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Bambini, sapete cosa è il porno? (Cass. 49550/17)

27 ottobre 2017, Cassazione penale

L'incriminazione penale ai soli atti osceni commessi in luoghi abitualmente frequentati da minori, e quando c'è il pericolo che i minori vi assistano, qualifica in maniera specifica il bene giuridico protetto: viene infatti tutelato, in via esclusiva, il pudore dei minori, che può essere anche ri-denominato "privacy sessuale" dei minori, da intendere come tutto ciò che afferisce al riserbo della loro sfera sessuale.

Il pudore dei minori dopo la depenalizzazione viene tutelato in maniera rafforzata rispetto a quella degli adulti, proprio per la necessità - imposta anche in forza di strumenti giuridici internazionali vincolanti per l'Italia - di proteggere i minori da qualunque atto di invasione alla loro libertà sessuale, ivi compreso il riserbo sul tema sessuale, per assicurare loro la possibilità di acquisire consapevolezza della sessualità in un processo di sviluppo armonioso e rispettoso della relativa fase evolutiva.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

(ud. 22/06/2017) 27-10-2017, n. 49550

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAVALLO Aldo - Presidente -

Dott. ROSI Elisabetta - rel. Consigliere -

Dott. ACETO Aldo - Consigliere -

Dott. GAI Emanuela - Consigliere -

Dott. RENOLDI Carlo - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

P.I., N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 135/2015 CORTE APPELLO di TRENTO, del 27/04/2016;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 22/06/2017 la relazione fatta dal Consigliere Dott. ELISABETTA ROSI;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. SALZANO Francesco, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo


1. Con sentenza del 27 aprile 2016, la Corte di appello di Trento, in parziale riforma della sentenza del G.U.P. del Tribunale di Rovereto del 20 novembre 2014, emessa all'esito di giudizio abbreviato nei confronti di P.I., ha rideterminato la pena in mesi due e giorni venti di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale della pena e della non menzione, riqualificando, ai sensi dell'art. 527 c.p., comma 2, il fatto allo stesso contestato come delitto di cui all'art. 609 quinquies e art. 61 c.p., n. 11 ter, perchè, nei pressi dell'Istituto Comprensivo di (OMISSIS), mostrava a C.S. (nata il (OMISSIS)) e ad altri scolari minorenni non identificati, immagini a contenuto pornografico e, in particolare, una donna nuda con le gambe aperte, esclamando la frase "sapete cosa è il porno?"; fatti accaduti in (OMISSIS).

2. I giudici di merito avevano ricostruito l'episodio avvenuto alla fermata dell'autobus in prossimità della scuola, dove l'anziano ricorrente era stato notato sovente avvicinare i bambini delle medie con la scusa di salutarli per mostrare loro foto o filmati pornografici; a seguito del racconto de relato di una mamma che aveva saputo dalla madre della piccola S. che il vecchietto le aveva mostrato delle foto pornografiche - il P. veniva identificato nel luogo predetto da una pattuglia dei carabinieri il (OMISSIS) alle 8,15 ed in tale occasione egli giustificava la sua presenza nei pressi della scuola per l'intenzione di svolgere attività sociale con i bambini. La responsabilità penale per l'episodio aveva trovato conferma, a parere dei giudici di merito di primo e secondo grado, nelle dichiarazioni testimoniali della piccola persona offesa, ritenuta attendibile, anche perchè priva di risentimento nei confronti dell'anziano, il narrato della quale aveva trovato riscontro anche nel racconto che la bambina aveva fatto alla madre a seguito del particolare turbamento causato dalla visione delle foto pornografiche, soprattutto di quella della donna nuda con le gambe aperte, foto poi rinvenuta nel cellulare del ricorrente; elementi confermativi erano altresì stati considerati le dichiarazioni rese da alcune mamme, che avevano notato varie volte la presenza del P. alla fermata dell'autobus, prima dell'orario di inizio delle lezioni.

3. I giudici di appello avevano ritenuto che quanto posto in essere dal P. non poteva integrare il dolo specifico della fattispecie "corruzione di minorenni" contestata allo stesso e riconosciuta in primo grado, poichè non si ravvisava nella frase proferita all'indirizzo dei bambini: "Sapete cos'è un porno?", quella caratteristica persuasiva necessaria all'induzione dei minori a compiere o subire atti sessuali, elemento costitutivo della fattispecie di cui all'art. 609 quinquies c.p. D'altra parte per i giudici il comportamento posto in essere dall'imputato doveva essere qualificato penalmente illecito ex art. 527 c.p., comma 2, in quanto egli aveva esibito ai minori un oggetto osceno (le immagini pornografiche), accompagnandolo ad una domanda retorica diretta a indirizzare la loro attenzione a tali immagini oscene: ciò, a parere dei giudici di merito, qualifica come osceno anche il suo gesto.

