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Segreto di indagine e pubblicazione degli atti: un pò di chiarezza (Cass. 41640/19)

10 ottobre 2019, Cassazione penale

Anche un atto non più coperto dal segreto non può essere pubblicato fino alle scadenze imposte dalla legge: va fatta, infatti, una distinzione tra atti coperti da segreto e atti non pubblicabili, perché mentre il segreto opera all’interno del procedimento, il divieto di pubblicazione riguarda la divulgazione tramite la stampa ed altri mezzi di comunicazione sociale.

Pertanto, gli atti d’indagine per i quali il segreto investigativo è cessato non divengono per ciò stesso pubblicabili, atteso che permane, nei loro confronti, una serie di divieti che investono la pubblicazione testuale, ancorchè parziale dell’atto secondo i termini individuati dalla norma di rito.

Gli atti coperti dal segreto, e fino a quando il segreto sussista, è vietato qualsiasi tipo di pubblicazione "anche solo del loro contenuto": l’atto è segreto "fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza", a meno che il Pubblico Ministero non disponga - ai sensi dell’art. 329 c.p.p., comma 3, - l’obbligo del segreto anche per tale atto conosciuto o conoscibile da parte dell’imputato, atto che in forza di tale provvedimento rimane segreto anche dopo la sua conoscenza o conoscibilità.

Ma anche un atto non più coperto dal segreto non può essere pubblicato fino alle scadenze fissate dal legge: il divieto di pubblicazione è fissato fino allo svolgimento dell’udienza preliminare e se questa invece non si tiene fino alla chiusura della fase delle indagini preliminari, ex art. 114 c.p.p., comma 2; se si svolge il dibattimento gli atti contenuti nel fascicolo del P.M. non possono essere pubblicati se non dopo la sentenza di secondo grado, ex art. 114 c.p.p., comma 3.

Protrarre il divieto di pubblicazione del fascicolo del Pubblico Ministero anche oltre il termine delle indagini, durante il dibattimento è funzionale ad evitare una distorsione delle regole dibattimentali, ove il Giudice formasse il suo convincimento sulla base di atti che dovrebbero essere ignoti, ma che, in mancanza del suddetto divieto, potrebbe conoscere completamente per via extra processuale attraverso i mezzi di informazione.

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 1 – 10 ottobre 2019, n. 41640
Presidente Iasillo – Relatore Talerico

Osserva

Con sentenza del 07/06/2018 F.E. è stato condannato alla pena di Euro 200,00 di ammenda per il reato di cui all’art. 684 c.p., avendo pubblicato in data 12/09/2015, nel corso delle indagini preliminari, la querela presentata oralmente alla Polizia Giudiziaria, in data 08/09/2015, da una ragazza di anni 15 - e dai suoi genitori - per il reato di abuso sessuale subito dalla querelante.

Ricorre per Cassazione il difensore dell’imputato - Avvocato OB deducendo: 1) l’inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 684 c.p.. La querela, infatti, non può essere considerata atto di indagine effettuato dalla P.G. o dal P.M.; quindi è atto che non rientra tra quelli indicati nell’art. 329 c.p.p., comma 1, il quale prevede che solo gli atti di indagine effettuati dalla P.G. o dal P.M. sono coperti dal segreto. Pertanto non vi era alcun divieto di pubblicazione e conseguentemente non può ritenersi sussistente il reato; 2) violazione di legge e motivazione carente per quanto riguarda la ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico del reato.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato.

1.2. Invero per quanto riguarda il primo motivo di impugnazione, si deve evidenziare che l’imputato contesta la decisione del Tribunale di Padova non tenendo conto dell’intero quadro normativo che regola la materia relativa al divieto di pubblicazione degli atti di un procedimento e richiamando, a sostegno della sua tesi, una sentenza di questa Corte non proprio pertinente (Sez. 1, Sentenza n. 21290 del 02/02/2017 Ud. - dep. 04/05/2017 - Rv. 270040). Infatti questa sentenza si è occupata di un fatto diverso (era stata presentata al Pubblico Ministero una denuncia scritta) da quello oggetto del presente processo (querela orale proposta avanti ai Carabinieri). Conseguentemente la questione della natura dell’atto costituito dalla querela orale proposta avanti alla Polizia Giudiziaria non è stato trattato in modo approfondito.

1.3. È, dunque, necessario esaminare tutte le norme che disciplinano la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale.

La norma incriminatrice è l’art. 684 c.p. che afferma: "Chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa di informazione, atti o documenti di un procedimento penale di cui sia vietata per legge la pubblicazione è punito con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda da Euro 51 a Euro 258,00". La norma è molto chiara: si ha una pubblicazione arbitraria allorché atti o documenti di un procedimento penale vengano pubblicati - nei modi sopra specificati - in presenza di una legge che ne vieti la pubblicazione.

