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Pubblicità delle udienze diritto fondamentale solo se .. (Cass. 19367/20)

26 giugno 2020, Cassazione penale

Il principio della pubblicità dell'udienza assolve ad una funzione di garanzia multidirezionale, poiché tende ad impedire una giustizia segreta, sottratta al controllo del pubblico ed a fornire alla parte uno strumento di controllo e verifica dell'effettività della tutela dei suoi diritti di difesa.

Impedire una giustizia segreta, garantire la trasparenza dell'azione giudiziaria ed aumentare la fiducia nel suo esercizio sono, infatti, le finalità verso le quali la Convenzione Europea per i diritti dell'Uomo proietta il principio di pubblicità del giudizio.

Il principio della pubblicità è presidiato con particolare rigore quando si tratta di acquisizione della prova e valutazione della testimonianza, o quando si prevedano procedure o sub procedure in grado di incidere su diritti fondamentali della persona, sottratte nella loro interezza alla pubblicità.

Il principio del fair trial non è, tuttavia, incompatibile con la previsione di riti camerali, che la corte EDU ritiene legittimi in ragione della natura tecnica della decisione, dell'ambito di valutazione demandato al giudice, della natura meramente documentale del materiale da esaminare, delle scelte processuali dei protagonisti. 

Secondo la Corte europea, l'esigenza della pubblicità non è assoluta, ma si impone, quale contro limite, anche nelle ipotesi in cui sarebbe possibile la deroga, in ragione della speciale rilevanza della "posta in gioco", quando siano cioè in gioco diritti fondamentali attinenti la libertà o il patrimonio delle persone. In tali casi, infatti, il diritto alla pubblicità prevale sul tecnicismo della decisione. 

Al fine della verifica del rispetto del principio di pubblicità, occorre guardare alla procedura giudiziaria nazionale nel suo complesso: sicché, a condizione che una pubblica udienza sia stata tenuta in prima istanza, l'assenza di analoga udienza in secondo o in terzo grado può bene trovare giustificazione nelle particolari caratteristiche del giudizio di cui si tratta.

La valenza del controllo immediato del quisque de populo sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso all'aula di udienza - uno degli strumenti di garanzia della correttezza dell'amministrazione della giustizia - si apprezza, difatti, secondo un classico, risalente ed acquisito principio, in modo specifico quando il giudice sia chiamato ad assumere prove, specialmente orali-rappresentative, e comunque ad accertare o ricostruire fatti; mentre si attenua grandemente allorché al giudice competa soltanto risolvere questioni interpretative di disposizioni normative.

Nel caso del giudizio abbreviato, peraltro, l'assenza di pubblicità del giudizio di appello non è estranea alla struttura semplificata del rito e pertanto la limitazione trova ulteriore punto di giustificazione nella componente premiale - influente sulla richiesta di celebrazione proveniente dall'imputato - e nel valore costituzionale della ragionevole durata del processo.

Gli approdi consolidati della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che pure riconoscono il principio generale della natura pubblica del dibattimento, sancito dall'art. 6 della Convenzione, ne escludono anche la assoluta inderogabilità, in presenza di circostanze speciali che possono ledere gli interessi della giustizia, la cui valutazione - secondo l'impostazione pragmatica e casistica che ispira la Convenzione e la giurisprudenza della Corte - è rimessa alla decisione del giudice, da assumere alla luce delle circostanze del concreto contesto.

 Le dichiarazioni dell'imputato non possono costituire ex se la prova incompleta o il principio di prova di una causa di giustificazione che impone la pronuncia di una sentenza assolutoria: grava infatti sull'imputato medesimo un onere di allegazione, in virtù del quale è tenuto - senza inversione alcuna dell'onere della prova - a fornire all'ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all'accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore, fra i quali possono annoverarsi le cause di giustificazione.

 

Corte Suprema di Cassazione

Sez. 5 Num. 19367 Anno 2020

Presidente: PALLA STEFANO
Relatore: TUDINO ALESSANDRINA
Data Udienza: 08/06/2020 - dep- 26/06/2020

SENTENZA

sul ricorso proposto da:
PVA nato a ***

avverso la sentenza del 03/12/2018 della CORTE ASSISE APPELLO di LECCE

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere ALESSANDRINA TUDINO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore ELISABETTA CESQUI che ha concluso chiedendo

RITENUTO IN FATTO

1.Con la sentenza impugnata, la Corte d'Assise d'appello di Lecce ha, in riforma della decisione del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di in sede del 10 luglio 2017, qualificato il fatto sub a), originariamente contestato quale omicidio volontario, ai sensi dell'art. 584 cod. pen. e la contestazione di rapina di cui al capo b) in quella di furto aggravato ex art. 625 n. 2 cod. pen., e, esclusa l'aggravante teleologica e con l'attenuante del vizio parziale di mente, ha rideterminato la pena irrogata a VP in riferimento alla morte di SM  ed alla sottrazione al medesimo di preziosi e denaro, oltre statuizioni accessorie.

2. Alla stregua degli esiti della prova — indicativi di un concordato appartamento poi degenerato in una colluttazione — e della natura letale, in un più ampio quadro lesivo, della caduta al suolo del M — come ricostruita in sede di esame medico legale — che ne aveva determinato la morte, seguita dalla spoliazione del cadavere, la Corte territoriale ha riqualificato i fatti nei termini sopra enunciati, escludendo conseguentemente l'aggravante teleologica e respingendo la prospettazione di difetto di antigiuridicità della condotta lesiva, articolata ai sensi dell'art. 52 cod. pen. dalla difesa, in assenza di dimostrazione dell'insorgenza di un pericolo attuale, anche putativo, tale da determinare la reazione difensiva dell'imputata.

