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Reformatio in pejus in appello: ancora alle SSUU (Cass., 47015/16)

9 novembre 2016, Nicola Canestrini

Nel caso di rformatio in pejus della setneza di primo grado, il giudice di appello debba porre in essere i poteri d’integrazione probatoria e procedere all’assunzione diretta dei dichiaranti per ritenere raggiunta la prova della colpevolezza dell’imputato, in riforma della sentenza appellata?

Corte di Cassazione, sez. II Penale, ordinanza 28 ottobre – 9 novembre 2016, n. 47015


Presidente Prestipino – Relatore Agostinacchio

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 28/11/2014 la Corte di Appello di Roma, in accoglimento dell’appello del PM, riformava la sentenza assolutoria emessa a termine di procedimento con rito abbreviato dal Gup del Tribunale di Latina il 16/09/2008 e condannava l’imputato P.A. alla pena, sospesa alle condizioni di legge, di un anno, sei mesi di reclusione ed Euro 4.200,00 di multa perché ritenuto responsabile di due episodi di usura in danno di Pi.Sa. (punti 49 e 50 del capo d’imputazione), costituitosi parte civile; l’imputato era altresì condannato al risarcimento dei danni in favore del Pi. nella misura da liquidarsi in separato giudizio.
2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il P. tramite difensore sulla base di due motivi con i quali ha eccepito il travisamento della prova, con riferimento in particolare alle dichiarazioni della parte offesa, esaminate in maniera apparente ed incompleta, e la lesione del diritto di difesa, in relazione al rigetto dell’istanza di rinnovazione istruttoria per l’escussione di testi a difesa.
Con memoria depositata il 27/07/2016 il ricorrente ha presentato motivi aggiunti censurando la radicale reformatio in peius della sentenza di primo grado sulla base di una motivazione insufficiente e di una diversa valutazione delle dichiarazioni della parte offesa, senza assunzione diretta della testimonianza, in violazione dell’obbligo al riguardo sancito dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo (art. 6, par. 1 e 3 lett. d CEDU).
3. Con memoria del 21/10/2016 il difensore della parte civile Pi. ha chiesto il rigetto del ricorso ritenendo esaustiva la motivazione del giudice di appello anche in ordine al diniego della rinnovazione istruttoria.

Considerato in diritto

1. Il collegio ritiene di rimettere all’autorevole scrutinio delle Sezioni Unite la seguente questione di diritto: "Se nel caso d’impugnazione del pubblico ministero contro una pronuncia di assoluzione emessa nell’ambito di un giudizio abbreviato non condizionato, ove questa sia basata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive dal primo giudice ed il cui valore sia posto in discussione dall’organo dell’accusa impugnante, il giudice di appello debba porre in essere i poteri d’integrazione probatoria e procedere all’assunzione diretta dei dichiaranti per ritenere raggiunta la prova della colpevolezza dell’imputato, in riforma della sentenza appellata".
1.1 Nel caso sottoposto all’esame della Seconda sezione penale della Corte di Cassazione, il collegio territoriale ha integralmente riformato la sentenza assolutoria sulla base di una diversa valutazione dei contenuti accusatori decisivi, forniti dalla persona offesa, degli atti acquisiti al processo in ragioni del rito (due denunce presentate nel 2006, verbali di sommarie informazioni testimoniali redatti dalla PG nel corso delle indagini). Si legge nella pronuncia impugnata: "meritano attenzione del tutto diversa da quella ottenuta nella precedente fase le dichiarazioni rese dalla persona offesa - oggi costituita parte civile - Pi. (che) ha ricostruito in modo preciso e puntuale il rapporto iniziale avuto con il P. , indicando specificatamente i motivi che lo avevano indotto a chiedere somme di danaro in prestito e ad a ricorrere ad un privato piuttosto che ai consueti canali istituzionali; i termini del primo finanziamento ed il capitale richiesto; la somma erogata; l’interesse anticipato trattenuto ed il relativo tasso d’interesse mensile...ritiene la Corte che - contrariamente a quanto affermato dal giudice di primo grado - le dichiarazioni rese dal Pi. siano precise, puntuali e specifiche (prive di) elementi che possano incrinarne l’attendibilità".
Sotto il profilo dell’attendibilità soggettiva la Corte ha osservato che non erano emersi motivi idonei a destare sospetto di qualche interesse a sporgere denuncia da parte della persona offesa, nonostante la recente costituzione di parte civile. Sotto il profilo della attendibilità oggettiva, il racconto doveva apprezzarsi oltre che "per la coerenza logica, per la completezza dei dettagli descritti e per la specificità dei dati forniti (anche per gli) specifici riscontri esterni" (tre assegni riconducibili al P. ; gli esiti della consulenza contabile effettuata dal consulente del PM "basandosi sulle dichiarazioni rese dalla persona offesa").
Come si evince dalla struttura argomentativa della sentenza di condanna, l’accertamento di responsabilità in ordine al reato di usura dipende dall’analisi della versione fornita dal Pi. , ritenuta dal giudice dell’udienza preliminare con motivazione, in realtà, oltre modo sintetica ed approssimativa - "vaga e poco utilizzabile" - e valorizzata invece dalla corte territoriale con ben più puntuali riscontri espositivi, nei termini sintetizzati in precedenza.
