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Ritardo nell'assegno di mantenimento non è reato (Cass. 11635/18)

14 marzo 2018, Cassazione penale

Il reato di violazione degli obblighi di assistenza familiare non può ritenersi automaticamente integrato con l’inadempimento della corrispondente normativa civile e, ancorché la violazione possa conseguire anche al ritardo, il giudice penale deve valutarne in concreto la "gravità", ossia l’attitudine oggettiva ad integrare la condizione che la norma tende, appunto, ad evitare.

Non può essere considerata sufficiente un’arbitraria affermazione del diritto alla autoriduzione dell’assegno, dovendo la parte in ogni caso rivolgersi al giudice civile per ottenere eventuali revisioni dell’importo: ma non c'è reato quando il ritardo è limitato, e l'inadempimento solo parziale, ovvero quando l'omissione dei pagamenti trovino ben precise giustificazioni nelle condizioni dell’obbligato ed appaiano agevolmente collocabili entro un breve, o comunque ristretto, lasso temporale, quando a fronte di un più ampio periodo preso in considerazione risulti accertata la piena regolarità nel soddisfacimento dei relativi obblighi.

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 28 dicembre 2017 – 14 marzo 2018, n. 11635
Presidente Conti – Relatore Calvanese

Ritenuto in fatto

1. C.G. ricorre avverso la sentenza, indicata in epigrafe, della Corte di appello di Milano, nella parte in cui ha confermato la condanna inflittagli in primo grado per i reati di cui ai capi A) (riqualificati i fatti in appello ai sensi degli artt. 660 e 612 cod. pen.) e B) (art. 570, secondo comma cod. pen.).
In particolare, la Corte di appello, pur ritenendo attendibile il racconto della persona offesa, escludeva che i comportamenti molesti tenuti dall’imputato nei confronti nella moglie G.S. , consistiti in telefonate e messaggi minacciosi ed ingiuriosi, configurassero il reato di atti persecutori, posto che difettava la prova della produzione degli eventi richiesti dall’art. 612-bis cod. pen., ovvero di un perdurante e grave stato di ansia o di paura in danno della donna e la alterazione delle abitudini di vita di quest’ultima.
La Corte di appello riteneva peraltro che le citate comunicazioni, in quanto includenti minacce (secondo il primo giudice, l’imputato aveva chiamato sull’utenza del figlio, che azionava il viva voce, dicendo che l’avrebbe ammazzata e che gliela avrebbe fatta pagare), venivano ad integrare il reato di cui all’art. 612 cod. pen., nonché quello di cui all’art. 660 cod. pen., stante l’insistenza della loro verificazione.
La Corte territoriale escludeva, in considerazione della reiterazione del comportamento ed il coinvolgimento se pur indiretto del minore, l’applicazione dell’art. 131-bis cod. pen..
Confermava altresì la penale responsabilità dell’imputato per il reato di cui all’art. 570, secondo comma, cod. pen. (per aver omesso di fornire al figlio minore i mezzi di sussistenza), ritenendo destituite di fondamento le censure difensive, in quanto in parte non pertinenti al periodo temporale di contestazione e in parte irrilevanti (quanto allo stato di bisogno del minore e alla contribuzione da parte di altri), non risultando neppure che l’imputato avesse richiesto in sede civile la modifica dell’assegno di mantenimento.
La Corte distrettuale rilevava che dalla documentazione prodotta risultava il versamento soltanto parziale dell’assegno, sia perché non sempre versato o perché versato in entità inferiore al dovuto, non essendo necessario l’accertamento della sufficienza delle somme corrisposte al sostentamento del minore. In ogni caso, non risultava provata l’impossibilità non colpevole dell’imputato di adempiere integralmente all’obbligo di mantenimento.
2. Avverso la suddetta sentenza, ricorre l’imputato, deducendo i seguenti motivi (come sintetizzati nei limiti di cui all’art. 173, disp. att. cod. proc. pen.):