2.1. Dalla sentenza impugnata risulta come nel pomeriggio del 28 giugno 2015, in **, il M avesse preso a bordo della propria Fiat Panda grigia la P, che si era allontanata dalla casa familiare dove trovavasi in regime di arresti domiciliari, dopo averla intercettata in strada, senza che i due si fossero mai in precedenza conosciuti; come il medesimo Maggi avesse messo a disposizione della donna il proprio telefono cellulare, dal quale era partita una telefonata a tale Giuseppe Quarta alle ore 17.40; come i due avessero consumato delle bevande presso il bar Ground Zero sulla strada Monteroni-Arnesano tra le 17.28 e le 17.40, per poi raggiungere il podere del M, in località Licattelli di Arnesano, dove lo stresso sarebbe stato rinvenuto, quella stessa sera, privo di vita, in seguito alle ricerche dei familiari e dopo che una congiunta dell'imputata aveva richiesto l'intervento delle forze dell'ordine, in seguito alla dichiarazioni della predetta, che le aveva riferito di aver ucciso un uomo.

All'atto dell'intervento degli operanti, l'imputata veniva trovata in possesso di monili e denaro, oltre che dell'auto del M, all'interno della quale si trovavano effetti personali del medesimo e gli abiti dalla stessa P precedentemente indossati, intrisi di sostanza ematica e di terriccio.

Successivi accertamenti avevano consentito di ricostruire come la P si fosse allontanata dal podere del M con l'auto di costui, successivamente coinvolta anche in un sinistro stradale, e che la stessa - dopo aver richiesto aiuto a tale LV - si era, infine, rivolta alla zia.

Attraverso le dichiarazioni di OB, proprietario di un fondo finitimo a quello del M e che aveva visto sopraggiungere lo stesso in auto, da solo, assistendo anche alla ripartenza del veicolo senza, tuttavia, scorgerne gli occupanti, la Corte territoriale ha tracciato i tempi e le modalità di accesso e uscita dell'auto dal sito.

2.2. Il Giudice dell'udienza preliminare, all'esito del giudizio abbreviato, aveva affermato la responsabilità penale dell'imputata per i delitti di omicidio volontario e rapina aggravata, ritenendo la prevedibilità e volontarietà dell'evento morte, in conseguenza delle lesioni cagionate al M, in un contesto finalizzato all'apprensione dei valori di cui la vittima era in possesso.

La Corte d'assise d'appello di Bari ha, invece, ritenuto sorretto dal dolo il solo segmento iniziale dell'azione, e che tanto il quadro traumatico rilevato sulla vittima che l'assenza di lesioni sull'imputata escludessero ipotesi causali alternative, mentre i dati oggettivi, acquisiti all'istruttoria, non avevano in alcun modo asseverato un'iniziativa offensiva della persona offesa, prospettata dall'imputata, fondando, invece, la piena prova dei reati di omicidio preterintenzionale e furto.

3. Avverso la sentenza della Corte d'assise d'appello di Bari ha proposto ricorso l'imputata, per mezzo del difensore, Avv. LM, deducendo, in quattro motivi, plurime censure.

3.1 Con il primo, articolato, motivo, viene invocata la nullità dell'ordinanza emessa dalla Corte di assise di appello di Bari in data 22 ottobre 2018, per violazione degli artt. 471, comma 1, cod. proc. pen., 6 Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e 111 Cost.. Ci si duole che, con autonomo provvedimento reso antecedentemente all'apertura del dibattimento di secondo grado e trascritto nell'avversata sentenza, la Corte territoriale non abbia consentito la celebrazione del processo di appello nelle forme della pubblica udienza, rigettando la richiesta in tal senso proveniente dall'imputata e ritenendo infondata la sollevata questione di legittimità costituzionale dell'art. 443, comma 4, cod. proc. pen. in relazione all'art. 599, comma 1, cod. proc. pen., nella parte in cui non dispone che il giudizio di appello si svolga in pubblica udienza quando ne facciano richiesta tutti gli imputati, per contrasto con gli artt. 3, 101, 111, primo comma, e 117, primo comma Cost., in relazione all'art. 6, § 1 della Convenzione, come interpretato dalla Corte Edu.

Si evidenzia, a tal fine, come l'assenza di pubblicità, connotato tipico dei procedimento camerale, costituisca una vistosa eccezione all'opposta regola del carattere pubblico delle udienze penali di cui all'art. 471 cod. proc. pen. che, espressamente riconosciuta dalle convenzioni internazionali relative ai diritti della persona, è dotata, altresì, di rilevanza costituzionale, a fronte delle indicazioni di cui all'art. 101, comma 1 e 111, comma 1 Cost.. E come questioni di legittimità costituzionale siano già state sollevate, specialmente con riferimento ai procedimenti camerali destinati a sfociare in un provvedimento terminativo del grado di giudizio, e dunque non incidentali.