1.2 Il ricorrente, evidenziando la decisività ai fini della condanna della valutazione di attendibilità della persona offesa, ha esplicitamente eccepito nei motivi aggiunti la violazione dei parametri di legalità convenzionale, deducendo che "il rovesciamento dell’esito del giudizio assolutorio di primo grado operato dal Giudice di appello, basato sulla valutazione di prove dichiarative, essendo avvenuto senza rinnovazione di queste, si pone in contrasto con la consolidata giurisprudenza della Corte EDU che ha affermato che, in forza dell’art. 6, par. 1 e 3 dellt. D) C.E.D.U, un simile esito postula indefettibilmente, quanto ineludibilmente, la nuova assunzione diretta dei testimoni nel giudizio di impugnazione".
Non considera che l’elemento di novità sarebbe rappresentato dall’escussione del teste in appello, nel contraddittorio delle parti, non già dalla reiterazione di una prova testimoniale estranea al processo di primo grado, celebratosi con il rito abbreviato e, quindi, sulla base di una valutazione delle dichiarazioni della parte offesa veicolate dai documenti che le riportano e, per così dire, cristallizzate in tali atti, ritualmente acquisiti al processo.
Il punto nodale della definizione del ricorso, invece, è proprio questo e non richiederebbe in prima analisi la rimessione della questione alle sezioni unite che di recente si sono espresse a riguardo, enunciando un principio massimato - in coerenza con il dato motivazionale - nei seguenti termini: "la previsione contenuta nell’art.6, par.3, lett. d) della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, relativa al diritto dell’imputato di esaminare o fare esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico, come definito dalla giurisprudenza consolidata della Corte EDU - che costituisce parametro interpretativo delle norme processuali interne - implica che il giudice di appello, investito della impugnazione del pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, anche se emessa all’esito del giudizio abbreviato, con cui si adduca una erronea valutazione delle prove dichiarative, non può riformare la sentenza impugnata, affermando la responsabilità penale dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 603, comma terzo, cod. proc. pen., a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado" (Cass. sez. un. sent. n. 27620 del 28/04/2016 - dep. 06/07/2016 - Rv. 267487, imp. Dasgupta).
1.3 Un più attento esame dei termini della questione, così come suggerito dalla fattispecie in esame, induce invece ad optare per il coinvolgimento ex novo della Corte di cassazione nella sua più autorevole composizione per varie ragioni alle quali è opportuno fare cenno.
Innanzitutto, ritiene il Collegio che, dopo la decisione delle sezioni unite, persistano ragioni che possano dar luogo ad un nuovo contrasto giurisprudenziale, posto che, a distanza di pochi mesi dalla pubblicazione della sentenza, la terza sezione della Corte ha inteso discostarsi dal suddetto principio, affermando che nel rito abbreviato non condizionato la condanna di secondo grado che riforma l’assoluzione pronunciata nel primo non ha come presupposto l’obbligo di rinnovazione istruttoria (Cass. sez. 3, sent. n. 43242 del 12/07/2016 - dep. 13/10/2016 in corso di mass.).
Le argomentazioni a sostegno di tale conclusione - che saranno riprese ed ampliate in seguito - sono dotate di un’incisiva forza persuasiva ed il Collegio le condivide, con la conseguenza che la decisione della fattispecie in senso ad esse conforme rafforzerebbe una contrapposizione ermeneutica sconsigliabile da un punto di vista istituzionale, posto che, nell’ambito della finalità di nomofilachia assegnata al giudice di legittimità, la dialettica fra sezioni semplici e sezioni unite è destinata a comporsi all’interno di queste ultime sì da evitare incertezze applicative da parte dei giudici di merito in un settore quanto mai vitale nell’ordinamento processuale interno, atteso l’elevato numero di procedimenti definiti con il rito abbreviato; nell’ambito del fisiologico confronto che caratterizza l’attività ermeneutica, è lo stesso codice di rito che prevede la possibilità che, dopo una decisione delle sezioni unite, una sezione della corte possa rimettere un ricorso con l’enunciazione delle ragioni che possono dar luogo ad un nuovo contrasto giurisprudenziale (argomento ex art. 173, secondo comma, disp. att. att. cod. proc. pen.).
La rimessione inoltre permette di ritenere non rilevante l’accertamento della natura del principio in discussione nell’ambito della pronuncia Dasgupta: se esso cioè costituisca obiter dictum, posto che il caso esaminato dalle sezioni unite era stato trattato in merito con l’ordinario rito dibattimentale, o, invece, ratio decidendi - come tale dotato di efficacia vincolante - nel dichiarato obiettivo di razionalizzare l’istituto della rinnovazione dibattimentale ex art. 603 cod. proc. pen. secondo un criterio "generalissimo" (quello del ragionevole dubbio).
Se è vero infatti che gli obiter dicta si connotano perché non determinano alcun effetto sul dispositivo della decisione, è altresì indubbio - come non ha mancato di sottolineare autorevole dottrina - che essi assumono un valore persuasivo direttamente proporzionato al prestigio della corte che li esprime sino a divenire essi stessi rationes decidendi, nella continua tensione dialettica tra astratto e concreto che induce al dissolvimento del legame con la singola questione ed all’affermazione di principi di carattere generale in un’ottica sistematica della materia trattata.
2. I due orientamenti di segno opposto risolvono in maniera diversa la questione dell’applicabilità anche al procedimento con rito abbreviato non condizionato dell’obbligo del giudice di appello che ritenga di dover optare per un diverso apprezzamento della prova orale, stimata inattendibile dal primo giudice, di disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ai fini di nuova escussione della fonte dichiarativa.