4. Avverso la sentenza, l'imputato ha proposto, tramite il proprio difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento per i seguenti motivi:

1) Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale ex art. 606 c.p.p., lett. b), in riferimento all'art. 527 c.p., comma 2 (e per richiamo all'art. 529 c.p. ed in riferimento all'art. 192 c.p.p. e art. 530 c.p.p., commi 1 e 2. I giudici di appello hanno dichiarato la responsabilità del ricorrente per il reato di cui all'art. 527 c.p.p., comma 2 in base ad un ragionamento privo di corretta ed esaustiva motivazione e con erronea applicazione della legge penale. Va tenuto conto infatti della riforma dei reati sessuali operata dalla L. n. 66 del 1996, come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità (sentenza n. 9685 del 1996) che aveva ritenuto necessaria una rimeditazione dei concetti di atti osceni e di atti contrari alla pubblica decenza. Nessun atto osceno è stato posto in essere dal P., che (ma anche questo non è stato dimostrato) si era limitato ad avere involontariamente fatto intravedere immagini pornografiche su un telefono cellulare ad un minorenne, anzi tali immagini, come emerso dall'esame dei due telefoni cellulari in uso al ricorrente non sarebbero state presenti nei telefonini, peraltro si tratterebbe di foto analoghe a quelle riprodotte nei calendari.

Si tratta di una condotta che non ha una inequivoca attinenza con la sfera sessuale, come richiesto dalla giurisprudenza, in grado di suscitare desideri sessuali. Inoltre si ravvisa violazione degli artt. 192 e 520 c.p.p., in quanto la condotta come contestata, ossia il mostrare le immagini pornografiche ai minori, proferendo la frase "sapete cos'è il porno?", non è stata provata con certezza nel corso del processo, nè era stata approfondita l'eventualità che le immagini rinvenute nel cellulare vi fossero state scaricate da altra persona con precedenti per pedofilia; inoltre le dichiarazioni rese dalla minore C.S. non erano state considerate nella loro interezza, laddove la stessa aveva riferito alla madre che riteneva il ricorrente una brava persona;

2) Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 c.p.p., lett. e) laddove la Corte di appello non ha spiegato gli elementi che hanno giustificato l'attribuzione della responsabilità del fatto al ricorrente, non essendo presente agli atti nessun riconoscimento fotografico, nè che gli altri ragazzi presenti fossero infraquattordicenni. La sentenza contiene una evidente forzatura laddove ha affermato che l'esibizione delle fotografie pornografiche, e quindi di un oggetto osceno, a minori nei pressi di una scuola media, accompagnando il gesto con una domanda retorica, connota il gesto come osceno, in quanto non diverso da un atto esibizionistico. La Corte di appello non si è posta il dubbio che la minore possa avere attribuito al ricorrente un fatto posto in essere all'uscita dalla scuola da qualche ragazzino più grande;

3) Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale ex art. 606 c.p.p., lett. b), in riferimento all'art. 131 bis c.p. e art. 192 c.p.p. e mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla reiezione della richiesta da parte della Corte di appello. Il ricorrente con una memoria di appello, alla quale si rimanda, aveva evidenziato che l'esiguità del danno e del pericolo rispetto all'interesse tutelato e l'occasionalità della condotta ed il grado di colpevolezza dovevano essere considerati ai fini del riconoscimento della causa di non punibilità, mentre la sentenza impugnata fornisce solo una lacunosa e contraddittoria motivazione sul punto.

Motivi della decisione

1. Va innanzitutto chiarito che le censure prospettate dal ricorrente con il secondo motivo di ricorso tendono a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all'apprezzamento del materiale probatorio, che devono essere rimessi all'esclusiva competenza del giudice di merito, mirando a prospettare una versione del fatto diversa e alternativa a quella posta a base del provvedimento impugnato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 6, Sentenza n. 22256 del 26/04/2006, Bosco, Rv. 234148), il giudizio di legittimità - in sede di controllo sulla motivazione - non può concretarsi nella rilettura degli elementi di fatto, posti a fondamento della decisione o nell'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili.