Si sottolinea come la regola di cui al novellato art. 441, comma 3 cod. proc. pen., in base alla quale il giudice dispone che il giudizio si svolga in pubblica udienza quando ne facciano richiesta tutti gli imputati, che comunque rappresenta un notevole avanzamento nell'adeguamento della normativa interna allo standard europeo in tema di pubblicità delle udienze, pur essendo soluzione di compromesso tra opposti interessi, quello alla riservatezza e quello al controllo della collettività sull'amministrazione della giustizia, si applichi al solo giudizio di primo grado, come evincibile dal combinato disposto degli artt. 443 e 599 cod. proc. pen., dovendosi escludere che possa applicarsi al rito speciale in disamina la norma generale contenuta nell'art. 598 cod. proc. pen., che estende al giudizio di appello l'osservanza, ove compatibili, delle disposizioni relative al giudizio di primo grado. E come siffatta soluzione sia del tutto ingiustificata, soprattutto alla luce delle pronunce della Corte Costituzionale dichiarative di illegittimità delle norme che precludevano la celebrazione dell'udienza, su istanza di parte, in forma pubblica nel procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione, nel procedimento per l'applicazione delle misure di sicurezza personali e patrimoniali diverse dalla confisca, nel procedimento di sorveglianza e, da ultimo, in quello esecutivo per l'eventuale applicazione della confisca. Si tratta, invero, come evidenziato dalla Corte costituzionale sulla scia delle osservazioni della Corte di Strasburgo, di procedimenti all'esito dei quali il giudice è chiamato ad esprimere un giudizio di merito, idoneo ad incidere in modo diretto, definitivo e sostanziale su beni dell'individuo costituzionalmente tutelati, quali la libertà personale e il patrimonio, nonché la stessa libertà di iniziativa economica. In tutti questi casi, si è fatto riferimento - come evidenziato dalla difesa - all'obbligo di recepimento ex art. 117 Cost. delle norme di carattere internazionale e, in particolare, quale norma pattizia interposta, dell'art. 6 Cedu, che sancisce il principio di pubblicità dell'udienza, salve circostanze eccezionali specificate nel paragrafo dello stesso articolo, e dunque quando la deroga sia imposta dall'interesse della moralità, dell'ordine pubblico o della sicurezza nazionale, dall'interesse dei minori, o per la protezione della vita delle parti in causa o nella misura giudicata strettamente necessaria dal tribunale quando, in circostanze speciali, la pubblicità potrebbe ledere gli interessi della giustizia.

Evidenzia la difesa come la Corte europea dei diritti dell'uomo abbia avuto modo di pronunciarsi sulla portata del principio posto dall'art. 6, specificando come circostanze eccezionali, attinenti alla natura delle questioni sottoposte al giudice nell'ambito della procedura di cui trattasi, possano giustificare il "fare a meno di una pubblica udienza", come, ad esempio, in riferimento al contenzioso della sicurezza sociale, connotato da un elevato grado di tecnicismo. Sottolinea, ulteriormente, come, invece, la necessità della pubblicità dell'udienza su richiesta dell'interessato sia stata ricondotta, nelle pronunce della Corte Edu e, di conseguenza, in quelle della Corte costituzionale, alla rilevanza della "posta in gioco", tanto da essere esclusi i procedimenti o sub procedimenti incidentali (non riguardanti la "fondatezza di un'accusa in materia penale").

Nei termini esposti, dunque, il combinato disposto degli artt. 443, comma 4 e 599, comma 1 cod. proc. pen., violerebbe — ad avviso della difesa - il suddetto principio convenzionale, non consentendo alla parte coinvolta, in caso di rito alternativo a prova contratta, di richiedere che l'udienza del giudizio di appello si svolga a porte aperte, a fronte della prerogativa concessale in primo grado, a prescindere dall'esistenza in concreto di esigenze che richiedano l'assenza del pubblico, con conseguente contrasto con l'art. 117 Cost.. Sottolinea, in particolare, come il processo di appello a seguito di impugnazione della sentenza emessa a norma dell'art. 442 cod. proc. pen. non rivesta, almeno di norma, un rilevante tasso di tecnicismo giuridico, e quando attiene - come nel caso di specie - alla valutazione circa la responsabilità dell'imputato in relazione ad un omicidio, senza dubbio involge "un'altissima posta in gioco", evidenziando come ciò che conta, ai fini dell'applicabilità dell'art. 6, § 1, sia la celebrazione di un giudizio sulla fondatezza dell'accusa penale, a nulla rilevando che tale decisione sia assunta in primo o in secondo grado. Con la conseguenza per cui sottrarre un giudizio di tal genere alla verifica e al controllo del pubblico, senza alcuna ragionevole giustificazione, comporta - non ricorrendo alcuna delle circostanze specifiche indicate e tali da giustificare la segretezza dell'udienza - la lesione del principio del giusto processo, come delineato sotto questo profilo dalla norma pattizia, e quindi anche dell'art. 111 Cost.. Oltre a determinare una vistosa disparità di trattamento, in violazione anche dell'art. 3 Cost., rispetto agli altri casi sopra menzionati, e dell'art. 101, comma 1 Cost., poiché in conflitto con il principio in virtù del quale la giustizia è amministrata in nome del popolo.

Alla luce di tali osservazioni, la ricorrente conclude per l'ineludibilità della rinnessione della proposta questione alla Corte Costituzionale, in quanto non manifestamente infondata e rilevante ai fini del giudizio pendente innanzi a questa Corte.

3.2. Con il secondo motivo di impugnazione, si deduce violazione di legge e vizio della motivazione in riferimento all'esclusione della causa di giustificazione della legittima difesa, avendo sul punto la Corte territoriale omesso di sottoporre ad un più attento esame le circostanze fattuali, così come ritenute riguardo la mancanza di prova di un dolo predatorio antecedente e dell'uso di corpi contundenti, al fine di delibare l'(in)evitabilità di sottrarsi ad un pericolo incombente ed alla proporzionalità della reazione, anche in riferimento alla scusabilità dell'errore.

