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Prove inutilizzabili nel giudizio penale: utilizzabili nel processo civile di rinvio? (Cass., 43896/18)

3 ottobre 2018, Cassazione penale

In caso di annullamento della sentenza penale con rinvio al giudice civile il giudizio di rinvio costituisce un giudizio a carattere "chiuso", tendente ad una nuova pronuncia, nel quale le parti sono obbligate a riproporre la controversia nei medesimi termini e nel medesimo stato d'istruzione anteriore alla decisione della Corte di cassazione, senza tendenziale possibilità di svolgere una nuova attività probatoria o assertiva, salvi i casi in cui fatti sopravvenuti o la sentenza della Corte di cassazione rendano necessaria una ulteriore attività del genere di quella sopra indicata, sì che quest'ultima, nella seconda delle ipotesi indicate, venga a dipendere strettamente dalle statuizioni della Suprema Corte.

Il giudice civile competente in grado in appello è chiamato a compiere il riesame della controversia nei limiti tracciati dal giudice penale. L'azione civile che viene esercitata nel processo penale è quella per il risarcimento del danno patrimoniale o non, cagionato dal reato, ai sensi dell'art. 185 c.p. e art. 74 c.p.p..

Nel caso di specie, la prova inutilizzabile nel processo penale, perchè assunta in violazione di un espresso divieto probatorio, non potrà essere utilizzata nel giudizio civile, atteso che, diversamente, si realizzerebbe una sostanziale elusione dell'accertamento compiuto nel giudizio penale.

Il divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, che l'art. 195 c.p.p., comma 4 stabilisce con riguardo al contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui all'art. 351 e art. 357, comma 2, lett. a) e b), si riferisca tanto alle dichiarazioni che siano state ritualmente assunte e documentate in applicazione di dette norme, quanto ai casi nei quali la polizia giudiziaria non abbia provveduto alla redazione del relativo verbale, con ciò eludendo proprio le modalità di acquisizione prescritte dalle norme medesime.

Si è aggiunto che l'art. 195 c.p.p., comma 4 preclude la testimonianza con riguardo al contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui all'art. 351 e art. 357, comma 2, lett. a) e b), mentre gli "altri casi", cui si riferisce l'ultima parte della disposizione, per i quali la prova è ammessa secondo le regole generali sulla testimonianza indiretta, si identificano con le ipotesi in cui le dichiarazioni siano state rese da terzi e percepite al di fuori di uno specifico contesto procedimentale di acquisizione, in una situazione operativa eccezionale o di straordinaria urgenza e, quindi, al di fuori di un dialogo tra teste e ufficiale o agente di polizia giudiziaria, ciascuno nella propria qualità.

Il divieto di testimonianza indiretta attiene solo alle informazioni ottenute attraverso un determinato modulo procedimentale che la legge tipizza: gli ufficiali e gli agenti di polizia non possono testimoniare "sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui all'art. 351 e art. 357 c.p.p., comma 2, lett. a - b". Il divieto è doppiamente tipizzato nei suoi presupposti oggettivi, mediante il riferimento a particolari modalità di compimento che connotano solo certi atti, ed allo status di testimone che deve attribuirsi al soggetto da cui provengono le dichiarazioni.

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

(ud. 08/02/2018) 03-10-2018, n. 43896

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FIDELBO Giorgio - Presidente -

Dott. AGLIASTRO Mirella - Consigliere -

Dott. SCALIA Laura - Consigliere -

Dott. SILVESTRI Pietro - rel. Consigliere -

Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

L.A., nata a (OMISSIS);

avverso la sentenza emessa dalla Corte di appello di Caltanissetta il 28/03/2017;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere, Dr. Pietro Silvestri;

udito il Sostituto Procuratore Generale, Dott.ssa Lori Perla, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

uditi per le parti civili, l'avv. GP  per A.L.A. e A.A.R.E., l'avv. RF  per An.Pr. e l'avv. LPP per An.Ro.Ma. e An.Pa., che si sono associate alle conclusioni del Procuratore Generale, riportandosi a quelle scritte depositate udito il difensore dell'imputata, avv. SR, anche in sostituzione dell'avv. ES, che ha insistito per l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo


1. La Corte di appello di Caltanisetta ha confermato la sentenza con cui L.A. è stata condannata per il reato di falsa testimonianza.