3. Si è già detto che il caso esaminato con la sentenza Dasgupta era stato trattato nella fase di merito con l’ordinario rito dibattimentale; la questione rimessa aveva altresì un ambito circoscritto e riguardava la possibilità di rilevare d’ufficio in sede di giudizio di cassazione la problematica relativa alla violazione dell’art. 6 CEDU per avere il giudice d’appello riformato la sentenza assolutoria di primo grado affermando la responsabilità penale dell’imputato esclusivamente sulla base di una diversa valutazione di attendibilità delle dichiarazioni di testimoni senza procedere a nuova escussione degli stessi.
Il fulcro della decisione delle sezioni unite è costituito, in una prospettiva che ha intenti sistematici e che va ben oltre il caso prospettato, dall’individuazione dello standard motivazionale della sentenza di appello che riformi in peius una pronuncia assolutoria: richiamato il principio della specificità ed intensità del dovere confutativo del giudice di secondo grado nella sua motivazione ("rafforzata" secondo la locuzione ricorrente in molte pronunce di legittimità per esprimere il più intenso obbligo di diligenza richiesto per confutare specificatamente i principali argomenti addotti dal primo giudice) le sezioni unite inglobano in tale principio quello dell’"al di là di ogni ragionevole dubbio", valorizzando l’innovazione introdotta dall’art. 5 della L. 20 febbraio 2006 n. 46 con la modifica dell’art. 533 cod. proc. pen. ed allineandosi con la più recente interpretazione nomofilattica secondo cui la condanna presuppone la certezza della colpevolezza mentre l’assoluzione non presuppone la certezza dell’innocenza ma la mera non certezza della colpevolezza.
La valutazione peggiorativa compiuta nel processo di appello sullo stesso materiale probatorio acquisito in primo grado deve essere sorretta cioè da argomenti dirimenti, tali da rendere evidente l’errore della sentenza assolutoria, la quale deve rivelarsi, rispetto a quella di appello, non più razionalmente sostenibile, per essere stato del tutto fugato ogni ragionevole dubbio sull’affermazione di responsabilità.
3.1 Corollario di tale principio composito, nel ragionamento della Corte, è che deve ritenersi affetto da vizio motivazionale ex art. 606, primo comma lett. e) cod. proc. pen. - per mancato rispetto del canone dell’ "oltre ogni ragionevole dubbio" - la sentenza di appello che riformi in peius una sentenza assolutoria operando una diversa valutazione di prove ritenute decisive, delle quali non ha disposto rinnovazione ex art. 603, terzo comma cod. proc. pen..
La pronuncia richiama a tal fine come risolutive della questione del rapporto tra parametri convenzionali e norme interne le sentenze cd. gemelle della Corte Costituzionale nn. 348 e 349 del 2007; cita la giurisprudenza della Corte EDU assurta a particolare risalto a seguito della decisione Dan c. Moldavia del 05/11/2011 (ma che in realtà trova espressione in precedente pronunce, a partire dal caso Bricmont c. Belgio del 07/07/1989, e poi, ex plurimis, nei casi Costantinescu c. Romania del 27/06/2000; Sigurbr Arnarsson c. Islanda del 15/07/2003; Destrehem c. Francia del 18/05/2004; Garda Ruiz c. Spagna del 21/01/2006), secondo cui l’affermazione nel giudizio di appello della responsabilità dell’imputato prosciolto in primo grado sulla base di prove dichiarative è consentita solo previa nuova assunzione diretta dei testimoni nel giudizio di impugnazione, a pena di violazione dell’art. 6 CEDU, e in particolare del par. 3, lett. d), che assicura il diritto dell’imputato di "esaminare o fare esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico" (più recentemente, Manolachi c. Romania del 05/03/2013; Fluera5 c. Romania del 09/04/2013).
Ricostruisce poi l’istituto della rinnovazione dibattimentale, dando atto che la sua disciplina non prende in considerazione l’ipotesi in cui il giudice di appello interpreti le risultanze di prove dichiarative in termini antitetici alle conclusioni assunte in primo grado: ma in tal caso, mentre la riforma assolutoria del giudizio di condanna "pur senza rinnovazione della istruzione dibattimentale è perfettamente in linea con la presunzione d’innocenza, presidiata dai criteri di giudizio di cui all’art. 533 cod. proc. pen., diversamente è da dire nell’ipotesi inversa". Infatti il nostro ordinamento processuale "ha prescelto a statuto cognitivo fondante del processo penale il modello accusatorio, ispirato ai principi fondamentali della oralità della prova, della immediatezza della sua formazione"; ed in tale struttura il giudice di appello, che "ripete tutti i poteri decisori" del primo giudice può ribaltare la decisione assolutoria di quest’ultimo sulla base della prove dichiarative da lui assunte solo qualora "nel giudizio di appello si ripercorrano le medesime cadenze di acquisizione in forma orale delle prove elaborate in primo grado". Risulta così che "contraddittorio", "oralità", "immediatezza" nella formazione della prova e "motivazione" del giudizio di merito sono entità strettamente collegate; e ciò perché la percezione diretta da parte del giudice "è il presupposto tendenzialmente indefettibile di una valutazione logica, razionale e completa" e l’apporto informativo derivante dalla percezione della prova orale "è condizione essenziale della correttezza e completezza del ragionamento sull’apprezzamento degli elementi di prova", tanto più quando la motivazione deve essere parametrata all’"accresciuto standard argomentativo imposto per la riforma di una sentenza assolutoria dalla regola del ragionevole dubbio", direttamente collegata al principio della presunzione d’innocenza. Dal punto di vista dell’imputato, poi, la mancata rinnovazione della prova dichiarativa "sacrifica un’efficace confutazione delle argomentazioni svolte nell’appello del PM che possa trarre argomenti dall’interlocuzione diretta con la fonte le cui affermazioni siano state poste a sostegno della tesi di accusa". Pertanto la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale risulta assolutamente necessaria" ex art. 603, terzo comma cod. proc. pen. se l’impugnazione del pubblico ministero concerne "una erronea valutazione sulla concludenza delle prove dichiarative".