3.3. Con il terzo motivo, si censura la mancata concessione delle attenuanti generiche per avere, sul punto, la Corte territoriale omesso ogni statuizione, all'esito della riqualificazione giuridica dei fatti, nonostante la relativa prospettazione fosse stata introdotta nei motivi d'appello.

3.4. Il quarto motivo deduce violazione di legge e vizio della motivazione riguardo la determinazione del trattamento sanzionatorio, commisurato in termini prossimi al massimo edittale, in assenza dell'esplicazione dei criteri che governano la dosimetria della pena.

4. Con nota trasmessa in data 21 maggio 2020 ex art. 83, comma 12- ter, d.l. n. 18 del 2020, convertito con legge n.27 del 2020, il Procuratore generale presso questa Corte ha articolatamente concluso per l'inammissibilità della questione di costituzionalità e per il rigetto del ricorso.

5. Con memoria in data 25 maggio 2020, il Difensore della ricorrente ha rassegnato le proprie conclusioni scritte.

6. Con nota in data 1 giugno 2020, l'Avv. RR, difensore delle Parti Civili **, ha rassegnato le conclusioni e depositato nota spese.

CONSIDERATO IN DIRITTO

Il ricorso è inammissibile.

1. Le censure articolate nel primo motivo di ricorso, nella duplice declinazione ivi rappresentata, sono manifestamente infondate.

1.1. Non si configura la denunziata nullità dell'ordinanza emessa dalla Corte di assise di appello di Bari il 22 ottobre 2018, con la quale è stata rigettata la richiesta di celebrazione del processo di appello nelle forme della pubblica udienza, mentre manifestamente infondata è la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 443, comma 4 e 599, comma 1 cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 3, 101, 111, primo comma e 117, primo comma Cost., in relazione all'art. 6 §. 1 della CEDU, ritenuta già infondata nella citata ordinanza e riproposta in questa sede.

Questa Corte ha già avuto modo di affermare come, in tema di celebrazione del giudizio abbreviato, la disciplina normativa che limita la facoltà dell'imputato di richiedere la celebrazione dell'udienza in forma pubblica al solo giudizio di primo grado e non anche a quello di appello sia conforme all'art. 6 §.1 Cedu, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, che ha ritenuto sussistente il contrasto solo in ipotesi di mancato riconoscimento di possibilità di sollecitare l'udienza pubblica in entrambi i gradi di giudizio (Sez. 1, n. 8163 del 10/02/2015, P., Rv. 262594; Sez. 1, n. 11287 del 5/12/2017 — dep. 2018, Perrino, n. m.).

Siffatto orientamento, dal quale il Collegio non intende discostarsi, sottolinea come non vi sia alcun dubbio che la disposizione di cui all'art. 441, comma 3 cod. proc. pen., secondo cui "il giudice dispone che il giudizio si svolga in pubblica udienza quando ne fanno richiesta gli imputati", sia destinata a regolamentare esclusivamente le modalità di celebrazione del giudizio abbreviato di primo grado, dedicando il legislatore una norma ad hoc al giudizio abbreviato di appello - l'art. 443 - che, quanto alle sue modalità di celebrazione, al comma 4 fa espresso rinvio alle "forme previste" dall'art. 599 cod. proc. pen., imponendo in tal modo la celebrazione "camerale" del giudizio di secondo grado in tutte le ipotesi di decisione emessa a seguito di giudizio abbreviato in primo grado, anche quando l'imputato contesti l'intervenuta affermazione di responsabilità, senza alcuna deroga (invero, non prevista dal suddetto art. 599, a differenza di ciò che avviene per l'abbreviato in primo grado).

Si evidenzia, altresì, nelle citate decisioni di questa Corte come siffatto assetto sia consustanziale alla «disciplina "tipica" del rito premiale in questione, accettata dall'imputato all'atto della proposizione dell'istanza, il che esclude alla radice dubbi di compatibilità con la disciplina costituzionale o sopranazionale (posto che la modalità di celebrazione del giudizio di appello rientra, in tal modo, nelle condizioni di "semplificazione" cui è correlata la componente premiale del rito)», derivandone «l'assenza del correlato "diritto" dell'imputato a veder accolta una istanza a ciò diretta e l'assenza di alcuna ipotesi di sanzione processuale per il rigetto di una istanza che - come rilevato - non trova fondamento alcuno nella disciplina positiva».

La stessa giurisprudenza citata approfondisce la questione della conformità ai contenuti delle norme costituzionali e sovranazionali di una disciplina che limita la "facoltà" dell'imputato di chiedere - in caso di rito abbreviato - la trattazione in pubblica udienza del solo giudizio di primo grado e non anche dell'appello, risolvendola «in senso positivo (ossia in quello della conformità) in virtù di alcune considerazioni di fondo, così sintetizzabili:

a) la pubblicità delle udienze non è un diritto insuscettibile di conformazione legale in rapporto alle diverse tipologie di procedure giudiziarie, in un'ottica di contemperamento di interessi con altri valori di pari rango;

b) in sede di giudizio abbreviato, instaurato su richiesta di parte, la pubblicità è garantita su richiesta dell'imputato in primo grado;

c) il giudizio di appello, per sua natura, non è luogo tipico di ricostruzione dei fatti controversi, ma di critica tecnica dei contenuti della decisione di primo grado;

d) il giudizio abbreviato resta una forma di definizione del processo con componente premiale in caso di condanna» (n. 8163 del 2015, Rv. 262594).