Detta doglianza, peraltro - quantunque prospettata come vizio di motivazione, ex art. 606 c.p.p., lett. e) - riassume nella sostanza eccezioni in punto di fatto, non inerenti ad errori di diritto o vizi logici della decisione impugnata, ma alle valutazioni operate dai giudici di merito. Si chiede, in realtà, al giudice di legittimità una rilettura degli atti probatori, per pervenire ad una diversa interpretazione degli stessi, più favorevole alla tesi difensiva del ricorrente. Trattasi di censura non consentita in sede di legittimità perchè in violazione della disciplina di cui all'art. 606 c.p.p. (cfr. consolidata giurisprudenza, ex multiis, Sez. Unite. n. 6402 del 2/7/97, Rv. 207944; Sez. 5, n. 1004 del 31/1/2000, Rv 215745; Sez. 5, ord. n. 13648 del 14/4/2006, Rv 233381).

2. Del pari risultano inammissibili nella presente sede le doglianze di cui alla seconda parte del primo motivo, con le quali si lamenta la erronea applicazione degli artt. 192 e 520 c.p.p., ma nella sostanza si contesta la ricostruzione del fatto operata dai giudici di primo e di secondo grado. A tale proposito, infatti, va ricordato (cfr., ex multiis, Sez. 4, n. 15227 dell'11/4/2008, Baretti, Rv. 239735; Sez. 6, n. 1307 del 14/1/2003, Delvai, Rv. 223061), quando le sentenze di primo e secondo grado concordano nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, che la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente, e forma con essa un unico complessivo corpo argomentativo e che tale integrazione tra le due motivazioni si verifica, allorchè i giudici di secondo grado abbiano esaminato le censure proposte dall'appellante con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese e, a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado, come avvenuto nel caso di specie in riferimento alla ricostruzione del fatto ascritto al P..

3. Quanto al primo motivo di ricorso con il quale si censura la violazione di legge in relazione all'art. 527 c.p. e art. 529 c.p., lo stesso risulta infondato.

Va in questa sede ribadita la natura di reato di pericolo dell'art. 527 c.p. (da sempre affermata in giurisprudenza: Sez. 3, n. 12419 del 6/2/2008, PM in proc. Zinoni, Rv. 239838, Sez. 6, n. 44214 del 24/10/2012, Natali e altro, Rv. 254794).

A tale proposito deve essere considerata l'evoluzione della fattispecie incriminatrice, la quale è stata oggetto dell'intervento additivo operato con la L. 15 luglio 2009, n. 94, recante "Disposizioni in materia di sicurezza pubblica", che ebbe ad aggiungere il comma 2 che recita: "La pena è aumentata da un terzo alla metà se il fatto è commesso all'interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori e se da ciò deriva il pericolo che essi vi assistano." Si tratta di un aggravante ad effetto speciale riprodotta nell'art. 609 ter c.p., lett. 5 bis), come aggravante nel reato di violenza sessuale, ma traente origine, per così dire, dalla circostanza aggravante comune di cui all'art. 62 c.p., n. 11 ter ("l'aver commesso un delitto contro la persona ai danni di un soggetto minore all'interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione o di formazione").

4. Da subito l'intervento normativo aveva sollevato numerose perplessità sia in ambito dottrinario che sul piano applicativo: invero una valorizzazione sanzionatoria correlata alla mera "logistica" del fatto di reato rappresenta una scelta difficile da comprendere dal punto di vista dell'offensività concreta della fattispecie incriminatrice. Infatti era stata sottolineata, da un lato, la difficoltà di individuazione del luogo (molti luoghi pubblici non possono non essere abitualmente frequentati da minori), dall'altro, il non chiaro significato da attribuire al requisito del "pericolo che i minori vi assistano", considerato che il delitto di atti osceni è già di per sè, come detto, un reato di pericolo e quindi l'indicazione normativa costituisce una delimitazione ben precisa della verifica dell'offesa arrecata con la condotta posta in essere.

5. Si può allora affermare che la valutazione dell'atto osceno, da compiersi anche secondo la nozione di cui all'art. 529 c.p. ("Agli effetti della legge penale, si considerano osceni gli atti e gli oggetti che, secondo il comune sentimento, offendono il pudore"), finisce inevitabilmente per doversi confrontare con il dettato dell'art. 527 c.p., comma 2 e deve pertanto essere esaminato non già sotto il profilo del pregiudizio potenziale al "comune senso del pudore", correlato al "sentimento" della generalità dei consociati, bensì quale pregiudizio specifico al "comune sentimento del pudore" dei minori e, nel caso di speciejdei minori infraquattordicenni. E' pertanto in riferimento alla potenziale offesa al pudore del minori, da individuarsi secondo il "sentimento comune" riferito ai minori stessi, che l'interprete deve valutare la consistenza offensiva degli atti posti in essere, al fine di una loro qualificazione come "osceni" ai sensi dell'art. 527 c.p..

