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Psicologo e psicoterapeuta privati hanno obbligo di referto? (Cass. 44620/19)

31 ottobre 2019, Cassazione penale

In tema di omissione di referto, riveste la qualifica di esercente una professione sanitaria lo psicologo o psicoterapeuta ancorché operi nello svolgimento di un rapporto professionale di natura privatistica, con la conseguenza che, avuta notizia, nell'ambito dell'assistenza prestata, di fatti che possono presentare la caratteristiche di un delitto, egli è tenuto a riferirne all'autorità giudiziaria, salvo il caso in cui la segnalazione esponga la persona assistita a procedimento penale.

La ratio della norma incriminatrice che sanziona il ritardo e omissione della segnalazione all'autorità giudiziaria di un fatto costituente reato nella prospettiva della sua repressione, non consente, sul piano epistemologico, di accettare la limitazione del contenuto del referto la cui funzione di tempestiva e completa informativa all'autorità giudiziaria si colora e riempie di contenuto alla luce della tipologia di reato e che non si esaurisce nella enunciazione di elementi obiettivi di natura diagnostica, individuabili in segni fisici, elementi obiettivi.

In tema di delitti contro la libertà sessuale della persona offesa, è ravvisabile la esigenza di raccogliere e cristallizzare tempestivamente le rivelazioni degli abusi sessuali ai fini della segnalazione: la formalizzazione nel referto di elementi conoscitivi degli abusi sessuali, accompagnata dalla indicazione di segni clinici, se presenti, anche non costituiti da lesioni, costituisce preciso obbligo dello psicologo o psicoterapeuta in quanto atto volto a promuovere l'intervento dell'autorità giudiziaria ed il cui contenuto, anche se non equiparabile a quello del rapporto, è descritto anche nella disciplina deontologica di settore (l'art. 13 del Codice deontologico), secondo il quale, nel caso di obbligo di referto (come per i casi di obbligo di denuncia), lo psicologo limita alla stretto necessario il riferimento di quanto appreso in ragione del proprio rapporto professionale, ai fini della tutela psicologica del soggetto.

 

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

(ud. 03/10/2019) 31-10-2019, n. 44620

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPOZZI Angelo - Presidente -

Dott. GIORDANO Emilia Anna - rel. Consigliere -

Dott. CALVANESE Ersilia - Consigliere -

Dott. GIORGI Maria Silvia - Consigliere -

Dott. AMOROSO Giovanni - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

C.A., nata il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 09/04/2018 della CORTE APPELLO di TORINO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. GIORDANO EMILIA ANNA;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dr. DALL'OLIO MARCO, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

udito il difensore della ricorrente, avvocato RA del foro di TORINO, anche in sostituzione dell'avvocato RA, che ha insistito per l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. C.A. impugna la sentenza del 9 aprile 2018 con la quale la Corte di appello di Torino, per quel che qui rileva, ha rideterminato in mesi cinque e giorni dieci di reclusione la pena inflittale. La ricorrente, è stata ritenuta responsabile dei reati di cui all'art. 365 c.p. (reato commesso in (OMISSIS), in epoca anteriore e prossima al (OMISSIS)) e art. 378 c.p. (commesso in (OMISSIS) in epoca anteriore e prossima al (OMISSIS)).

L'imputata, psicologa e psicoterapeuta incaricata dalla madre dell'assistenza in favore della minore L.Z., ometteva di riferire all'autorità giudiziaria di avere appreso la notizia di abusi sessuali in danno della minore da parte del padre e aiutava il predetto ad eludere le investigazioni, convincendo ed inducendo la persona offesa a non rendere dichiarazioni alla polizia giudiziaria delegata dal Pubblico Ministero.

2. Con i motivi di ricorso, di seguito sintetizzati ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., la difesa dell'imputata denuncia plurimi vizi di motivazione e vizio di violazione di legge per la ritenuta configurabilità dei reati di omissione di referto e favoreggiamento, dei quali non ricorrono gli elementi strutturali, materiale e psicologico.

In particolare:

Motivo n. 1: la Corte distrettuale, incorrendo nei cumulativi vizi di motivazione di cui all'art. 606 c.p.p., lett. e), ha erroneamente ritenuto sussistente il presupposto di operatività della norma incriminatrice di cui all'art. 365 c.p. e, cioè, che la ricorrente fosse esercente di una professione sanitaria violando, altresì, il principio di tassatività della legge penale.