A L. è contestato di avere indotto, promettendo denaro, La.Ni.Ga. a rendere falsa testimonianza all'udienza del 23/06/2009 davanti alla Corte di assise di Caltanissetta nel processo nei confronti di M.G., imputato dell'omicidio di An.An.. (Il fatto è contestato come commesso in (OMISSIS)).

La deposizione di La.Ni.Ga. sarebbe stata falsa perchè, da una parte, questi avrebbe riferito in dibattimento, contrariamente a quanto dichiarato in sede di sommarie informazioni e all'udienza del 18/05/2005, una specifica circostanza che avrebbe avuto rilievo in ordine alla ricostruzione del movente dell'omicidio, e, dall'altra, avrebbe negato di aver ricevuto da L., madre dell'imputato, una offerta di denaro per riferire la circostanza in questione e di avere raccontato, durante un colloquio, detto episodio specifico all'ispettore di polizia G.C..

L'ispettore G., escusso nel processo di omicidio il (OMISSIS), aveva riferito di aver incontrato nel maggio 2009 La.Ni. il quale gli disse che in quel periodo la madre del M., cioè l'odierna imputata, "stava tentando di corrompere i testi per il processo del figlio" (così testualmente nella motivazione della sentenza impugnata); aveva aggiunto l'ufficiale di polizia giudiziaria di avere invitato, in occasione di quel colloquio, il La. a verbalizzare le dichiarazioni ma questi aveva rifiutato per timore; dell'episodio il G. aveva inoltre informato la sua dirigente di polizia.

La., come detto, aveva in dibattimento negato l'episodio, essendosi limitato a riferire di avere sì incontrato G., ma di aver solo chiesto se anche questi avesse dovuto testimoniare.

2. Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell'imputata articolando tre motivi.

2.1. Con il primo si lamenta l'inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità in relazione all'art. 195 c.p.p., comma 4.

Si sostiene che il G., all'udienza del (OMISSIS), davanti alla Corte di assise di Caltanissetta, non avrebbe potuto rendere le dichiarazioni aventi ad oggetto il colloquio avuto con il La. in cui questi aveva fatto riferimento all'offerta della L. per indurlo a testimoniare il falso. L'inutilizzabilità discenderebbe dal fatto che il contenuto di quel colloquio non poteva essere considerato estraneo al contesto investigativo, atteso che: 1) G. faceva parte del gruppo che aveva investigato su quell'omicidio; 2) aveva escusso in precedenza il La. a sommarie informazioni proprio in relazione a quel fatto reato; 3) G., consapevole del contesto in cui quelle dichiarazioni erano state raccolte, aveva proposto al La. di verbalizzare il riferito; 4) lo stesso P.M. che procedeva, informato dell'accaduto, invitò G. a redigere una apposita annotazione di servizio, poi formata.

Sulla base di tale quadro di riferimento, si sostiene che anche nel processo avente ad oggetto il reato di falsa testimonianza l'ispettore G. all'udienza del 07/02/2013, non avrebbe potuto riferire, ai sensi dell'art. 195 c.p.p., sul contenuto delle dichiarazioni a lui rese da La. in occasione del colloquio con questi avuto, e di cui si è detto.

Si censura la motivazione della Corte di appello che, investita della eccezione di inutilizzabilità, sul punto, ricostruiti i fatti, si sarebbe limitata ad affermare la correttezza dell'operato di G..

2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione. Si sostiene che la motivazione della sentenza sarebbe viziata perchè non avrebbe indicato le ragioni poste a fondamento dell'affermazione di colpevolezza, essendosi limitata la Corte di merito a valorizzare l'incontro tra la L. e il La. e ad affermare l'esistenza di un "effetto intimidatorio" che da detto incontro sarebbe derivato per il soggetto chiamato a deporre.