Il riferimento è ovviamente al rito ordinario; alle prove dichiarative "assunte nel corso del dibattimento ma eventualmente anche in sede di incidente probatorio".
3.2 Il percorso sistematico si snoda quindi in un successivo passaggio per far derivare dai principi affermati un ulteriore corollario relativo alla portata generale dell’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado.
Le sezioni unite sostengono che si tratta di una conclusione perfettamente in linea con la proposta di introduzione di una esplicitazione di un simile dovere del giudice di appello, nell’ambito di un apposito comma (4-bis) da inserire nell’art. 603 cod. proc. pen., formulata dalla Commissione ministeriale istituita con decreto del 10 giugno 2013 per la elaborazione di interventi in tema di processo penale; che la mancanza di una formale previsione al riguardo non è di ostacolo a ricavare la regola in via di interpretazione sistematica, avuto riguardo alle linee ermeneutiche di sistema sopra tracciate; che l’esigenza di rinnovazione della prova dichiarativa non consente distinzioni a seconda della qualità soggettiva del dichiarante, sia esso testimone "puro" (art. 197 cod. proc. pen.) o testimone "assistito" (art. 197-bis cod. proc.pen.); che a simile conclusione deve pervenirsi anche in caso di dichiarazioni di coimputato in procedimento connesso (art. 210 cod. proc. pen.) o di coimputato nello stesso procedimento (art. 503 cod. proc. pen.) nonché per le dichiarazioni rese dall’imputato in causa propria.
Soprattutto (per la questione in esame) affermano che "a non dissimile approdo deve coerentemente pervenirsi nel caso d’impugnazione del pubblico ministero contro una pronuncia di assoluzione emessa nell’ambito del giudizio abbreviato, ove questa sia basata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive dal primo giudice ed il cui valore sia posto in discussione dall’organo dell’accusa impugnante" dovendo "il giudice di appello porre in essere i poteri d’integrazione probatoria adottabili anche in questo speciale rito ed essendo irrilevante che gli apporti dichiarativi siano stati valutati in primo grado sulla base dei soli atti d’indagine ovvero a seguito di integrazione probatoria a norma dell’art. 438, comma 5 o dell’art. 441 comma 5 cod. proc. pen.".
3.3 Il principio del ragionevole dubbio, così come elaborato, da ritenersi di "carattere generalissimo", obbligherebbe pertanto il giudice di appello anche nei procedimenti con rito abbreviato non condizionato all’assunzione diretta del dichiarante, qualora, come nel caso di specie, l’apporto dichiarativo sia decisivo per l’affermazione di responsabilità in riforma della pronuncia assolutoria di primo grado. Diviene a tal fine irrilevante non solo la circostanza che il narrato in questione sia stato valutato nel precedente grado esclusivamente attraverso gli atti di indagine, prescindendo dal contatto diretto con la fonte di prova; perde di consistenza anche la distinzione tra "attendibilità intrinseca e attendibilità estrinseca" delle dichiarazioni, introdotto dalla giurisprudenza di legittimità come specifico parametro di ammissibilità della rinnovazione istruttoria.
Sotto tale ultimo profilo è opportuno precisare che è stato ritenuto sussistente l’obbligo di rinnovazione della prova soltanto qualora il giudice intenda variare il giudizio sulla attendibilità "intrinseca" della prova dichiarativa; al contrario, qualora il giudice non modifichi il giudizio di attendibilità della prova, ma si limiti ad una "interpretazione delle dichiarazioni" alla luce del diverso apprezzamento di altri elementi di prova non vi è alcuna necessità di rinnovazione (sul punto, Sez. 6, n. 47722 del 06/10/2015, Arcone, Rv. 265879). L’evoluzione della giurisprudenza di legittimità nella prosecuzione del percorso di adattamento dei principi alle fattispecie concrete ha condotto (Sez. 5, n. 8423 del 16/10/2013, dep. 21/02/2014, Caracciolo e altro, Rv. 258945; Sez. 4, n. 4100/13 del 06/12/2012, Bifulco, Rv. 254950; Sez. 5, n. 10965 del 11/01/2013, Cava e altro, Rv. 255223) alla specificazione di ulteriori delimitazioni agli obblighi di rinnovazione, affermandosi, per un verso, l’inapplicabilità dei principi dettati dalla Corte EDU nel caso Dan v. Moldavia qualora il giudice di appello non proceda ad una rivalutazione dell’attendibilità di una testimonianza, ma si limiti ad apprezzare le dichiarazioni rese alla luce di ulteriori elementi trascurati dal primo giudice; e, per altro verso, che non viola il principio dell’"oltre ogni ragionevole dubbio", il giudice di appello che riformi totalmente la sentenza assolutoria di primo grado valutando diversamente il medesimo compendio probatorio, qualora approdi, in base al proprio libero convincimento, ad una valutazione di colpevolezza attraverso una rilettura degli esiti della prova dichiarativa (di cui non ponga in discussione il contenuto o l’attendibilità), valorizzando gli elementi eventualmente trascurati dal primo giudice, ovvero evidenziando gli eventuali travisamenti in cui quest’ultimo sia incorso nel valutare le dichiarazioni (in questi termini, Sez. 2, n. 17812 del 09/04/2015, Maricosu, Rv. 263763).