Ed esclude - come evidenziato dalla massima sopra riportata - che il rito speciale in questione, in riferimento al valore della pubblicità, sia in contrasto con i contenuti dell'art. 6 della Convenzione Europea del diritti dell'Uomo, proprio in rapporto al fatto che in primo grado è assicurata la pubblicità su richiesta di parte, sottolineando come siffatto contrasto nella stessa giurisprudenza della CEDU sia «stato ritenuto sussistente lì dove in entrambi i gradi di giudizio di merito non fosse data la possibilità di sollecitare l'udienza pubblica» dovendo avere l'interessato, salvi casi del tutto eccezionali, «almeno la possibilità di chiedere un dibattimento pubblico (al riguardo, sentenza del 12 aprile 2006, nella causa Martinie contro Francia)».

Evidenzia, quindi, l'orientamento in disamina come la ricognizione della vigente disciplina escluda la fondatezza di eventuali dubbi di costituzionalità (anche in riferimento al parametro di cui all'art. 117 Cost. per mancata osservanza di obblighi internazionali) sul tema in trattazione.

E come sia stato ribadito dalla Corte Costituzionale nella decisione n. 80 del 2011 (che ha ritenuto conforme alla Convenzione la disciplina del ricorso per cassazione avverso le decisioni applicative di misure di prevenzione, pur dopo l'accoglimento della questione posta in riferimento ai gradi di merito con la decisione n. 93 del 2010) che «la soluzione limitativa adottata in rapporto alla fattispecie che interessa riflette, d'altro canto, il generale orientamento della Corte Europea in tema di applicabilità del principio di pubblicità nei giudizi di impugnazione», secondo cui «al fine della verifica del rispetto del principio di pubblicità, occorre guardare alla procedura giudiziaria nazionale nel suo complesso: sicché, a condizione che una pubblica udienza sia stata tenuta in prima istanza, l'assenza di analoga udienza in secondo o in terzo grado può bene trovare giustificazione nelle particolari caratteristiche del giudizio di cui si tratta (tra le altre, sentenza 21 luglio 2009, Seliwiak contro Polonia; sentenza 18 ottobre 2006 Hermi contro Italia)».

Sottolinea, inoltre, che «la valenza del controllo immediato del quisque de populo sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso all'aula di udienza - uno degli strumenti di garanzia della correttezza dell'amministrazione della giustizia - si apprezza, difatti, secondo un classico, risalente ed acquisito principio, in modo specifico quando il giudice sia chiamato ad assumere prove, specialmente orali-rappresentative, e comunque ad accertare o ricostruire fatti; mentre si attenua grandemente allorché al giudice competa soltanto risolvere questioni interpretative di disposizioni normative»; che «nel caso del giudizio abbreviato, peraltro, l'assenza di pubblicità del giudizio di appello non è estranea alla struttura semplificata del rito e pertanto la limitazione trova ulteriore punto di giustificazione nella componente premiale - influente sulla richiesta di celebrazione proveniente dall'imputato - e nel valore costituzionale della ragionevole durata del processo».

Escludendo, in tal modo, la condivisibile giurisprudenza di questa Corte, qualsivoglia profilo di contrasto anche con gli artt. 3, 101, 111, comma 1 Cost..

1.2. A siffatte argomentazioni, già ampiamente esaustive, deve ulteriormente aggiungersi - condividendosi le riflessioni formulate dal Procuratore generale nelle conclusioni scritte - come gli approdi consolidati della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che pure riconoscono il principio generale della natura pubblica del dibattimento, sancito dall'art. 6 della Convenzione, ne escludono anche la assoluta inderogabilità, in presenza di "circostanze speciali che possono ledere gli interessi della giustizia", la cui valutazione - secondo l'impostazione pragmatica e casistica che ispira la Convenzione e la giurisprudenza della Corte - è rimessa alla decisione del giudice, da assumere alla luce delle circostanze del concreto contesto.

Donde l'esclusione di profili di incostituzionalità derivanti dalla violazione dell'a)t. 6, quale norma interposta, lungi dal discendere da una non corretta traduzione del testo ufficiale della sentenza Martinie v. Francia - come sostenuto in appello e ribadito nel ricorso per cassazione - deriva dalla coerente ricostruzioni dei criteri di applicazione del principio della pubblicità che, per quanto riguarda l'appello, tiene conto del diversissimo atteggiarsi di limiti, caratteristiche e ambito di operatività del giudizio di secondo grado negli ordinamenti processuali degli stati aderenti alla Convenzione.

Invero, secondo la giurisprudenza della Corte europea, il principio della pubblicità dell'udienza assolve ad una funzione di garanzia multidirezionale, poiché tende ad impedire "una giustizia segreta, sottratta al controllo del pubblico" ed a fornire alla parte uno strumento di controllo e verifica dell'effettività della tutela dei suoi diritti di difesa. Impedire una giustizia segreta, garantire la trasparenza dell'azione giudiziaria ed aumentare la fiducia nel suo esercizio sono, infatti, le finalità verso le quali la Convenzione proietta il principio di pubblicità del giudizio.

Per questa ragione, il principio della pubblicità è presidiato con particolare rigore quando si tratta di acquisizione della prova e valutazione della testimonianza, o quando si prevedano procedure o sub procedure in grado di incidere su diritti fondamentali della persona, sottratte nella loro interezza alla pubblicità.