Correttamente la dottrina e la giurisprudenza individuano quale prima norma che pone tale divieto l’art. 114 c.p.p. la cui rubrica è "divieto di pubblicazione di atti e di immagini" (ci sono altre norme che vietano la pubblicazione: si veda, ad esempio, il D.P.R. n. 448 del 1988, art. 13 per quanto riguarda il minorenne comunque coinvolto in un procedimento penale).

Il comma 1 di tale articolo così recita: "È vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del contenuto". Quindi poiché l’art. 114 c.p.p., comma 1 prevede espressamente il divieto di pubblicazione degli atti coperti dal segreto, è necessario accertare quali siano tali atti.

L’art. 329 c.p.p., comma 1, stabilisce che: "gli atti di indagine compiuti dal Pubblico Ministero e dalla Polizia Giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e comunque non oltre la chiusura delle indagini preliminari".

È necessario, a questo punto, accertare se il Giudice di merito ha correttamente applicato la legge allorché ha deciso di ricomprendere la querela resa oralmente alla Polizia Giudiziaria tra gli atti di indagine regolamentati dall’art. 329 c.p.p., comma 1 e, dunque, come tale atto segreto. A tal proposito si deve rilevare che nel libro V, titolo IV, c.p.p. intitolato "attività a iniziativa della Polizia Giudiziaria" vi è anche l’art. 357 la cui rubrica è "documentazione dell’attività di polizia giudiziaria".

Nel comma 2 dell’art. 357 c.p.p. alla lettera a) si legge: "fermo quanto disposto in relazione a specifiche attività (la P.G.) redige verbale dei seguenti atti: denunce, querele e istanze presentate oralmente". È evidente che quanto sopra specificato indica che la ricezione dei predetti atti costituisce una chiara attività di Polizia Giudiziaria. E si tratta, in concreto, di attività di Polizia Giudiziaria perché raccogliendo uno dei predetti atti (nel nostro caso una querela orale) la Polizia Giudiziaria adempie ad una delle tante funzioni primarie che gli impone la legge e cioè "prendere notizia dei reati... assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale" (art. 55 c.p.p.).

A tal proposito non si deve, poi, dimenticare che nel momento in cui la Polizia Giudiziaria raccoglie una querela orale, colui che la rende assume, anche, la veste di persona che riferisce circostanza utili ai fini dell’indagine sul fatto per il quale chiede la punizione; ed è altrettanto evidente che nel corso dell’esposizione del fatto la Polizia giudiziaria pone delle domande alla persona che sta narrando quanto accaduto; domande ritenute utili per chiarire e meglio specificare il racconto.

Invero la querela non è costituita unicamente dalla formula con la quale si esprime la volontà di perseguire penalmente l’autore del reato, ma la querela (come d’altronde anche la denuncia e l’istanza) consiste, prima di tutto, nell’esposizione del fatto che si ritiene possa integrare un reato. E quanto sopra sottolineato è ciò che si riscontra essere avvenuto anche nel caso di specie.

A pagina 1 della sentenza impugnata si legge, infatti, che: "L’articolo firmato dall’imputato F. , redattore del quotidiano "(omissis) ", pubblicato sabato (omissis) , riferisce nei dettagli non solo il fatto in sé della denuncia, e cioè che il martedì precedente era stata sporta denuncia per abusi sessuali da una ragazzina di un comune della cintura di Padova, ma riporta anche con risalto il racconto fatto dalla ragazza ai Carabinieri"; e sempre a pagina 1 della sentenza impugnata, dopo quanto sopra riportato, si afferma: "Nulla di certo è emerso in ordine alle modalità con cui F. può avere appreso la notizia della querela sporta e il suo contenuto, ma dal confronto fra querela e articolo è chiaro che nel dare la notizia ha consapevolmente riportato quanto in querela".

A proposito di ciò che si è appena evidenziato, nel ricorso si sostiene che sarebbe assurdo ritenere che solo la querela orale possa essere definita atto della Polizia Giudiziaria e non invece la querela (o denuncia o istanza) presentata per iscritto. Infatti il contenuto dei due atti sarebbe eguale e quindi sarebbe privo di qualsiasi logica differenziare due atti nella sostanza eguali.

In realtà non si deve dimenticare che il Legislatore ha distinto i due atti nello stesso art. 357 c.p.p.. Infatti, nel comma 5 del predetto art. 357 per quanto riguarda le denunce, le istanze e le querele presentate per iscritto si dispone solo che la Polizia giudiziaria le ponga a disposizione del Pubblico Ministero. Quindi in tal caso la Polizia Giudiziaria non redige un verbale, ma si limita a mettere a disposizione del Pubblico Ministero tali atti. Manca, dunque, in quest’ultima ipotesi quella attività di interlocuzione tra Polizia Giudiziaria e querelante (o denunciante o istante) che consente alla stessa Polizia Giudiziaria di fare domande a quest’ultimo che - come si è già sopra sottolineato - acquisisce la figura di persona informata dei fatti.