- violazione di legge in relazione agli artt. 192 e 210 cod. proc. pen., perché le dichiarazioni della persona offesa erano da ritenersi inutilizzabili, in quanto le stesse dovevano essere assunte con le modalità previste per il testimone "assistito", ex art. 371, comma 2, lett. b) cod. proc. pen., risultando pendente a carico della dichiarante, come si dava atto nella stessa sentenza impugnata, un procedimento penale per elusione del provvedimento del giudice civile in ordine al diritto di visita nei confronti del loro figlio minore;
- vizio di motivazione, in relazione all’art. 603 cod. proc. pen., non avendo espresso alcuna motivazione in ordine alla richiesta di riapertura della istruttoria dibattimentale richiesta dalla difesa con l’appello, quanto alla perizia di trascrizione sul materiale audio proveniente dalla parte civile, rilevante per risolvere i dubbi processuali e prospettare una differente ricostruzione dei fatti;
- vizio di motivazione in ordine alla valutazione delle dichiarazioni dibattimentali rese dalla persona offesa, non avendo la Corte di appello addotto alcuna motivazione sui rilievi sollevati dalla difesa quanto alla mancanza di coerenza delle stesse, al comportamento non edificante tenuto dalla persona offesa e alla mancanza di riscontri in ordine ai denunciati maltrattamenti;
- vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta responsabilità penale per i fatti riqualificati ai sensi degli artt. 594, 612 e 660 cod. pen., in quanto la Corte di appello avrebbe da un lato escluso la sussistenza del reato di atti persecutori, ritenendo "soggettive" le valutazioni offerte dalla persona offesa, dall’altro avrebbe utilizzato le stesse dichiarazioni, ritenendo credibile il racconto per configurare altre ipotesi di reato, di qui la necessità di procedere con perizia alla trascrizione dei cd audio prodotti dalla persona offesa per la verifica degli eventi; la motivazione risulterebbe illogica e contraddittoria anche con riferimento ai fatti di minaccia aggravata, non essendo stati accertata la ritenuta aggravante; non risulterebbe provato neppure il reato di cui all’art. 660 cod. pen.;
- vizio di motivazione in ordine all’elemento soggettivo del reato di cui all’art. 570, secondo comma, cod. pen., non avendo considerato la Corte di appello che in ogni caso non erano mai mancati al figlio minore i mezzi di sussistenza (avendo il ricorrente provveduto sporadicamente a rimettere il mantenimento) e che il ricorrente versava in una situazione di difficoltà economica precaria fino a collassare; il ricorrente avrebbe provato di aver fornito al figlio il mantenimento costante, di cui avrebbe dato la stessa Corte di appello quanto ai versamenti parziali dell’assegno mensile;
- vizio di motivazione per la mancata applicazione dell’art. 131-bis cod. pen., fondata sulla reiterazione dei comportamenti ed il coinvolgimento sia pure indiretto del minore, non considerando i rilievi difensivi, ovvero che il numero e la durata degli sms e delle telefonate era circoscritta.
Con motivi nuovi depositati il 15 dicembre 2017, il difensore deduce altresì:
- l’inutilizzabilità delle dichiarazioni della persona offesa, in quanto non assunte con le garanzie prescritte dall’art. 197-bis cod. proc. pen.;
- violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 125, comma 3, 192, commi 2 e 3, e 546, comma 1, cod. proc. pen. e alla credibilità della persona offesa, non avendo la Corte di appello risposto alle censure difensive;
- violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 125, comma 3, 192, commi 2 e 3, e 546, comma 1, cod. proc. pen. e alla ritenuta responsabilità per il reato di cui all’art. 570, secondo comma cod. pen., avendo la Corte di appello fatto discendere la penale responsabilità del ricorrente dal mero inadempimento civilistico, non rispondendo alle censure difensive circa la capacità economica dell’obbligato (come d’altronde accertato in sede civile con la modifica dell’assegno di mantenimento).