Il principio del fair trial non è, tuttavia, incompatibile con la previsione di riti camerali, che la corte EDU ritiene legittimi in ragione della natura tecnica della decisione, dell'ambito di valutazione demandato al giudice, della natura meramente documentale del materiale da esaminare, delle scelte processuali dei protagonisti. Senza tener conto che l'ordinamento nazionale conosce diverse declinazioni delle procedure non pubbliche, affiancando ad ipotesi di trattazione meramente cartolare (giudizio civile; procedimenti art. 611 cod. proc. pen.) casi di decisioni camerali con partecipazione, necessaria o facoltativa delle parti (sul modello dell'art. 127 cod. proc. pen.).

Secondo la Corte europea, l'esigenza della pubblicità non è, perciò, assoluta, ma si impone, quale contro limite, anche nelle ipotesi in cui sarebbe possibile la deroga, in ragione della speciale rilevanza della "posta in gioco", quando siano cioè in gioco diritti fondamentali attinenti la libertà o il patrimonio delle persone. In tali casi, infatti, il diritto alla pubblicità prevale sul tecnicismo della decisione.

Nella delineata prospettiva si iscrivono le decisioni Bocellari e Rizza c/ Italia, del 13 novembre 2007, che ha investito il procedimento di applicazione delle misure di prevenzione, Lorenzetti c/ Italia del 10 aprile 2012, che ha riconosciuto la violazione nella mancanza di pubblicità della procedura di riparazione per ingiusta detenzione, nonché, successivamente, la sentenza Grande Stevens c/Italia del 4 novembre 2014, che ha sanzionato la forma camerale dell'impugnazione in Corte d'appello avverso la decisione di applicazione di sanzioni da parte di Consob.

Merita, infine, di essere segnalata la recentissima sentenza Mraovie c. Croazia del 14 maggio 2020, che ha esaminato il tema dei limiti che il giudice nazionale incontra nell'esercitare il suo potere discrezionale di disporre il processo a porte chiuse, dovendo tenere conto da un lato del diritto dell'imputato alla udienza pubblica e, dall'altro, della necessità di tutelare il diritto della vittima (nella specie, di reato sessuale) al rispetto della sua vita privata, ritenendo «insussistente la violazione dell'art. 6, § 1, CEDU nei confronti del ricorrente in quanto la decisione del giudice nazionale di esercitare il suo potere discrezionale di disporre che il processo penale si tenga a porte chiuse non può essere ritenuta incompatibile con i diritti dell'imputato, perché necessaria ai fini della tutela del diritto della vittima al rispetto della sua vita privata».

Già prima delle decisioni della Corte EDU, la Corte costituzionale aveva riconosciuto la regola della pubblicità «coessenziale ai principi ai quali in un ordinamento democratico fondato sulla volontà popolare, deve conformarsi l'amministrazione della giustizia che in quella sovranità trova fondamento» (sent. 12/71, con la quale, nel ribadire l'imprescindibilità della regola nel
11
ex
Corte di Cassazione - copia non ufficiale
processo penale, "nel quale può subire eccezioni, in riferimento a determinati procedimenti", veniva confermata la legittimità della celebrazione a porte chiuse dei procedimenti della sezione disciplinare del CSM).

Sulla scia delle decisioni della Corte di Strasburgo, la Corte costituzionale ha applicato i principi espressi da quelle sentenze ben al di là delle questioni oggetto di valutazione in sede europea (mentre la questione relativa alla mancata pubblicità in materia di riparazione per ingiusta detenzione, dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza nel caso specifico con sent. n. 214/2013, non risulta allo stato riproposta). Così, mentre la decisione n. 93/2010 — come già rilevato - ha fatto proprie quelle valutazioni con riferimento alle misure di prevenzione (orientamento poi recepito normativamente dal d.lgs 159/2011), con la sentenza 135/2014 la Consulta ha affermato l'incostituzionalità della mancata previsione della pubblicità per l'udienza in materia di applicazione delle misure di sicurezza; con la sentenza n. 97/2015 ha esteso il principio della pubblicità alla procedura di applicazione delle misure di sicurezza di fronte al magistrato di sorveglianza o al tribunale di sorveglianza (procedure in unico grado, salvo il ricorso per cassazione) e con la sentenza n.109/2015 ha applicato il medesimo principio alle udienze di opposizione alla confisca obbligatoria, ma solo nel caso di applicazione, per la prima volta, in fase esecutiva.

Al tempo stesso, la Corte costituzionale ha, tuttavia, escluso che il principio della pubblicità nel giudizio di prevenzione possa estendersi alla fase di legittimità, stante la natura strettamente tecnico/giuridica delle questioni in quella sede deducibili. In particolare, tale decisione, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità prospettata quanto alla mancata previsione della pubblicità del giudizio di cassazione, richiama il «generale orientamento della Corte europea in tema di applicabilità del principio di pubblicità nei giudizi di impugnazione» e precisa come «La Corte di Strasburgo ha avuto modo di affermare che il principio in forza del quale la pubblica udienza non è richiesta nei gradi di impugnazione destinati alla trattazione di sole questioni di diritto (o concernenti comunque materie le cu peculiarità meglio si attagliano ad una trattazione scritta), vale anche quando l'udienza pubblica non si sia tenuta in prima istanza perché l'interessato vi ha rinunciato, esplicitamente o implicitamente, omettendo di formulare la relativa richiesta.
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Nell'interesse a una corretta amministrazione della giustizia è, infatti, normalmente, più conveniente che un'udienza sia tenuta già in prima istanza, piuttosto che solo davanti al giudice di impugnazione (sentenza 8 febbraio 2005, Miller contro Svezia; sentenza 12 novembre 2002, Dory contro Svezia; sentenza 11 novembre 2002, Lundevall contro Svezia; sentenza 12 novembre 2002, Solomonsson contro Svezia): Ciò contrasta evidentemente con l'ipotizzato riconoscimento alla parte del diritto di stabilire a suo arbitrio, se far celebrare l'udienza pubblica in materia di prevenzione davanti ai giudici di merito o di legittimità» (sent. n.80/2011).

