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Spinta alla cameriera in pizzeria, cliente ustionato: chi paga? (Cass. 9997/20)

28 maggio 2020, Cassazione civile

Il fatto del terzo può integrare gli estremi del caso fortuito che esclude la colpa del danneggiante se non può  essere previsto nè evitato, e se il responsabile aveva l’obbligo (legale o contrattuale) di prevederlo od evitarlo.

Chi accede in un ristorante, stipulando per facta concludentia un contratto rientrante nel genus del contratto d’opera, ha diritto di pretendere dal gestore che sia preservata la sua incolumità fisica, quale effetto naturale del contratto ex art. 1374 c.c..

Corte di Cassazione

sezione VI Civile – 3

ordinanza 28 novembre 2019 – 28 maggio 2020, n. 9997
Presidente Frasca – Relatore Rossetti

Fatti di causa

1. Nel 2007 M.F. e N.M. , dichiarando di agire sia in proprio che quali genitori esercenti la potestà genitoriale sulla figlia minore M.S. , convennero dinanzi al Tribunale di Roma, sezione di Ostia, L.A. , esponendo che la propria figlia minore M.S. , mentre si trovava all’interno del ristorante gestito dal convenuto, patì lesioni personali allorché uno dei camerieri, nel mentre serviva una pizza ancora fumante, la fece cadere sull’arto superiore della propria figlia, che ne restò ustionata.
Chiesero perciò la condanna del convenuto al risarcimento dei danni rispettivamente patiti.

2. Con sentenza 20 novembre 2008 n. 285 il Tribunale di Roma rigettò la domanda.
La sentenza venne appellata dai soccombenti; la Corte d’appello di Roma, con sentenza 5 luglio 2017 n. 4460 accolse il gravame.

3. Per quanto in questa sede ancora rileva, la Corte d’appello reputò che il gestore del ristorante dovesse ritenersi responsabile dell’accaduto ai sensi dell’art. 1218 c.c..
La Corte d’appello ritenne dimostrato che “effettivamente il rovesciamento della pizza sul braccio di M.S. era stato cagionato da un caso fortuito e precisamente da un urto improvviso ed imprevedibile", inferto da un avventore alla cameriera intenta al servizio ai tavoli, e che la persona la quale aveva malaccortamente urtato la cameriera era uno dei commensali della danneggiata.
Soggiunse tuttavia la Corte d’appello che, dal momento che la vittima ed i suoi commensali costituivano una "comitiva di giovani turbolenta", fosse per il gestore del ristorante "del tutto prevedibile la possibilità che la cameriera fosse urtata da uno dei componenti del gruppo, di talché avrebbero dovuto essere adottate delle adeguate cautele ed attenzioni".

4. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da L.A. con ricorso fondato su quattro motivi; hanno resistito con controricorso M.F. , M.S. e N.M. .

Ragioni della decisione

1. Le parti resistenti hanno eccepito in via preliminare l’inammissibilità del ricorso per tardività.
Tale eccezione è infondata.
La sentenza impugnata è stata pubblicata il 5 luglio 2017. Essa non è stata notificata per i fini di cui all’art. 325 c.p.c. Poiché il presente giudizio è iniziato nel 2007, ed in ragione del suo oggetto non sfugge alla sospensione feriale dei termini, l’odierno ricorrente aveva a disposizione ai sensi dell’art. 327 c.p.c., per proporre il proprio ricorso per cassazione, un anno e 62 giorni (in virtù del cumulo della sospensione feriale dell’anno 2017 e di quella dell’anno 2018), decorrenti dal 5 luglio 2017.
Il suddetto termine scadeva dunque il 5 settembre 2018, mentre il ricorso per cassazione è stato proposto il 2 febbraio 2018.

2. Col primo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1173, 1176, 1218 e 2043 c.c..

Deduce che la Corte d’appello avrebbe dovuto qualificare la domanda proposta dagli attori come domanda extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2043 c.c., e di conseguenza addossar loro l’onere della prova della colpa e del nesso causale.

