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Processo efficiente verso processo equo? (Cass. 19621/17)

26 aprile 2017, Cassazione penale

Infondata al questione di legittimità costituzionale in relazione all'art. 6 della CEDU di quelle norme del processo penale italiano che  non prevedono la possibilità di rilevare anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo la nullità di atti processuali concernenti il diritto di difesa dell'imputato.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

(ud. 20/10/2016) 26-04-2017, n. 19621

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI TOMASSI Mariastefania - Presidente -

Dott. MAZZEI Antonella - Consigliere -

Dott. MANCUSO Luigi Fabrizio - Consigliere -

Dott. DI GIURO Gaetano - Consigliere -

Dott. MINCHELLA Antonio - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

C.M., nato il (OMISSIS);

Avverso l'ordinanza n. 99/2014 emessa in data 25.02.2015 dalla Corte di Appello di Trento;

Udita la relazione svolta dal Consigliere dott. Antonio Minchella;

Lette le conclusioni del Procuratore Generale, in persona del dott. Oscar Cedrangolo, il quale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, previa dichiarazione di manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata;

Udito il difensore Avv. Nicola Canestrini, che ha insistito per l'accoglimento dei motivi di ricorso.

Svolgimento del processo

p. 1. Con sentenza in data 15.10.2013 il Tribunale di Trento condannava C.M. alla pena di mesi nove di reclusione ed Euro 2.100,00 di multa per lesioni personali colpose, esplosioni pericolose, fabbricazione di un ordigno tipo mortaio, detenzione illecita di una carabina.

p. 2. Interponeva appello l'imputato, censurando la revoca dell'ammissione di due testimoni da parte del giudice e chiedendo la riapertura dell'istruttoria; nel merito contestava l'attribuibilità all'imputato dell'evento lesivo, l'insussistenza del reati di esplosioni pericolose poichè il fatto era avvenuto in una radura montana, la buona fede circa la detenzione della carabina.

p. 3. Con sentenza in data 25.02.2015 la Corte di Appello di Trento riformava parzialmente la sentenza di primo grado, assolvendo l'appellante dall'accusa di fabbricazione di ordigno e riducendo la pena a mesi otto e giorni venticinque di reclusione ed Euro 2.070,00 di multa. Si legge che in data 13.06.2010 era stato organizzato un raduno del gruppo di volontari folcloristici (OMISSIS) sul monte (OMISSIS) nel territorio di Trento: così circa 30 persone si erano radunate in una radura per installare una grande croce e partecipare ad un ristoro; sul posto l'imputato, che era il Presidente della predetta Compagnia (OMISSIS), aveva portato una sorta di mortaio per l'esplosione di colpi di festa: esso funzionava versandovi polvere pirica e pressandola con della carta per poi darvi fuoco, stando attenti a non mescere troppa polvere pirica altrimenti il contenitore sarebbe esploso; la persona offesa aveva riferito di avere visto il C. prima armeggiare intorno al mortaio e poi versarvi qualcosa dentro: poi aveva udito gridare di fare attenzione e si era riparato dietro un trattore; vi era stato un boato fragoroso ed egli si era ritrovato ferito alla caviglia destra in modo grave: era stato colpito da un pezzo del mortaio, che si era distaccato al momento dell'esplosione; altri testi avevano precisato che il C. ed altri due individui avevano armeggiato con il mortaio, ma inizialmente non avevano avuto successo, tanto che l'imputato aveva suggerito di lasciare stare; poi però aveva urlato a tutti di fare attenzione e vi era stata la deflagrazione; il padre della persona offesa aveva riferito che l'imputato si era raccomandato con l'infortunato di dire che era stato ferito da un petardo e che aveva fatto sparire molte tracce di quanto accaduto nelle radura. Del mortaio non era stata trovata traccia: in casa dell'imputato era stata rinvenuta la carabina non denunziata.

Nell'udienza di appello l'imputato aveva dichiarato di avere portato un mortaio di antica fattura acquistato da un rigattiere, di avere procurato della polvere pirica e di essersi occupato dei lavori sulla croce e non del mortaio, sul quale armeggiavano altre due persone che non riuscivano ad azionarlo; si era avvicinato a loro, consigliando di desistere ma poi aveva notato che l'innesco aveva preso fuoco ed aveva urlato a tutti di allontanarsi; dopo lo scoppio aveva aiutato i feriti, negava di avere fatto sparire il mortaio anche se ammetteva che la zona era stata ripulita su suo ordine; ammetteva di aver sentito la responsabilità dell'accaduto, tanto da avere presentato le dimissioni da Presidente della Compagnia, che erano state però respinte.