E' stata poi ribadita l'esclusione della illegittimità costituzionale della mancata previsione della pubblicità dell'udienza avanti al Tribunale del riesame, sede nella quale certamente la "posta in gioco" è assai alta, ma nella quale non si assumono decisioni definitive sulla responsabilità e non si acquisiscono prove. Precisa la sentenza: «non si tratta, inoltre, di una sedes deputata all'acquisizione della prova (e in particolare della prova orale rappresentativo): attività in rapporto alla quale, come posto in evidenza da questa Corte, soprattutto si apprezza l'esigenza di un controllo diretto del pubblico sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso di chiunque nella sala di udienza» (sent. n. 263/2017 del 24 ottobre 2017).

Quanto alla pubblicità dell'udienza preliminare, si è pronunciata, escludendone la necessità, questa Sezione con la sentenza n, 33192 del 15 aprile 2019, Zago, che ribadisce la possibilità di deroghe alla pubblicità nella fase d'impugnazione e nel rito abbreviato.

Se il principio della pubblicità dell'udienza non è, perciò, principio inderogabile, d'altra parte la Corte EDU ha, più volte, riconosciuto la compatibilità del giudizio abbreviato con i principi convenzionali, valorizzando la discrezionalità del legislatore nel prevedere forme semplificate di giudizio e riconoscendo la facoltà del singolo di rinunciare a diritti e prerogative processuali, quando le conseguenze premiali di tale scelta siano compatibili con la salvaguardia delle garanzie fondamentali.

Con la sentenza Kwiatkowska c/Italia del 30 novembre 2000, la Corte di Strasburgo ha riconosciuto espressamente la compatibilità delle rinunce implicate dalla scelta dell'abbreviato con le garanzie previste dall'art. 6 §§. 1 e
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3 della Convezione; decisione ribadita con la sentenza Greco c/Italia del 7 luglio 2015: «Né la lettera né lo spirito dell'art. 6 della Convenzione impediscono a una persona di rinunciare spontaneamente in maniera espressa o tacita alle garanzie di un processo equo, ma una tale rinuncia deve essere non equivoca e non deve contrastare con nessun interesse pubblico importante».

Così, ancora, nella decisione della Grande Camera del 18 ottobre 2006 nella causa Hermi c/Italia, quanto alla legittimità della ritenuta rinuncia a comparire nel giudizio di appello tenuto con rito abbreviato, e più recentemente con la sentenza Fornataro c/Italia del 19 ottobre 2017, con la quale la Corte ha escluso che il ricorrente potesse dolersi della parzialità del materiale posto a fondamento della decisione dopo aver, con la richiesta di abbreviato, rinunciato all'esame in contraddittorio del perito (in una ipotesi in cui la Corte ha ritenuto che la relazione peritale non fosse la sola fonte di prova).

Molteplici elementi militano, dunque, per sostenere la legittimità della previsione della richiesta di udienza pubblica solo in primo grado in caso di giudizio abbreviato: la compatibilità generale di riti a partecipazione limitata con i sistemi processuali in tutta l'area dei paesi della Convenzione; la destinazione privilegiata della pubblicità all'udienza di primo grado, naturalmente destinata all'assunzione della prova e alla valutazione delle fonti; la piena legittimità convenzionale del giudizio abbreviato, con la sicura compatibilità con i principi europei e interni della rinuncia alla pubblicità, anche nella fase di assunzione della prova, a fronte del trattamento premiale; la riconosciuta possibilità che gli ordinamenti processuali modellino l'espansione dei giudizi di gravame; il riconoscimento delle esigenze di governo e di speditezza delle procedure quale valido criterio di calibratura delle garanzie e delle forme del giudizio; l'attenuazione del principio della necessaria pubblicità dell'udienza nei procedimenti d'impugnazione.

Deve essere, pertanto, pienamente confermato l'indirizzo ermeneutico espresso da questa Corte con la decisione della Prima Sezione n. 8163 del 2015 citata, ampiamente richiamata in sentenza e nei motivi di impugnazione, ribadita dalla costante giurisprudenza successiva.

La questione di legittimità costituzionale prospettata nel primo motivo è, pertanto, manifestamente infondata, mentre la deduzione di nullità è proposta fuori dei casi previsti dalla legge.

2. E', invece, inammissibile per genericità il secondo motivo.

2.1. La ricorrente si limita a prospettare, in termini meramente ottativi, un deficit nell'accertamento - e dunque nella motivazione - riguardo la sussistenza della causa di giustificazione della legittima difesa, essenzialmente discendente dalla riqualificazione giuridica dei fatti, omettendo di confrontarsi non solo con lo specifico paragrafo dedicato alla questione, ma con il complessivo ordito della sentenza impugnata che, nel rimarcare l'assoluta inattendibilità delle dichiarazioni rese dall'imputata, contrastanti e via via adesive agli esiti della prova, ha ampiamente argomentato riguardo l'insussistenza di alcun elemento da cui evincere una necessità difensiva non altrimenti evitabile, riferita al segmento doloso dell'imputazione.

