittimità.

In linea di principio la mancata successiva acquisizione in dibattimento di una prova già ammessa, perchè ritenuta utile e rilevante, non è di per sè illegittima, in quanto, da un lato, ciascuna parte può, con il consenso dell'altra, rinunciare all'assunzione delle prove ammesse a sua richiesta, dall'altro, il giudice, sentite le parti, può revocare con ordinanza l'ammissione di prove che risultano superflue (art. 495 c.p.p., commi 4 e 4 bis).

Resta naturalmente salva la possibilità per ciascuna delle parti processuali di rinunciare alla prova testimoniale di cui ha chiesto ed ottenuto l'ammissione, anche attraverso un comportamento processuale concludente, come, ad esempio, la mancata citazione del teste per l'udienza.

Un comportamento, vale a dire, che può essere legittimamente valutato dal giudice come significativo della volontà della parte richiedente di rinunciare alla prova già ammessa, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, tale da imporre di non rinviare l'assunzione della prova ad una udienza successiva, in quanto ciò comporterebbe una ingiustificata dilazione dei tempi della decisione, incompatibile con il principio della ragionevole durata del processo.

Incensurabile la revoca di prova testimoniale già in precedenza ammessa se frutto di una scelta ragionata e motivata, e quindi non manifestamente illogica, contraddittoria o in violazione di norme processuali: in tema di eventuale rinvio dell'udienza per consentire al teste più volte non composi e resosi irreperibile alla PG, se viene accertata l'effettiva volontà del teste di sottrarsi all'esame dibattimentale, la reiterazione della sua citazione per la successiva udienza è superflua, esponendo la celebrazione del dibattimento ad una serie di rinvii potenzialmente infinita, incompatibile con il principio della ragionevole durata del processo.

Si deve ritenere superflua non solo la prova che, rispetto al materiale probatorio già assunto nel contraddittorio tra le parti, non appare decisiva ai fini della decisione, ma anche quella la cui acquisizione non appare più utile, perchè incompatibile con il principio della ragionevole durata del processo, come nel caso, per l'appunto, della escussione di un teste, in precedenza ammesso su richiesta di una delle parti processuali, che, tuttavia, dimostri di volersi sottrarre all'esame dibattimentale, non comparendo reiteratamente in udienza ed impedendo l'esecuzione nei suoi confronti del provvedimento di accompagnamento coattivo emesso dal giudice procedente.

Nessuna violazione del diritto di difendersi provando emerge in questo caso, chè, anzi, pretendere che si proceda all'assunzione della prova testimoniale, pur in presenza di una condotta chiaramente sintomatica della volontà del teste di sottrarsi all'esame dibattimentale, potrebbe configurare un'ipotesi di abuso del processo, in quanto oggettivamente finalizzata a procrastinare nel tempo, senza giustificata ragione, la definizione del procedimento (cfr. Cass., sez. V n. 23884 del 1.3.2019, rv. 277244).

In tema di correlazione tra accusa e sentenza, la diversa qualificazione del fatto effettuata dal giudice di appello non determina alcuna compressione o limitazione del diritto al contraddittorio, anche alla luce della regola di sistema espressa dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo (Corte EDU 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia), consentendo all'imputato di contestarla nel merito con il ricorso per cassazione.

Dall'altro, che l'attribuzione in sentenza al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione non determina la violazione dell'art. 521 c.p.p., qualora la nuova definizione del reato appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, o, comunque, l'imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine alla stessa.

In tema di reati fallimentari, il soggetto che, ai sensi della disciplina dettata dall'art. 2639 c.c., assume la qualifica l'amministratore "di fatto" della società fallita è da ritenere gravato dell'intera gamma dei doveri cui è soggetto l'amministratore "di diritto", per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili, tra i quali vanno ricomprese le condotte dell'amministratore "di diritto", anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali condotte, in applicazione della regola di cui all'art. 40 c.p., comma 2.

La nozione di amministratore di fatto, introdotta dall'art. 2639 c.c., postula l'esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione, anche se "significatività" e "continuità" non comportano necessariamente l'esercizio di "tutti" i poteri propri dell'organo di gestione, ma richiedono l'esercizio di un'apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale.

La violazione del principio di cui all'art. 521 c.p.p., in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, si verifica, come è noto, in presenza solo di una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

(ud. 14/01/2020) 02-03-2020, n. 8422

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SABEONE Gerardo - Presidente -

Dott. SCARLINI Enrico V. S. - Consigliere -

Dott. GUARDIANO Alfredo - rel. Consigliere -

Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere -

Dott. CALASELICE Barbara - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

V.S., nato a (OMISSIS);

R.G., nato a (OMISSIS);

N.M., nato a (OMISSIS);

L.C., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 06/07/2018 della CORTE APPELLO di FIRENZE;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. GUARDIANO ALFREDO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. LOY MARIA FRANCESCA che ha concluso chiedendo per l'annullamento con rinvio limitatamente alle pene accessorie e inammissibilità nel resto  udito i difensori **

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Firenze confermava la sentenza con cui il tribunale di Firenze, in data 20.4.2016, aveva condannato V.S., R.G., N.M. e L.C., ciascuno alle pene, principali ed accessorie, ritenute di giustizia, in relazione ai reati fallimentari loro rispettivamente contestati nei capi A); B) e C) dell'imputazione, oltre al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore della costituita parte civile.

Secondo l'assunto accusatorio fatto proprio dai giudici di merito, il V. e la madre L.C., in qualità di amministratori di fatto della società "(OMISSIS) srl", dichiarata fallita dal tribunale di Firenze in data 28.4.2010, devono ritenersi responsabili dei reati di cui alla L. Fall., art. 216, comma 1, n. 1), art. 223, comma 1, e art. 223, comma 2, commessi attraverso le condotte specificamente descritte nei capi B), n. 1 e n. 2, e C) dell'imputazione.

Il V., inoltre, è stato riconosciuto colpevole anche del reato di bancarotta fraudolenta documentale, commesso in concorso con il R. e con il N., soggetti estranei alla compagine sociale innanzi indicata, per avere sottratto i libri e le altre scritture contabili della società fallita (capo A).

2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiedono l'annullamento, hanno proposto tempestivo ricorso per cassazione gli imputati, a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia, articolando distinti motivi di impugnazione.

2.1. Il N. lamenta: 1) violazione di legge e vizio di motivazione, per avere la corte territoriale omesso di rendere una puntuale e congrua motivazione, in ordine alle doglianze rappresentate con l'atto di appello. In particolare evidenzia il ricorrente che, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice di appello, non risulta dimostrato che il N. conoscesse il R. (quest'ultimo è il commercialista che rappresentò a G.G., acquirente delle intere quote sociali della "(OMISSIS)", quando quest'ultima aveva di fatto cessato la sua attività, ed amministratore dall'8.10.2008 alla data del fallimento, l'esistenza di una florida situazione economica, mentre la compagine si trovava già in stato di insolvenza), laddove era Z.G. (non imputato nel presente procedimento, al pari dello G.) ad avere un rapporto personale con il R..

Inoltre, rileva il ricorrente, la corte territoriale ha omesso di considerare che, secondo quanto dichiarato dallo stesso imputato, quest'ultimo si limitò a consentire che lo Z. ed il G. depositassero le scritture contabili della "(OMISSIS)" in un fondo chiuso nella sua disponibilità, sito in (OMISSIS), alla (OMISSIS), dove, peraltro aveva sede la società "Xenion" della sorella del citato G..

Sicchè l'unico soggetto cui addebitare la sparizione delle scritture contabili è lo Z., anche perchè era l'unico ad essere in possesso delle chiavi "del fondo ove si reca a ritirare i documenti".

Quello stesso Z., sulla cui attendibilità la corte territoriale omette di pronunciarsi, nonostante le censure articolate sul punto nei motivi di appello, volti a dimostrare come, in realtà, quest'ultimo fosse portatore di concreti interessi, che avrebbero condotto alla sua incriminazione se non avesse "scaricato" ogni responsabilità sul N..

E' lo Z., infatti, che conosce il R. e la sorella del G.; è sempre lo Z. che si adopera, affinchè G.G. acquisti la società fallita proposta dal R., per poi rilevare l'attività ortofrutticola del N.. Mentre l'unica "colpa" del N., che nessun interesse aveva a detenere e/o a disperdere i documenti contabili della "(OMISSIS)", è stata quella "di mettere a disposizione il fondo che sarebbe stato utilizzato dal G. perchè questi vi custodisse le scritture contabili".

2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

3. Il R., nel ricorso a firma dell'avv. FM, lamenta: 1) violazione di legge, in ordine all'art. 521 c.p.p., comma 2 e art. 522 c.p.p., comma 1, in quanto la responsabilità dell'imputato per il reato di bancarotta fraudolenta documentale è stata affermata sulla base di una serie di elementi di fatto, volti a dimostrare la condivisione da parte del R. del disegno criminoso di più ampia portata del V., estranei al capo d'imputazione, rispetto al quale è stato accertato pacificamente come la consegna della documentazione contabile sia avvenuta da parte della dottoressa B.S., che seguiva la contabilità della "(OMISSIS)" quale dipendente dello studio "H e R", facente capo al ricorrente, nelle mani del G.G., che, a sua volta, aveva ricevuto indicazioni su come procedere al ritiro della suddetta documentazione dallo Z. e dal N.; 2) vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell'elemento psicologico del delitto di bancarotta fraudolenta documentale in capo al R., in qualità di extraneus rispetto all'amministratore della società fallita, non avendo, in particolare, la corte di appello dimostrato la consapevolezza, da parte del prevenuto, di arrecare danno, con la sua condotta, ai creditori sociali, che non si può ricavare semplicemente dall'attività professionale svolta in favore della "(OMISSIS)".

Attività, peraltro, svolta non personalmente dal R., ma da un soggetto distinto, la menzionata "H e R Associati Sr.l", senza che possa attribuirsi, inoltre, alcun rilievo in senso contrario al documento contenente il piano di rientro dei debiti della società, attribuito all'imputato, che, per le forme, i modi ed i temi di redazione, non può assumere alcun valore formale e professionale, avendo agito, in conclusione, il R. solo per il rapporto di amicizia che lo legava al V., senza mai ricevere da quest'ultimo alcun compenso; 3) vizio di motivazione, con riferimento alla dosimetria della pena, in quanto la corte di appello, da un lato, ha omesso di giustificare il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, dall'altro, avendo fissato l'entità del trattamento sanzionatorio in misura (tre anni ed otto mesi di reclusione) non di poco superiore al minimo edittale, avrebbe dovuto specificamente indicare quali dei parametri indicati dal disposto dell'art. 133 c.p., ha ritenuto rilevanti ai fini della scelta del quantum sanzionatorio.

Da ultimo, l'avv. M sollecita la Corte a sollevare la questione di legittimità costituzionale della L. Fall., art. 216, u.c., in relazione alla predeterminazione della durata delle pene accessorie previste dalla menzionata disposizione normativa per la durata di dieci anni, per contrasto con le previsioni dell'art. 3 Cost., comma 1; art. 4 Cost.; art. 27 Cost., comma 3; artt. 111 e 117 Cost., rilevando come la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza n. 134 del 2012, abbia sottolineato l'opportunità che il Legislatore ponga mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi costituzionali ed, in particolare, con l'art. 27 Cost., comma 3.

3.1. Nel ricorso a firma dell'avv. AT, il R. eccepisce: 1) vizio di motivazione e travisamento della prova, in quanto, da un verso, con argomentazione contraddittoria ed illogica, il giudice di secondo grado ha considerato il suddetto imputato concorrente nella sottrazione dei documenti contabili della "(OMISSIS)", sulla base di elementi che afferiscono alla vicenda completamente diversa della cessione delle quote della menzionata società al G.G..

Dall'altro, la corte territoriale ha omesso di valutare prove decisive, regolarmente acquisite agli atti, che consentono di escludere la responsabilità del R., in quanto dimostrano come la documentazione contabile sia stata ritualmente consegnata al G. dalla dipendente della "H e R ** Srl." B.S. in data 20.10.2008, senza che, a partire da quel momento, vi sia stato un coinvolgimento del R. nella tenuta ovvero nella scomparsa della suddetta documentazione, nemmeno sotto il profilo del concorso morale nella sottrazione ed occultamento delle scritture contabili (cfr. dichiarazioni dibattimentali di B.S., T.W., collaboratore del medesimo studio, G.G., Z.G. e di N.M., nonchè la relativa distinta di restituzione, firmata dal G.); 2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla sussistenza dell'elemento psicologico del reato.

4. V.S., nel ricorso a firma dell'avv. MD, lamenta: 1) violazione di legge con riferimento al rigetto dell'eccezione difensiva volta a far valere l'illegittimità dell'ordinanza con cui il tribunale fiorentino, in data 20.4.2016, aveva revocato l'ordinanza di ammissione di una prova decisiva, rappresentata dall'escussione del teste C.S., richiesta dalla difesa dell'imputato, a causa della ritenuta irreperibilità di quest'ultimo, nonchè dell'ordinanza con cui il medesimo tribunale, in data 24.11.2015, non aveva proceduto all'escussione del C., presente in dibattimento, sulla base dell'erroneo presupposto che quest'ultimo, in quanto indagato in un procedimento connesso, dovesse essere sentito con l'ausilio di un difensore.