Secondo le sezioni unite, invece, l’obbligo di rinnovazione da parte del giudice di appello sussisterebbe tutte le volte che la riforma in peius della sentenza s’incentri sulla erronea valutazione circa la concludenza delle prove dichiarative, ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado, a prescindere dalle ragioni sottostanti tale diverso apprezzamento; circostanza particolarmente rilevante nella fattispecie in esame, posto che la corte territoriale ha interpretato diversamente le dichiarazioni della parte offesa, valorizzando elementi trascurati dal primo giudice, senza che in entrambi i giudizi di merito fosse posta in discussione l’attendibilità della prova (per il tribunale infatti le informazioni fornite non consentivano di risalire all’accertamento della condotta di usura, con riferimento soprattutto al tasso d’interesse mensile applicato, mentre per la corte di appello i dati riscontrabili in quelle stesse dichiarazioni, frettolosamente considerate nel precedente grado, permettevano il riscontro dell’ipotesi accusatoria).
3.4 Si consideri infine, nell’ambito dell’esame delle ragioni delle sezioni unite, il richiamo alla giurisprudenza costituzionale circa il dovere d’integrazione probatoria da parte del giudice di appello nel rito abbreviato (l’argomento è tratto dalla sentenza della Corte Costituzionale n.470 del 1991, pronuncia sulla quale si avrà modo di soffermarsi in seguito e nella quale si afferma - tuttavia che "la connotazione più rilevante di questa forma di giudizio è data dal fatto che la decisione, su richiesta dell’imputato, viene assunta allo stato degli atti e che non si da luogo, conseguentemente, all’istruttoria dibattimentale propria del rito ordinario: di talché non si presenta neppure possibile, nell’ambito del rito abbreviato, procedere al rinnovo di una fase che, in tale rito, non sussiste. Da questo non discende, peraltro, che la disciplina posta nell’art. 603 non possa, almeno in parte, operare anche nell’ambito del rito abbreviato, ove il giudice dell’appello ritenga assolutamente necessario, ai fini della decisione, assumere di ufficio nuove prove o riassumere prove già acquisite agli atti del giudizio di primo grado").
3.5 Appare in ultimo doveroso precisare che nell’ambito della giurisprudenza di legittimità si rinviene un solo precedente massimato, conforme alla soluzione prospettata dalle sezioni unite sulla specifica questione in argomento, in cui si afferma che "per riformare in peius una sentenza assolutoria, anche se emessa all’esito di giudizio abbreviato, il giudice di appello è obbligato - in base all’art. 6 CEDU, così come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/Moldavia - alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale solo quando intende operare un diverso apprezzamento di attendibilità di una prova orale, ritenuta in primo grado non attendibile" (Cass. sez. 6 sent. n. 8654 dell’11/02/2014 - dep. 21/02/2014 - Rv. 259107).
In motivazione si sostiene di voler condividere "l’orientamento di legittimità secondo il quale al riconoscimento dell’obbligo di origine convenzionale non osta il rito abbreviato adito in quanto è pacifico che, indipendentemente dalle richieste delle parti, il giudice di appello che ritenga di avvalersene ha anche poteri autonomi di accertamento e che la scelta del rito non pone di per se stessa alcun limite al riguardo": i riferimenti tuttavia sono ad un giurisprudenza che pacificamente ritiene che la celebrazione del processo nelle forme del rito abbreviato non impedisce, di per se stessa, al giudice di appello di disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, anche indipendentemente dalle richieste delle parti (ex multis Cass. sez. 3, sent. n. 5854 del 29/11/2012 - dep. 06/02/2013 - Rv. 254850), ma che non ipotizza l’esistenza di un obbligo in tal senso nel caso in cui la diversa valutazione riguardi una prova dichiarativa acquisita in prima grado attraverso gli atti di indagini e, quindi, sottratta alle regole del contraddittorio (non obbligo dunque desunto dalla giurisprudenza della corte EDU ma una facoltà discrezionalmente esercitabile anche nei casi in cui si proceda con rito abbreviato).
La sentenza conclude per l’irrilevanza del rito ai fini dell’affermazione del principio in questione "per una questione di equo processo" senza ulteriore approfondimento.
4. Il contrapposto orientamento si afferma prima della pronuncia delle sezioni unite e si ripropone come immediata reazione all’affermazione di un principio non condiviso.
Alle ragioni ad esso sottostante accenna la sentenza Dasgupta al fine di evidenziarne l’irrilevanza, affermando: a) l’unicità del precedente contrario (sez. 2, n. 33690 del 23/05/2014, De Silva, Rv. 260147); b) il limite costituito dalla valorizzazione in via esclusiva delle indicazioni desumibili dalle fattispecie considerate dalla giurisprudenza della Corte EDU, senza confrontarsi con il principio dell’"oltre ogni ragionevole dubbio".