La sentenza impugnata si caratterizza per carenza di motivazione ai fini della ritenuta sussistenza dell'antigiuridicità della condotta e della colpevolezza. L'imputata aveva allegato, attraverso le dichiarazioni spontanee, le ragioni della sua scelta di non allertare la pubblica autorità, rispetto ad abusi cessati anni prima, determinata dal fatto che la giovane paziente si era fermamente dichiarata, a più riprese, contraria a detta eventualità tanto da arrivare di minacciare atti anticonservativi qualora altri avessero intrapreso l'iniziativa di denuncia. Prioritaria era stata ritenuta dall'imputata la prosecuzione del percorso psicoterapeutico, volto ad assicurare alla vittima, ormai adolescente e non più bambina, la possibilità di rielaborare i traumi subiti, scelta sorretta dalla finalità di non violare l'alleanza terapeutica, faticosamente costruita con la giovane paziente. Univoche, nel senso della contrarietà della minore alla presentazione di denuncia, che la Corte ha invece travisato, le dichiarazioni della madre della ragazza e le reazioni della minore alla notizia della denuncia presentata dalla madre. Andava pertanto riconosciuta alla C. la scriminante dello stato di necessità, quantomeno a livello putativo, in quanto fondato non su mere supposizioni ma su obiettivi dati di fatto;

Motivo n. 2: con riguardo al reato di favoreggiamento la ricorrente assume che la ricostruzione della Corte distrettuale è inficiata dall'assunto di partenza che, cioè, sia stata l'imputata a convincere la minore a non presentare denuncia, circostanza smentita dalla madre della ragazza ed illogicamente tratta dal contenuto della conversazione intercettata. La lettura proposta dalla Corte, in vero, prescinde dal contesto nel quale era avvenuta la comunicazione tra la ragazza e l'imputata poichè la conversazione avvenne dopo l'audizione protetta della minore (terminata alle ore 12:43) e si fonda sulla superfetazione delle parole pronunciate dall'imputata, anche in tal caso trascurando il reale movente della ricorrente, preoccupata delle invasive modalità dell'atto di polizia. La Corte trascura il dato, riferito dalla madre della minore, secondo la quale la denuncia era stata proposta su accordo della psicologa (come da conversazione del 3 dicembre 2015). Erroneamente sono state valorizzate a carico dell'imputata anche le dichiarazioni rese dal coimputato - che ha riferito di essere stato dissuaso dalla psicoterapeuta dall'autodenunciarsi - dichiarazioni che non sono state sottoposte al vaglio di attendibilità del dichiarante.

Parziale è la lettura della conversazione intercettata come denigratoria verso la madre della minore. Spia dell'errore metodologico della Corte è anche la descrizione del comportamento dovuto dell'imputata per garantire al meglio il bene della paziente.

Erronea, infine, è la ritenuta sussistenza dell'elemento psicologico del reato di favoreggiamento (cfr. motivo 3 del ricorso) poichè l'ipotetico convincimento esercitato sulla minore era effetto diretto e collaterale, comunque non voluto, della terapia offerta alla minore e non il risultato avuto di mira dall'imputata;

Motivo n. 3: vizio di violazione di legge per l'eccessività della pena inflitta in relazione al minimo edittale della norma incriminatrice di cui all'art. 378 c.p..

Motivi della decisione
1. Il ricorso deve essere rigettato perchè i motivi che ne sono a fondamento non sono fondati.

2. E' incontestato in fatto che L.Z., dall'anno 2011, all'età di tredici anni, era stata affidata dalla madre, a seguito di difficoltà relazionali e nell'ambito di un rapporto professionale privato, alle cure dell'imputata, psicoterapeuta. Nel corso della terapia l'imputata aveva appreso dalla minore che la ragazza, negli anni precedenti, aveva subito violenza sessuale da parte del padre. Tale circostanza è risultata veritiera e pacificamente accertata a stregua delle ammissioni del padre della minore il quale ha riferito di avere avuto rapporti sessuali completi con la ragazzina, dopo che la stessa aveva compiuto dieci anni di età e in più occasioni, nel periodo compreso tra gli anni 2008 e il 2009. Il procedimento penale a carico dell'imputato si è concluso con la sentenza della Corte di appello di Torino emessa anche a carico dell'odierna imputata, e per tale posizione non è stato oggetto di impugnazione divenendo quindi irrevocabile la pronuncia di colpevolezza di L.E. per il reato di cui all'art. 609-bis c.p., comma 2, n. 1 e art. 609-ter c.p., comma 1 n. 5, reato perseguibile di ufficio. L'imputato ha confermato la esistenza dei rapporti sessuali con la minore non solo in sede giudiziaria ma anche alla madre della minore fin dal (OMISSIS), a seguito delle insistenze della donna che aveva riscontrato un peggioramento dei rapporti familiari tra il marito e la figlia e tale situazione familiare aveva condotto, anche su suggerimento dell'odierna ricorrente, pienamente consapevole di quanto accaduto tra la ragazzina ed il padre, nel successivo mese di (OMISSIS) all'allontanamento del padre dall'abitazione familiare. Nel corso dell'interrogatorio l'imputato ha, altresì, riferito che a metà del 2014, di fronte alle velate minacce della figlia, aveva parlato con la psicoterapeuta alla quale aveva confessato l'accaduto chiedendole, però, di non riferire nulla alla moglie. E' accertato, infine, che solo nel mese di (OMISSIS) la madre della minore, sempre seguita dalla psicoterapeuta, aveva sporto querela nei confronti del marito e che, a seguito della querela, erano iniziate le investigazioni con attivazione di operazioni di intercettazioni telefonica sull'utenza in uso alla ragazza, durante le quali era stata intercettata, in data (OMISSIS), la conversazione, tra la minore e l'odierna ricorrente. Nel corso della conversazione l'imputata, avendo appreso che la Polizia si era recata a scuola per sentirla, aveva detto a L.Z. di non parlare con nessuno, prima che lei stessa avesse potuto parlare con la madre e con l'avvocato. Da qui le imputazioni di omissione di referto perchè, essendovi tenuta quale esercente la professione sanitaria, l'imputata aveva omesso di riferire all'autorità giudiziaria di avere appreso la notizia del reato, perseguibile di ufficio, di violenza sessuale in danno di minore, e di favoreggiamento personale, plasticamente ricostruito sul contenuto della conversazione intercettata.