Dal testo della sentenza impugnata non è dato, pertanto, ravvisare alcuna omissione valutativa delle ragioni dell'impugnazione, né alcuna disarticolazione del ragionamento giustificativo, con il quale il ricorrente omette di confrontarsi (Sez. U. n.8825 del 27/10/2016 - dep. 2017, Galtelli, Rv. 268822).

2.2. Per altro verso, il rilievo è manifestamente infondato in quanto le dichiarazioni dell'imputato non possono costituire ex se la prova incompleta o il principio di prova di una causa di giustificazione che, ai sensi dell'art. 530 comma 3 cod. proc. pen., impone la pronuncia di una sentenza assolutoria (Sez. 5, n. 3017 del 09/10/2019 - dep. 2020, Fiumidoro, Rv. 278147), gravando sul medesimo un onere di allegazione, in virtù del quale è tenuto - senza inversione alcuna dell'onere della prova - a fornire all'ufficio le indicazioni e gli elementi necessari all'accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore, fra i quali possono annoverarsi le cause di giustificazione (Sez. 2, n. 20171 del 07/02/2013, Weng, Rv. 255916).

3. E', del pari, aspecifico il terzo motivo.

3.1. La ricorrente deduce violazione di legge e vizio della motivazione, sub specie di preterizione del motivo d'appello inerente l'applicazione delle attenuanti generiche, senza confrontarsi con il principio di diritto secondo cui non è censurabile, in sede di legittimità, la sentenza che non motivi espressamente su una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando ne risulti il rigetto dalla motivazione complessivamente considerata (Sez. 5, n. 6746 del 13/12/2018 - dep. 2019, Currò, Rv. 275500, n. 35817 del 2019, Rv. 276741, N. 1405 del 2014 Rv. 259643, N. 29434 del 2004 Rv. 229220, N. 607 del 2014 Rv. 258679, N. 33577 del 2009 Rv. 245238), mentre l'avversata sentenza ha ampiamente valorizzato gli indicatori ostativi, sia in riferimento alla personalità dell'imputata, che alla condotta post delictum e processuale.

3.2. Né la ricorrente prospetta quali diversi elementi, suscettibili di positiva valutazione nella prospettiva invocata ed analiticamente esplicitati, la Corte avrebbe omesso di considerare, ponendo anche sotto tale complementare profilo la censura nell'alveo dell'inammissibilità.

Deve, invero, sul punto ribadirsi come, in tema di ricorso per cassazione, l'omesso esame, da parte del giudice di merito, di una censura può essere dedotto in sede di legittimità come vizio di motivazione purché, in virtù del dovere di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, si rappresenti puntualmente la concreta idoneità scardinante dei temi pretermessi rispetto alla pronunzia avversata, evidenziando il collegamento tra gli elementi introdotti dalla difesa e gli specifici profili di carenza, contraddittorietà o manifesta illogicità argomentativa della sentenza impugnata (V. Sez. 5, n. 17798 del 22/03/2019, C., Rv. 276766), mentre la ricorrente lamenta la mera, formale, preterizione della censura, rinunciando a delineare, invece, quali elementi ignorati avrebbero determinato una diversa conclusione sul punto.

4. Il quarto motivo è proposto fuori dei casi previsti dalla legge.

4.1. La Corte territoriale ha ampiamente dato conto degli indicatori valorizzati nella dosimetria tanto della pena base, riferibile al reato più grave, che dell'incremento determinato a titolo di continuazione, facendo corretta applicazione del principio che richiede una simmetrica latitudine della motivazione quanto più la pena si discosti dal minimo edittale (V. Sez. 4, n. 27959 del 18/06/2013, Pasquali, Rv. 258356).

Nel caso in disamina, la commisurazione della pena è stata riferita alla gravità dei fatti, desunta dalla pluralità delle lesioni procurate alla vittima, ed alla personalità dell'imputata, gravata da precedenti penali connotati anche da violenza alla persona, valorizzandone, altresì, il comportamento processuale; indicatori che - oltre all'analitica rassegna esplicitata nel paragrafo dedicato al trattamento sanzionatorio - trovano ampia giustificazione nel corpo della sentenza impugnata, in tal guisa esprimendo, senza alcuna illogicità, le coordinate entro le quali la discrezionalità del giudice del merito nella quantificazione della pena ha trovato esplicazione, sottraendosi, in tal modo al sindacato di questa Corte.

4.2. Non colgono, pertanto, palesemente nel segno le critiche mosse al riguardo nel ricorso che, invece, pretendono di ridurre a mere clausole di stile le argomentazioni della Corte territoriale, né dispiega rilievo critico alcuno la prospettazione della pena, in ipotesi rapportata all'epilogo sanzionatorio che sarebbe stato determinato all'esito del giudizio ordinario, utilizzata per criticarne l'entità.

Né l'aumento pari a sei mesi di reclusione, disposto a titolo di continuazione per il reato di furto post mortem, evidenzia margini di abnormità o manifesta sproporzione, censurabili in sede di legittimità.

Il ricorso proposto nell'interesse della P è, pertanto, inammissibile.

5. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma, che si stima equo determinare in €. 3000,00, in favore della Cassa delle ammende, oltre alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili, come liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese di parte civile, liquidate per il