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito indicati.
2. Il primo motivo è generico.
Perché discenda l’incompatibilità a testimoniare prevista dall’art. 197-bis cod. proc. pen. è pur sempre necessaria la rilevabilità dello status di indiziato/imputato del testimone al momento dell’assunzione della prova.
Le Sezioni Unite (sentenza n. 15208 del 25/02/2010, Mills), hanno ancorato a precisi e stringenti requisiti la possibilità di sindacato successivo di tale status: è stato infatti ribadita, come già in precedenza affermato (Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, Fruci, Rv. 24341701 e Sez. U, n. 21832 del 22/02/2007, Morea, Rv. 236370), la necessità che il giudice che procede all’assunzione della prova sia a conoscenza già prima dell’esame o dell’escussione di elementi già sussistenti in quel momento qualificabili quali indizi non equivoci di reità, che se non risultanti dagli atti, possono essere dedotti dalle parti.
Inoltre, occorre ai fini dell’incompatibilità richiamata dalla difesa, derivante dal collegamento di cui all’art. 371, comma 2, lett. b) cod. proc. pen., che si versi in una delle ipotesi ivi indicate.
Orbene, in ordine alla prima questione, l’unico dato fornito dalla difesa in sede di appello era la pendenza ex art. 335 cod. proc. pen. nel 2012 di un procedimento penale a carico della persona offesa per il reato di cui all’art. 388 cod. pen.; mentre, quanto alla seconda questione, la difesa nulla ha dedotto, limitandosi ad indicare soltanto la norma sopra citata.
Anche a voler tacere della genericità del rilievo, che rende già di per sé inammissibile la censura, la questione appare anche del tutto infondata laddove venga in considerazione, in ipotesi, il collegamento tra reati commessi "in danno reciproco".
Questi ultimi infatti devono intendersi quei reati commessi ai danni l’uno dell’altro nel medesimo contesto spazio-temporale, in stretto collegamento naturalistico (tra tante Sez. 2, n. 4128 del 09/01/2015, Cecoro, Rv. 262369; Sez. 5, n. 599 del 17/12/2008, dep. 2009, Mastroianni, Rv. 242384; Sez. 5, n. 47363 del 13/11/2008, Petrelli, Rv. 242305).
Nella specie, tale condizione non sussiste, posto che il reato ex art. 388 cod. pen., per il quale si deduce la pendenza del procedimento a carico della G. , risulterebbe commesso in epoca prossima al 2 luglio 2014, mentre il reato del presente procedimento ai danni della predetta è stato commesso anni addietro.
3. Sono all’evidenza prive di fondamento le censure relative alla dedotta violazione dell’art. 603 cod. proc. pen..
La Corte di appello ha ritenuto infatti di poter decidere allo stato degli atti, rigettando la richiesta del ricorrente di rinnovare l’istruttoria dibattimentale per disporre una perizia di trascrizione del contenuto di un cd audio prodotto dalla persona offesa.
L’obbligo di motivazione del giudice appello va posto in correlazione con la genericità della suddetta richiesta, non supportata da argomentazioni specifiche sull’apporto probatorio della perizia rispetto alla prova documentale così acquisita (cd audio).
A riguardo va rammentato che la registrazione fonografica di una conversazione telefonica effettuata da uno dei partecipi al colloquio costituisce una forma di memorizzazione fonica di un fatto storico, utilizzabile in dibattimento quale prova documentale, rispetto alla quale la trascrizione rappresenta una mera trasposizione del contenuto del supporto magnetico contenente la registrazione (tra le tante, Sez. 2, n. 50986 del 06/10/2016, Occhineri, Rv. 268730; Sez. 5, n. 4287 del 29/09/2015, dep. 2016, Pepi, Rv. 265624).
4. Identica sorte va assegnata alle censure versate nel terzo e quarto motivo, che denunciano deficit motivazionali all’evidenza infondati (quanto alle ingiurie, va in ogni caso rilevato che la Corte di appello aveva dichiarato l’avvenuta depenalizzazione delle relative condotte).
In ordine alla valutazione delle dichiarazioni della persona offesa, va osservato che i fatti che avrebbero dovuto essere valutati ai fini della credibilità della persona offesa erano in realtà elementi presentati nell’appello per escludere il reato ex art. 612-bis cod. pen., in particolare per far risaltare che non vi fosse stato un grave e perdurante stato di ansia e paura (quindi un profilo accolto dalla Corte di appello).
Quel che rileva in questa sede è che il ricorrente non aveva contestato il fatto oggettivo (le telefonate e i messaggi inviati), ma lo aveva giustificato in funzione dell’interesse di sentire il minore, a fronte dell’ostruzionismo della donna. E il riscontro delle dichiarazioni della persona offesa, quanto al contenuto minaccioso delle comunicazioni, era stato già in primo grado rinvenuto nelle registrazioni audio versate dalla persona offesa e nelle dichiarazioni della sorella di quest’ultima che aveva assistito ai fatti.
Non è ravvisabile inoltre alcuna contraddizione nella valutazione delle dichiarazioni della persona offesa: la Corte di appello ha ritenuto non sussistente il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. sol perché era mancata la prova degli eventi tipici del reato e non perché era inaffidabile il narrato della persona offesa.
Quanto alla minaccia grave, è sufficiente rilevare che era stato il primo giudice ad aver accertato le minacce di morte avanzate dal ricorrente alla persona offesa e sul punto nell’appello il ricorrente si era soltanto difeso escludendo di averle effettuate.