Ed è pacifico che l’assunzione da parte della Polizia Giudiziaria delle sommarie informazione dalle persone che possono riferire circostanze utili alle indagini (art. 351 c.p.p., attività richiamata anche dall’art. 357, comma 2, lett. c) è atto compiuto dalla Polizia Giudiziaria e quindi coperto dal segreto (vedi la parte motiva della sentenza della Sez. 1, Sentenza n. 13494 del 09/03/2011 Ud. - dep. 04/04/2011 - Rv. 249856 - 01 nella quale si afferma: "Orbene, per gli atti di indagine in senso stretto formati dal P.M. o dalla P.G. (esami di persone informate, interrogatori di indagati, confronti, ricognizioni, ecc.) nessun problema - a questi fini - si pone, atteso che si tratta di necessità, sempre e comunque, di atti ricadenti nel comma 1 dell’art. 329 c.p.p.,...). E conforme alla precedente decisione è quella contenuta nella sentenza Sez. 1, Sentenza n. 16301 dell’08/04/2014 Ud. (dep. 14/04/2014) - non massimata e richiamata nella sentenza impugnata - nella quale si affronta un caso eguale a quello oggi in esame; nella pagina 4 della predetta sentenza si legge: "La regola del segreto permea, dunque, gli atti di indagine effettuati direttamente o per iniziativa (o delega) dei predetti organi pubblici e comprendono tutti quelli che "hanno origine nell’azione diretta o nell’iniziativa del P.M. o della P.G., e dunque quando il loro momento genetico, e la strutturale ragion d’essere, sia in tali organi" (Cass. Sez. 1, n. 13. 494 del 9.3.2011, Tamberlich).

Orbene, è indubbio che tra questi atti rientrano le denunce orali direttamente apprese dalla P.G. e il verbale di spontanee dichiarazioni e acquisizione documentale rese... innanzi alla stessa, trattandosi di atti destinati a confluire nel fascicolo processuale e ad essere utilizzati per tutte le indagini da eseguirsi. Si tratta di atti ricadenti nell’art. 329 c.p.p., comma 1, compiuti dalla polizia giudiziaria, soggetti al regime di segretezza. Questa conclusione non contrasta con gli approdi cui è giunta la sentenza della Corte sopra richiamata n. 13494 del 2011, che aveva per oggetto la pubblicazione di documenti (lista di presunti evasori) di origine extra processuale, acquisiti ad un procedimento, e non la pubblicazione di atti di indagine in senso stretto".

Dunque nel caso oggi in esame, ci troviamo di fronte ad un atto coperto dal segreto - ex art. 329 c.p.p., comma 1, - per il quale vige il divieto assoluto di pubblicazione ai sensi dell’art. 114 c.p.p., comma 1, come ha correttamente deciso la sentenza impugnata condannando il ricorrente per il reato di cui all’art. 684 c.p. (per quanto riguarda il divieto assoluto di pubblicazione si veda quanto si espone nei paragrafi successivi e in particolare nel paragrafo 1,10.).

1,4. Tanto ritenuto, è necessario proseguire nell’esame dell’art. 114 c.p.p. perché nel ricorso - come si è sopra visto - si è denunciata l’illogica conclusione che deriva dalla differenziazione tra querele, denunce e istanze orali e querele, denunce e istanze scritte: per le prime vi sarebbe divieto di pubblicazione per le seconde no. Ed effettivamente se così fosse vi sarebbe un’evidente lacuna legislativa, che andrebbe ad incidere negativamente sulle indagini; indagini che sarebbero certamente pregiudicate dalla conoscenza degli atti processuali che man mano entrano nel fascicolo del P.M.. Invero se una querela o denuncia scritta fosse immediatamente pubblicabile sarebbe altamente probabile l’esito negativo delle indagini ad esempio per eventuali intercettazioni, perquisizioni e altre attività disposte per verificare la fondatezza della stessa denuncia e per acquisire ulteriori fonti di prove.

1,5 Orbene leggendo l’intero art. 114 c.p.p. è evidente che tale lacuna non esiste e che il legislatore ha regolamentato la materia in modo tale che le indagini preliminari non abbiano alcun pregiudizio da un’anticipata conoscenza degli atti e documenti di un procedimento penale.

Il comma 2 dell’art. 114 c.p.p. afferma, infatti, che: "È vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare". Il comma 3 del predetto art. 114 (che si riporta subito, stante la continuità fra i due commi; continuità che aiuta ad interpretare anche quanto sancito nel comma 2) afferma: "Se si procede al dibattimento non è consentita la pubblicazione, anche parziale, degli atti (del fascicolo per il dibattimento se non dopo la pronuncia della sentenza di primo grado; la parte tra parenesi quadra è stata eliminata a seguito della ritenuta illegittimità costituzionale - per non essere tale disposizione contenuta nella legge delega - di cui alla Sent. Corte Cost. n. 59 del 24.02.1995) del fascicolo del Pubblico Ministero se non dopo la pronuncia della sentenza di secondo grado".