3. La Corte distrettuale, esaminando le censure in diritto oggi riproposte con il ricorso, ha ritenuto che l'attività libero-professionale di psicoterapeuta svolta dall'imputata che aveva prestato una continuativa attività assistenziale in favore della minore, costituisce esercizio di una professione sanitaria rilevante ai fini dell'applicazione della norma incriminatrice di cui all'art. 365 c.p. che obbliga gli esercenti di una professione sanitaria, nei casi che possono presentare i caratteri di un delitto per il quale si debba procedere di ufficio, a riferirne immediatamente all'autorità giudiziaria indicata nell'art. 361 c.p.; ha escluso che la condotta illecita fosse scriminata, ai sensi dell'art. 54 c.p., anche in forma putativa; ha ritenuto, infine, che il contenuto della conversazione intrattenuta con la minore il (OMISSIS) integra la condotta di favoreggiamento per avere indotto e convinto la minore a non rendere dichiarazioni agli inquirenti.

4. Le conclusioni raggiunte dalla Corte distrettuale nella ricostruzione della fattispecie incriminatrice di cui all'art. 365 c.p. e sulla sussistenza dei presupposti che legittimano l'applicazione della norma alla vicenda in esame non sono suscettibili di censura.

5.Non ha pregio, in particolare, il primo motivo di ricorso con il quale la ricorrente contesta, ai fini dell'applicabilità della norma di cui all'art. 365 c.p., la sussistenza dei presupposti normativi, con riguardo alla qualificazione soggettiva dell'imputata quale esercente la professione sanitaria.

5.1. Sostiene la ricorrente che erroneo è il criterio di inferenza seguito dai giudici di merito che, esaminando norme specifiche in singoli settori dell'ordinamento, hanno ritenuto che l'esercizio della professione di psicologa sia da ricomprendere nella nozione di esercente professioni sanitarie. Osta a tale ricostruzione la risalenza nel tempo della norma penale di diritto sostanziale (1930) rispetto alla istituzione dell'Ordine degli psicologi (avvenuta solo nel 1989) e la natura ricognitiva della denominazione professioni sanitarie contenuta nella norma penale che non appare individuabile come una clausola generale ed è, quindi, riconducibile solo alle professioni sanitarie espressamente indicate nell'art. 99 del T.U. delle leggi sanitarie, tra le quali non è richiamata l'attività di psicologo. Rileva, altresì, che l'attività di psicologo neppure è ricompresa nelle arti c.d. ausiliarie ovvero nelle attività soggetta a vigilanza sanitaria, oggetto della generale disciplina del richiamato testo unico e che l'ampliamento della categoria delle professioni sanitarie a quella di psicologo è impedito dalla necessità di interpretazione estensiva della fattispecie di cui all'art. 365 c.p., interpretazione che trova ostacolo nel divieto di analogia.

5.2. Come ulteriore elemento logico che depone nel senso della insussistenza della condotta, il difensore evidenzia che la ratio dell'art. 365 c.p. è quella di assicurare, tramite referto, elementi tecnici di giudizio a brevissima distanza dalla commissione dei fatti "elementi tecnici" che rimandano a tracce materiali del reato e che non sono ravvisabili in relazione alle risultanze degli esami condotti dalla psicoterapeuta, che si risolvono in racconti e confidenze rispetto ai quali il primo scrutinio dello psicologo-psicoterapeuta è proprio quello di vagliarne la veridicità. Solo suggestivi, infine, sono gli argomenti con i quali la Corte territoriale ha confutato le tesi della difesa poichè l'esigenza di cristallizzare la prova del reato in relazione agli episodi subiti dalla minore che non può ritenersi sempre e comunque sussistente.

Irrilevante perchè successiva ai fatti oggetto del procedimento è anche la riconducibilità della figura dello psicologo-psicoterapeuta all'esercente professioni sanitarie, prevista solo dalla L. n. 3 del 2018.

6.L'inquadramento sistematico operato dalla difesa non è fondato.