Ad avviso del ricorrente difetta nel caso in esame la prova della assoluta irreperibilità del C., unica condizione che avrebbe potuto giustificare la revoca dell'ordinanza di ammissione della testimonianza. Ciò in quanto, non solo il C. si era presentato innanzi al tribunale per essere sentito all'udienza del 24.11.2015, rinviata ad altra data senza sua colpa, perchè, dovendo essere escusso in quel momento con l'ausilio di un difensore, il collegio, da un lato, incomprensibilmente, non era riuscito a reperire un avvocato d'ufficio immediatamente disponibile, dall'altro, non aveva verificato, come era in suo potere, quale fosse la posizione processuale del C., che, in realtà, aveva ottenuto un provvedimento di archiviazione, per cui avrebbe potuto essere escusso senza l'ausilio di un difensore; non solo aveva giustificato la sua assenza alla successiva udienza di rinvio del 6.12.2015, facendo pervenire un certificato medico, attestante la sua impossibilità a comparire per ragioni di salute, ma nel corso della stessa udienza del 20.4.2018, in cui il tribunale aveva revocato l'ordinanza di ammissione del teste, sulla base degli esiti di un verbale di vane ricerche dei Carabinieri di (OMISSIS), raggiunto telefonicamente dal difensore del V. sulla propria utenza mobile, aveva dichiarato di essere a disposizione dell'autorità giudiziaria per essere sentito (volontà che ribadiva nella stessa mattina, telefonando alla cancelleria della prima sezione del tribunale di Firenze) ed aveva, altresì, giustificato l'esito negativo delle ricerche delegate alla polizia giudiziaria, adducendo di essere stato assente da casa per motivi di lavoro nella settimana in cui vennero effettuati gli accessi delle forze dell'ordine al suo indirizzo.

In presenza, dunque, della prova che il C. era materialmente reperibile, dichiarandosi disponibile a comparire, il tribunale non poteva, come erroneamente affermato dalla corte di appello, non rinviare la trattazione del procedimento sulla base della mera supposizione che la volontà del testimone fosse diversa da quella dichiarata, posto che la legge richiede, per giustificare la revoca dell'ammissione, che il teste sia assolutamente irreperibile, non che non voglia presentarsi.

Sicchè risulta integrata la violazione del disposto dell'art. 111 Cost., comma 3, e dell'art. 6, par. 3, lett. d), C.E.D.U., con riferimento al diritto dell'imputato di ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa; 2) violazione di legge in ordine alla previsione dell'art. 522 c.p.p., in tema di correlazione tra accusa e sentenza.

All'imputato era stato contestato nel capo B), n. 1, di avere dissipato l'attivo patrimoniale attraverso l'assunzione di obbligazioni pecuniarie per finalità extra aziendali, rappresentate dalle prestazioni pubblicitarie in favore del marchio di abbigliamento "Baghera", di cui era proprietario personalmente il V. sino al 15.1.2009, quando lo trasferì alla L., che avrebbero dovuto essere eseguite, per un valore di 720.000,00 Euro, dalla "Mondadori Pubblicità S.p.a." e, per un valore di 30.000,00 Euro, dalla "Vignolplast S.r.l.".

Il tribunale, invece, ha condannato il ricorrente per il reato di causazione dolosa del fallimento, di cui alla L. Fall., art. 223, comma 2, n. 2), operando una radicale mutazione della contestazione, posto che l'assunzione di obbligazioni pecuniarie e la conseguente dissipazione dell'attivo di una società che poi fallisce, rappresenta una condotta completamente diversa dalla causazione dolosa del fallimento di una società, che implica la preordinazione e la consapevole commissione di operazioni, comportanti come conseguenza diretta il dissesto finanziario della persona giuridica.

La corte territoriale, tuttavia, non ha ravvisato alcun errore di diritto tale da imporre una riforma della sentenza di primo grado.

Ritenendo, infatti, che il tribunale abbia diversamente qualificato il fatto storico nella sola motivazione, ma non anche nel dispositivo, ha mantenuto ferma la condanna del V. per bancarotta patrimoniale fraudolenta per dissipazione, conformemente all'originaria imputazione.

La trasformazione radicale del fatto addebitato, operata sia in primo che in secondo grado, tuttavia, ha reso impossibile approntare una corretta difesa, poichè l'appello del difensore ha considerato l'imputazione come modificata in primo grado e non come nuovamente riqualificata dalla corte territoriale; 3) erronea applicazione della legge penale per violazione del divieto di doppia punibilità, avendo la corte territoriale condannato il V. anche per il reato di bancarotta impropria di cui al capo C), commesso attraverso le medesime condotte indicate nel capo B), integranti, secondo il giudice di appello, il diverso reato di bancarotta patrimoniale per dissipazione e, per il tribunale, il delitto di causazione dolosa del fallimento, per cui l'errore di diritto commesso dal giudice di secondo grado si annida, da un lato, nell'avere riconosciuto la sussistenza di un concorso formale tra i due reati, escluso dalla giurisprudenza di legittimità, dall'altro, nell'avere condannato il prevenuto due volte per il medesimo reato; 4) violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento al disposto dell'art. 179 c.p.p., comma 1, dovendosi ritenere il decreto di citazione a giudizio affetto da radicale nullità, con riferimento al reato di cui al capo A), per il quale la corte territoriale ha confermato la penale responsabilità del V. in concorso con il R. ed il N. per il reato di bancarotta fraudolenta documentale in tale capo contestato, per inesistenza nell'imputazione di ogni riferimento alla condotta che il ricorrente avrebbe posto in essere in concorso con i suddetti coimputati, nullità, invero, eccepita con uno specifico motivi di appello, trascurato dalla corte territoriale; 5) vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dell'elemento oggettivo dei reati di cui ai capi A); B) e C), in quanto: a) con riferimento al fatto contestato al capo B), n. 1), difetta del tutto la prova che il V. abbia formalmente impegnato la "(OMISSIS)", facendo sorgere delle obbligazioni a carico di quest'ultima, in un rapporto contrattuale di natura pubblicitaria con la "Mondadori Pubblicità S.p.a.", che, come risulta dalle indagini difensive, ha rappresentato di non avere concluso alcun contratto con la "(OMISSIS)" avente ad oggetto lo svolgimento della campagna pubblicitaria in favore del marchio di abbigliamento "Baghera", eseguita, inoltre, senza richiedere alcuna garanzia, senza ricevere o richiedere alcun pagamento, nè anticipato, nè durante tutto il periodo di pubblicazione della campagna medesima, omettendo persino di procedere alla regolare fatturazione delle prestazioni pubblicitarie, intervenuta solo diversi mesi dopo.

Illogica appare, poi, secondo il ricorrente la motivazione della corte territoriale, secondo cui la mancanza di un formale contratto e le altre incongruenze ora evidenziate si giustificano con l'interesse di Ga.Al., in grado di spendere la sua influenza sulla "Mondadori", a favorire la pubblicizzazione del marchio "Baghera", pur in presenza della impossibilità del V. di sottoscrivere il contratto in nome della "(OMISSIS)", di cui non aveva la rappresentanza legale.

Non si comprende, infatti, ad avviso del difensore, perchè il V., secondo l'ipotesi accusatoria, amministratore di fatto della società fallita, non abbia chiesto all'amministratore di diritto di concludere il contratto in nome della "(OMISSIS)", esponendosi all'addebito dei costi della pubblicità, nè per quale motivo il Ga. e la Mondadori non hanno previsto la stipula di un formale contratto, rischiando di perdere il corrispettivo delle prestazioni fornite, nè per quale ragione la "Mondadori Pubblicità" abbia scelto di imputare il credito per le prestazioni effettuate ad un'impresa con la quale non esistevano rapporti di alcun genere, piuttosto che personalmente al V., nè, infine, per quale ragione l'amministratore, prima, ed il curatore fallimentare della "(OMISSIS)", poi, non abbiano impugnato tale credito.

In realtà, osserva il ricorrente, l'imputazione del debito per le prestazioni pubblicitarie in capo alla "(OMISSIS)" si base esclusivamente sulle dichiarazioni del teste Ca., direttore commerciale della "Mondadori Pubblicità", che, tuttavia, deve considerarsi inattendibile, essendo stata smentita documentalmente, come riconosce la stessa corte territoriale, senza ricavarne, contraddittoriamente, le inevitabili conseguenze in termini di inattendibilità, la sua affermazione secondo cui fosse prassi consolidata nel settore pubblicitario non fare ricorso a contratti scritti.

Soprattutto la corte territoriale ha omesso di considerare con la dovuta attenzione che la vera intestataria della commissione era la società "Anteprima Moda", del C.S., al quale il V. aveva ceduto in concessione il marchio Baghera, nell'ottica di una possibile partnership con il Ga., società, che, osserva il difensore, "grazie alla conoscenza col gruppo Mondadori e all'intercessione con Ga., era riuscita a far pubblicizzare un marchio del quale aveva anche acquisito dei capi di abbigliamento (provenienti dal magazzino della (OMISSIS)), che avrebbe pagato dopo aver effettuato chiaramente la pubblicità".

Ciò è confermato da una serie di circostanze non considerate dalla corte territoriale e, precisamente: l'assenza di un contratto; il fatto che Ca. avesse rapporti per la pubblicizzazione in sostanza sempre e solo con "Anteprima Moda" e che tale società risultasse distributrice dei prodotti persino sui giornali della Mondadori, come dimostrato documentalmente dalla difesa, per cui appare evidente che l'affermazione del Ca. sulla posizione debitoria della "(OMISSIS)" rappresenta solo il tentativo di giustificare le spese sostenute per la campagna pubblicitaria, nel momento in cui il Ga. aveva dimostrato di non avere più alcun interesse all'operazione ed erano sorti problemi finanziari del C., il quale, in possesso di capi di abbigliamento con il marchio "Baghera", in virtù di un accordo di commercializzazione concluso con il V., è il vero beneficiario dell'intera operazione.

Egli, infatti, in virtù del suo rapporto di amicizia con il Ca., ha goduto dei frutti della campagna pubblicitaria, in qualità di gestore di "Anteprima Moda", titolare della commercializzazione dei prodotti di abbigliamento "Baghera", facendone ricadere i costi su "(OMISSIS)".

Al riguardo, infatti, il ricorrente contesta la lettura fornita dalla corte territoriale della corrispondenza intercorsa tra il V. ed il C., dovendosi ritenere, piuttosto, alla luce delle scritture private acquisite agli atti, che, a differenza di quanto ritenuto dalla corte territoriale, la società "Anteprima Moda", indicata come distributore dei prodotti recanti il marchio "Baghera" nelle pagine pubblicitarie prodotte dalla difesa, e la società "Anteprima s.r.l.", gestita dal C., considerata dai giudici di appello un'agenzia pubblicitaria, intervenuta con compiti di semplice intermediazione tra "(OMISSIS)" e "Mondadori Pubblicità", erano la stessa compagine e che il C. già nel settembre del 2008, in esecuzione di un accordo di commercializzazione del marchio "Baghera" consacrato nella scrittura privata del 19.9.2008, aveva prelevato la merce di abbigliamento "Baghera" per commercializzarla, evento rinviato ad un successivo momento, dopo la stipula di una seconda scrittura privata tra il C. ed il V., resa necessaria dalla mancanza di validità della prima scrittura, senza che il C. restituisse la merce già in suo possesso.

Per queste ragioni, conclude il ricorrente, il C. subentrò quasi subito nei rapporti con "Mondadori Pubblicità"; non venne firmato nessun contratto; vennero stipulate due scritture private tra il C. ed il V.; la pubblicità riporta la dicitura "distribuito da Anteprima Moda" e si giustificano le fatture della "Anteprima", relative alla vendita da parte dell'azienda di capi di abbigliamento con il marchio "Baghera"; b) sempre con riferimento al reato di cui al capo B), n. 1, appare contraddittoria e manifestamente illogica la decisione con cui la corte territoriale ha escluso che la condotta del V. possa essere qualificata in termini di bancarotta semplice.

Premesso che la "(OMISSIS)" esercitava, almeno in un periodo compreso tra il 2007 ed il 2008, l'attività di commercializzazione dei prodotti di abbigliamento recanti il marchio "Baghera", essendo sia il marchio che la gestione della società, in detto periodo, riferibili al V., per cui l'investimento pubblicitario avrebbe avuto per la suddetta società un sicuro ritorno economico, osserva il ricorrente che tale investimento non può non considerarsi inerente l'attività d'impresa, essendo destinato a supportare l'attività commerciale di distribuzione dei prodotti "Baghera".