Dalla lettura dei predetti due commi dell’art. 114 c.p.p. emerge innanzi tutto che il Legislatore ha posto divieti di pubblicazione degli atti contenuti nel fascicolo del Pubblico Ministero addirittura fino alla pronuncia della sentenza di secondo grado.

È chiara la diversa "ratio" di tali divieti:

1) per quanto riguarda il divieto di pubblicazione "degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell’udienza preliminare", il divieto di pubblicazione è fissato fino allo svolgimento dell’udienza preliminare e se questa invece non si tiene fino alla chiusura della fase delle indagini preliminari; art. 114 c.p.p., comma 2, tale divieto è stato posto a tutela del proficuo svolgimento delle indagini preliminari. Tale fine è stato posto in rilievo nella motivazione della sentenza della sentenza della  Corte Costituzionale n. 59 del 24.02.1995 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una parte del comma 3 dell’art. 114 c.p.p. sopra inserito tra le parentesi quadre) ove nell’esaminare la direttiva n. 71 dell’art. 2 della legge di delega 16.02.1987 n. 81 (per la cui violazione è stata dichiarata la predetta illegittimità costituzionale) si afferma: "...nell’intento del legislatore delegante, i limiti alla divulgabilità degli atti di indagine preliminare si collegano inequivocabilmente alle esigenze investigative, operando al fine di scongiurare ogni possibile pregiudizio alle indagini..."

2) per quanto riguarda il divieto di pubblicazione "degli atti del fascicolo del Pubblico Ministero se non dopo la pronuncia della sentenza di secondo grado" (art. 114 c.p.p., comma 3) tale divieto è stato posto per evitare che il Giudice possa formare il suo convincimento sulla base di atti contenuti nel fascicolo del Pubblico Ministero che egli deve ignorare. Anche tale fine è stato posto in rilievo nella motivazione della sentenza della Corte Costituzionale di cui sopra nella quale si legge: "... E infatti il protrarre il divieto di pubblicazione del fascicolo del Pubblico Ministero anche oltre il termine delle indagini, durante il dibattimento, ha, nei principi fondamentali dettati dalla legge di delega, ben altro fondamento, in quanto è funzionale ad evitare una distorsione delle regole dibattimentali, ove il Giudice formasse il suo convincimento sulla base di atti che dovrebbero essere ignoti, ma che, in mancanza del suddetto divieto, potrebbe conoscere completamente per via extra processuale attraverso i mezzi di informazione".

1.6. È necessario approfondire quanto sopra con ulteriori specificazioni.

1.7. Innanzi tutto si deve precisare che seppure l’art. 114 c.p.p. parla solo di atti - a differenza dell’art. 684 c.p. che specifica il divieto di pubblicazione di atti o documenti di un procedimento penale – deve necessariamente ritenersi che l’art. 114 c.p.p. vieta anche la pubblicazione dei documenti. Invero l’art. 114, commi 2 e 3 fanno riferimento generico agli atti contenuti nel fascicolo del P.M. tra i quali ovviamente vi sono anche i documenti acquisiti nel corso delle indagini.

In proposito questa Corte ha affermato che: "L’art. 684 c.p. - che punisce "chiunque pubblica, in tutto o in parte, atti o documenti di un procedimento penale di cui sia stata vietata per legge la pubblicazione - non indica quali siano gli atti o i documenti per i quali vige il divieto, ma rinvia a quanto espressamente dettato in proposito nel codice di rito: specificamente - con riferimento al codice di procedura penale del 1988 - a quanto stabilito dall’art. 114, norma che menziona soltanto gli atti, a differenza dell’art. 164 del codice di procedura abrogato il quale faceva esplicito riferimento nel testo anche a "qualunque documento".

La omessa menzione del termine "documento" nel citato art. 114 del vigente codice di rito deve essere valutata con riferimento all’art. 234, comma 1 stesso codice in forza del quale" è consentita l’acquisizione di scritti o di altri documenti che rappresentano fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fotografia o qualsiasi altro mezzo"; ne consegue che anche un documento fonografico costituito da una registrazione attuata da privati, una volta acquisito come prova documentale agli atti di indagine ai sensi dell’art. 234 c.p.p., diventa parte integrante degli atti stessi - tra i quali rientra - così che anch’esso viene ad essere sottoposto alla disciplina dettata dall’art. 114 c.p.p. in tema di pubblicazione di atti"(Sez. 1, Sentenza n. 10948 del 10/10/1995 Ud. - dep. 06/11/1995 - Rv. 202854 - 01).