7.Ritiene il Collegio che il presupposto dal quale muovere, ai fini della ricostruzione della portata precettiva della norma incriminatrice e della individuazione dei suoi presupposti, anche ai fini della verifica del rispetto di principio di tassatività degli elementi che ne costituiscono la struttura con riferimento alla qualifica soggettiva dell'agente, non può essere incentrato sulla mera analisi della successione temporale tra la previsione della condotta illecita, contenuta nel codice penale fin dalla sua emanazione ed il positivo espresso inquadramento, solo con L. n. 3 del 2018, della disciplina della professione di psicologo e psicoterapeuta (figura professionale, quest'ultima che può ricomprendere sia psicologi che medici).

7.1. La previsione recata dalla norma di cui all'art. 365 c.p. è costruita come una norma penale in bianco, che richiama, ai fini della individuazione per specificazione dell'agente, l'esercizio di professioni sanitarie.

La indicazione non rimanda ad un concetto vago ovvero ad un elemento indeterminato ma costituisce un dato normativo suscettibile di precisazione attraverso il complesso di norme che enucleano la nozione di attività sanitaria e ne disciplinano l'esercizio in altri settori dell'ordinamento. Il complesso di tali norme non può essere individuato, secondo la riduttiva ricostruzione difensiva, unicamente nel Testo Unico (il R.D. 27 luglio 1934, n. 1265) e, soprattutto, nelle correlative definizioni delle professioni sanitarie, individuate nelle professioni cd. principali (medicina, chirurgia, veterinaria, farmacia) o secondarie (levatrice, assistente sanitaria, infermiere diplomata) ma, secondo la corretta prospettazione ricostruttiva posta a fondamento della sentenza impugnata, deve essere ricostruito, in forza del generico rinvio contenuto nel testo unico, alle attività sanitarie sulle quali lo Stato esercita attività di vigilanza e controllo disciplinandone requisiti, modalità di accesso e competenze degli esercenti. Tra queste, a seguito della L. n. 56 del 1989, è da ricomprendere anche l'attività di psicologo e quella di psicoterapeuta trattandosi di attività sussumibili nell'attività terapeutica, ovvero nella cura della malattia e del disagio, secondo la precisa identità giuridica che della professione di psicologo ha delineato la legge istitutiva del 1989. Secondo la legge istitutiva, infatti, la professione di psicologo comprende l'uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona.... e le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito. Detto in altri termini non è rilevante che espressamente le attività di psicologo e psicoterapeuta non siano ricomprese nella elencazione delle professioni sanitarie contenuta nel risalente testo unico, adottato quando dette professioni neppure avevano una propria identità giuridica atteso che la legge istitutiva è stata adottata solo nel 1989, ma è, viceversa, rilevante ai fini della integrazione del precetto penale recato dall'art. 365 c.p. e della individuazione del soggetto attivo del reato, in quanto esercente professione sanitaria, che, con tale legge sia stata istituito espressamente l'Ordine professionale degli psicologi e che su tale ordine eserciti la sorveglianza il Ministro della Salute (disciplinata questa con il D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 24-sexies), sorveglianza che trova la sua giustificazione solo in funzione dell'attrazione delle indicate professioni in quelle sanitarie, in forza delle previsioni dell'art. 99 del citato Testo Unico delle leggi sanitarie, secondo un complesso percorso giuridico che ha trovato definitivo completamento nella L. n. 3 del 2018 che ha espressamente annoverato come attività sanitarie quelle dello psicologo e psicoterapeuta sulla base degli indici dettati dalla disciplina di settore di tali professioni. La Corte distrettuale, in sede di ricostruzione di questo percorso, ha individuato anche altre fonti legislative che, nel quadro della generale revisione delle competenze degli psicologi, hanno collocato l'esercizio dell'attività di psicologo nelle attività sanitarie e si tratta di precedenti di rilievo quali la L. n. 833 del 1978, sul rapporto di lavoro alle dipendenze del Servizio Sanitario Nazionale, ovvero i contratti dell'area dirigenziale che hanno inquadrato gli psicologi e psicoterapeuti nel ruolo sanitario per i fini istituzionali di tutela della salute pubblica; le norme tributarie sulle prestazioni esenti da I.V.A. e, non da ultimo, una risalente sentenza di questa Corte (Sez. 6, n. 13626 del 07/10/1998, Rassu, Rv. 213431).

7.2. Deve, dunque affermarsi il principio di diritto secondo cui, a prescindere dagli obblighi che ineriscono alla figura dello psicologo e psicoterapeuta inquadrati in una struttura pubblica quali enunciati dagli artt. 361 e 362 c.p., anche nell'ambito di un rapporto di natura libero-professionale, gli esercenti della professione di psicologo e psicoterapeuta che avendo prestato assistenza od opera in casi che possono presentare caratteri di un delitto per il quale si debba procedere di ufficio hanno l'obbligo di riferire all'Autorità Giudiziaria, a meno che la segnalazione non esponga "la persona assistita a procedimento penale".