Lo stesso dicasi in ordine alle molestie, posto che la reiterazione delle comunicazioni era stata accertata in primo grado, sulla base delle stesse prove di cui si è detto sopra.
5. Sono manifestamente infondate anche le censure relative all’art. 131-bis cod. pen..
La motivazione della sentenza impugnata in ordine all’inapplicabilità per il capo A) della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., risulta all’evidenza adeguata e priva di vizi logico-giuridici.
La Corte di appello ha infatti valorizzato a dimostrazione della non particolare tenuità del fatto sia il dato obiettivo della reiterazione dei comportamenti illeciti sia la loro offensività, in considerazione del coinvolgimento sia pure indiretto del minore, che venivano pertanto ad assorbire logicamente i rilievi difensivi, limitati a far valere la durata e il numero circoscritti delle comunicazioni contestate.
6. Fondato è invece il motivo relativo alla ritenuta responsabilità per il reato di cui all’art. 570 cod. pen..
È assorbente rilevare che la Corte di appello, pur avendo accertato il parziale adempimento da parte del ricorrente dell’obbligo di mantenimento del figlio minore, ha applicato un principio di diritto in realtà affermato in sede di legittimità in ordine ad altra fattispecie di reato che sanziona il mero inadempimento dell’assegno nella misura disposta dal giudice (art. 12-sexies della legge 1 dicembre 1970, n. 898).
Quanto alla configurabilità del reato previsto dall’art. 570, secondo comma, n. 2, cod. pen., nell’ipotesi di corresponsione parziale dell’assegno stabilito in sede civile per il mantenimento, questa Suprema Corte ha invece affermato che il giudice penale deve accertare se tale condotta abbia inciso apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici che il soggetto obbligato è tenuto a fornire ai beneficiari, tenendo inoltre conto di tutte le altre circostanze del caso concreto, dovendosi escludersi ogni automatica equiparazione dell’inadempimento dell’obbligo stabilito dal giudice civile alla violazione della legge penale (tra le tante, Sez. 2, n. 24050 del 10/02/2017, P. A, Rv. 270326).
Al riguardo, si è osservato che, come si evince dalla stessa formulazione letterale della disposizione ora menzionata, non vi è equiparazione tra il fatto penalmente sanzionato e l’inadempimento civilistico, poiché la norma non fa riferimento a singoli mancati o ritardati pagamenti, bensì ad una condotta di volontaria inottemperanza con la quale il soggetto agente intende specificamente sottrarsi all’assolvimento degli obblighi imposti con la separazione. Ciò corrisponde alla funzione assegnata dal legislatore a tale disposizione, che è quella di garantire che il soggetto obbligato assista con continuità i figli e gli altri soggetti tutelati. Se da un lato, quindi, non può ritenersi che la condotta delittuosa sia integrata da qualsiasi forma di inadempimento, dall’altro lato, trattandosi di reato doloso, la stessa deve essere accompagnata dal necessario elemento psicologico.
In particolare, sul piano oggettivo, deve trattarsi di un inadempimento serio e sufficientemente protratto (o destinato a protrarsi) per un tempo tale da incidere apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici che il soggetto obbligato è tenuto a fornire.
Ne discende che il reato non può ritenersi automaticamente integrato con l’inadempimento della corrispondente normativa civile e, ancorché la violazione possa conseguire anche al ritardo, il giudice penale deve valutarne in concreto la "gravità", ossia l’attitudine oggettiva ad integrare la condizione che la norma tende, appunto, ad evitare.
In tal senso, se, di regola, non può essere considerata sufficiente un’arbitraria affermazione del diritto alla autoriduzione dell’assegno, dovendo la parte in ogni caso rivolgersi al giudice civile per ottenere eventuali revisioni dell’importo (Sez. 6, n. 16458 del 05/04/2011, B., Rv. 250090), la situazione è diversa in tutti quei casi in cui in cui ci si trovi dinanzi ad un limitato ritardo, ad un parziale adempimento, ovvero ad una omissione dei pagamenti, che trovino ben precise giustificazioni nelle peculiari condizioni dell’obbligato ed appaiano agevolmente collocabili entro un breve, o comunque ristretto, lasso temporale, quando a fronte di un più ampio periodo preso in considerazione risulti accertata la piena regolarità nel soddisfacimento dei relativi obblighi.
Nella motivazione della sentenza impugnata non viene compiutamente affrontato il tema delle reali modalità della condotta posta in essere dall’imputato, né viene correttamente applicata la norma penale laddove si opera una automatica equiparazione dell’inadempimento alla sua effettiva violazione.
7. Sulla base delle su esposte considerazioni, conclusivamente, l’impugnata sentenza deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio limitatamente al reato di cui all’art. 570 cod. pen., che dovrà porre rimedio alle rilevate carenze motivazionali, uniformandosi al quadro dei principii di diritto stabiliti da questa Suprema Corte.
Con riferimento ai reati di cui agli artt. 612 e 660 cod. pen. il ricorso va dichiarato inammissibile, con conseguente irrevocabilità delle relative statuizioni della sentenza ai sensi dell’art. 624, comma 2, cod. proc. pen..

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all’art. 570 cod. pen. e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Milano.
Dichiara inammissibile il ricorso con riferimento ai reati di cui agli artt. 612 e 660 cod. pen., statuizioni della sentenza che dichiara irrevocabili ai sensi dell’art. 624, comma 2, cod. proc. pen..