Sostiene, a tal riguardo, il ricorrente che il contratto di ristorazione ha ad oggetto unicamente la fornitura, da parte del ristoratore, delle pietanze e delle bevande; ne trae la conclusione che l’infortunio occorso ad un cliente durante il periodo in cui si trattiene nel ristorante, originato dalla condotta di un altro avventore, non rientrerebbe nel "programma contrattuale" cui si obbliga il ristoratore.

2.1. Il motivo è infondato.

Chi accede in un ristorante, stipulando per facta concludentia un contratto rientrante nel genus del contratto d’opera, ha diritto di pretendere dal gestore che sia preservata la sua incolumità fisica.
Il contratto di ristorazione, infatti, nella sua struttura socialmente tipica comporta l’obbligo del ristoratore di dare ricetto ed ospitalità ad all’avventore. In mancanza di questo elemento, non di contratto di ristorazione si dovrebbe parlare, ma di compravendita di cibi preparati o da preparare.
Nel contratto di ristorazione pertanto, come in quello d’albergo o di trasporto, il creditore della prestazione affida la propria persona alla controparte: e tanto basta per fare sorgere a carico di quest’ultima l’obbligo di garantire l’incolumità dell’avventore, quale effetto naturale del contratto ex art. 1374 c.c..
Nè può condividersi, a tal riguardo, quanto dedotto dal ricorrente a pagina 4, per ultimo capoverso, del proprio ricorso, e cioè che gli "obblighi di protezione" possono essere invocati soltanto quando "l’esposizione al pericolo della persona del contraente rappresenti un corollario specifico di quel tipo contrattuale".

Premesso che non è del tutto chiaro cosa debba intendersi per "corollario specifico" d’un contratto, va qui ricordato che gli effetti del contratto discendono:
a) dalla volontà delle parti;
b) dalla legge;
c) dall’equità (art. 1374 c.c.).
Effetto derivante dalla legge, e quindi onnipresente in ogni contratto, è l’obbligo di salvaguardare l’incolumità fisica della controparte, quando la prestazione dovuta sia teoricamente suscettibile di nuocerle.
Tale obbligo discende dall’art. 32 Cost., norma direttamente applicabile (c.d. Drittwirkung) anche nei rapporti tra privati, e sussiste necessariamente in tutti i contratti in cui una delle parti affidi la propria persona all’altra: e dunque non solo nei contratti di spedalità o di trasporto di persone, ma anche in quelli - ad esempio - di albergo, di spettacolo, di appalto (quando l’opus da realizzare avvenga in presenza del committente), di insegnamento d’una pratica sportiva, di ristorazione.

3. Col secondo motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 2043, 2049 e 2697 c.c.; nonché degli artt. 40 e 41 c.p..
Al di là di tali riferimenti normativi, effettivamente non pertinenti rispetto al contenuto del motivo (pagine 5-8 del ricorso), nella illustrazione del motivo vengono formulate due distinte censure.
Da un lato si sostiene che la Corte d’appello ha erroneamente attribuito all’odierno ricorrente la responsabilità per l’accaduto, senza previamente individuare quale sarebbe dovuta essere la condotta alternativa corretta che questi avrebbe dovuto tenere, ovvero l’obbligo giuridico da lui violato.
Sotto altro profilo, il ricorrente deduce che la Corte d’appello ha violato le regole che disciplinano l’accertamento del nesso di causa. Sostiene essere stato accertato in punto di fatto, e comunque essere incontestato, che l’incidente si verificò perché la cameriera addetta al servizio ai tavoli venne urtata da un membro della comitiva cui si accompagnava la vittima, il quale "in piedi si agitava scompostamente nella sala"; e che il fatto del terzo, integrando gli estremi del caso fortuito, esclude il nesso di causa tra inadempimento e danno.