Si contesta la decisione impugnata nella parte in cui, pur volendo ipotizzare come vero l'incontro, non avrebbe motivato sulla causalità del contributo concorsuale dell'imputata rispetto al reato commesso dal La..

2.3. Con il terzo motivo si lamenta la violazione di legge in relazione alla mancata declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.

Si sostiene che la data indicata nella imputazione in cui il reato si sarebbe consumato sarebbe errata, dovendosi invece fare riferimento ad una condotta che non potrebbe non essere stata compiuta prima del (OMISSIS), cioè prima della data in cui la testimonianza del La. fu resa.

Il reato pertanto sarebbe stato estinto per prescrizione già prima della sentenza della Corte di appello (28/03/2017).

3. All'udienza del 30/11/2017 il processo è stato rinviato per consentire alle parti di interloquire su possibili qualificazioni giuridiche alternative dei fatti di causa.

Motivi della decisione


1. Il primo motivo di ricorso è fondato.

2. Dall'espressione "contraddittorio nella formazione della prova" contenuta nell'art. 111 Cost., comma 4 si è fatto discendere nel tempo il fermo convincimento della inidoneità probatoria della dichiarazioni raccolte unilateralmente nell'indagine preliminare "ai fini della decisione sul merito dell'imputazione, salvo le deroghe previste dall'art. 111 Cost., comma 5 in tema di contraddittorio "implicito", "impossibile" o "inquinato".

La L. 1 marzo 2001, n. 63 ha in effetti escluso che le dichiarazioni impiegate per le contestazioni ex art. 500 c.p.p. possano essere utilizzate come prova e, in tal senso, ha rafforzato il divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria.

Senza il divieto di cui all'art. 195 c.p.p., comma 4, non avrebbe avuto senso sottrarre la dinamica delle contestazioni dibattimentali alla loro utilizzazione in chiave probatoria, perchè i risultati dell'attività d'indagine sarebbero stati comunque assicurati al giudizio attraverso la testimonianza di chi li avesse raccolti: ciò avrebbe vanificato il principio di separazione funzionale tra fasi procedimentali.

Quest'assetto ha superato il vaglio della Corte costituzionale che, con la sentenza n. 32 del 2002, ha ribaltato le conclusioni della precedente pronuncia n. 24 del 1992.

Nel 1992 il Giudice delle leggi aveva ritenuto irragionevole negare alla polizia giudiziaria il potere di testimoniare sulle sommarie informazioni assunte dalle persone sentite nel corso del procedimento. Per la Corte, il divieto contenuto nell'art. 195 c.p.p., comma 4, avrebbe discriminato gli appartenenti alla polizia rispetto ai testimoni comuni, quasi si trattasse di persone "meno affidabili", nonostante la loro generale capacità di testimoniare ex art. 196 c.p.p..

Nel 2002, preso atto del "mutato... quadro di riferimento costituzionale", la Corte ha invece affermato che il divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria è funzionale ad evitare che dichiarazioni acquisite in carenza di dialetticità "possano surrettiziamente confluire nel materiale probatorio utilizzabile in giudizio attraverso la testimonianza sul loro contenuto resa da chi le ha raccolte unilateralmente nel corso delle indagini preliminari".

Il "divieto", affermò la Corte, "risulta quindi coerente con la regola di esclusione probatoria dettata nel nuovo testo dell'art. 500 c.p.p., comma 2, in base alla quale le dichiarazioni raccolte nel corso delle indagini preliminari e lette per le contestazioni in dibattimento "possono essere valutate ai fini della credibilità del teste", ma non utilizzate come prova dei fatti in esse affermati".

3. L'art. 195 c.p.p., comma 4 non introduce, tuttavia, un generale ed incondizionato divieto di testimonianza in relazione alle conoscenze che la polizia giudiziaria può aver acquisito nell'esercizio delle proprie funzioni.

Il divieto attiene solo alle informazioni ottenute attraverso un determinato modulo procedimentale che la norma tipizza: gli ufficiali e gli agenti di polizia non possono testimoniare "sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui all'art. 351 e art. 357 c.p.p., comma 2, lett. a - b".