8. Sostiene la ricorrente, in relazione alla configurabilità degli elementi strutturali del reato in esame, che la necessità di redigere la segnalazione all'autorità giudiziaria è quella di assicurare tramite referto elementi tecnici di giudizio a pochissima distanza dalla commissione dei fatti, "elementi tecnici" che rimandano a tracce materiali del reato e che non sono ravvisabili in relazione alle risultanze degli esami condotti dalla psicoterapeuta che si risolvono in racconti e confidenze rispetto ai quali il primo scrutinio dello psicologo-psicoterapeuta è proprio quello di vagliarne la veridicità.

La tesi della difesa è infondata e individua la funzione ed il contenuto del referto sulla base dell'id quod plerumque accidit in relazione a quelle fattispecie di reato, come il reato di lesioni, che vengono più frequentemente all'attenzione del personale sanitario e che presentano più o meno evidenti connotati di obiettività che in molti casi è possibile rilevare solo nella immediatezza perchè trattasi di lesioni destinate a rapida evoluzione e addirittura risoluzione clinica (si pensi alla ampia gamma e tipologia di contusioni, abrasioni, ferite che vengono all'attenzione del medico).

La ratio della norma incriminatrice, che sanziona il ritardo e omissione della segnalazione all'autorità giudiziaria di un fatto costituente reato nella prospettiva della sua repressione, non consente tuttavia, sul piano epistemologico, di accettare la limitazione, così descritta, del contenuto del referto la cui funzione di tempestiva e completa informativa all'autorità giudiziaria si colora e riempie di contenuto alla luce della tipologia di reato e che non si esaurisce nella enunciazione di elementi obiettivi di natura diagnostica, individuabili in segni fisici, elementi obiettivi che, nel caso in esame, erano costituiti, oltre che dal disagio relazionale che la ragazza palesava, dal racconto della vittima, che, per come si evince dalla istruttoria, è stato frutto della ricostruzione che la paziente ha fatto alla terapeuta all'esito di un faticoso e lungo percorso. Si tratta di elementi dal contenuto intuibilmente più articolato e complesso, rispetto alla descrizione di una lesione ma non per questo meno obiettivabili alla luce delle specifiche competenze professionali dell'agente obbligato alla redazione ed alla presentazione del referto. Non è fallace, dunque, l'affermazione della Corte distrettuale secondo la quale, in tema di delitti contro la libertà sessuale della persona offesa, è parimenti ravvisabile la esigenza di raccogliere e cristallizzare tempestivamente le rivelazioni degli abusi sessuali ai fini della segnalazione. Orbene, la formalizzazione nel referto di elementi conoscitivi degli abusi sessuali, accompagnata dalla indicazione di segni clinici, se presenti, anche non costituiti da lesioni, costituisce preciso obbligo dello psicologo o psicoterapeuta in quanto atto volto a promuovere l'intervento dell'autorità giudiziaria ed il cui contenuto, anche se non equiparabile a quello del rapporto, è descritto anche nella disciplina deontologica di settore (l'art. 13 del Codice deontologico), secondo il quale, nel caso di obbligo di referto (come per i casi di obbligo di denuncia), lo psicologo limita alla stretto necessario il riferimento di quanto appreso in ragione del proprio rapporto professionale, ai fini della tutela psicologica del soggetto.

9. Le conclusioni della Corte di merito sulla ricorrenza dell'elemento psicologico del reato di omissione di referto e sulla insussistenza dell'allegato stato di necessità, anche solo putativo, sono fondate su solidi elementi di fatto e sulla corretta e motivata applicazione di regole giuridiche.

Dalla ricostruzione in fatto emerge che la ricorrente, dopo un necessario periodo di approfondimento dei racconti della vittima, aveva avuto piena conoscenza della consumazione degli abusi sessuali, risalenti rispetto al momento nel quale era iniziata la terapia della minore. Anche ove non si volesse ritenere credibile la collocazione della confessione del L. alla terapeuta (secondo il coimputato verificatasi già a metà dell'anno 2014), è certo che nel mese di (OMISSIS) il L. aveva confessato i fatti alla moglie e che costei aveva informato la ricorrente, che le aveva confermato i fatti. Tanto ciò è vero che la madre della minore aveva concordato con la terapeuta una serie di iniziative volte ad allontanare il marito dall'abitazione familiare.