3.1. Nella parte in cui lamenta la violazione delle regole sulla causalità (materiale) il motivo è infondato.
Secondo il ricorrente, poiché il fatto del terzo costituisce un caso fortuito, esso esclude necessariamente il nesso di causa tra la condotta inadempiente (o, in caso di fatto illecito, tra la condotta colposa) ed il danno.
La tesi non può condividersi.
Nel caso di specie il danno è stato arrecato non dal terzo, ma dal personale dipendente del ristorante gestito dal convenuto.
Si è dunque trattato di un danno corpore corpori illatum, ed in virtù del principio di equivalenza causale la sussistenza del nesso era indiscutibile: quel di cui unicamente si poteva contendere era se il personale dipendente del convenuto poteva o non poteva, con l’ordinaria diligenza, prevenire il fatto dannoso: giudizio che attiene però all’accertamento della colpa, non del nesso causale.

3.2. Nella parte in cui lamenta la violazione delle regole sulla colpa il motivo è fondato.

La Corte d’appello ha accertato in punto di fatto che la vittima si infortunò perché la cameriera che stava servendo le pietanze fu urtata da una terza persona, perse l’equilibrio e lasciò cadere una pizza bollente sul braccio della danneggiata.

Accertati questi fatti concreti, la Corte d’appello ha ritenuto che tale dinamica dell’accaduto non escludesse la responsabilità del ristoratore, così ragionando:
(a) il fatto del terzo integra gli estremi del caso fortuito;
(b) il caso fortuito non esclude la colpa dell’autore del danno, se la condotta del terzo sia prevedibile od evitabile;
(c) nel caso di specie la "agitazione" dei ragazzi che componevano la comitiva presente nel ristorante era prevedibile, e si sarebbe potuta evitare da parte del ristoratore adottando "le adeguate cautele".

3.3. La prima e la seconda delle suddette affermazioni sono corrette, la terza invece costituisce, nel caso specifico, falsa applicazione degli artt. 1218 e 1176 c.c..
È certamente vero che il fatto del terzo può integrare gli estremi del caso fortuito, ed è altresì vero che il caso fortuito, per escludere la colpa del danneggiante, deve avere due caratteristiche:
-) non poteva essere previsto, nè evitato;
-) il responsabile aveva l’obbligo (legale o contrattuale) di prevederlo od evitarlo.
Tali precetti, sebbene non espressamente dettati dal codice civile, discendono da una tradizione millenaria e sono dal codice presupposti, più che imposti: basterà ricordare al riguardo che già un rescritto dell’imperatore Augusto, inviato ai prefetti del pretorio Fusco e Destro (e tramandato dal Codex Iustiniani, Libro IV, Titolo XXIV, § 6, De casu fortuito) sancì che "quae fortuitis casibus accidunt, cum praevideri non potuerint (..), nullo bonae fidei judicio praestantur".
Il precetto passò tal quale nel diritto intermedio ("casus fortuitus non est sperandus, et nemo tenetur divinare"), e da questo pervenne immutato all’età delle codificazioni, ed ai codici attuali.
In questi, tuttavia, fu conservata la regola secondo cui il debitore è liberato dal caso fortuito (si vedano ad esempio l’art. 1492 c.c., comma 3, in tema di perimento della cosa venduta; l’art. 1637 c.c., in tema di accollo da parte dell’affittuario del rischio di caso fortuito; l’art. 1686 c.c., comma 3, in tema di responsabilità del vettore; l’art. 1805 c.c., in tema di responsabilità del comodatario), ma se ne obliò la giustificazione (il "cum praevideri non potuerint" del rescritto augusteo), probabilmente perché ritenuta dal legislatore ovvia e scontata.
Pertanto l’evento fortuito, ma prevedibile od evitabile, non libera l’autore del danno da responsabilità, contrattuale od aquiliana che sia (così, da ultimo, Sez. 3 -, Ordinanza n. 25837 del 31/10/2017, Rv. 646461 - 01).