Ed infatti, prima che la commercializzazione dei menzionati prodotti venisse ceduta in licenza alla società "Anteprima Srl" del C., sulle pagine pubblicitarie curate dalla "Mondadori" accanto all'immagine dei capi "Baghera" appariva la scritta "Distribuito da (OMISSIS)", rendendo così noto al pubblico ed ai potenziali rivenditori che l'attività di commercializzazione dei capi veniva svolta da tale ultima società.

La circostanza che il ritorno economico dell'operazione non fosse quello sperato e che l'incremento delle vendite non riuscisse neppure a coprire i costi dell'investimento pubblicitario, non muta la ratio imprenditoriale dell'iniziativa, finalizzata, come si è detto, allo sviluppo dell'attività di commercializzazione dei capi di abbigliamento "Baghera", svolta, in quel momento, dalla "(OMISSIS).

Ricorre, pertanto, nel caso di specie, ad avviso del ricorrente, un'ipotesi di bancarotta semplice, realizzata attraverso un'operazione, che, pur essendo connotata da imprudenza, è stata posta in essere comunque nella prospettiva dell'interesse della società, laddove, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, nei casi di bancarotta fraudolenta rientrano solo quelle operazioni svolte nell'interesse di un'attività economica diversa da quella aziendale e nelle quali è del tutto inesistente la prospettiva di un vantaggio economico per la società.

Sul punto, rileva il ricorrente, la motivazione della corte territoriale appare contraddittoria e priva di logica, in quanto, da un lato, si sostiene che la "(OMISSIS)" già nell'estate del 2008 aveva cessato la propria attività, venendo ceduta al G. per essere destinata ad altro settore commerciale, dall'altro, si afferma, per giustificare il mancato coinvolgimento nell'operazione del Ga. e della "Anteprima Moda", che, non essendo valida la prima scrittura privata tra il V. ed il C., i capi di abbigliamento "Baghera" continuavano ad essere commercializzati da "(OMISSIS)".

Del resto, se "(OMISSIS)" non commercializzava i prodotti "Baghera", non si comprende il senso delle affermazioni del Ri., uno degli amministratori della società, sulla possibilità di trare vantaggio dalla campagna pubblicitaria, nè il fondamento dell'attribuzione in capo alla "(OMISSIS)" del rapporto negoziale con la "Mondadori Pubblicità".

Per cui delle due l'una: o i capi di abbigliamento "Baghera" sono stati commercializzati da "(OMISSIS)" fino al marzo del 2009, con conseguente riqualificazione della condotta in bancarotta semplice oppure, se "(OMISSIS)" era inattiva a partire dal 2008, i prodotti "Baghera" erano commercializzati da "Anteprima Moda", alla quale deve essere riferito il contratto di pubblicità almeno dal settembre del 2008, con conseguente assoluzione del V. per il reato di cui si discute; c) con riferimento al fatto contestato nella seconda parte del capo B), n. 1, avente ad oggetto la dissipazione dell'attivo patrimoniale attraverso l'assunzione di obbligazioni pecuniarie per spese pubblicitarie assunte nei confronti della società "Vignolplast", del pari la motivazione deve considerarsi del tutto illogica e contraddittoria.

Integrando la motivazione del giudice di primo grado, che, sul punto, era del tutto mancante, la corte territoriale ha ritenuto provata la responsabilità penale del V., sul presupposto che quest'ultimo aveva sottoscritto degli ordini di cerniere prodotte dalla "Vignolplast", destinate alla confezione di capi di abbigliamento, che non erano stati commercializzati dalla "(OMISSIS)", essendo quest'ultima già inattiva.

Rileva, al riguardo, il difensore come lo stesso imputato, nel corso del suo esame dibattimentale, abbia spiegato che la "V", a differenza di quanto erroneamente indicato nell'imputazione, era una società operante non nel settore pubblicitario, ma nella produzione di accessori per capi di abbigliamento.

In tale qualità, nel periodo in cui il V. ne era stato amministratore di fatto, aveva fornito alla "(OMISSIS)" cerniere per un valore di 30.000,00 Euro, debito integralmente saldato, attraverso l'emissione di una serie di assegni.

La relativa obbligazione pecuniaria, dunque, non può essere considerata in alcun modo una forma di dissipazione dell'attivo patrimoniale, trattandosi di costi di produzione, correlati allo svolgimento dell'attività economica dell'impresa, di importo del tutto congruo al volume d'affari prodotto, dovendosi ribadire che il credito della "Vignolplast" fa riferimento ad una fornitura di cerniere avvenuta nel momento in cui la società fallita era ancora attiva e non in un momento successivo, come deduce la corte territoriale, pur in mancanza di riscontri probatori; d) con riferimento al fatto contestato al capo B), n. 2, avente ad oggetto la distrazione delle rimanenze del magazzino della "(OMISSIS)", la motivazione si presenta del tutto inadeguata, perchè contrastante con il contenuto delle prove documentali e testimoniali acquisite.

Risulta, infatti, dimostrato, attraverso la produzione documentale operata dalla difesa e dalle numerose dichiarazioni testimoniali, che già nel settembre del 2008 la più volte citata società del C. ("A Srl"), pur non avendo ancora iniziato a produrre capi di abbigliamento con il marchio "Baghera" ovvero a commissionarne a terzi la produzione, ha emesso fatture relative alla vendita di tali prodotti, incassandone il corrispettivo.

Ciò dimostra inequivocabilmente, ad avviso del difensore, la fondatezza delle dichiarazioni dell'imputato, secondo cui le rimanenze del magazzino "(OMISSIS)", in seguito all'inizio dei rapporti commerciali con il C. e la sua società, erano state cedute a quest'ultimo con regolare fattura di vendita, come segnalato al curatore fallimentare con apposita comunicazione scritta, prodotta in giudizio per il recupero del credito vantato da "(OMISSIS)" nei confronti di "Anteprima SrI." Erronea, ad avviso del ricorrente, è anche l'interpretazione fornita dalla corte territoriale dell'espressione "inventario allegato, completamente pagato", contenuta nella scrittura privata intervenuta tra il V. ed il C. il 19.9.2008, che non attesta (falsamente, secondo il giudice di appello) l'avvenuto pagamento delle rimanenze di magazzino da parte del C., ma solo che per i capi di abbigliamento i fornitori erano stati tutti pagati, come confermato dal curatore, per cui essi venivano ceduti al prezzo di costo.

A nulla rileva, infine, l'impossibilità di ricostruire il movimento del controvalore in denaro della merce venduta al C.: si tratta, secondo la difesa, di un mero deficit di accertamento, irrilevante, per l'appunto, in presenza di precisi e concordanti elementi dimostrativi di una legittima destinazione della merce; e) con riferimento al reato di bancarotta fraudolenta documentale, di cui al capo A), non risulta dimostrato il concorso del V. nella scomparsa delle scritture contabili, posto che, alla luce delle molteplici risultanze istruttorie (dichiarazioni del G., della P., della B., del curatore fallimentare; documento sottoscritto dal G. all'atto del ritiro da parte sua delle scritture contabili) risulta inequivocabilmente che, una volta intervenuta la cessione integrale delle quote sociali al G., in data 9.10.2008, era terminata la gestione di "(OMISSIS)" da parte dell'imputato, che perdeva la disponibilità della documentazione contabile, acquisita dal nuovo amministratore G., senza che il V. ne avesse più accesso alla medesima o ne disponesse, in concorso con altri, l'occultamento o la distruzione.

Del tutto erronea, dunque, appare la decisione della corte territoriale, che ha dedotto, senza prova alcuna, la responsabilità del V. sulla base del presupposto, peraltro fallace, secondo cui la scomparsa della documentazione contabile gli avrebbe giovato, senza individuare alcuna condotta specifica in cui si sarebbe concretizzato il concorso del reo nella condotta contestata;

6) violazione di legge in ordine alla dosimetria della pena, che la corte territoriale ha determinato, da un lato, in contrasto con i criteri indicati dall'art. 133 c.p., senza tenere conto di alcuni elementi favorevoli al reo, quali la distanza temporale intercorsa tra la commissione dei fatti e la data della pronuncia della sentenza di appello; il corretto comportamento processuale ed il contributo fornito all'opera del curatore fallimentare; la circostanza che egli non ha reiterato le condotte illecite in addebito, nè ha subito altri procedimenti penali, dall'altro senza riconoscere in suo favore le circostanze attenuanti generiche, applicando, inoltre, la continuazione fallimentare di cui alla L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, fra tutti i reati in questione, senza motivare in ordine ai considerevoli aumenti di pena per la continuazione, sganciati da una puntuale valutazione della gravità del reato, prova ne sia che il medesimo aumento è stato disposto per tutte e tre le condotte ulteriori;

7) violazione di legge in ordine alla determinazione del danno e della refusione delle spese di costituzione di parte civile, dovendosi ritenere del tutto apparente la quantificazione del danno risarcibile, in relazione al quale la corte territoriale si è limitata ad affermare l'impossibilità di valutare le reali prestazioni svolte dalla "Mondadori Pubblicità", senza prendere in considerazione i rilievi difensivi volti a contestare le pretese delle parti civili al riguardo ed, addirittura, senza pronunciarsi sulla entità del risarcimento per la vicenda "Vignolplast", del pari contestata dalla difesa.

La corte, infine, nel rigettare la richiesta di compensazione delle spese di costituzione, ex art. 541 c.p.p., comma 1, sul presupposto che i beni immobili del V. e della madre hanno formato oggetto di sequestro conservativo, ha omesso di considerare che tale sequestro è la conseguenza della collaborazione fornita dall'imputato al curatore, che ha permesso il recupero degli immobili, rendendone possibile il sequestro.

5. Quanto all'imputata L.C., madre del V., difesa, come il figlio, dall'avv. Ducci Michele, si osserva che i motivi di impugnazione contraddistinti in ricorso dai numeri 1); 2); 3); 6) e 8), riproducono le censure già esposte dal medesimo difensore nel ricorso proposto nell'interesse del coimputato.

La ricorrente, poi, lamenta, con riferimento alla posizione della L., uno specifico vizio di motivazione, posto che i risultati delle prove acquisite nel corso dell'istruttoria dibattimentale, al contrario di quanto affermato dalla corte territoriale, hanno dimostrato la completa estraneità dell'imputata ai fatti in contestazione, non avendo avuto la L. alcun ruolo all'interno della società, nè posto in essere alcun atto di gestione o interferito in alcun modo nelle decisioni del figlio.

Senza tacere della impossibilità di configurare in capo alla L. l'elemento soggettivo dei reati per i quali ha riportato condanna, in quanto, come chiarito dal V., a quest'ultima era stata celata la reale situazione di crisi economica dell'impresa.

Con particolare riferimento, infine, alla dosimetria della pena, la ricorrente contesta la valutazione di inammissibilità del relativo motivo di appello operata dalla corte territoriale, perchè illogica, posto che "nel motivo relativo all'eccessività del trattamento sanzionatorio....non vi è riferimento alcuno alla posizione processuale dell'imputata, cui la corte fa riferimento e che risulta presente nel solo motivo relativo alla errata valutazione del tribunale in diritto nella non concedibilità delle attenuanti generiche".

La corte territoriale, inoltre, ha determinato l'entità della pena, senza indicare specificamente quali dei parametri previsti dall'art. 133 c.p., ha preso in considerazione e senza tenere conto di alcuni elementi favorevoli all'imputata, quali la distanza temporale intercorsa tra la commissione dei fatti e la data della pronuncia della sentenza di appello, l'età avanzata della prevenuta (ottantenne), la sua incensuratezza e l'apporto minimo fornito alla commissione dei reati di cui si discute; senza riconoscere in suo favore le circostanze attenuanti generiche, sicuramente concedibili con giudizio di prevalenza sulla ritenuta circostanza aggravante ed applicando, infine, la continuazione fallimentare di cui alla L. Fall., art. 219, comma 2, n. 1, fra tutti i reati in questione, senza motivare in ordine ai considerevoli aumenti di pena operati in assenza di una puntuale valutazione della gravità del reato, prova ne sia che il medesimo aumento è stato disposto per tutte e tre le condotte ulteriori.

6. Iniziando ad esaminare la posizione del N. non può non rilevarsi come i motivi di ricorso non possano essere condivisi.

6.1. Inammissibile appare il primo motivo di impugnazione.

Il N., invero, propone una mera e del tutto generica rivalutazione del compendio probatorio operata dal giudice di secondo grado, non consentita in questa sede, stante la preclusione, per il giudice di legittimità, di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, e considerato che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (cfr. ex plurimis, Cass., sez. VI, 22/01/2014, n. 10289), nel caso in esame fondata su di un approfondito e coerente percorso motivazionale, con cui il ricorrente, in ultima analisi, non si confronta realmente.

A tale censura si espone anche il rilievo sulla pretesa inattendibilità del teste Z., che viene apoditticamente affermata dal ricorrente sulla base non di dati oggettivamente idonei ad incrinare l'attendibilità della narrazione del teste, ma sulla base di una ipotizzata versione alternativa dei fatti, scolpita nell'affermazione meramente ipotetica, secondo cui, alla luce degli stretti rapporti che lo legavano al G., "è ben possibile che abbia concordato con questi la versione da rendere per incolpare falsamente il N.".