E' parimenti accertata la contrarietà della minore alla proposizione della denuncia: rimandano questa informazione numerosi atti del processo e, in particolare, oltre alle dichiarazioni della ricorrente, quelle della madre della minore e il contenuto delle intercettazioni. La ragazza (che al momento della denuncia proposta dalla madre solo nel (OMISSIS) aveva ormai quasi diciassette anni essendo nata il (OMISSIS)) si era opposta allo sbocco in sede processuale della propria vicenda personale programmando, invece, una denuncia contro il genitore solo al compimento dei diciotto anni e ritenendo sufficiente una sorta di risarcimento economico per gli abusi subiti, strategie, queste che la ragazza aveva confidato ad un'amica e che sono descritte nella sentenza impugnata (cfr. pag. 20) attraverso le dichiarazioni rese dalla confidente della ragazza. Intuibilmente le scelte della ragazza, si innestavano sull'atavico timore di vedersi sottratta, mentre era ancora minorenne alla famiglia nella quale la giovane, di nazionalità etiope, era stata inserita nell'anno 2006, a seguito di adozione internazionale e di una sofferta vicenda di abbandono, istituzionalizzazione in un orfanotrofio e miseria che aveva caratterizzato i suoi primissimi anni di vita.

A fronte di questa pacifica ricostruzione in fatto è conseguente l'affermazione della sentenza impugnata di ritenere accertata la piena conoscenza, da parte dell'imputata, della commissione di un fatto integrante gli estremi di reato perseguibile di ufficio, appreso nell'ambito del rapporto di assistenza terapeutica a favore della minore e la conoscenza dell'imputata, in forza della professione esercitata, dell'obbligo di presentare, a riguardo, segnalazione all'autorità giudiziaria.

Rimane una mera asserzione dell'imputata la giustificazione di non avere sporto segnalazione dei fatti temendo gesti anticonservativi della minore, pericolo che non ha trovato alcun riscontro processuale essendo, invece, comprovati comportamenti aggressivi eterodiretti della ragazza verso le figure genitoriali sia attraverso ricorrenti minacce (anche di denuncia penale) che la ragazza aveva rivolto reiteratamente al padre, di fronte alle pretese educative del genitore, e, con il passare del tempo, anche alla madre, che la giovane accusava di essere sorda e cieca di fronte alle minacce che rivolgeva al genitore, minacce culminate, nel mese di (OMISSIS), in un'aggressione in danno del padre con i coltelli della cucina, occasione in cui aveva ferito la madre, intervenuta per calmare gli animi.

La carenza di prova dell'assunto della difesa ha inevitabili ricadute sull'affermazione della ricorrente volta a ritenere scriminata la condotta.

Sostiene, infatti, la difesa che la ricorrente, a fronte del pericolo per la salute della persona offesa, aveva difficoltosamente costruito con la medesima, ormai adolescente e non più bambina, un rapporto ovvero un'alleanza terapeutica in forza della quale aveva dovuto, in vista di sostenere la crescita e l'evoluzione della giovane paziente, rispettarne la volontà di non denunciare i fatti, denuncia che non era mai stata indispensabile in funzione di tutela della salute della vittima poichè gli abusi in suo danno erano molto risalenti, anche ad epoca precedente rispetto all'instaurazione del rapporto di assistenza psicologica, e di fatti che a (OMISSIS) erano stati resi noti alla madre della minore. Non potevano essere letti, prosegue la ricorrente, in chiave negativa neppure i comportamenti aggressivi della ragazza verso i genitori poichè essi denotavano un cambiamento di carattere dovuto alla rielaborazione dei suoi vissuti.

Come anticipato, la mancanza di elementi di prova dell'assunto della difesa circa la minaccia della giovane paziente di dare corso ad atti anticonservativi, rende manifestamente infondata la prospettazione difensiva sulla ricorrenza dello stato di necessità, anche solo putativo, che aveva determinato l'imputata a non redigere referto.

L'allegazione dell'erronea supposizione della sussistenza dello stato di necessità, deve fondarsi su una solida base fattuale, ovvero dati di fatto concreti tali da giustificare l'erroneo convincimento in capo all'imputato di trovarsi in uno stato di necessità (Sez. 6, n. 4114 del 14/12/2016, dep. 2017, G, Rv. 269724). E, nel caso in esame, il dedotto stato di necessità putativo avrebbe dovuto fondarsi sulla prova che l'imputata, avendo subito la minaccia di un male imminente non altrimenti evitabile alla incolumità personale della paziente, non aveva potuto sottrarsi al pericolo minacciato (Sez. 1, n. 12619 del 24/01/2019, Chidokwe Simon, Rv. 276173) se non accondiscendendo alla scelta della paziente stessa sicchè aveva agito in forza di un insuperabile stato di costrizione che è risultato insussistente.

Le ulteriori prospettazioni difensive, depurate dalla minaccia di atti autoconservativi da parte della minore, rimandano infatti non alla minaccia di una male imminente non altrimenti evitabile a danno della persona assistita ma a generiche ed indeterminate opzioni terapeutiche (cfr. pag. 11 del ricorso) ed implicano valutazioni che devono necessariamente muoversi nel perimetro delineato dall'obbligo di informativa previsto dall'ordinamento penale (l'art. 365 c.p., comma 2) che esclude l'obbligo di referto solo quando la segnalazione esporrebbe la persona assistita a procedimento penale. Anche il Codice deontologico - in materia di rispetto del segreto professionale - prevede un ragionevole bilanciamento di interessi tra la funzione di cura ed assistenza del terapeuta e gli obblighi di informativa a terzi, ma solo nel caso in cui ci si muova al di fuori del rispetto degli obblighi di rapporto e referto.