Il divieto è doppiamente tipizzato nei suoi presupposti oggettivi, mediante il riferimento a particolari modalità di compimento che connotano solo certi atti, ed allo status di testimone che deve attribuirsi al soggetto da cui provengono le dichiarazioni.

Nel corso dei lavori preparatori della L. n. 63 del 2001, la norma era stata formulata alla Camera dei Deputati con il rinvio all'art. 357, comma 2, lett. b), mentre, solo al Senato della Repubblica, si preferì aggiungere anche il riferimento alla lett. a) della norma in questione.

Il richiamo all'art. 357 c.p.p., comma 2, lett. a) impedisce alla polizia giudiziaria di deporre sul contenuto delle denunce, querele o istanze presentate oralmente.

Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno chiarito come il divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria, che l'art. 195 c.p.p., comma 4 stabilisce con riguardo al contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui all'art. 351 e art. 357, comma 2, lett. a) e b), si riferisca tanto alle dichiarazioni che siano state ritualmente assunte e documentate in applicazione di dette norme, quanto ai casi nei quali la polizia giudiziaria non abbia provveduto alla redazione del relativo verbale, con ciò eludendo proprio le modalità di acquisizione prescritte dalle norme medesime.

Si è aggiunto che l'art. 195 c.p.p., comma 4 preclude la testimonianza con riguardo al contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni con le modalità di cui all'art. 351 e art. 357, comma 2, lett. a) e b), mentre gli "altri casi", cui si riferisce l'ultima parte della disposizione, per i quali la prova è ammessa secondo le regole generali sulla testimonianza indiretta, si identificano con le ipotesi in cui le dichiarazioni siano state rese da terzi e percepite al di fuori di uno specifico contesto procedimentale di acquisizione, in una situazione operativa eccezionale o di straordinaria urgenza e, quindi, al di fuori di un dialogo tra teste e ufficiale o agente di polizia giudiziaria, ciascuno nella propria qualità (Sez. U, n. 36747 del 28/05/2003, Torcasio, Rv. 225468469).

La stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 305 del 2008, ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 195 c.p.p., comma 4, "ove interpretato nel senso che gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono essere chiamati a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese dai testimoni soltanto se acquisite con le modalità di cui all'art. 351 c.p.p. e art. 357 c.p.p., comma 2, lett. a) e b) e non anche nel caso in cui, pur ricorrendone le condizioni, tali modalità non siano state osservate".

Dunque il divieto ha ad oggetto anche le dichiarazioni verbalizzabili e non verbalizzate.

4. La giurisprudenza successiva della Corte di cassazione ha ritenuto non rientrare nell'ambito del divieto di testimonianza indiretta per gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria fattispecie del tutto peculiari, come la deposizione che verta su dichiarazioni di un teste, raccolte mentre è accompagnato in ospedale (Sez. 5, n. 14550 del 08/11/2004, dep. 2005, Hajabid, Rv. 231100; Sez. 1, n. 41090 del 04/07/2012, Morfei, Rv. 253374), ovvero in relazione alle dichiarazioni sulla identità degli autori di un omicidio, rese nella immediatezza dalla vittima del ferimento mortale, poco prima del decesso (Sez.1, n. 5965 del 11/12/2008, dep. 2009, Manco, Rv. 243347; Sez. 1, n. 25295 del 27/02/2014, Accetta, Rv. 259780) o, ancora, le dichiarazioni acquisite da telefonate ricevute a numeri di emergenza (Sez. 2, n. 4800 del 18/01/2013, Massullo, Rv, 255203), o percepite occasionalmente dalla polizia giudiziaria (Sez. 1, n. 15760 del 20/01/2017, Capezzera, Rv. 269573), ovvero relative a dialoghi cui l'ufficiale di polizia sia stato testimone diretto (Sez. 2, n. 52539 del 03/11/2016, Venneri, Rv. 268708).