Conferma la decisione di cui sopra anche la sentenza della Sezione 1 n. 13494 (del 09/03/2011 Ud. - dep. 04/04/2011 - Rv. 249856 - 01) nella cui motivazione si legge: "Si potrebbe dunque pervenire alla conclusione che, non prevedendo l’art. 114 c.p.p., il divieto di pubblicazioni di "documenti", pur facenti parte del procedimento penale, non vi sia divieto di pubblicazione di tale specifica categoria. Tale conclusione verrebbe anche rafforzata dal metodo interpretativo storico evolutivo, atteso che il previgente Codice di proceduta penale, scritto nel 1930 in parallelo al Codice penale, al suo art. 164 prevedeva (a differenza dell’odierno art. 114 c.p.p.) il divieto di pubblicazione "del contenuto di qualunque documento e di ogni atto, scritto od orale". Sarebbe legittima la conclusione, dunque, da questo punto di vista, che il vigente art. 114 c.p.p., escludendo dall’ambito del divieto di pubblicazione i documenti, previsti invece nella norma omologa previgente, abbia consapevolmente inteso limitare il divieto di pubblicazioni ai soli atti strictu sensu. Tale prima opzione interpretativa deve però essere superata, pervenendosi alla conclusione che la nozione di "atti processuali" cui si riferisce il vigente art. 114 c.p.p., copra anche quella di "documenti", e ciò sia per l’evidente onnicomprensività del termine "atti" di cui al citato art. 114 c.p.p., (inserito nel Titolo Primo, del Libro Secondo del Codice di rito, di carattere generale), sia per l’equiparazione che può derivarsi dall’art. 234 c.p.p., comma 1, (su tale ultimo punto, e per questi soli profili, v. Cass. Pen. Sez. 1, n. 10948, in data 10.10.1995, Rv. 202854, Di Fiori).-

Si impone quindi una prima conclusione; è sanzionata ex art. 684 c.p., la pubblicazione sia di atti che di documenti inerenti un procedimento penale di cui per legge sia vietata la pubblicazione.

Vietata per legge è la pubblicazione, come testualmente recita l’art. 114 c.p.p., "degli atti (e documenti, ora aggiungiamo) coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto". E, come si è già detto, la stessa cosa vale per i divieti fissati nell’art. 114 c.p.p., commi 2 e 3, divieti che hanno per oggetto gli atti non più coperti dal segreto e gli atti che fin dall’inizio non erano coperti dal segreto.

1,8. Dalla lettura dell’art. 114 c.p.p., comma 1, emerge con chiarezza che per gli atti coperti dal segreto (gli atti di cui all’art. 329 c.p.p.) e fino a quando il segreto sussista è vietato qualsiasi tipo di pubblicazione "anche solo del loro contenuto". Come si è già visto l’atto è segreto "fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza", a meno che il Pubblico Ministero non disponga - ai sensi dell’art. 329 c.p.p., comma 3, - l’obbligo del segreto anche per tale atto conosciuto o conoscibile da parte dell’imputato, atto che in forza di tale provvedimento rimane segreto anche dopo la sua conoscenza o conoscibilità. Il comma 2 dell’art. 114 c.p.p. evidenzia, poi, che non vi è coincidenza tra segreto e divieto di pubblicazione. Infatti anche un atto non più coperto dal segreto non può essere pubblicato fino alle scadenze di cui sopra si è detto (il divieto di pubblicazione è fissato fino allo svolgimento dell’udienza preliminare e se questa invece non si tiene fino alla chiusura della fase delle indagini preliminari, ex art. 114 c.p.p., comma 2; se si svolge il dibattimento gli atti contenuti nel fascicolo del P.M. non possono essere pubblicati se non dopo la sentenza di secondo grado, ex art. 114 c.p.p., comma 3).

A tal proposito questa Corte ha affermato che il venir meno dell’obbligo del segreto intraprocessuale, non esclude il divieto di pubblicazione, atteso che va fatta una distinzione tra atti coperti da segreto ed atti non pubblicabili, in quanto, mentre il segreto opera all’interno del procedimento, il divieto di pubblicazione riguarda la divulgazione tramite la stampa e gli altri mezzi di comunicazione sociale (Sez. 1, Sentenza n. 32846 del 04/06/2014 Cc. - dep. 23/07/2014 - Rv. 261195 - 01).