Il ricorso, presente, inoltre, un ulteriore profilo di evidente inammissibilità, dovendosi ribadire il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione i cui motivi si limitino a lamentare, come nel caso in esame, l'omessa valutazione, da parte del giudice dell'appello, delle richieste articolate con il relativo atto di gravame, rinviando genericamente ad esse in modo frammentario, senza indicarne specificamente ed integralmente il contenuto, al fine di consentire l'autonoma individuazione delle questioni che si assumono irrisolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità, dovendo l'atto di ricorso contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica (cfr., ex plurimis, Cass., sez. III, 4.11.2014, n. 35964, rv. 264879).

La corte territoriale, del resto, con motivazione esaustiva ed immune da vizi, ha fondato la responsabilità del N. su circostanze di fatto incontestabili, oggetto di rigorosa valutazione critica.

Secondo un percorso intrinsecamente coerente, lungi dal procedere a mere supposizioni, la corte di appello è partita dal dato, non contestato nemmeno dalla difesa dell'imputato, della messa a disposizione del proprio fondo da parte del N., nell'ottobre del 2008, per custodirvi la documentazione contabile della "(OMISSIS)", dopo avere messo in contatto Z. e G. con il R., in virtù della pregressa conoscenza del ragioniere commercialista (circostanza, quest'ultima, a ben vedere non negata nemmeno dal ricorrente: cfr. p. 4, nota 2 del ricorso), per giungere alla conclusione, logicamente immune da vizi, della configurabilità di un concorso del N. nell'attività di occultamento della documentazione contabile, mai rinvenuta dagli organi fallimentari, di cui solo pochi documenti ("due o tre cartelline": cfr. p. 27 della sentenza di primo grado) venivano restituiti dal N. un anno dopo su richiesta dello Z., che agiva per conto di G., nel quadro di un disegno criminoso i cui principali artefici sono il V. ed il R..

Infatti proprio la presenza del N., richiesta espressamente dallo Z., all'atto della restituzione di una parte dei documenti a quest'ultimo, di cui ha parlato lo stesso ricorrente, è circostanza che correttamente la corte territoriale valorizza allo scopo di confutare la tesi difensiva secondo cui lo Z. aveva le chiavi del magazzino del N., "atteso che in tal caso Z. non avrebbe avuto la necessità di far intervenire N. nel momento in cui prelevò i registri" (cfr. p. 22 della sentenza di secondo grado), dimostrando che il vero responsabile della custodia della documentazione contabile era il N..

Tornando per un momento sulla eccezione formulata in ordine alla inattendibilità dello Z., va notato come il ricorrente non sia riuscito a spiegare in maniera convincente quale concreto interesse avrebbe spinto quest'ultimo a dichiarare il falso, laddove, con motivazione sempre inappuntabile dal punto di vista logico, la corte di appello ha evidenziato come G. e Z., realmente interessati all'acquisto della "(OMISSIS)" da utilizzare per il loro commercio nel settore ortofrutticolo senza dovere sopportare le spese di costituzione di una nuova società, non avrebbero ricavato alcun vantaggio dall'occultamento delle scritture contabili, che, anzi, ove ottenute integralmente, avrebbero consentito loro di essere a conoscenza della reale situazione economica della società.

Interesse, invece, che il V., amministratore di fatto della "(OMISSIS)" sino al momento della cessione delle quote al G., ed il suo "consulente" R. non avevano, ponendosi il V. l'obiettivo di disfarsi della società dopo averla svuotata di ogni consistenza economica, facendovi anche ricadere il peso di debiti contratti per prestazioni erogate da terzi in suo favore.

Ciò appare evidente nel momento in cui, come riferito dal G., quest'ultimo, pressato dai creditori della "(OMISSIS)", per il pagamento di debiti di cui non aveva conoscenza, proprio per la mancanza di adeguate scritture contabili, si rivolse direttamente al N. per avere contezza di tali richieste, vale a dire alla persona presso il cui fondo erano state depositate le scritture contabili che avrebbero consentito di scoprire la reale situazione economica della "(OMISSIS)", smentendo le false rassicurazioni del R. sul punto.

Ma l'imputato, come rileva la corte di appello con deduzione assolutamente logica, dimostrò la sua malafede, sintomo della consapevolezza di quanto accaduto e della condivisione del disegno criminoso del V. e del R., volto a porre le condizioni per un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori, "non facendosi più trovare e non rispondendo più al telefono" (cfr. p. 23 della sentenza oggetto di ricorso).

Condivisione che l'imputato aveva già dimostrato, nel mettere a disposizione il suo locale per la custodia della documentazione contabile della "(OMISSIS)" e nel rifiutarsi, senza addurre alcuna motivazione plausibile, di consegnare allo Z., nonostante quest'ultimo ne avesse fatto richiesta esplicita per conto del G., tutti i faldoni contenenti la suddetta documentazione (cfr. p. 27 della sentenza di primo grado).

6.2. Va, invece, rigettato il secondo motivo di ricorso.

Vero è che la corte territoriale, pur riportando per esteso il motivo di appello relativo alla sola mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, non fornisce alcuna risposta al riguardo, affermando erroneamente che l'imputato aveva già ottenuto quello che reclamava in sede di appello, vale a dire l'irrogazione di una pena contenuta nel minimo edittale.

Tuttavia l'eccezione difensiva non può essere accolta perchè il rigetto del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche da parte del giudice di primo grado, come sottolinea lo stesso difensore nella nota n. 6 in calce alla pag. 9 del ricorso, si è fondato sulla mancanza di elementi positivi, in grado di rendere evidente un percorso di resipiscenza, meritevole di apprezzamento.

Tale conclusione è assolutamente conforme al costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, premesso che, in tema di attenuanti generiche, la ratio della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all'obbligo, per il giudice, ove questi ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo l'affermata insussistenza.

Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita, essa stessa, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell'imputato volta all'ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (cfr., ex plurimis, Cassazione penale, sez. IV, 28/05/2013, n. 24172; Cass., sez. III, 23/04/2013, n. 23055, rv. 256172).

6.3. La decisione impugnata non può, tuttavia, essere integralmente condivisa, essendo inficiata da un vizio, relativo alla determinazione della durata delle pene accessorie previste dalla L. Fall., art. 216, u.c., che compete a questa Corte rilevare d'ufficio, ai sensi del disposto dell'art. 609 c.p.p., comma 2.

Al riguardo si osserva che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 222 del 2018 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della L. Fall., art. 216, u.c., nella parte in cui dispone: "la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa", anzichè: "la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni".

In conseguenza dell'intervento del Giudice delle leggi, è sorto, nella giurisprudenza di legittimità un contrasto tra due diverse opzioni interpretative.

Secondo un primo orientamento in tema di bancarotta fraudolenta, le pene accessorie previste dalla L. Fall., art. 216, u.c., nella formulazione derivata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, devono essere commisurate alla durata della pena principale, in quanto, essendo determinate solo nel massimo, sono soggette alla disciplina di cui all'art. 37 c.p., con la conseguenza che, in caso di sentenza di condanna pronunciata prima della menzionata declaratoria di illegittimità costituzionale, va annullato il capo relativo alla durata delle pene accessorie, da rideterminare in quella corrispondente alla durata della pena principale inflitta all'imputato (cfr., tra le altre, Cass., sez. V, n. 1968, del 7.12.2018, rv. 274228).

Secondo un diverso orientamento, invece, in tema di bancarotta fraudolenta, la durata delle pene accessorie previste dalla L. Fall., art. 216, u.c., nella formulazione derivata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, non necessariamente deve essere parametrata alla stessa durata della pena principale ai sensi dell'art. 37 c.p., in quanto i principi di proporzionalità e di individualizzazione del trattamento sanzionatorio, posti alla base della decisione di illegittimità costituzionale, non consentono di applicare alcun tipo di automatismo sanzionatorio.

In applicazione del principio la Corte, riconoscendo d'ufficio l'illegalità delle pene accessorie irrogate prima della declaratoria di illegittimità costituzionale della L. Fall., art. 216, u.c., ha annullato con rinvio la sentenza impugnata limitatamente al punto delle pene accessorie, al fine di consentire al giudice di merito di stabilire la durata delle stesse, trattandosi di giudizio, che implicando valutazioni discrezionali, è sottratto al giudice di legittimità (cfr. Cass., sez. V, 29.1.2019, 5882, rv. 274413).

Tale opzione risulta confermata da un recente arresto delle Sezioni Unite, in cui, proprio con riferimento all'irrogazione delle pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta, è stato ribadito che la durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p., e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 c.p. (cfr. Cass., Sez. U., n. 28910, del 28.2.2019, rv. 276286).

Sul punto, pertanto, non potendo essere conservata una pena determinata in relazione ad una cornice edittale prevista da una norma dichiarata incostituzionale e, quindi, inesistente sin dalla sua origine, in quanto non conforme al principio costituzionale di proporzione tra offesa e pena (cfr. Cass., Sez. U. n. 33040 del 26.2.2015, rv. 264207), la sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra sezione della corte di appello di Firenze, esclusivamente per la rideterminazione della durata delle pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta documentale, fermo restando il passaggio in giudicato della suddetta sentenza nei confronti del N., per quel che riguarda l'affermazione della sua penale responsabilità e la dosimetria della pena principale irrogata (pari ad anni tre di reclusione) e della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.

Tale durata, infatti, essendo predeterminata dall'art. 29 c.p., comma 1, secondo periodo, in misura fissa e non sproporzionata rispetto alla gravità dei reati puniti con la reclusione non inferiore a tre anni, non presenta profili di illegittimità costituzionale e non richiede l'intervento discrezionale del giudice nella relativa determinazione.

Non concludendosi il giudizio innanzi a questa corte con una pronuncia di totale inammissibilità ovvero di totale rigetto del ricorso dell'imputato, difetta il presupposto al quale l'art. 616 c.p.p., comma 1, subordina la condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali del grado, che, dunque, non possono essere poste a suo carico.

7. Passando ad affrontare la posizione del R.G., le questioni poste dai difensori del ricorrente vanno risolte secondo una prospettiva unitaria.

7.1. Con riferimento al primo motivo articolato nel ricorso dell'avv. M, va premesso che la violazione del principio di cui all'art. 521 c.p.p., in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, si verifica, come è noto, in presenza solo di una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione. (cfr., ex plurimis, Cass., sez. IV, 16/02/2012, n. 17069, G. e altro).

Orbene nel caso in esame l'avv. M non indica in che modo, durante lo svolgimento del processo, il ricorrente si sarebbe trovato nella impossibilità di difendersi concretamente in ordine all'oggetto dell'imputazione.

Anzi, proprio il riferimento operato dal difensore alle risultanze emerse nel corso dell'istruttoria dibattimentale, valorizzate dalla corte territoriale per affermare la penale responsabilità dell'imputato, ma insufficienti, ad avviso del ricorrente, a giustificare la pronuncia di condanna, in relazione al fatto contestato nel capo d'imputazione, posto che, come evidenziato nei motivi di appello, la consegna della documentazione contabile della "(OMISSIS)" al G. venne effettuata non dal R., come indicato nel capo d'imputazione, ma da una dipendente dello studio professionale "H e R", che solo per alcuni mesi aveva gestito la contabilità della "(OMISSIS)", dimostra in ultima analisi, come l'imputato sia stato posto nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione.

Il motivo di ricorso riguardante la menzionata censura deve, dunque, ritenersi inammissibile, perchè generico e meramente ripetitivo di una questione prospettata in appello, su cui si è pronunciata la corte territoriale, attraverso un esaustivo percorso motivazionale (cfr. pp. 8; 23-26 della sentenza oggetto di ricorso).

7.2. Anche il secondo motivo di ricorso dell'avv. M ed i due motivi di impugnazione dell'avv. T non colgono nel segno, per le ragioni che verranno di seguito esposte, valevoli anche per la posizione del V., tenuto conto dello strettissimo legame che unisce i due imputati nella vicenda in esame.

In proposito, è sufficiente considerare che, per indiscusso insegnamento di questa Corte regolatrice, conformemente a quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, il concorso del soggetto estraneo alla compagine sociale (cd. extraneus) nel delitto di bancarotta fraudolenta documentale, postula l'accertamento, sotto il profilo oggettivo, dell'efficienza causale della sua condotta e, sotto il profilo soggettivo, del dolo, consistente nella volontarietà dell'apporto alla condotta dell'"intraneus", unitamente alla consapevolezza in ordine alla incidenza di tale condotta sul versante della regolarità e correttezza della rappresentazione documentale della società poi fallita, ad opera del responsabile, di fatto o di diritto, di quest'ultima (cfr., tra le altre, Cass., sez. V, n. 39387 del 27/6/2012, rv. 254319; Cass., sez. V, del 26/06/1990, rv. 185893; Cass., sez. V, n. 1706 del 12/11/2013, rv. 258950).

Orbene la decisione della corte territoriale appare conforme ai parametri indicati dalla giurisprudenza di legittimità.