L'indirizzo interpretativo seguito dalla giurisprudenza di legittimità appare sostanzialmente simmetrico alla elaborazione della Dottrina, secondo cui il riferimento agli "altri casi", nei quali il divieto di testimonianza non opera per la polizia giudiziaria, riguarda le dichiarazioni raccolte al di fuori di qualunque rapporto dialettico interno al procedimento ovvero quelle acquisite all'interno del procedimento ma al di fuori delle modalità richiamate dalla norma, sempre che non si tratti di ipotesi in cui la verbalizzazione delle dichiarazioni rese dal potenziale testimone non sia dovuta in forza di una previsione normativa espressa o implicita, ovvero non sia ragionevolmente esigibile, in relazione alle circostanze del caso concreto.

5. La Corte di Appello di Caltanissetta non ha fatto corretta applicazione dei principi in questione.

Il contenuto delle dichiarazioni che La. rese all'ispettore G. era obiettivamente quello di una denuncia orale di reato; La. riferì circostanze che assumevano diretta rilevanza penale in ordine a reati anche diversi rispetto alla falsa testimonianza.

Ai sensi dell'art. 195 c.p.p., comma 4, art. 357 c.p.p., comma 2, lett. a), G. non poteva quindi rendere testimonianza sul contenuto di quella denuncia.

Sotto altro profilo, quelle dichiarazioni non furono affatto rese al di fuori di qualunque rapporto dialettico interno al procedimento, nè furono assunte occasionalmente o in una situazione di eccezionale urgenza ovvero al di fuori di un dialogo tra ufficiale di polizia giudiziaria e teste; G. era l'ufficiale di polizia giudiziaria che aveva compiuto attività di indagine per quell'omicidio ed era colui che aveva assunto sommarie informazioni da La..

La. cercò l'ufficiale di polizia giudiziaria che lo aveva già sentito ed a lui confidò che L. stava tentando di corrompere i testimoni del processo.

Sotto ulteriore profilo, G. avrebbe dovuto verbalizzare quelle dichiarazioni ai sensi dell'art. 357 c.p.p., comma 2, lett. a) e tale obbligo non poteva venire meno a seguito del preannunciato rifiuto di La., per timore di ritorsioni, di sottoscrivere il verbale.

L'ufficiale di polizia giudiziaria avrebbe dovuto documentare quelle dichiarazioni ed invitare La. a sottoscrivere il verbale; nel caso in cui il dichiarante si fosse rifiutato, si sarebbe dovuto dare atto del rifiuto e delle causali poste a fondamento della mancata sottoscrizione dell'atto.

Quel verbale, contenente quelle dichiarazioni, avrebbe potuto, sussistendone i presupposti di legge, eventualmente essere acquisito anche a fini probatori, ai sensi dell'art. 500 c.p.p., commi 4 e 5, nel corso del dibattimento celebrato davanti alla Corte di assise per il reato di omicidio.

La prova assunta nel processo per omicidio, relativa al tentativo di corruzione del teste La., avrebbe potuto essere utilizzata, attraverso i meccanismi di circolazione probatoria, nel processo avente ad oggetto la falsa testimonianza.

6. Di tutto questo la Corte di appello di Caltanissetta non ha tenuto conto, limitandosi in maniera assertiva ad affermare la correttezza dell'ufficiale di polizia giudiziaria.

Le dichiarazioni rese dall'ispettore G. sono dunque probatoriamente inutilizzabili, perchè assunte in violazione del divieto posto dall'art. 195 c.p.p., comma 4.

7. La sentenza, quanto agli effetti penali, deve tuttavia essere annullata senza rinvio per intervenuta prescrizione, sia che si voglia fare riferimento al delitto di falsa testimonianza, sia che si intenda ricondurre i fatti in esame alle fattispecie di tentata corruzione in atti giudiziari ovvero di istigazione alla corruzione.

Non sussistendo comunque i presupposti per un proscioglimento nel merito dell'accusa, è utile precisare, quanto al reato di falsa testimonianza, che secondo il consolidato e condivisibile orientamento di legittimità nel caso in cui il teste nella medesima fase del giudizio reiteri la falsa dichiarazione testimoniale il reato si consuma con la prima dichiarazione falsa mentre la successiva non assume autonomo rilievo penale (sul tema, Sez. 3, n. 3441 del 19/12/1961, Barone, Rv. 098806; più recentemente, Sez. 6, n. 36538 del 22/09/2010, Piras, Rv. 248598; Sez. 6, n. 9206 del 19/11/2003, Meloi, Rv. 229304).