Nella condivisa motivazione della predetta sentenza - che conferma quanto già sopra sottolineato - si legge: "Nell’ordinamento positivo, peraltro, contrariamente a quanto sostenuto dai giudici del riesame e dalla difesa dell’indiziato, non vi è completa coincidenza tra il regime di segretezza e quello di divulgazione degli atti, permanendo, come questa Corte di legittimità ha già avuto occasione di precisare in una recente decisione non massimata (Sez. 1, sentenza n. 16301 dell’8 aprile 2014, non massimata e già sopra richiamata), "una distinzione tra segreto e divieto di pubblicazione"..... Il codice distingue quindi nettamente, come dedotto dal PM ricorrente, tra atto del procedimento e suo contenuto e non vi è quindi perfetta equiparazione tra ciò che diviene conoscibile all’interno del procedimento e la sua divulgabilità; principio questo, invero, che questa Corte (Sez. 5, n. 3896 del 03/10/2002 - dep. 27/01/2003, Abate G, Rv. 224273) ha già avuto occasione di affermare, sia pure con riferimento all’ipotesi di notifica all’imputato dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Come autorevolmente affermato in dottrina, in altri termini, gli atti di indagine per i quali il segreto investigativo è caduto non divengono per ciò solo liberamente pubblicabili: nei loro confronti opera una serie di divieti che investono, ben inteso, sempre ed unicamente la riproduzione testuale ancorché parziale, dell’atto (e cioè l’ipotesi che rileva nel presente giudizio) e che si caratterizzano per i diversi termini di scadenza costruiti in rapporto alla progressione del diritto. Orbene, se può condividersi l’assunto che, una volta concluse le indagini preliminari, qualora l’azione penale non venga poi esercitata, il divieto di pubblicazione deve ritenersi ormai caducato, nell’ipotesi, che qui interessa, in cui si proceda al dibattimento, di contro, tale divieto, almeno con riferimento agli atti del pubblico ministero, deve ritenersi operante per il chiaro disposto dell’art. 114 c.p.p., comma 3, ritenuto costituzionalmente illegittimo dalla Corte Costituzionale (con sentenza n. 95 del 1995) solo nella parte in cui non consente la pubblicazione degli atti del fascicolo per il dibattimento anteriormente alla pronuncia della sentenza di primo grado, ma non anche degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero che divengono pubblicabili solo con la pronuncia di appello".
1,9. A proposito di quanto stabilito dall’art. 114 c.p.p., comma 2 per quanto riguarda gli atti non più coperti dal segreto, si deve adesso valutare se la disciplina sopra delineata valga anche per gli atti che non sono mai stati coperti dal segreto. Da tutto quanto fin ora esposto è evidente che la risposta non può che essere nel senso positivo e cioè che la disciplina contenuta nel comma 2 del predetto art. 114 c.p.p. vale anche per gli atti che non sono mai stati coperti dal segreto. Ciò discende con chiarezza - come sostenuto dalla maggioranza della dottrina - dal fatto che l’art. 114 c.p.p., comma 2 è posto in stretta continuità con il comma 3 del medesimo articolo che regola il divieto di pubblicazione di tutti gli atti (e documenti, per quanto sopra evidenziato) del fascicolo del Pubblico Ministero per la fase dibattimentale. Dunque nell’art. 114 c.p.p., comma 3 non si pone alcuna distinzione tra atti già coperti da segreto e atti mai coperti da segreto, ma si vieta la pubblicazione di qualsiasi atto del fascicolo del P.M.; è evidente che se il divieto di pubblicazione per tutti gli atti (si ripete sia per quelli non più coperti dal segreto, sia per quelli non coperti dal segreto fin dall’inizio della loro formazione) vale per la fase dibattimentale a maggior ragione deve valere per la fase precedente delle indagini preliminari. Infatti è proprio tale fase a richiedere la massima estensione del divieto di pubblicazione. Quindi il comma 2 dell’art. 114 c.p.p. parla solo degli atti non più coperti dal segreto per dare continuità con quanto esposto nel comma 1 dello stesso articolo avente per oggetto gli atti coperti dal segreto e il comma 3 dell’art. 114 chiude il cerchio stabilendo il divieto di pubblicazione indifferentemente per tutti gli atti. Dunque nella frase contenuta nell’art. 114 c.p.p., comma 2 "atti non più coperti dal segreto" rientrano anche gli atti che fin dall’inizio non erano coperti dal segreto. Anche la condivisa giurisprudenza di questa Corte è sulla stessa linea della dottrina sopra evidenziata (si vedano tutte le sentenze, anche quella della Corte Costituzionale, sopra richiamate). Infatti, le due sentenze sopra citate - a sostegno della tesi che la disciplina dell’art. 114 c.p.p. ha per oggetto anche i documenti confermano con chiarezza che anche gli atti che non sono mai stati coperti dal segreto soggiacciono alla regola di divieto di pubblicazione di cui all’art. 114 c.p.p. È sufficiente a tal proposito ricordare che nella prima sentenza sopra