Il giudice di appello, infatti, si è soffermato, innanzitutto, sull'apporto causale fornito dal R. alla scomparsa delle scritture contabili della "(OMISSIS)", quale parte di un complesso disegno criminoso, che ha visto il ricorrente mettere la propria capacità professionale di ragioniere esperto in materia commerciale e la propria struttura operativa, incentrata sui collaboratori dello studio "H e R Associati srl", a lui facente capo, formalmente e sostanzialmente, al servizio delle finalità perseguite dal V. in violazione della legge.

Quest'ultimo, come dichiarato dallo stesso ricorrente, nell'estate del 2006, quando ancora svolgeva l'attività di commercializzazione di prodotti di abbigliamento con il marchio "Baghera", di sua proprietà, attraverso la società "(OMISSIS) s.r.l.", che in quel momento si trovava in stato di dissesto irreversibile, tanto da essere dichiarata fallita il 19.11.2008, si era rivolto al R., proprio perchè, testualmente: "la sua società aveva dei problemi ed aveva deciso di accantonare questa società per crearne una nuova con cui continuare l'attività e dove non voleva comparire in prima persona per gli eventuali strascichi che si sarebbero potuti creare con le precedenti società".

Aggiungeva il R., sempre nel corso del suo esame, di sapere che il V. "non poteva figurare, non si poteva intestare quote, nè....fare da amministratore perchè aveva avuto dei problemi con due società precedenti", precisando che egli non era comunque a conoscenza del fatto che quest'ultimo avesse commesso reati in passato, laddove è stato pacificamente accertato che al V. era stata applicata la pena di un anno e sei mesi di reclusione, in relazione al fallimento della sua precedente società, "(OMISSIS) s.r.l.", non a caso, sottolinea la corte territoriale, "accantonata previe distrazioni e sparizione della contabilità", come avverrà per la "(OMISSIS)".

Sempre nella medesima occasione, il R. rivelava che il V. gli aveva affidato la tenuta della contabilità della nuova compagine sociale, destinata a sostituire la precedente in stato di dissesto, circostanza confermata anche dal Ri., uno degli amministratori di diritto che si sono succeduti nella rappresentanza formale della "(OMISSIS)".

Evidente, pertanto, come, al di là del soggetto che materialmente si occupava della tenuta della documentazione contabile, individuato pacificamente nel ragioniere B.S., collaboratrice del R. nella "H e R Associati", era quest'ultimo il vero responsabile della gestione contabile della "(OMISSIS)", che assicurava attraverso lo studio professionale di cui era il dominus.

Dotato di intrinseca coerenza logica, dunque affatto manifestamente illogico o contraddittorio, deve ritenersi il ragionamento con cui la corte territoriale individua la ratio del legame che univa il R. al V. nella concordata predisposizione delle soluzioni e degli accorgimenti necessari a consentire all'imprenditore di continuare l'attività di commercializzazione dei prodotti di abbigliamento recanti il suo marchio, senza assumere formalmente il ruolo di amministratore della nuova società, pur continuando di fatto a gestirla, essendogli tale ruolo precluso dalle conseguenze legali derivanti dal fallimento della "(OMISSIS) s.r.l.".

L'accordo tra i due imputati ha così consentito al V. di perpetuare un meccanismo che la corte territoriale ha efficacemente descritto nei seguenti termini.

L'imprenditore ha esercitato l'attività di produzione e di commercializzazione dei capi di abbigliamento con il suo marchio, attraverso una serie di società ("Baghera s.r.l."; "(OMISSIS) s.r.l."; "(OMISSIS) s.r.l."), condotte via, via al fallimento, essendo destinate ad essere titolari dei soli debiti contratti dal V. e svuotate di ogni consistenza patrimoniale.

Il progetto del V., vero amministratore di fatto della "(OMISSIS)", come dimostrato inequivocabilmente, tra l'altro, dalla sua proposta di affidare al R. la tenuta della documentazione contabile della nuova società nel momento stesso in cui, "accantonata" la "(OMISSIS) s.r.l.", gli aveva chiesto di escogitare una soluzione che consentisse all'imprenditore di continuare ad operare commercialmente, senza assumersi verso i terzi in modo trasparente la responsabilità della gestione societaria, non poteva realizzarsi, rileva correttamente la corte territoriale, senza la collaborazione del R., il quale ha rappresentato un vero punto di riferimento del coimputato, anche per i profili tecnico-contabili delle operazioni sociali.

Ed invero, fu il R., come ammesso dallo stesso ricorrente, a proporre il primo amministratore di diritto, in ordine di tempo, della "(OMISSIS)", Pi.Ma., per soddisfare l'impellente richiesta del V. di poter continuare la sua attività con una nuova compagine sociale, senza comparire; fu sempre grazie al R. (come ammesso dallo stesso imputato, negando tuttavia ogni finalità fraudolenta) che entrò nell'orbita del V.G., G., ultimo amministratore di diritto della "(OMISSIS)" prima del fallimento, il quale, proprio a causa della mancanza di complete scritture contabili e delle false rassicurazioni fornitegli dal R. (come dallo stesso G. dichiarato) sulla buona "salute" economica della società, divenne cessionario a titolo gratuito di tutte le quote sociali, rimanendo, poi, esposto alle richieste dei creditori, della cui esistenza pregressa nulla sapeva.

Proprio quest'ultima circostanza assume un valore particolarmente significativo nella ricostruzione dell'intera vicenda, dimostrando, da un lato, come ad avere interesse all'occultamento ed alla scomparsa delle scritture contabili fosse principalmente il V., per evitare che emergessero le reali condizioni economiche della "(OMISSIS)" ed il suo diretto coinvolgimento nella gestione delle attività sociali, dall'altro, come il R., pur conoscendo, per sua stessa ammissione, quali fossero le reali condizioni economiche della "(OMISSIS)", tacendole al G., in perfetta malafede nel momento in cui gli aveva rappresentato che l'acquisto della società sarebbe stato per lui un "ottimo affare", abbia agevolato il disegno criminoso del V., consentendo alla menzionata compagine sociale di continuare ad esistere, sia pure solo formalmente, in modo che il V. potesse continuare la sua attività, "scaricando" i debiti contratti con i terzi sulla dotazione economica, in realtà incapiente, della "(OMISSIS)".

Ove ciò non fosse sufficiente per delineare la vera natura (fraudolenta) del rapporto tra il V. ed il R., la corte territoriale fornisce ulteriori elementi che, ricondotti alla condivisione del disegno innanzi tratteggiato, ne illuminano ulteriormente il contenuto.

Si tratta delle missive del 15.1.2009 e del 12.2.2009, con cui, pur dopo il passaggio dell'amministrazione e delle quote societarie al G., il V. chiedeva al ragioniere di aiutarlo a sottrarsi alle pressioni dei creditori della "(OMISSIS)" e di predisporre un piano di rientro dei debiti sociali, di cui vi è traccia in un appunto manoscritto, rinvenuto nel corso della perquisizione operata nella sede della "(OMISSIS)".

Nonchè di ulteriori dati documentali, che non hanno formato oggetto di specifica contestazione della difesa, da cui la corte territoriale ha logicamente dedotto la continuazione del rapporto tra i due imputati anche dopo la conclusione dell'operazione "(OMISSIS)", avendo il R. prestato la sua collaborazione per il perseguimento di finalità truffaldine, relativamente ad alcuni contratti di leasing, che nel 2009 il V. concluse o tentò di concludere, spendendo il nome di una società, avente sede presso lo studio del R., formalmente amministrata da due collaboratori di quest'ultimo.

Sulla base di tali presupposti, la soluzione fatta propria dai giudici di merito si presenta come lineare e non contraddittoria applicazione delle regole proprie del ragionamento logico-induttivo, del tutto esente, dunque, dal vizio di illogicità manifesta della motivazione, che, come è noto, consegue alla violazione di principi della logica formale diversi dalla contraddittorietà o dei canoni normativi di valutazione della prova ai sensi dell'art. 192 c.p.p., ovvero alla invalidità o alla scorrettezza dell'argomentazione per carenza di connessione tra le premesse della abduzione o di ogni plausibile nesso di inferenza tra le stesse e le conclusioni (cfr., ex plurimis, Cass., sez. I, n. 53600, rv. 271636).

La consegna della documentazione contabile della "(OMISSIS)" al G., effettuata dalla B., collaboratrice del R. su disposizione del titolare dello studio, apparendo del tutto illogico ritenere che quest'ultima possa avere agito di propria iniziativa, fu solo formale, perchè, come si è detto esaminando la posizione del N., fu quest'ultimo ad averne l'effettiva e materiale disponibilità, custodendola nel locale di (OMISSIS), dove venne portata nel momento stesso della restituzione al G., locale le cui chiavi, come chiarito dalla corte territoriale, erano nella sola disponibilità dello stesso N..

Ed infatti il G., pur essendo formalmente amministratore della "(OMISSIS)" non riuscì mai ad avere contezza dell'effettivo e completo contenuto di tale documentazione (che, giova ricordare, non è stata mai rinvenuta dal curatore fallimentare) perchè, quando iniziò ad insospettirsi sulle reali condizioni economiche della società in questione, pur provandoci, non riuscì ad entrare in contatto con il N..

L'occultamento e la successiva sparizione delle scritture contabili della "(OMISSIS)", che hanno determinato la sottrazione delle stesse agli organi fallimentari, in tal modo integrando il delitto di bancarotta fraudolenta documentale di cui alla L. Fall., art. 216, comma 1, lett. b), (cfr. Cass., sez. V, n. 24051 del 15.5.2014, rv. 260142; Cass., sez. V, n. 18634 dell'1.2.2017, rv. 269904; Cass., sez. V, n. 8369, del 27.9.2013, rv. 259038), rappresentano, dunque, logicamente l'ultimo tassello di un complessivo disegno criminoso, condiviso e realizzato dal V., dal R. e dal N., volto a recare pregiudizio ai creditori della "(OMISSIS)", in quanto preordinato a rendere impossibile (o anche solo molto difficoltosa) la ricostruzione del movimento degli affari della società, in una fase storica in cui il V., avvalendosi della collaborazione soprattutto del R., continuava di fatto ad occuparsi della gestione della "(OMISSIS)" (come meglio si vedrà, affrontando la sua posizione), redendo impossibile l'accesso alla documentazione contabile nella sua interezza.

Ineccepibile, dal punto di vista logico, appare anche l'esclusione, da parte della corte territoriale, di ogni responsabilità del G. e dello Z., sul presupposto che nessun interesse essi avevano alla scomparsa delle scritture contabili, in quanto, da un lato, il G. era stato rassicurato dal R. sulle positive condizioni economiche della "(OMISSIS)", dall'altro, dal loro punto di vista, la società era inattiva, non avendo ancora iniziato ad operare concretamente nel settore ortofrutticolo, che nelle loro intenzioni avrebbe dovuto rappresentare il nuovo orizzonte commerciale della "(OMISSIS)" (cfr. p. 22 della sentenza di appello).

Sicchè anche la consegna di una parte della documentazione dal N. allo Z., nella prospettiva seguita dalla corte territoriale, non assume un valore decisivo in favore della tesi difensiva, secondo cui fu in quel momento che si verificò l'occultamento delle scritture contabili ad opera del G. e dello Z., proprio perchè, come si è detto, questi ultimi non avevano alcun interesse alla scomparsa della documentazione contabile. In conclusione la sentenza impugnata supera con successo il controllo proprio del giudice di legittimità, al quale, come è noto, è preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti.

Essa, infatti, appare fornita di una reale motivazione, affatto apodittica, sorretta, anzi, da un ragionamento logico che resiste alle critiche difensive, perchè articolato attraverso una valutazione sia unitaria, che globale dei dati processuali (cfr. Cass., sez. VI, 26.4.2006, n. 22256, rv. 234148), laddove i rilievi difensivi appaiono frutto di una lettura frazionata e parziale del percorso motivazionale, pericolosamente vicini ai confini della inammissibilità.

7.2 Di natura fattuale, attenendo all'entità del trattamento sanzionatorio, e manifestamente infondato risulta il terzo motivo di ricorso dell'avv. M.

La corte territoriale, invero, ha correttamente individuato nella gravità dell'apporto criminoso del reo il criterio al quale ancorare la determinazione dell'entità della pena e, al tempo stesso, con motivazione implicita, ma inequivocabile sul punto, l'ostacolo alla concessione delle invocate circostanze ex art. 62 bis c.p., facendo, pertanto, corretto uso dei criteri fissati dall'art. 133 c.p., conformemente all'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, che giustifica il diniego delle attenuanti generiche anche solo sulla base della gravità della condotta (cfr., ex plurimis, Cassazione penale, sez. IV, 28/05/2013, n. 24172; Cass., sez. III, 23/04/2013, n. 23055, rv. 256172).

7.3. Fondato, invece, deve ritersi l'ultimo motivo di ricorso prospettato dall'avv. Maresca.

Al riguardo si osserva che la Corte Costituzionale con la sentenza n. 222 del 2018 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della L. Fall., art. 216, u.c., nella parte in cui dispone: "la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa", anzichè: "la condanna per uno dei fatti previsti dal presente articolo importa l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni".