Nel caso di specie, il reato si è consumato all'udienza del (OMISSIS), cioè quando La. fu sentito dalla Corte di Assise di Caltanissetta, essendo irrilevanti eventuali ulteriori audizioni del teste nel corso dello stesso giudizio di primo grado.

In ragione della cornice edittale prevista dalla fattispecie di cui all'art. 372 c.p. e del termine massimo di prescrizione di sette anni e sei mesi, il reato si sarebbe dovuto prescrivere il 23/12/2016.

A detto termine devono essere aggiunti tuttavia almeno altri 201 giorni, essendo stato il termine di prescrizione sospeso dal 24 febbraio al 5 aprile 2012, dal 3 febbraio al 31 marzo 2014, dal 9 giugno al 22 settembre 2014.

Dunque, al momento in cui è intervenuta la sentenza della Corte di appello (28/03/2017) il reato non era prescritto e, comunque, anche se la causa di estinzione fosse sopravvenuta già dopo la sentenza di primo grado, la Corte avrebbe dovuto pronunciarsi agli effetti civili ai sensi dell'art. 578 c.p.p..

Considerazioni simili devono essere compiute anche ove si voglia fare riferimento alle possibili fattispecie criminose alternative di cui si è detto 7. Quanto agli effetti civili, il vizio di inutilizzabilità da cui è inficiata la sentenza impugnata vizia, anche ai fini civili, la motivazione relativa all'accertamento della responsabilità dell'imputata ed alla esatta qualificazione giuridica dei fatti contestati.

Il rilevamento in sede di legittimità della sopravvenuta estinzione del reato unitamente al riscontro nella sentenza di condanna impugnata anche di un vizio motivazionale, comporta, ai fini penali, l'annullamento senza rinvio in conseguenza della predetta causa estintiva ed, ai fini civili, l'annullamento con rinvio al giudice civile (cfr., fra le altre, Sez. 4, n. 29627 del 21/04/2016, Silva, Rv. 267844; sul tema Sez. U, n. 40109 del 18/07/2013, Sciortino, Rv. 256087).

I limiti e l'oggetto del giudizio di rinvio sono quelli fissati da questa sentenza. La Cassazione civile ha chiarito in maniera condivisibile che il giudizio di rinvio avanti al giudice civile designato, che abbia luogo a seguito di sentenza resa dalla Corte di cassazione in sede penale ai sensi dell'art. 622 c.p.p. è da considerarsi come un giudizio civile di rinvio del tutto riconducibile alla normale disciplina del giudizio di rinvio quale espressa dall'art. 392 c.p.c. e ss..

Si è affermato che a tale conclusione, pur non essendo rubricata la norma dell'art. 622 c.p.p. con un riferimento al "rinvio", si deve pervenire, in quanto la norma dell'art. 622 c.p.p. disciplina la conseguenza, l'effetto, derivante dalla pronuncia ed in tale quadro di riferimento trova giustificazione il verbo "rinvia" "con un'espressione che evoca chiaramente l'istituto del "rinvio" in sede civile, quale disciplinato dall'art. 392 c.p.c. e ss..

Da tale premessa si fa discendere l'assunto secondo cui la fase successiva non è completamente avulsa dalla vicenda del processo penale, ma ne rappresenta sia pure ai fini della sola statuizione sugli effetti civili - uno sviluppo davanti alla giurisdizione ordinaria civile, successivamente all'intervenuta fase di cassazione in sede penale (così testualmente Cass., civ. Sez. 3, n. 17457 del 09/08/2007, Rv. 600508-01).