indicata (quella del 1995 n. 10948) l’oggetto della decisione era un documento fonografico costituito da una registrazione attuata da privati; documento che "una volta acquisito come prova documentale agli atti di indagine ai sensi dell’art. 234 c.p.p., diventa parte integrante degli atti stessi - tra i quali rientra - così che anch’esso viene ad essere sottoposto alla disciplina dettata dall’art. 114 c.p.p. in tema di pubblicazione di atti". Orbene, l’atto del fascicolo costituito dalla predetta registrazione attuata da privati - e consegnata alla Polizia Giudiziaria - per quanto già esposto, non rientra, certo, tra gli atti che secondo l’art. 329 c.p.p. sono coperti dal segreto. Si tratta, dunque, di atto che "ab origine" non è coperto dal segreto che però - secondo la sentenza di cui sopra - è sottoposto alla disciplina dettata dall’art. 114 c.p.p. in tema di pubblicazione di atti (se si ritenesse il contrario allora si dovrebbe stabilire che tutti gli atti o documenti acquisiti al fascicolo del Pubblico Ministero seppur non compiuti da questi o dalla Polizia Giudiziaria sarebbero coperti dal segreto).
1,10. Dunque, si può concludere affermando che l’art. 114 c.p.p. regolamenta il divieto di pubblicazione di tutti gli atti (o documenti) del fascicolo del P.M. che, ovviamente, nella fase delle indagini preliminari è l’unico fascicolo esistente. In questo fascicolo vi sono gli atti coperti dal così detto segreto assoluto (art. 114 c.p.p., comma 1), segreto assoluto che non consente la pubblicazione neppure del contenuto dell’atto stesso. Nello stesso fascicolo vi sono, poi, gli atti non più coperti dal segreto e gli atti che "ab origine" non sono coperti dal segreto. Per questi atti vi è un divieto limitato di pubblicazione, perché nell’art. 114 c.p.p., commi 2 e 3 si afferma solo che "è vietata la pubblicazione, anche parziale degli atti" e non si ripete il divieto assoluto di cui al comma 1 dello stesso articolo esplicitato con le parole "è vietata la pubblicazione... anche solo del loro contenuto". Dunque, per tali atti è consentita la pubblicazione del "solo contenuto dell’atto" in perfetta coerenza con quanto ribadito nell’art. 114 c.p.p., comma 7. Sul punto questa Suprema Corte ha affermato " Per gli atti coperti da segreto assoluto (atti del pubblico ministero e della polizia giudiziaria fino a quando non siano conoscibili dall’indagato) vige infatti un divieto assoluto di pubblicazione, sia con riferimento al testo che al contenuto, anche parziale o per riassunto. Per gli atti non coperti da segreto sussiste un divieto limitato di pubblicazione che è assai circoscritto e degrada progressivamente, in relazione allo svolgimento del procedimento, con il venir meno della ragion d’essere del divieto, che s’identifica non solo e non tanto con la tutela dell’indagato, come sostenuto dalla difesa...., quanto piuttosto anche nell’esigenza di assicurare il corretto, equilibrato e sereno giudizio del giudice del dibattimento, attuata anche attraverso le norme che gli consentono di venire legittimamente a conoscenza del testo degli atti di indagine, nei limiti e secondo le regole previsti in un processo tipicamente accusatorio. Coerente con tale ratio legis risulta, peraltro, la disposizione (art. 114 c.p.p., comma 7) secondo cui è sempre consentita la pubblicazione "del contenuto degli atti" non coperti (o non più coperti) da segreto a guisa d’informazione"(parte della motivazione della: Sez. 1, Sentenza n. 32846 del 04/06/2014 Cc. - dep. 23/07/2014 - Rv. 261195 - 01). Dalla lettura della motivazione di quest’ultima sentenza si ha un’ulteriore conferma che per la giurisprudenza di questa Corte, l’art. 114 c.p.p. detta la stessa disciplina per gli atti non coperti dal segreto "ab origine"e per quelli non più coperti dal segreto. Infatti nella quinta riga di tale motivazione si parla genericamente e onnicomprensivamente di "atti non coperti da segreto" e nella penultima riga nell’affermare che "è sempre consentita la pubblicazione del contenuto degli atti non coperti (o non più coperti) da segreto a guisa d’informazione" si conferma che il termine "atti non coperti da segreto", usato nella prima parte della motivazione, era comprensivo sia degli atti non coperti "ab initio" dal segreto sia di quelli non più coperti.