3.4. La prevedibilità o l’evitabilità del caso fortuito, quando questo sia costituito dal fatto d’un terzo, non può essere presunta in astratto, ma va accertata in concreto. E l’accertamento in concreto di tali circostanze esige che si stabilisca in facto:
(a) se il professionista medio (e dunque, nella specie, il ristoratore "medio", di cui all’art. 1176 c.c., comma 2), potesse con la diligenza da lui esigibile prevedere quel che sarebbe poi accaduto;
(b) se il professionista medio (e dunque, nella specie, il ristoratore "medio", di cui all’art. 1176 c.c., comma 2), potesse concretamente adottare condotte diverse, e salvifiche, rispetto a quella effettivamente tenuta.

Anche questi principi sono pacifici da due millenni: la fattispecie oggi all’esame di questa Corte, infatti, riecheggia un celebre caso di cui riferisce Ulpiano (Libri XVIII Ad Edictum, in Dig., IX, 2, 11, pr., si cum pila quidam luderent), in cui si discuteva della responsabilità d’un barbiere che, mentre radeva un cliente, lo ferì alla gola perché colpito al braccio da un pallone, scagliato da ragazzi che giocavano nei pressi.

In quel caso il grande giureconsulto ritenne il barbiere in colpa non già per aver ferito il cliente, ma per avere scelto di esercitare la propria professione in un luogo dove notoriamente i ragazzi giocavano a palla. Allo stesso modo, nel presente giudizio, l’affermazione della prevedibilità del caso fortuito si sarebbe potuta affermare solo a condizione che fosse accertata in concreto che l’urto inferto ad uno dei camerieri, da parte di un avventore, fosse una circostanza ampiamente prevedibile da qualunque ristoratore diligente.

Tale accertamento, però, nel caso di specie è mancato.

3.5. La sentenza impugnata, infatti, non ha accertato in concreto la prevedibilità e l’evitabilità dell’evento dannoso, ma le ha postulate in astratto.

La decisione d’appello non ha indagato se la esagitazione della persona che urtò la cameriera fu subitanea o si protraesse da tempo, ed in tal caso da quanto tempo; non ha stabilito in che cosa sia consistita; non ha accertato se fu la cameriera ad avvicinarsi incautamente ad uno scalmanato, o se fu quest’ultimo a raggiungerla imprevedibilmente ed urtarla, allontanandosi dal posto fino a quel momento occupato; non ha accertato se vi erano stati precedenti richiami all’ordine da parte del gestore del ristorante, o se questi avesse colpevolmente tollerato l’ineducazione dei suoi avventori.

In mancanza di questi accertamenti, la Corte d’appello ha falsamente applicato gli artt. 1176 e 1218 c.c., perché ha escluso in iure l’efficacia esimente del caso fortuito, senza accertare in facto se quel caso fortuito fosse prevedibile od evitabile.

4. Il terzo motivo di ricorso resta assorbito dall’accoglimento del secondo.

5. Col quarto motivo il ricorrente lamenta che la Corte d’appello abbia stimato il danno alla persona patito da M.S. in Euro 30.000 "senza ulteriori motivazioni".

5.1. Il motivo è manifestamente fondato.
La Corte d’appello ha ritenuto che M.S. , in conseguenza dell’infortunio, patì "non un danno funzionale, ma solo un danno estetico non emendabile", ed ha liquidato tale pregiudizio complessivamente nell’unitaria cifra di 30.000 Euro.
Tuttavia la sentenza non indica in cosa consistette tale pregiudizio estetico; quale ne fu l’entità; se abbia causato solo una invalidità permanente od anche una invalidità temporanea; in che termini percentuali potesse stimarsi l’invalidità da esso provocata; attraverso quali criteri è pervenuta alla determinazione del suddetto importo.
La sentenza pertanto, oltre ad adottare una motivazione solo apparente, ha finito in tal modo per violare l’art. 1223 c.c., in quanto ha liquidato il danno non patrimoniale senza accertarne in concreto l’entità.

6. Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

(-) accoglie il secondo ed il quarto motivo di ricorso; rigetta il primo; dichiara assorbito il terzo;
(-) cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.