4.1 In realtà la tesi secondo cui la Corte di appello, qualora intenda riformare "in peius" una sentenza assolutoria, emessa all’esito di giudizio abbreviato, non è obbligata alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale per l’audizione dei testimoni ritenuti dal primo giudice inattendibili non costituisce un unicum nel panorama giurisprudenziale; non risulta cioè affermato solo dalla citata sentenza della seconda sezione penale ma appartiene ad un orientamento trasversale consolidatosi oltre il contesto di tale sezione (il riferimento è a sez. 2, sent. n. 40254 del 12/06/2014 - dep. 29/09/2014 - Rv. 260442; sez. 2, sent. n. 32655 del 15/07/2014 - dep. 23/07/2014 - Rv. 261851; sez. 3 sent. n. 45456 del 30/09/2014- dep. 04/11/2014 – Rv. 260868; sez. 3 sent. n. 38786 del 23/06/2015- dep. 24/09/2015 -Rv. 264793; sez. 3, sent. n. 49165 del 06/10/2015- dep. 14/12/2015 Rv. 265589; sez. 3, sent. n. 11658 del 24/02/2015- dep. 20/03/2015 – Rv. 262985; sez. 6, sent. n. 14038 del 02/10/2014 - dep. 03/04/2015 - Rv. 262949); orientamento che ha evidenziato (a ragione, ad avviso dell’odierno Collegio) che l’esigenza della necessaria rinnovazione istruttoria sussiste soltanto nel caso di prova assunta oralmente dal primo giudice e non quando l’imputato, con la scelta del rito abbreviato non condizionato, abbia rinunziato alle garanzie dell’oralità e del contraddittorio (sent. 3369/2014), senza che, neppure in primo grado, si sia instaurato, un contatto diretto tra l’autorità giudiziaria e la fonte dichiarativa (sent. 45456/2014), trattandosi di dichiarazioni assunte nella fase delle indagini ed utilizzate ai fini del giudizio per effetto della scelta dell’imputato di accedere al rito speciale (sent. 38786/2015), con conseguente "riespansione" dell’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale solo in caso di giudizio abbreviato condizionato, quando in appello si intenda operare un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova orale acquisita dal primo giudice in sede di integrazione probatoria (sent. 11658/2015; sent. 14038/2015).
La stessa soluzione ermeneutica è stata ribadita dalla menzionata sentenza delle terza sezione (n. 43242/2016) che, in chiave critica, ha esaminato le ricadute del principio affermato dalle sezioni unite, ritenendo che in subiecta materia il riferimento al canone del ragionevole dubbio non può essere utilizzato per superare l’indubbia dicotomia dei modelli accusatori (da un lato, il giudizio ordinario, governato dall’oralità e dal contraddittorio; dall’altro, il giudizio negoziale, di fondamento cartolare) - e non rappresenta, quindi, il limite ravvisato nel tessuto argomentativo della sentenza n. 3369/2014 - ma, al contrario, "rischia di porre in discussione la legittimità costituzionale dei cosiddetti riti alternativi" che prescindono dal "principio di cui all’art. 533, primo comma cod. proc. pen. nel senso che soltanto tramite una diretta percezione della prova dichiarativa, con correlato esercizio dal contraddittorio da parte dell’imputato, il giudice può portare la sua cognizione al da là di ogni ragionevole dubbio" e che "anzi ciò invertono, cartolarizzando, per così dire, l’accertamento, e, dunque, vincendo per via cartolare la presunzione di non colpevolezza quando il giudizio sfocia in condanna".
4.2 Si impone per completezza espositiva, una sintesi sistematica delle argomentazioni che sostengono tale orientamento.
4.2.1 La Corte di Strasburgo con una serie di pronunce omogenee già citate (Dan v.Moldavia, Corte Edu, 5 luglio 2011; Manolachi v. Romania, Corte EDU, III sez., 5 marzo 2013; Flueras v. Romania, Corte Edu, III sez., 9 aprile 2013; Corte Edu, III Sez., sent. 4 giugno 2013; Hanu v. Romania, ric. 10890/04; più recentemente Moinescu v. Romania, Corte Edu, III sez. 15.9.2015; Nitulescu v.Romania, Corte Edu, III sez. 22.9.2015) ha ribadito l’iniquità del ribaltamento della assoluzione fondato sulla rivalutazione cartolare della attendibilità della testimonianza decisiva, nel caso in cui, nella fase processuale conclusasi con l’assoluzione, la stessa prova, formatasi in contraddittorio, fosse stata valutata inattendibile.
La Corte Edu ha ritenuto cioè che coloro che anche in secondo grado hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l’innocenza di un imputato dovrebbero, in linea di massima, poter sentire, come hanno fatto i giudici di primo grado, i testimoni, ritenuti decisivi, personalmente per poterne valutare la loro attendibilità intrinseca perché la valutazione dell’attendibilità è un compito complesso che richiede un contatto diretto del giudice con il dichiarante al fine di permettere una valutazione "di prima mano" sull’attendibilità delle dichiarazioni; pur ribadendo che l’art. 6 della Convenzione non detta regole sulla ammissibilità delle testimonianze e sul modo di valutarle, rileva comunque che la mancata audizione dei testimoni, in particolari circostanze, può essere incompatibile con la tutela assicurata dalla Convenzione al diritto di difesa.