In conseguenza dell'intervento del Giudice delle leggi, è sorto, nella giurisprudenza di legittimità un contrasto tra due diverse opzioni interpretative.

Secondo un primo orientamento in tema di bancarotta fraudolenta, le pene accessorie previste dalla L. Fall., art. 216, u.c., nella formulazione derivata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, devono essere commisurate alla durata della pena principale, in quanto, essendo determinate solo nel massimo, sono soggette alla disciplina di cui all'art. 37 c.p., con la conseguenza che, in caso di sentenza di condanna pronunciata prima della menzionata declaratoria di illegittimità costituzionale, va annullato il capo relativo alla durata delle pene accessorie, da rideterminare in quella corrispondente alla durata della pena principale inflitta all'imputato (cfr., tra le altre, Cass., sez. V, n. 1968, del 7.12.2018, rv. 274228).

Secondo un diverso orientamento, invece, in tema di bancarotta fraudolenta, la durata delle pene accessorie previste dalla L. Fall., art. 216, u.c., nella formulazione derivata dalla sentenza della Corte costituzionale n. 222 del 2018, non necessariamente deve essere parametrata alla stessa durata della pena principale ai sensi dell'art. 37 c.p., in quanto i principi di proporzionalità e di individualizzazione del trattamento sanzionatorio, posti alla base della decisione di illegittimità costituzionale, non consentono di applicare alcun tipo di automatismo sanzionatorio.

In applicazione del principio la Corte, riconoscendo d'ufficio l'illegalità delle pene accessorie irrogate prima della declaratoria di illegittimità costituzionale della L. Fall., art. 216, u.c., ha annullato con rinvio la sentenza impugnata limitatamente al punto delle pene accessorie, al fine di consentire al giudice di merito di stabilire la durata delle stesse, trattandosi di giudizio, che implicando valutazioni discrezionali, è sottratto al giudice di legittimità (cfr. Cass., sez. V, 29.1.2019, 5882, rv. 274413).

Tale opzione risulta confermata da un recente arresto delle Sezioni Unite, in cui, proprio con riferimento all'irrogazione delle pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta, è stato ribadito che la durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133, c.p., e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 c.p. (cfr. Cass., Sez. U., n. 28910, del 28.2.2019, rv. 276286).

Sul punto, pertanto, non potendo essere conservata una pena determinata in relazione ad una cornice edittale prevista da una norma dichiarata incostituzionale e, quindi, inesistente sin dalla sua origine, in quanto non conforme al principio costituzionale di proporzione tra offesa e pena (cfr. Cass., Sez. U. n. 33040 del 26.2.2015, rv. 264207), la sentenza impugnata va annullata con rinvio ad altra sezione della corte di appello di Firenze, esclusivamente per la rideterminazione della durata delle pene accessorie previste per il reato di bancarotta fraudolenta documentale, dalla disposizione di cui alla L. Fall., art. 216, u.c..

Resta fermo, invece, il passaggio in giudicato della suddetta sentenza nei confronti del R., per quel che riguarda l'affermazione della sua penale responsabilità e la dosimetria della pena principale irrogata (pari ad anni tre e mesi otto di reclusione), nonchè la durata della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.

Tale durata, infatti, essendo predeterminata dall'art. 29 c.p., comma 1, secondo periodo, in misura fissa e non sproporzionata rispetto alla gravità dei reati puniti con la reclusione non inferiore a tre anni, non presenta profili di illegittimità costituzionale e non richiede l'intervento discrezionale del giudice nella relativa determinazione.

Del pari non subisce modificazioni la durata della pena accessoria della interdizione dalla professione di ragioniere commercialista inflitta al R., su cui si è formato il giudicato, che i giudici di merito, nell'esercizio del loro potere discrezionale, hanno fissato in misura corrispondente alla durata della pena detentiva principale irrogata.

Il parziale accoglimento dei rilievi difensivi comporta che il R. non sia condannato al pagamento delle spese processuali.

8. Parzialmente fondato appare il ricorso presentato nell'interesse di V.S., con particolare riferimento alle doglianze articolate nel terzo motivo di impugnazione e reiterate anche per la posizione della coimputata L..

8.1. Infondato deve valutarsi il primo motivo di ricorso.

In linea di principio la mancata successiva acquisizione in dibattimento di una prova già ammessa, perchè ritenuta utile e rilevante, non è di per sè illegittima, in quanto, da un lato, ciascuna parte può, con il consenso dell'altra, rinunciare all'assunzione delle prove ammesse a sua richiesta, dall'altro, il giudice, sentite le parti, può revocare con ordinanza l'ammissione di prove che risultano superflue (art. 495 c.p.p., commi 4 e 4 bis).

La giurisprudenza di legittimità, affrontando il tema della revoca di una prova testimoniale ammessa su richiesta di parte, in una serie di significativi arresti, ha evidenziato come sia viziata da nullità relativa l'ordinanza con la quale il giudice abbia revocato il provvedimento di ammissione dei testi della difesa in difetto di motivazione sul necessario requisito della loro superfluità, integrando una violazione del diritto della parte di "difendersi provando", stabilito dall'art. 495 c.p.p., comma 2, corrispondente al principio della "parità delle armi" sancito dall'art. 6, comma 3, lett. d), della CEDU, al quale si richiama l'art. 111 Cost., comma 2, in tema di contraddittorio tra le parti (cfr., ex plurimis, Cass., sez. V, n. 2511 del 24/11/2016, rv. 269050).

Allo stesso tempo, sempre in sede di interpretazione del contenuto precettivo dell'art. 495 c.p.p., comma 4, secondo periodo, si è opportunamente chiarito come tale disposto preveda solo la revoca delle prove superflue. Il diritto di difendersi provando, pertanto, viene leso se la revoca non è giustificata, dovendosi ritenere, per converso, consentita, perchè giustificata, con particolare riferimento alla prova testimoniale, pur decisiva, la revoca di una testimonianza precedentemente ammessa, determinata da malattia o da irreperibilità del teste (cfr. Cass., sez. VI, n. 4036 del 12.1.1994, rv. 197969).

Resta naturalmente salva la possibilità per ciascuna delle parti processuali di rinunciare alla prova testimoniale di cui ha chiesto ed ottenuto l'ammissione, anche attraverso un comportamento processuale concludente, come, ad esempio, la mancata citazione del teste per l'udienza.

Un comportamento, vale a dire, che può essere legittimamente valutato dal giudice come significativo della volontà della parte richiedente di rinunciare alla prova già ammessa, alla luce di una interpretazione costituzionalmente orientata, tale da imporre di non rinviare l'assunzione della prova ad una udienza successiva, in quanto ciò comporterebbe una ingiustificata dilazione dei tempi della decisione, incompatibile con il principio della ragionevole durata del processo (cfr., ex plurimis, Cass., sez. III, n. 20851 dell'11.3.2015, rv. 263774).

Nell'esercizio del potere discrezionale di revoca di una prova testimoniale in precedenza ammessa, pertanto, il giudice dovrà trovare un punto di equilibrio tra due valori costituzionali di fondamentale rilievo: il diritto della parte di difendersi attraverso l'assunzione della prova di cui ha chiesto l'ammissione e il principio della ragionevole durata del processo. Ed una volta che tale potere sia stato esercitato, anche valutando le condotte dei soggetti processuali, attraverso un percorso motivazionale logicamente coerente e non in contrasto con le regole del giusto processo, esso non sarà censurabile in sede di legittimità.

Orbene il provvedimento con cui il giudice di primo grado ha revocato l'ammissione del teste C., non è il frutto di una scelta manifestamente illogica, contraddittoria o presa in violazione di norme processuali.

Alla revoca, infatti, il tribunale è giunto, come correttamente ritenuto dal giudice di appello, sulla base di una ponderata valutazione della condotta tenuta dal C..

Sul punto la corte territoriale ha evidenziato come il teste, già per giustificare la propria assenza all'udienza del 16.12.2015, avesse manifestato la volontà di avvalersi della facoltà di non rispondere, rendendosi, poi, di fatto irreperibile per un lungo periodo alle ricerche effettuate dalle forze dell'ordine, che, dovendo eseguire il provvedimento di accompagnamento coattivo emesso nei suoi confronti dal tribunale dopo l'ulteriore assenza all'udienza del 9.3.2016, lo avevano reiteratamente ed inutilmente cercato, sia presso il domicilio indicato dal difensore, sia nel luogo dove il C. svolgeva l'attività lavorativa ed, ancora, avevano tentato di contattarlo telefonicamente sulle utenze, fissa e mobile, da lui usate, senza ricevere alcuna risposta.

Proprio nel luogo in cui svolgeva la sua attività lavorativa, inoltre, il personale della polizia giudiziaria apprendeva che il C. aveva lasciato gli uffici da molto tempo, "fuggendone improvvisamente senza lasciare alcun recapito", non tornando neppure per ritirare la posta a lui indirizzata, che comprendeva anche diversi atti giudiziari.

Ciò posto, rilevava con logico argomentare, la corte territoriale, "la tardiva dichiarazione del C. di essere disponibile a rendere testimonianza in una successiva udienza appare del tutto priva di attendibilità e meramente strumentale ad evitare ulteriori provvedimenti coattivi nei propri confronti, atteso che egli ha indicato la medesima residenza e dichiarato di usare le medesime utenze telefoniche presso le quali era stato ripetutamente ricercato dalla P.G., ma senza esito".

Il giudice di appello concludeva, pertanto, per la inutilità di una nuova citazione del teste con le modalità risultate infruttuose, che, peraltro, hanno dimostrato, da un lato, la completezza delle ricerche, non essendo emerso un cambiamento del luogo di domicilio o delle utenze telefoniche del C., dall'altro la volontà di quest'ultimo di sottrarsi alla citazione in qualità di teste, non avendo egli mai risposto (come pure avrebbe potuto, anche dall'estero) alle chiamate telefoniche dei carabinieri incaricati delle sue ricerche, laddove egli aveva, invece, risposto immediatamente alla chiamata che il difensore del V. aveva effettuato nel corso dell'udienza del 20.4.2016, utilizzando un telefono cellulare (cfr. pp. 14-15 della sentenza oggetto di ricorso).

Risulta, pertanto, evidente che, come già detto, la revoca dell'ammissione del teste rappresenta il frutto di un ragionamento dotato di intrinseca coerenza logica, alla luce del quale la corte territoriale, valutando complessivamente la condotta del C., ha desunto come, al di là delle apparenze, l'effettiva volontà di quest'ultimo fosse quella di sottrarsi all'esame dibattimentale, sicchè la reiterazione della sua citazione per la successiva udienza sarebbe stata del tutto superflua, esponendo la celebrazione del dibattimento ad una serie di rinvii potenzialmente infinita, incompatibile con il principio della ragionevole durata del processo.

La revoca dell'ammissione del teste C., appare, in conclusione, giustificata, dovendosi ritenere superflua non solo la prova che, rispetto al materiale probatorio già assunto nel contraddittorio tra le parti, non appare decisiva ai fini della decisione, ma anche quella la cui acquisizione non appare più utile, perchè incompatibile con il principio della ragionevole durata del processo, come nel caso, per l'appunto, della escussione di un teste, in precedenza ammesso su richiesta di una delle parti processuali, che, tuttavia, dimostri di volersi sottrarre all'esame dibattimentale, non comparendo reiteratamente in udienza ed impedendo l'esecuzione nei suoi confronti del provvedimento di accompagnamento coattivo emesso dal giudice procedente.

Nessuna violazione del diritto di difendersi provando emerge in questo caso, chè, anzi, pretendere che si proceda all'assunzione della prova testimoniale, pur in presenza di una condotta chiaramente sintomatica della volontà del teste di sottrarsi all'esame dibattimentale, potrebbe configurare un'ipotesi di abuso del processo, in quanto oggettivamente finalizzata a procrastinare nel tempo, senza giustificata ragione, la definizione del procedimento (cfr. Cass., sez. V n. 23884 del 1.3.2019, rv. 277244).

Generiche e del tutto fattuali, infine, appaiono le censure proposte nei confronti dell'ordinanza adottata dal tribunale in data 24.11.2015.

8.2. La questione di diritto posta con il secondo motivo di ricorso va risolta alla stregua dei principi affermati da consolidati orientamenti giurisprudenziali della Corte di Cassazione, condivisi dal Collegio.

In diversi arresti, infatti, si è affermato, da un lato, che, in tema di correlazione tra accusa e sentenza, la diversa qualificazione del fatto effettuata dal giudice di appello non determina alcuna compressione o limitazione del diritto al contraddittorio, anche alla luce della regola di sistema espressa dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo (Corte EDU 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia), consentendo all'imputato di contestarla nel merito con il ricorso per cassazione (cfr., ex plurimis, Cass., sez. V, n. 19380 del 12.2.2018, rv. 273204).

Dall'altro, che l'attribuzione in sentenza al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione non determina la violazione dell'art. 521 c.p.p., qualora la nuova definizione del reato appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, o, comunque, l'imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire in ordine alla stessa (cfr., ex plurimis, Cass., sez. VI, n. 11956 del 15.2.2017, rv. 269655).