Se così non fosse ed ogni legame con lo svolgimento del processo penale e, quindi, anche con lo svolgimento in esso dell'azione civile, si dovesse intendere reciso e l'unico effetto della cassazione della sentenza di proscioglimento fosse, pertanto, quello - certamente discendente dall'art. 622 c.p.p. - di sottrarre il giudizio su detta azione al vincolo del giudicato che altrimenti deriverebbe dalla statuizione agli effetti penali, l'accertamento del danno da reato sarebbe compiuto senza tenere conto dei limiti e dell'oggetto fissati nella sentenza penale.

Il giudizio di rinvio costituisce un giudizio a carattere "chiuso", tendente ad una nuova pronuncia, nel quale le parti sono obbligate a riproporre la controversia nei medesimi termini e nel medesimo stato d'istruzione anteriore alla decisione della Corte di cassazione, senza tendenziale possibilità di svolgere una nuova attività probatoria o assertiva, salvi i casi in cui fatti sopravvenuti o la sentenza della Corte di cassazione rendano necessaria una ulteriore attività del genere di quella sopra indicata, sì che quest'ultima, nella seconda delle ipotesi indicate, venga a dipendere strettamente dalle statuizioni della Suprema Corte.

Il giudice civile competente in grado in appello è chiamato a compiere il riesame della controversia nei limiti tracciati dal giudice penale (Cass., Sez. 3, n. 6416 del 14/07/1997, Rv. 505964-01; Sez. 3, n. 5800 del 28/06/1997, Rv. 505545-01).

L'azione civile che viene esercitata nel processo penale è quella per il risarcimento del danno patrimoniale o non, cagionato dal reato, ai sensi dell'art. 185 c.p. e art. 74 c.p.p..

Nel caso di specie, la prova inutilizzabile nel processo penale, perchè assunta in violazione di un espresso divieto probatorio, non potrà essere utilizzata nel giudizio civile, atteso che, diversamente, si realizzerebbe una sostanziale elusione dell'accertamento compiuto nel giudizio penale.

La prova inutilizzabile nel processo penale ai fini dell'azione civile deve considerarsi inutilizzabile anche nel giudizio civile di rinvio, celebrato ex art. 622 c.p.p., per accertare l'illecito civile derivante dal reato.

Davanti al giudice civile, coinvolto per effetto del rinvio contenuto nell'art. 622 c.p.p., la natura della domanda non muta (Sez. 4, n. 27045 del 04/02/2016, Flaviano, Rv. 267730; Sez. 4, n. 11193 del 10/02/2015, Cortesi, Rv. 262708); oggetto del giudizio risarcitorio è il prodromico accertamento incidentale della esistenza di un fatto di reato in tutte le sue componenti obiettive e subiettive, ma al giudice civile non è consentita la utilizzazione di una prova dichiarata inutilizzabile nel processo penale.

L'art. 622 c.p.p. dispone una piena transiatio del giudizio sulla domanda civile superstite a quello penale operata dal giudice di legittimità penale, pur se "fermi gli effetti penali della sentenza", che, nel caso in esame, attengono alla estinzione del reato per maturata prescrizione.

L'annullamento con rinvio della Corte non ha ad oggetto la restituzione dell'azione civile "all'organo giudiziario cui essa appartiene", ma opera una traslatio della competenza funzionale del giudice penale a quello civile.

L'oggetto del giudizio di rinvio è costituito sa tutto quello che rimane da decidere in ordine all'azione civile, esercitata nell'ambito del processo penale.

8. Ne consegue che la Corte di appello civile competente, facendo rigorosa applicazione dei principi di diritto indicati: a) esclusa la utilizzabilità delle dichiarazioni rese dal teste G. nella parte relativa al contenuto del colloquio avuto con La., ricostruirà il perimetro cognitivo entro il quale formulare il proprio giudizio; b) valuterà se compiere ulteriore attività istruttoria in quanto necessaria per fatti sopravvenuti o in ragione della presente decisione; c) verificherà la configurabilità di un reato produttivo di danno risarcibile; c) accerterà la corretta qualificazione giuridica dei fatti e la loro effettiva riconducibilità alla fattispecie di reato prevista dall'art. 372 c.p..

P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il reato è estinto per prescrizione.

Visto l'art. 578 c.p.p., annulla la sentenza agli effetti civili e rinvia al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 3 ottobre 2018