4.2.2 Diverso è il caso in cui il procedimento di primo grado è stato deciso nelle forme del giudizio abbreviato che è quel procedimento speciale che consente al giudice, su richiesta dell’imputato, di pronunciare, già al momento dell’udienza preliminare quella decisione di merito (condanna o assoluzione) che di regola è emanata all’esito del dibattimento. L’istituto che ha la funzione di deflazionare il dibattimento e che pertanto presuppone minori garanzie nella formazione della prova, si fonda sul consenso dell’imputato che, nell’accettare questo procedimento speciale, da un lato rinuncia ad avvalersi delle regole ordinarie e dall’altro però ottiene un trattamento premiale attraverso l’applicazione della diminuente prevista dall’art. 442 c.p.p.. Ne deriva che la prova non è formata nel contraddittorio delle parti e non trovano applicazione il principio dell’oralità (è un processo allo stato degli atti e quindi si fonda sulla lettura di atti scritti) e dell’immediatezza (il giudice non ha un contatto diretto con la fonte di prova). Il giudice decide sul compendio conoscitivo contenuto nel fascicolo del P.M. che annovera le risultanze degli atti di indagine, i verbali delle eventuali prove assunte in sede di incidente probatorio e il fascicolo del difensore, valutando le deposizioni testimoniali, e quindi anche l’attendibilità dei testi, attraverso la lettura delle loro parole verbalizzate.
L’istituto, che ha avuto riconoscimento costituzionale nel nuovo comma 5 dell’art. 111 ("la legge regola i casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso dell’imputato"), rispetto al testo originario del codice del 1988 ha subito con l’introduzione della Novella del 1999 modifiche. Mentre nel 1988 il giudizio abbreviato era stato costruito come un giudizio "a prova contratta" che si poneva in alternativa al dibattimento - il rito abbreviato necessitava del consenso del pubblico ministero - con la legge Carotti del 1999 il legislatore ha eliminato la necessità del consenso del pubblico ministero e ha attribuito al giudice un limitato potere di integrazione probatoria (art. 441 co 5 c.p.p.). Si può pertanto affermare che in caso di celebrazione del processo nelle forme del giudizio abbreviato sia il giudice di primo grado che quello di secondo grado hanno un rapporto mediato con la fonte della prova dichiarativa che non viene assunta davanti a loro, con la sola eccezione della assunzione diretta di elementi necessari ai fini della decisione qualora ritengano di non essere in grado di decidere allo stato degli atti (art. 441 co 5 c.p.p. e 603 co 3 c.p.p.).
4.2.3 L’istituto è stato oggetto di esame, proprio per i profili che qui rilevano ed in varie occasioni, dalla stessa corte di Strasburgo che non ha mancato da ultimo di rilevare (Mihail-Alin PODOLEANU contro Italia, Corte EDU I sez., 8 dicembre 2015) che "il rito abbreviato presenta dei vantaggi innegabili per l’imputato: in caso di condanna, quest’ultimo beneficia di una importante riduzione della pena... il procedimento è accompagnato da un’attenuazione delle garanzie procedurali offerte dal diritto interno, in particolare per quanto riguarda la pubblicità del dibattimento, la possibilità di chiedere la produzione di elementi di prova e di ottenere la convocazione dei testimoni (Kwiatkowska c. Italia sent. n. 52868/99, 30 novembre 2000) e che "in effetti, nell’ambito del rito abbreviato, la produzione di nuove prove in linea di principio è esclusa e la decisione deve essere presa, salvo eccezioni, sulla base dei documenti presenti nel fascicolo del pubblico ministero" (Hermi c. Italia GC, sent. n. 18114/02). La Corte rammenta che, se è vero che gli Stati contraenti non sono costretti dalla Convenzione a prevedere delle procedure semplificate (Hany c. Italia, 6 novembre 2007), rimane comunque il fatto che, quando tali procedure esistono e vengono adottate, i principi del processo equo impongono di non privare arbitrariamente un imputato dei vantaggi ad esse connessi (Scoppola c. Italia, 17 settembre 2009, § 139)".
L’obiettivo della Corte di Strasburgo pertanto è quello della salvaguardia dell’equità del processo che ben può realizzarsi con un rito caratterizzato dalla rinuncia dell’imputato, in funzione premiale, ad alcune garanzie proprie del rito ordinario; il giudizio di appello non deve quindi a priori assicurare un vantaggio estraneo a quel meccanismo processuale, introducendo una modalità di acquisizione della prova dichiarativa - nel contraddittorio delle parti, secondo il canone dell’oralità e dell’immediatezza - che la scelta abdicativa dell’interessato ha espunto dal processo.
E allora, "se per condannare in rito abbreviato occorresse l’acquisizione della prova orale, ciò verrebbe a essere necessario anche in primo grado, tranne nell’ipotesi in cui la sentenza sia assolutoria, demolendo così la struttura del rito pur mantenendone una conseguenza in termini sanzionatori che più non avrebbe logica premiale (con ragionevoli echi di irragionevolezza / diseguaglianza del diniego di tale sconto sanzionatorio nel rito ordinario" (in motivazione Cass. 43242/2016, par. 3.1.8).
4.2.4 Si consideri altresì che la rinuncia dell’imputato ad avvalersi di un processo fondato su principi diversi da oralità ed immediatezza è stata ritenuta dalla Consulta attuazione del diritto di difesa, garantito dall’art. 24 della Costituzione (della libera scelta dell’imputato ad avvalersi del rito alternativo come facoltà difensiva si occupano le sentenze della Corte Costituzionale n. 265/1994, n. 333/2009, n. 273/2012 e n. 139/2015); una libertà particolarmente estesa nel rito abbreviato e codificata dall’art. 438 cod. proc. pen. (norma esente da censure di costituzionalità, come stabilito dalla sentenza n. 115/2001) nella parte in cui sottrae al giudice ed al pubblico ministero qualsiasi potere di controllo o veto sulla richiesta di giudizio abbreviato formulata dall’imputato.