Pertanto è infondato e del tutto generico il rilievo difensivo secondo cui la diversa qualificazione giuridica del fatto operato dalla corte territoriale ha inciso negativamente sul diritto di difesa.

Stante, infatti, la possibilità per la corte di appello di attribuire al fatto una qualificazione giuridica diversa e considerando la prevalenza del dispositivo sulla motivazione, la qualificazione giuridica attribuita dalla corte territoriale ad un fatto immutato nei suoi elementi costitutivi (consistente nell'avere il V. contratto un debito di 720.000,00 Euro con la "Mondadori Pubblicità S.P.A." per un campagna pubblicitaria di cui si è avvantaggiato, a scapito della "Stilo"), conforme all'originaria imputazione di bancarotta fraudolenta patrimoniale per dissipazione ed a quanto ritenuto dallo stesso tribunale nel dispositivo, non rappresenta un epilogo decisorio del giudizio di appello assolutamente anomalo ed imprevisto per la difesa, che quindi non può dolersi di non essere stata messa in condizione di non articolare le sue difese anche con riferimento all'originaria ipotesi di bancarotta fraudolenta per dissipazione.

8.3. Parzialmente fondati devono ritenersi i rilievi di cui al terzo motivo di ricorso, per le seguenti ragioni, che valgono anche per la posizione della L., chiamata a rispondere, con il figlio, anche del reato di cui al capo C).

Al riguardo si osserva che i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale (L. Fall., art. 216 e art. 223, comma 1) e quello di bancarotta impropria di cui alla L. Fall., art. 223, comma 2, n. 2, hanno ambiti diversi: il primo postula il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari in modo da non consentire la ricostruzione delle vicende societarie, atti tali da creare pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia effettivamente intervenuto; il secondo concerne, invece, condotte dolose che non costituiscono distrazione o dissipazione di attività - nè si risolvono in un pregiudizio per le verifiche concernenti il patrimonio sociale da operarsi tramite le scritture contabili - ma che devono porsi in nesso eziologico con il fallimento. Ne consegue che, in relazione ai suddetti reati, mentre è da escludere il concorso formale è, invece, possibile il concorso materiale qualora, oltre ad azioni ricomprese nello specifico schema della bancarotta ex L. Fall., art. 216, si siano verificati differenti ed autonomi comportamenti dolosi i quali concretandosi in abuso o infedeltà nell'esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per l'andamento economico finanziario della società - siano stati causa del fallimento (cfr. Cass., sez. V, n. 533 del 14.10.2016, rv. 269019; Cass., sez. V, n. 24051 del 15.5.2014, rv. 260142).

Pertanto, con riferimento al capo C) dell'imputazione non appare revocabile in dubbio che il V. e la L. non possano essere condannati per il reato di bancarotta impropria consumato attraverso la medesima condotta che integra il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per dissipazione di cui al capo B).

Di questo assunto sembra essere consapevole anche la corte territoriale, laddove evidenzia che alle attività di dissipazione e di distrazione contestate nel capo B), si sono aggiunte ulteriori attività "che, pur formalmente lecite (quali la vendita di capi di abbigliamento grillati e l'apertura di nuovi punti di vendita monomarca), acquistano rilevanza penale perchè dirette a depauperare definitivamente il patrimonio della fallita, cagionandone il fallimento, allo scopo di procurare profitto economico agli autori del reato" (cfr. pag. 21 della sentenza impugnata). Tuttavia la motivazione del giudice di appello sul punto appare generica e tendenzialmente apodittica, nella esposizione delle ragioni di fatto e di diritto che avrebbero dovuto consentire un esatto inquadramento, in termini di qualificazione giuridica, dei fatti contestati, che, come si è detto, devono consistere, per integrare un'ipotesi di reato concorrente con quella di bancarotta fraudolenta patrimoniale di cui al capo B), in differenti ed autonomi comportamenti dolosi, in rapporto di causa ad effetto con il fallimento della "(OMISSIS)".

Manca, in altri termini, un'indagine rigorosa sul nesso causale, vale a dire sulla rilevanza delle condotte ascritte al V. ed alla madre nella catena di eventi, che hanno condotto al fallimento della "(OMISSIS)", da intendere, beninteso, nella prospettiva del reato di bancarotta impropria di cui alla L. Fall., art. 223, comma 2, n. 2), nel suo stato sostanziale di obiettivo stato di insolvenza, cioè di dissesto, che determina, anche se non necessariamente con immediatezza, il conseguente fallimento.

Al riguardo non deve mai perdersi di vista il dato tipizzante della fattispecie incriminatrice di cui si discute, che, giova ricordare, può essere ascritta anche ad un amministratore di fatto (cfr. Cass., sez. V, n. 14103 del 19.10.1999, rv. 215878).

La L. Fall., art. 223, comma 2, n. 2), infatti, sanziona, in via residuale, condotte di frode ai creditori purchè causalmente correlate al fallimento dell'organismo societario e connotate da intrinseca illiceità rapportata ai criteri di corretta gestione e più specificamente comportamenti intrinsecamente estranei all'interesse sociale, in cui l'organismo societario risulti strumentalmente finalizzato per scopi non consentiti dall'ordinamento (cfr. Cass., sez. V, n. 11019 del 22.2.2007, rv. 236936).

Allo stesso modo difetta, nella motivazione della sentenza impugnata, una penetrante valutazione, con riferimento ad entrambi gli imputati ( V. e L.), dell'elemento soggettivo del reato, che, come è noto, distingue le due ipotesi delittuose previste dalla L. Fall., art. 223, comma 2, n. 2): la causazione dolosa del fallimento, che richiede il dolo specifico, avente ad oggetto non solo l'evento naturalistico del dissesto, ma anche quello giuridico del danno per i creditori, ed il fallimento quale conseguenza di operazioni dolose, per il quale è necessario solo il dolo generico, per integrare il quale non si richiede la volontà diretta di provocare lo stato di insolvenza della società, essendo sufficiente la coscienza e volontà dell'operazione, da cui deriva la decozione dell'impresa (cfr. Cass., sez. V, n. 11945 del 22.9.1999, rv. 214856; Cass., sez. V, n. 2905 del 16.12.1998, rv. 212613; Cass., sez. V, n. 2413 del 17.12.1997, rv. 209934).

Senza tacere che dal novero delle possibili ipotesi di qualificazione giuridica delle condotte individuate dai giudici di merito non può escludersi, una volta usciti dal recinto dei fatti di bancarotta fraudolenta patrimoniale di cui al capo B), di prendere in considerazione anche la prospettiva post fallimentare, propria del reato di cui alla L. Fall., art. 216, comma 2.

Quanto alla dedotta inesistenza della condotta contestata al V. nel capo A) d'imputazione, non vi è dubbio che si tratta di un motivo di appello al quale la corte territoriale non ha fornito risposta.

Si tratta, tuttavia, di un'eccezione manifestamente infondata, che, dunque, non consente di rilevare alcun vizio processualmente rilevante, perchè, in realtà, sia in primo grado che in secondo grado, nonchè in sede di ricorso per cassazione, non si è verificata alcuna compressione del diritto di difesa.

Ed invero, come affermato da un costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, non sussiste alcuna incertezza sull'imputazione, quando il fatto sia contestato nei suoi elementi strutturali e sostanziali in modo da consentire un completo contraddittorio ed il pieno esercizio del diritto di difesa, non essendo necessaria una indicazione assolutamente dettagliata dell'imputazione stessa (cfr. Cass., sez. III n. 35964 del 4.11.2014, rv. 264877).

Non sussiste, inoltre, alcuna violazione del principio di necessaria correlazione tra accusa e sentenza quando vi è corrispondenza tra l'individuazione degli elementi tipici della fattispecie contestata e l'accertamento contenuto nella sentenza di condanna, a nulla rilevando eventuali difformità quantitative e qualitative degli elementi di definizione della condotta, dell'evento e del nesso causale in considerazione della relatività delle tecniche descrittive utilizzate nella redazione dell'imputazione ovvero quando il capo d'imputazione contenga l'indicazione degli elementi costitutivi del reato o consenta di ricavarli in via induttiva (cfr. Cass., sez. VI, n. 54457 del 17.11.2016, rv. 268957; Cass., sez. H n. 12328, rv. 276955).

Orbene, come dimostrato dagli articolati motivi prospettati dal ricorrente, il V. si è puntualmente difeso in ordine alla contestazione di bancarotta fraudolenta documentale in concorso, di cui al capo A), fattispecie sufficientemente individuata nei suoi elementi costitutivi, attraverso una descrizione incentrata sulla qualità di amministratore di fatto della società fallita del ricorrente, sulla sottrazione, occultamento e distruzione delle scritture contabili (elemento oggettivo del reato); sulle finalità perseguite dell'ingiusto profitto e del pregiudizio da arrecare ai creditori sociali (elemento soggettivo del reato) e sul contributo causale fornito da R. e N., concorrenti nel reato proprio del V..

Passando ora ad esaminare le censure sintetizzate nelle pagine che precedono, a partire dal punto n. 5), inammissibile appare il motivo di ricorso sub a), perchè con esso il ricorrente propone una mera, parziale e del tutto generica rivalutazione del compendio probatorio operata dal giudice di secondo grado, non consentita in questa sede, stante la preclusione, per il giudice di legittimità, di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, e considerato che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (cfr. ex plurimis, Cass., sez. VI, 22/01/2014, n. 10289), nel caso in esame fondata su di un approfondito e coerente percorso motivazionale (cfr. pp.16-18 della sentenza della corte di appello), con cui il ricorrente, in ultima analisi, non si confronta.

Con riferimento alle censure articolate sub b), va preliminarmente osservato che la fattispecie di bancarotta fraudolenta per dissipazione si distingue da quella di bancarotta semplice per consumazione del patrimonio in operazioni aleatorie o imprudenti, sotto il profilo oggettivo, per l'incoerenza, nella prospettiva delle esigenze dell'impresa, delle operazioni poste in essere e, sotto il profilo soggettivo, per la consapevolezza dell'autore della condotta di diminuire il patrimonio della stessa per scopi del tutto estranei alla medesima (cfr. Cass., sez. V, n. 47040 del 19.10.2011, rv. 251218).

Ciò posto, va rilevato che la corte territoriale ha valorizzato la deposizione del Ri.Ro., amministratore di diritto della "(OMISSIS)" dal 27.11.2007 all'8.10.2008.

In particolare il giudice di appello ha evidenziato come il Ri. abbia tollerato "che l'amministrazione venisse di fatto mantenuta nelle mani di V.S." (il quale, giova ricordare, ha ammesso in dibattimento di essere stato amministratore di fatto della "(OMISSIS)": cfr. p. 4 della sentenza oggetto di ricorso) "e della madre ed ha altresì ammesso in dibattimento di avere anche saputo della campagna pubblicitaria Mondadori avviata dai medesimi, proprio in relazione alla quale egli aveva confidato nella possibile redditività dell'assunzione della carica sociale" (cfr. p. 18 della sentenza della corte di appello).

Sulla base del contenuto della deposizione del Ri., che non ha formato oggetto di specifica doglianza da parte della difesa, con motivazione affatto contraddittoria, nè manifestamente illogica, la corte territoriale ha sottolineato come l'operazione di pubblicizzazione dei prodotti, recanti il marchio "Baghera" da parte della Mondadori sia stata effettuata, mentre era amministratore di diritto il Ri. (27.11.2007-8.10.2008), dal V. in qualità di amministratore di fatto di una società, la "(OMISSIS)", che nel maggio del 2008 era ancora operativa, cessando di esserlo soltanto nell'estate del 2008, perchè gravata da debiti e priva di affidamenti bancari.

In tale periodo il V. continuava a spendere verso i terzi la sua qualità di titolare della (OMISSIS), come appare plasticamente scolpito nella missiva inviata per posta elettronica il 28.8.2008 dal V. a L.T.L., collaboratrice della "Mondadori Pubblicità s.p.a.", in cui l'imputato dichiara testualmente di essere il titolare della "(OMISSIS)", nonchè come si evince dal contenuto della e-mail inviata da B.P. per "Mondadori Pubblicità s.p.a." a tal P.C., nella quale, rileva il giudice di secondo grado, "si afferma espressamente che in Mondadori è entrato un nuovo cliente ((OMISSIS), marchio Baghera) introdotto da Ga. e che la madre del titolare è una P.R: di vecchia data" (cfr. p. 17 della sentenza impugnata).

Correttamente, dunque, la corte territoriale ha escluso la configurabilità del meno grave delitto di bancarotta semplice, evidenziando come l'intera operazione posta in essere dal V. fosse preordinata a danneggiare la società fallita.