10. Sono infondati anche i motivi di ricorso in relazione al delitto di favoreggiamento.

Il ricorso incentra le censure su un dato di fatto che, secondo la ricostruzione difensiva, sarebbe stato pretermesso dalla sentenza impugnata ovvero che la conversazione intercettata è successiva all'esame (mancato) di L.Z. che, raggiunta a scuola dagli inquirenti e sottoposta ad esame protetto, aveva immediatamente, ed in linea con il suo intendimento di non denunciare gli abusi subiti, rifiutato di rendere dichiarazioni. E' solo dopo la tentata - e non riuscita - escussione che la ragazza aveva contattato la ricorrente che, per non compromettere il rapporto terapeutico instaurato con la giovane paziente, si era mostrata accondiscendente al suo rifiuto, temendo anche un pericolo per la salute psichica della ragazza a causa delle modalità con le quali l'atto di polizia era stato compiuto, poichè la ragazza era stata prelevata a scuola in orario scolastico. La sentenza impugnata, inoltre, ha trascurato il dato che la ricorrente era a conoscenza della intenzione della madre della ragazza di sporgere denuncia, e, quindi, il tenore della sua parole non era affatto denigratorio verso la madre della giovane.

Men che mai la ricorrente aveva avuto intenzione di agevolare il padre della minore, aspetto quest'ultimo affrontato, in particolare, con il terzo motivo di ricorso che ribadisce la validità e l'efficacia della scelta terapeutica di offrire sostegno e appoggio alle scelte della paziente e dalla quale esulava qualsivoglia finalità agevolativa verso l'imputato e finalità di convincimento o induzione della minore che era autonomamente determinata a non denunciare il genitore.

11. Anche queste argomentazioni, nella parte in cui non sono generiche, non hanno fondamento.

11.1. E' suggestiva la tesi che i giudici di merito siano incorsi in un errore nella ricostruzione della dinamica de fatto, non contestualizzando correttamente la tempistica della conversazione.

La Corte distrettuale ha riportato in sentenza il contenuto della conversazione, evidenziando che dalla stessa si evince che la ricorrente aveva impartito alla paziente la precisa direttiva di non parlare con alcuno prima che lei stessa potesse parlare con la madre e con l'avvocato, contenuto che, del tutto ragionevolmente e senza aporie di sorta, la Corte distrettuale ha valorizzato per inferirne il dispiegamento di un'opera di induzione e convincimento della minore in vista di future iniziative degli inquirenti, piuttosto che di mera adesione alla scelta della ragazza di non rispondere alle domande della polizia nel corso della precedente audizione. Un attivismo, ha evidenziato la Corte torinese, che non trova ragionevole spiegazione nelle necessità terapeutiche della vittima che, invece, nel corso degli anni 2013 e 2014 aveva, in più occasioni, anche se confusamente, manifestato la volontà di denunciare il padre (in tal senso vanno lette sia le minacce che aveva rivolto ai genitori che le confidenze fatte all'amica), salvo poi opporsi all'iniziativa della madre, anche per paura di quanto potesse accaderle, trovando così sponda nell'atteggiamento della terapeuta. A questo riguardo la Corte territoriale ha richiamato le dichiarazioni rese dall'imputato, secondo il quale la terapeuta gli aveva sconsigliato di autodenunciarsi, in occasione di un incontro che aveva avuto con la stessa ma anche a prescindere da tanto è risolutivo l'argomento che, dopo il (OMISSIS) quando, rivelati gli abusi commessi dal padre alla madre della minore, la terapeuta aveva suggerito alla donna di allontanare da casa il marito, la ricorrente non aveva intrapreso alcuna iniziativa di segnalazione ovvero indicato alla madre della paziente di procedere denunciando i fatti. Alla stregua di questa precisa ricostruzione ritiene il Collegio che correttamente la Corte distrettuale ha escluso che la ricorrente potesse avere concordato con la madre della minore di sporgere denuncia ed ha ritenuto irrilevanti gli elementi acquisiti dopo l'avvio delle indagini - segnatamente le conversazioni successive al 3 dicembre 2015 - che rivelano solo il timore della ricorrente di essere stata coinvolta nelle indagini e di essere ritenuta responsabile di pressioni sulla minore, in conseguenza della conversazione del precedente (OMISSIS).

11.2. Ritiene, altresì, il Collegio che la ricostruzione compiuta dalla Corte territoriale, fondata sull'inequivoco contenuto e tenore della conversazione intercettata che contiene una precisa direttiva impartita alla ragazza in vista delle future audizioni, è sufficiente ai fini di ritenere configurabile il reato di favoreggiamento che, secondo il principio recato da una sentenza di questa Corte è integrato dalla pressione effettuata su un terzo per indurlo a non presentare una denuncia di reato alle competenti autorità (Sez. 6, Sentenza n. 16391 del 21/03/2013, Fusta, Rv. 254708).