Per sottolineare la rilevanza, ai fini del ragionamento che qui s’intende sostenere, del potere dispositivo processuale riconosciuto all’imputato, è opportuno accennare nuovamente alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, riprendendo alcuni passaggi fondamentali della citata sentenza della Grande Camera, Scoppola.
Il ricorrente aveva allegato una duplice violazione dell’articolo 6 della Convenzione, sostenendo che la procedura era stata iniqua perché egli era stato condannato con giudizio abbreviato e che la scelta del procedimento aveva comportato la rinuncia ad alcuni diritti garantiti dall’articolo 6. Aveva aggiunto che la sua scelta abdicativa non era stata volontaria, ma doveva ritenersi la conseguenza di una determinazione adottata soltanto in vista di una riduzione della pena. Secondo lui, lo Stato convenuto - condannato più volte dalla Corte Europea per l’eccessiva durata dei procedimenti - avrebbe instaurato un sistema teso a ricompensare gli accusati che rinunciano alle garanzie fondamentali piuttosto che a procedere ad una riorganizzazione della giustizia (§ 42).
La Corte ha invece ritenuto che, chiedendo l’adozione del giudizio abbreviato, il ricorrente - che era assistito da un avvocato di fiducia, e dunque in grado di conoscere le conseguenze derivanti dalla sua domanda - aveva rinunciato inequivocabilmente (anche) al suo diritto a ottenere la convocazione dei testimoni a giudizio, senza che ciò compromettesse l’equità del processo, in considerazione altresì della mancanza, nell’ambito della controversia, di questioni di interesse pubblico che si opponessero a una tale rinuncia (§ 136).
4.2.5 Non sembra inoltre che la sentenza n. 470/91 della Corte Costituzionale, citata dalle sezioni unite ed alla quale si è fatto cenno in precedenza, si sia pronunciata nel senso della obbligatorietà della rinnovazione istruttoria, essendosi limitata la Consulta in tale decisione ad affermare che, nonostante la natura di decisione "allo stato degli atti" propria del giudizio abbreviato precluda già in primo grado l’istruzione dibattimentale, "è da ritenersi che il giudice d’appello ben possa, se lo ritenga assolutamente necessario ai fini della decisione, assumere di ufficio nuove prove o riassumere prove già acquisite agli atti" (una facoltà discrezionale quindi e non già un obbligo).
4.3 In definitiva, l’irrevocabile natura cartolare del rito abbreviato non impone secondo l’indirizzo interpretativo in esame - l’acquisizione in appello della prova dichiarativa, decisiva per la condanna, con le modalità previste per il rito ordinario. Si richiama anche per tale specifico aspetto la giurisprudenza convenzionale che consente di fondare le sentenze di condanna su dichiarazioni predibattimentali, cartolari anch’esse, qualora queste risultino accompagnate da adeguate garanzie procedurali (il richiamo è, in particolare, al caso Thery - Al Kawaya c. Regno Unito, Corte Edu Grande Camera, 15 dicembre 2011).
L’allargamento della tutela prevista dalla CEDU - senz’altro possibile nell’ordinamento interno - nell’obiettivo di massima estensione delle regole dell’equo processo trova un limite quindi nella struttura del rito abbreviato non condizionato e nella sua natura negoziale; i principi fondamentali della oralità della prova, della immediatezza della sua formazione davanti al giudice chiamato a decidere e della dialettica delle parti non costituiscono un dogma processuale ma possono essere sacrificati, per scelta dello stesso imputato, in funzione dei vantaggi assicurati dal rito stesso, senza per ciò compromettere l’equità del procedimento che termini in un giudizio di condanna.
In conclusione, "l’accertamento cartolare non è incompatibile con il superamento del principio del ragionevole dubbio", dovendo "darsi atto che una condanna che non si è nutrita dell’oralità nell’acquisizione della sua base probatoria non confligge con la presunzione di non colpevolezza dell’articolo 27 secondo comma Cost. bensì correttamente l’affronta e la supera" (in motivazione, Cass. n. 43242/2016).
5. La rilevanza della questione nel caso sottoposto all’esame della seconda sezione (ovvero il riscontro del vizio di motivazione ex art. 606, primo comma lett. e cod. proc. pen. della sentenza impugnata con riferimento al principio dell’ "oltre ogni ragionevole dubbio", atteso il ribaltamento della assoluzione sulla base della rivalutazione cartolare della testimonianza decisiva della parte offesa), unitamente alla rilevazione del significativo e condiviso orientamento contrario, hanno indotto il collegio a rimettere ad un nuovo scrutinio delle Sezioni unite la questione anticipata in premessa, ovvero:
"Se nel caso d’impugnazione del pubblico ministero contro una pronuncia di assoluzione emessa nell’ambito di un giudizio abbreviato non condizionato, ove questa sia basata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive dal primo giudice ed il cui valore sia posto in discussione dall’organo dell’accusa impugnante, il giudice di appello debba porre in essere i poteri d’integrazione probatoria e procedere all’assunzione diretta dei dichiaranti per ritenere raggiunta la prova della colpevolezza dell’imputato, in riforma della sentenza appellata".

P.Q.M.

letto l’art. 618 cod. proc. pen.
rimette il ricorso alle Sezioni Unite.