1,11. A questo punto rimane solo da affrontare cosa debba intendersi per pubblicazione "del contenuto degli atti", pubblicazione che, come si è visto, è sempre consentita tranne che per gli atti coperti da segreto. Si deve a tal fine ricordare che l’art. 114 c.p.p., comma 1, stabilisce che: "È vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del contenuto". E come si è già rilevato anche nei commi 2 e 3 del predetto art. 114 c.p.p. si ribadisce che "è vietata la pubblicazione, anche parziale degli atti", ma non si ripete il divieto assoluto di cui al comma 1 dello stesso articolo esplicitato con le parole "è vietata la pubblicazione... anche solo del loro contenuto". Da ciò si deve necessariamente trarre la conclusione che quando nella legge si vieta la pubblicazione anche parziale degli atti - che per loro natura sono atti scritti o se si tratta di atti contenenti documenti potranno avere anche la forma di registrazione, ripresa, foto ecc. - ci si riferisce alla pubblicazione di ciò che in esso è esattamente scritto (o registrato, ripreso, fotografato ecc.). È allora evidente che quando la predetta norma aggiunge al divieto di pubblicazione totale o parziale degli atti del procedimento penale, pure il divieto di "pubblicazione... anche solo del loro contenuto" la parola contenuto non può essere intesa nel suo primo significato che, secondo i migliori vocabolari, consiste in "ciò che è contenuto in un determinato spazio o luogo", ma nel suo secondo significato, che sempre per i predetti vocabolari, è "argomento, soggetto, tema di uno scritto, di una lettera, di un discorso o di una determinata disciplina". È proprio questo il significato da dare, nel caso di specie, alla parola contenuto. D’altronde se ad una persona viene chiesto di riferire il contenuto di un libro, di una lettera o di un atto processuale la risposta non può, certo, essere costituita dalla citazione integrale, parola per parola, del libro, della lettera o dell’atto processuale; la risposta consisterà, invece, nell’indicazione dell’argomento, del soggetto, del tema trattato. Se la parola contenuto non si interpretasse in tal modo, la distinzione contenuta nell’art. 114 c.p.p. di cui sopra, non avrebbe senso e sarebbe impossibile dare un significato anche al comma 7 del predetto art. 114 c.p.p.; infatti se per pubblicazione del contenuto dell’atto si intendesse la pubblicazione integrale (o parziale) parola per parola dell’atto processuale non vi sarebbe alcuna differenza tra il divieto assoluto previsto dall’art. 114 c.p.p., comma 1 e il divieto relativo di cui ai commi 2 e 3 del medesimo art. 114 c.p.p. e lo stesso comma 7 dell’art. 114 c.p.p. sarebbe in antitesi inspiegabile con i predetti commi 2 e 3 dello stesso art. 114. Al contrario con l’interpretazione di cui sopra della parola "contenuto" risulta chiaro ciò che indica il Legislatore: per gli atti coperti dal segreto non si può pubblicare neppure l’argomento, il soggetto, il tema di tali atti; quando invece l’atto non è segreto o non lo è mai stato rimane fermo il divieto di pubblicazione dell’atto anche in modo parziale, ma si può pubblicare l’argomento, il soggetto, il tema di tale atto.
1,12. Dall’esatta individuazione del significato della parola contenuto e dalla circostanza che la pubblicazione del "contenuto dell’atto" è consentita in ogni momento -, quindi anche all’inizio del procedimento - è evidente che per i principi che sottendono alla disciplina del divieto di pubblicazione - prima sinteticamente ricordati - si deve trattare di una pubblicazione generica "del fatto processuale" e cioè di quello che è percepibile da chiunque e che quindi, correttamente, può essere pubblicato perché si tratta di mera e generica informazione che non nuoce al corretto svolgimento delle indagini. Infatti, in questo caso non si pubblica ciò che è esattamente scritto "nell’atto processuale", nè ad esso si può fare riferimento indicando la tipologia dell’atto (ad esempio verbale di sommarie informazioni; denuncia - querela ecc.) o alla fonte dalla quale si sarebbe appresa la generica notizia del fatto (ad esempio Polizia Giudiziaria; Pubblico Ministero; persona informata sui fatti ecc.). Sul punto questa Suprema Corte ha affermato che: "Peraltro, è sempre consentita la pubblicazione del contenuto degli atti non coperti (o non più coperti da segreto) a guisa d’informazione. Il codice distingue quindi nettamente tra atto del procedimento e suo contenuto" (vedi motivazione Sez. 1, sentenza n. 16301 dell’8 aprile 2014, non massimata e già sopra richiamata). Non è, evidentemente, un caso se nella parte di motivazione di cui sopra questa Corte richiama le parole "a guisa d’informazione". Queste sono, infatti, proprio le parole che nell’art. 684 c.p. indicano il quarto modo di pubblicare un atto del procedimento penale (i prime tre modi sono: in tutto, in parte e per riassunto; così recita l’art. 684: "Chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa di informazione, atti o documenti di un procedimento penale... è punito...") e che nell’art. 114 c.p.p., comma 1 sono sostituite con le parole "o anche solo del loro contenuto" (così recita l’art. 114 c.p.p., comma 1: "È vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del contenuto").

2. Il secondo motivo di ricorso sulla ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico è generico. Invero a pagina 2 della sentenza impugnata si fornisce un’adeguata motivazione sul punto tenendo conto anche che il reato de quo è una contravvenzione.

3. Pertanto il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.