La condotta tipica del delitto di favoreggiamento deve essere potenzialmente idonea al conseguimento dello scopo e in punto di elemento soggettivo, deve essere consapevolmente diretta ad inserirsi, intralciandola, nell'attività di ricerca delle prove da parte del reato. Come noto, infatti, il reato di favoreggiamento è sorretto dal dolo generico, che consiste nella cosciente e volontaria determinazione delle condotte nella consapevolezza della loro natura elusiva delle investigazioni e delle ricerche dell'autorità e della finalizzazione delle stesse a favorire colui che sia sottoposto a tali investigazioni o ricerche (Sez. 6, n. 24035 del 24/05/2011, Izzo e altro, Rv. 250433) non essendo richiesto il dolo specifico, ovvero la finalità di assicurare l'impunità al colpevole del reato.

Il caso in esame è diverso da quelli dei quali si è occupata la giurisprudenza di questa Corte enucleando, ai fini della individuazione della condotta tipica del delitto di favoreggiamento, i limiti che la configurabilità del reato incontra in presenza dell'esercizio dell'attività sanitaria dispiegata a favore dei soggetti destinatari di ricerche dell'autorità giudiziaria (si pensi ai latitanti), limiti che richiedono, per la sussistenza del reato, un quid pluris, in senso lato, rispetto all'esercizio, doveroso in chiave di tutela della salute, dell'attività medico-sanitaria.

Si tratta, come anticipato, di una situazione che non ricorre nel caso che ci occupa e nel quale non sussisteva in capo alla terapeuta un obbligo giuridicamente vincolante in favore della persona oggetto di indagini e, viceversa, obblighi di protezione della salute psichica e della riservatezza della vittima del reato, sua paziente, obblighi che, in presenza della conclamata emersione del fatto reato, richiedevano la scelta dei metodi e degli strumenti cui lo psicoterapeuta poteva far ricorso per la tutela degli interessi dell'assistita ma che non contemplava, come unica soluzione praticabile in ragione della tutela delle esigenze di salute della vittima, quella di suggerirle il silenzio in occasione ed in vista delle future audizioni. Il tema, già affrontato anche dalla sentenza impugnata, non inerisce alla scelta della migliore terapia, certamente rimessa al personale sanitario e medico, ma legittima il sindacato giudiziario sul punto dal momento che è necessario verificare, ai fini della tipizzazione del fatto illecito, il corretto bilanciamento delle allegate esigenze terapeutiche con l'assolvimento del generale dovere dei cittadini di ausilio alla funzione giudiziaria.

In questo quadro di principi la indicazione rivolta alla giovane e confusa persona offesa, volta al futuro e non contenente una mera valutazione retrospettiva del comportamento tenuto durante l'audizione protetta posta in essere dalla Polizia, era obiettivamente idonea a condizionare la scelta della ragazza poichè proveniva da una persona nella quale la giovane vittima riponeva fiducia, in forza del rapporto creato e consolidato negli anni della terapia e non rileva, in modo da escludere il dolo, che la finale intenzione della psicoterapeuta fosse quella di sostenere psicologicamente la ragazza, offrendole un sostegno terapeutico e schierandosi apertamente al suo fianco, atteso che la vicenda degli abusi era ormai emersa sicchè l'attività di supporto psicologico della paziente, pure nella piena libertà del sanitario di diagnosi, cura e scelta della terapia e della prevalenza da accordare alla salute della paziente, doveva essere calibrata sulla nuova situazione che si era venuta a determinare e, in tale contesto, si è concretizzata in una condotta funzionale a creare intralcio alle attività di esorbitando nettamente dal limite di tutela della salute e riservatezza della persona offesa perchè ormai incongruente con la situazione di fatto.

12. Si risolvono in una inammissibile richiesta di rivisitazione in fatto del trattamento punitivo le censure che investono la determinazione della pena che la Corte distrettuale ha individuato in quella di anni uno e mesi uno di reclusione (per il più grave delitto di favoreggiamento), misura ben lontana dal massimo edittale e dalla media del trattamento punitivo e sulla quale sono stati operate le diminuenti per effetto dell'applicazione delle circostanze e del rito e l'aumento per la continuazione fra reati. La scelta della Corte distrettuale risulta in linea con il giudizio di gravità dei fatti, ampiamente illustrato nella ricostruzione in fatto, e sulla esclusione di elementi idonei ad attenuarne il disvalore che il motivo di censura in punto di pena - sollecitando l'applicazione del minimo edittale - aggancia alla correttezza professionale del comportamento tenuto che, viceversa, il giudice del merito ha motivatamente escluso.

13. Segue al rigetto del ricorso la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2019