6. In questo quadro si inserisce poi l'intervento di depenalizzazione in illecito amministrativo della fattispecie del compimento di atti osceni di cui all'art. 527 c.p., comma 1, realizzato con il D.Lgs. n. 8 del 2016, art. 2 e la trasformazione del comma 2 in reato autonomo ("Si applica la pena della reclusione da quattro mesi a quattro anni e sei mesi se il fatto è commesso all'interno o nelle immediate vicinanze di luoghi abitualmente frequentati da minori e se da ciò deriva il pericolo che essi vi assistano").

7. La scelta operata dal legislatore di riservare l'incriminazione penale ai soli atti osceni commessi in luoghi abitualmente frequentati da minori, e quando c'è il pericolo che i minori vi assistano, finisce per qualificare in maniera specifica il bene giuridico protetto dalla fattispecie, che diventa, in via esclusiva, il pudore dei minori, che può essere anche ri-denominato "privacy sessuale" dei minori, da intendere come tutto ciò che afferisce al riserbo della loro sfera sessuale. Tale pudore viene tutelato in maniera rafforzata rispetto a quella degli adulti, proprio per la necessità - imposta anche in forza di strumenti giuridici internazionali vincolanti per l'Italia - di proteggere i minori da qualunque atto di invasione alla loro libertà sessuale, ivi compreso il riserbo sul tema sessuale, per assicurare loro la possibilità di acquisire consapevolezza della sessualità in un processo di sviluppo armonioso e rispettoso della relativa fase evolutiva.

8. Ciò premesso, emerge all'evidenza che, in corretta applicazione della fattispecie incriminatrice, i giudici di secondo grado hanno ritenuto che il comportamento posto in essere dal ricorrente fosse qualificabile quale atto osceno.

Non è tanto importante la valutazione - peraltro di merito e come tale non censurabile nella presente sede - in ordine all'"oscenità" della foto pornografica descritta (una donna nuda con le gambe aperte), ma è piuttosto la condotta che si era estrinsecata con l'esibizione di tale immagine, certamente pornografica, ad un gruppo di bambini delle scuole medie, unitamente alla insinuante domanda: "sapete cosa è il porno?", a qualificare come osceno, non tanto il gesto in sè (come rilevato dal Collegio d'appello), ma piuttosto l'intero comportamento del ricorrente, essendo evidente che tale combinazione di immagine-domanda, rappresentava l'ammiccante tentativo di intrattenere i minori stessi in una conversazione morbosa, invasiva del riserbo che deve essere garantito ai minori rispetto ai temi afferenti la sfera sessuale.

9. D'altra parte i giudici di merito hanno dato conferma anche della concreta offesa al bene giuridico protetto causata dagli atti osceni posti in essere dal P. (e quindi del fatto che non si sia trattato, nel caso di specie, di reato che ha soltanto messo in pericolo il sentimento del pudore dei minori) nel riferire del turbamento provocato dalla visione della fotografia ad una delle persone offese, la piccola S..

10. Passando infine all'esame del terzo motivo di ricorso, relativo al mancato riconoscimento della causa di esclusione della punibilità ex art. 131 bis c.p., va innanzitutto rilevato che il motivo risulta invero aspecifico, non potendosi nell'atto di impugnazione innanzi alla Suprema Corte richiamare in via generica gli atti prodotti nel corso del giudizio di merito, omettendo persino di svolgerne una breve sintesi contenutistica (nel caso di specie si trattava di una memoria difensiva depositata in grado di appello) senza cadere nel vizio di mancanza di autosufficienza del ricorso (cfr. Sez. 2, n. 20677 del 11/04/2017, Schioppo, Rv. 270071; Sez. 3, n. 43322 del 02/07/2014, Sisti, Rv. 260994.; Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015, Bergamotti, Rv. 265053). D'altra parte la motivazione della Corte d'appello sul punto non è affatto lacunosa, nè contraddittoria e conclude con chiarezza ritenendo non ravvisabile la causa di non punibilità in riferimento alla significativa gravità del fatto, commesso in danno di più parti offese minorenni, seppure una sola delle quali identificata.

Pertanto, considerato il rigetto del ricorso, il ricorrente deve essere condannato, ex art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di tutte le persone indicate nel provvedimento ai sensi dell'art. 52 D.Igs. n. 196 del 2003 perchè previsto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 22 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2017