Il disegno del V. era, infatti, quello di continuare a pubblicizzare i prodotti di abbigliamento, recanti il marchio "Baghera", di sua proprietà sino al 15.1.2009 ed a partire da tale data di proprietà della madre L.C., facendo sopportare alla società fallita i costi della pubblicità, quindi in assenza di un effettivo vantaggio per la "(OMISSIS)", sulla quale ricadevano gli effetti della relativa obbligazione pecuniaria, agendo il V., nel rapporto con la "Mondadori Pubblicità s.p.a.", attraverso la spendita del nome della "(OMISSIS)" con l'implicito consenso dell'amministratore di diritto Ri..

Pertanto, come correttamente rileva la corte territoriale, condividendo sul punto la decisione del giudice di primo grado, "la fallita aveva subito un grave ed immediato sacrificio economico, mentre la prospettiva di incremento dei guadagni, se era all'inizio del tutto incerta (atteso che già la (OMISSIS) era del tutto inattiva e il V. aveva deciso di cederla), successivamente era del tutto inesistente, perchè la (OMISSIS) era già stata ceduta al G. e dunque la campagna pubblicitaria Mondadori costituiva solo una opportunità di maggiori guadagni per l'imputato quale titolare del marchio" (cfr. p. 6 della sentenza oggetto di ricorso).

Ciò esclude, sotto il profilo soggettivo, la possibilità di configurare la bancarotta semplice e, sotto il profilo oggettivo dimostra l'incoerenza oggettiva per la "(OMISSIS)" dell'intera dell'operazione.

Con riferimento ai rilievi sintetizzati sub c), va osservato che si tratta di censure di natura squisitamente fattuale.

Il ricorrente, invero, non lamenta che il giudice di secondo grado, attraverso l'esercizio dei poteri, che gli competono, di integrazione della motivazione del giudice di primo grado, assente sul punto, abbia affermato la penale responsabilità del V. per un fatto storico diverso da quello di cui al capo B) 1, posto che la società "Vignolplast" non operava, a differenza della "Mondadori Pubblicità s.p.a.", nel settore pubblicitario.

Ma svolge osservazioni di merito sull'effettivo pagamento del debito della "(OMISSIS)" nei confronti della menzionata società, con affermazione, tuttavia, meramente tautologica, priva di oggettivi riscontri, che consentano di verificarne la rispondenza al vero.

Anche le censure sviluppate sub d) incorrono nei medesimi rilievi in punto di inammissibilità, in quanto generiche e meramente fattuali.

Con tali motivi il V. ripropone acriticamente le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame (cfr. pp.19-21 della sentenza impugnata), ragione per la quale essi devono considerarsi non specifici, ed anzi, meramente apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso, con la cui motivazione il ricorrente, in definitiva, non si confronta (cfr. Cass., sez. IV, 18.9.1997 - 13.1.1998, n. 256, rv. 210157; Cass., sez. V, 27.1.2005 - 25.3.2005, n. 11933, rv. 231708; Cass., sez. V, 12.12.1996, n. 3608, rv. 207389).

Quanto alle doglianze articolate in ordine al reato di bancarotta fraudolenta documentale di cui al capo A), appare sufficiente, per delineare le ragioni giustificatrici dell'affermazione di responsabilità del V., rimandare alle pagine della presente motivazione dedicate alla trattazione delle posizioni dei coimputati R. e N..

Si tratta, anche in questo caso, inoltre, di doglianze generiche e fattuali, inficiate anche dalla violazione del principio della cd. autosufficienza del ricorso, posto che non risultano nè allegati, nè trascritti integralmente nel corpo dell'impugnazione gli atti processuali di cui il ricorrente lamenta la mancanza di adeguata valutazione da parte della corte territoriale.

9. Le questioni poste nell'interesse di L.C., condannata per i reati di cui ai capi B) e C), a lei contestati in concorso con il figlio V.S., vanno affrontate e risolte negli stessi termini utilizzati affrontando la posizione del figlio, stante la quasi totale coincidenza dei motivi di ricorso, articolati per entrambi dallo stesso difensore, l'avv. Ducci Michele.

Appare, dunque, sufficiente, per evitare inutili ripetizioni, rimandare alle osservazioni già svolte a proposito del V., anche per quel che riguarda il deficit motivazionale che caratterizza la sentenza della corte territoriale, in ordine all'affermazione di responsabilità di entrambi gli imputati per il delitto di bancarotta impropria di cui al capo C).

Specificamente legato alla posizione della ricorrente, invece, è il rilievo difensivo sulla qualifica di amministratore di fatto della L., posto che tale qualifica per il V. non è stata mai messa in discussione.

Si tratta di un rilievo infondato.

Al riguardo si osserva che, come affermato da tempo nella giurisprudenza di legittimità, in tema di reati fallimentari, il soggetto che, ai sensi della disciplina dettata dall'art. 2639 c.c., assume la qualifica l'amministratore "di fatto" della società fallita è da ritenere gravato dell'intera gamma dei doveri cui è soggetto l'amministratore "di diritto", per cui, ove concorrano le altre condizioni di ordine oggettivo e soggettivo, egli assume la penale responsabilità per tutti i comportamenti penalmente rilevanti a lui addebitabili, tra i quali vanno ricomprese le condotte dell'amministratore "di diritto", anche nel caso di colpevole e consapevole inerzia a fronte di tali condotte, in applicazione della regola di cui all'art. 40 c.p., comma 2, (cfr. Cass., sez. V, 20/05/2011, n. 39593, rv 250844; Cass., sez. V, 2/3/2011, n. 15065, rv. 250094). Consolidato appare all'interno della giurisprudenza di legittimità anche l'orientamento secondo cui la nozione di amministratore di fatto, introdotta dall'art. 2639 c.c., postula l'esercizio in modo continuativo e significativo dei poteri tipici inerenti alla qualifica od alla funzione, anche se "significatività" e "continuità" non comportano necessariamente l'esercizio di "tutti" i poteri propri dell'organo di gestione, ma richiedono l'esercizio di un'apprezzabile attività gestoria, svolta in modo non episodico od occasionale.

La posizione dell'amministratore di fatto, destinatario delle norme incriminatrici della bancarotta fraudolenta, dunque, va determinata con riferimento alle disposizioni civilistiche che, regolando l'attribuzione della qualifica di imprenditore e di amministratore di diritto, costituiscono la parte precettiva di norme che sono sanzionate dalla legge penale. La disciplina sostanziale si traduce, in via processuale, nell'accertamento di elementi sintomatici di gestione o cogestione della società, risultanti dall'organico inserimento del soggetto, quale "intraneus" che svolge funzioni gerarchiche e direttive, in qualsiasi momento dell'"iter" di organizzazione, produzione e commercializzazione dei beni e servizi rapporti di lavoro con i dipendenti, rapporti materiali e negoziali con i finanziatori, fornitori e clienti - in qualsiasi branca aziendale, produttiva, amministrativa, contrattuale, disciplinare.

Peraltro l'accertamento degli elementi sintomatici di tale gestione o cogestione societaria costituisce oggetto di apprezzamento di fatto che è insindacabile in sede di legittimità, se sostenuto da motivazione congrua e logica (cfr. Cass., sez. V, 14.4.2003, n. 22413, Sidoli, rv. 224948; Cass., sez. I, 12.5.2006, n. 18464, Ponciroli, rv. 234254).

In conclusione può dunque affermarsi che in tema di bancarotta fraudolenta, i destinatari delle norme di cui alla L. Fall., artt. 216e 223 vanno individuati sulla base delle concrete funzioni esercitate, non già rapportandosi alle mere qualifiche formali ovvero alla rilevanza degli atti posti in essere in adempimento della qualifica ricoperta (cfr. Cass., sez. V, 13.4.2006, n. 19145, Binda e altro, rv. 234428).

Orbene la corte territoriale, con motivazione articolata, esauriente ed immune da vizi, si è mossa nel solco interpretativo tracciato dalla giurisprudenza di legittimità.

I giudici di merito, infatti, hanno individuato una pluralità di indici di assoluto valore sintomatico della qualifica di "amministratore di fatto" rivestita dalla L., in concorso con il figlio V.S., evidenziando: 1) come la L. risulti autrice o destinataria di diverse e-mail, dalle quali emerge il suo ruolo di persona che prende decisioni e spende il nome della società fallita, in relazione ai rapporti con la "Mondadori Pubblicità s.p.a." ed alla vendita della merce della "(OMISSIS)"; 2) che il Ca., direttore commerciale della "Mondadori Pubblicità s.p.a.", ha dichiarato di avere trattato i termini della campagna pubblicitaria di cui al capo B), sin dal primo momento, con entrambi gli imputati, il V. e la L.; 3) che fu la L., insieme al marito, poi defunto, a proporre al Ri.Ro. di assumere il ruolo di amministratore di diritto della "(OMISSIS)", spiegandogli "che il figlio stava organizzando un'impresa nella quale non poteva comparire per problemi avuti con una precedente società"; 4) come il Pi., amministratore di diritto della "(OMISSIS)" prima del Ri., abbia dichiarato di essere entrato in aperto conflitto con L. e con il figlio nel momento in cui tentò di svolgere un ruolo attivo nella gestione della società; 5) che fu sempre la L. a rendersi disponibile a divenire intestataria del marchio "(OMISSIS)", cedutole dal figlio, per "neutralizzare" gli effetti del contratto di associazione in partecipazione concluso tra quest'ultimo ed il C. (cfr. pp. 27-28 della sentenza impugnata).

Appare, dunque, evidente, come affermato dalla corte territoriale, che, contrariamente a quanto preteso dalla difesa, la L. ha completamente condiviso le finalità illecite del figlio, svolgendo un palese ruolo di cogestione effettiva della "(OMISSIS)", che ne ha rafforzato, quanto meno i propositi criminosi; ruolo al quale ha adempiuto in violazione anche dei doveri, connaturati alla sua posizione di amministratore di fatto, che le imponevano di esercitare la dovuta vigilanza nei confronti dell'altro amministratore V.S..

Quanto all'elemento soggettivo, consistente anche per l'amministratore "di fatto" nella consapevole volontà dei singoli atti di distrazione e della idoneità dei medesimi a cagionare danno ai creditori, in quanto privi di sinallagma rispondente al fine istituzionale dell'impresa, in considerazione, ad esempio della natura fittizia o della entità dell'operazione che incide negativamente sul patrimonio della società (cfr. ex plurimis, Cass., sez. V., 24.3.2010, n. 16579, rv. 246879) esso si evince dalla diretta partecipazione dell'imputata all'attività di gestione dell'impresa in cui si sono consumate le vicende a lei ed al figlio contestate.

10. In conclusione la sentenza impugnata va, innanzitutto, annullata, limitatamente al reato di cui al capo C), nei confronti del V. e della L., con rinvio ad altra sezione della corte di appello di Firenze, per nuovo esame, che il giudice del rinvio dovrà condurre, in ossequio ai principi di diritto in questa sede affermati.

Sarà compito del suddetto giudice, in particolare, nel contraddittorio tra le parti, procedere ad una puntuale ricostruzione in fatto delle condotte addebitate agli imputati nel capo C), diverse da quelle già oggetto di addebito nel capo B), per saggiarne l'eventuale idoneità ad integrare, sotto il profilo oggettivo e soggettivo, una delle ipotesi di reato in precedenza indicate.

In conseguenza del disposto annullamento, devono ritenersi assorbite tutte le ulteriori questioni attinenti alla determinazione del trattamento sanzionatorio ed al risarcimento dei danni derivanti da reato, pur dovendosi riconoscere ovviamente, per le ragioni già esposte affrontando la posizione del R. e del N., la fondatezza dei rilievi in ordine alla durata delle sanzioni accessorie fallimentari.

Inammissibile, perchè implicante un giudizio di merito non consentito in questa sede, appare, poi, la censura sollevata dall'avv. Ducci in ordine al rigetto della richiesta di compensazione delle spese di costituzione, ex art. 541 c.p.p., comma 1, mentre alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile in questo grado di giudizio si provvederà, non essendosi verificata una totale soccombenza dei ricorrenti, all'atto della completa definizione del procedimento.

Il parziale accoglimento dei rilievi difensivi comporta che il V. e la L. non siano condannati al pagamento delle spese processuali.

L'impugnata sentenza va, altresì, annullata, limitatamente alla durata delle pene accessorie fallimentari nei confronti di R.G. e di N.M., per le ragioni già esposte, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di Appello di Firenze.

Nel resto tutti i ricorsi vanno rigettati, con la conseguenza che deve ritenersi passata in giudicato la sentenza impugnata nei confronti del V. e della L., con riferimento all'affermazione di responsabilità intervenuta per i reati loro rispettivamente addebitati ai capi A) e B) dell'imputazione, nonchè del R. e del N., in relazione all'affermazione di responsabilità intervenuta per il reato loro ascritto al capo A) dell'imputazione ed alla entità del trattamento sanzionatorio loro irrogato, ad eccezione della durata delle pene accessorie fallimentari.

P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata, limitatamente al reato contestato al capo C) nei confronti di V.S. e di L.C., con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di Appello di Firenze. Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla durata delle pene accessorie fallimentari nei confronti di R.G. e di N.M., con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di Appello di Firenze.

Rigetta nel resto i ricorsi di tutti i ricorrenti.

Così deciso in Roma, il 14 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2020