La Corte territoriale rilevava che il giudice di primo grado aveva revocato i testimoni nonostante le insistenze della difesa dell'imputato, ma questa non aveva eccepito tempestivamente la nullità dell'ordinanza, per cui il vizio era ormai sanato. In ogni caso non riapriva l'istruttoria, ritenendo che quella di primo grado, unita alle dichiarazioni dell'imputato, consentisse una piena ricostruzione dell'accaduto. Così, il mortaio era stato portato dall'imputato, il quale aveva anche acquistato la polvere pirica: di conseguenza, egli non poteva declinare le proprie responsabilità dalla utilizzazione dell'ordigno ed aveva condiviso, almeno di fatto, l'operato di coloro che lo caricavano nè li aveva mai ostacolati, come pure avrebbe potuto nel suo ruolo leaderistico e nella sua qualità di proprietario; seppure i tentativi vani lo avessero indotto a suggerire di lasciar perdere, ciò non era espressione di una dissociazione ma una sorta di consiglio; tuttavia il mortaio era stato caricato proprio sotto il suo sguardo e l'innesco era stato acceso alla sua presenza: anzi, la persona offesa l'aveva visto mentre caricava l'ordigno medesimo. Si riteneva sussistere anche il reato di cui all'art. 703 cod. pen., comma 2 in quanto figura autonoma di reato che prescindeva da una via pubblica, richiedendo soltanto l'adunanza di persone. Si riteneva sussistere la responsabilità per la carabina non denunziata: infatti, sebbene l'imputato avesse chiesto alla Questura il nulla osta per l'acquisto, detto documento recava in calce l'avviso testuale con cui si avvertiva il titolare che l'arma andava formalmente denunziata al competente Ufficio di p.s.. Si assolveva invece l'imputato dall'accusa di aver fabbricato il mortaio, non essendovi ragione per non credere che fosse un oggetto vecchio comprato da un rigattiere.

p. 4. Avverso detta sentenza propone ricorso l'imputato, deducendo con il primo motivo ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), l'inosservanza di norme processuali: si sostiene che i testi di cui era stata revocata l'ammissione in primo grado erano assenti per impedimento e che la difesa aveva insistito per la loro audizione, per cui quella ordinanza era da ritenersi nulla, mentre il giudice di appello aveva ritenuto che essi non potevano aggiungere dati conoscitivi ulteriori. Con il secondo motivo si deduce, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) e b), inosservanza di norme processuali ed erronea applicazione di legge: si sostiene che il giudice avrebbe dovuto disporre la rinnovazione dell'istruttoria sulla base della sentenza CEDU Dan/Moldavia mentre aveva ritenuto apoditticamente che i testi non sentiti non potessero aggiungere nulla.

Con il terzo motivo si deduce, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), erronea applicazione di legge e contraddittorietà della motivazione: si sostiene che la sentenza impugnata aveva sostanzialmente riconosciuto la responsabilità di più persone fra cui l'imputato concludendo in modo congetturale poichè aveva ritenuto che un fatto remoto (e cioè l'avere portato il mortaio all'inizio della serata) fosse alla base della sua responsabilità ritenuta di tipo morale e non aveva spiegato quale obbligo gravasse sul C. di impedire l'evento.

Con il quarto motivo si deduce, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), erronea applicazione di legge con riferimento all'art. 703 cod. pen.: si sostiene che il comma 2 di quella norma contiene una circostanza aggravante ad effetto speciale e non anche una fattispecie autonoma, per cui l'adunanza di persone deve essere connessa ad un luogo abitato. Con il quinto motivo si deduce, ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), omissione della motivazione in relazione all'obbligo di denunziare la detenzione della carabina poichè non si sarebbe motivato circa un erroneo convincimento dell'imputato.

p. 5. Con memoria successiva la difesa del ricorrente, ribadendo le ragioni del ricorso, insta per la sollevazione di una questione di legittimità costituzionale dell'art. 182 cod. proc. pen. per violazione dell'art. 117 Cost. e art. 6 CEDU, laddove esso non prevede la possibilità di rilevare anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo la nullità di atti processuali concernenti il diritto di difesa dell'imputato, vizio che si sarebbe determinato nel diniego di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale basato sul regime di nullità relativa disciplinato dall'art. 182 cod. proc. pen..

p. 6. In udienza il P.G. ha concluso per la inammissibilità del ricorso, ritenendo lo stesso come mera riproposizione di questioni già dedotte e respinte adeguatamente dal giudice di appello, valutando come manifestante infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata.

p. 7. Il difensore del ricorrente ha ribadito i motivi di doglianza, con particolare riferimento alla revoca dei testimoni a difesa.

Motivi della decisione

p. 1. Il ricorso è soltanto parzialmente fondato, nei limiti di seguito precisati.

L'intera vicenda processuale è già stata sintetizzata, per cui, al fine di evitare pleonasmi e ripetizioni non utili, appare opportuno procedere all'esame delle ragioni di doglianza.

p. 2. Con il primo motivo il ricorrente lamenta una inosservanza di norme processuali, sostenendo che i testimoni di cui era stata revocata l'ammissione in primo grado erano assenti per impedimento e che la difesa aveva insistito per la loro audizione, per cui la relativa ordinanza revocatoria era da ritenersi nulla, mentre il giudice di appello aveva ritenuto che essi non potevano aggiungere dati conoscitivi ulteriori, ritenendo peraltro, in ogni caso, sanato l'eventuale vizio della mancata tempestiva eccezione di nullità. Su questo punto si innesta la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente.

La doglianza non è fondata, per più ragioni.

Invero secondo la giurisprudenza di questa Corte (per tutte, Sez. 3, sent. n. 816 del 6/12/2005, Rv. 233256) se è vero, come evidenzia il ricorrente, che è affetta da nullità l'ordinanza con la quale il giudice dispone la revoca dell'ammissione di un testimone a discarico dell'imputato nonostante il difensore abbia insistito per la sua escussione, è altrettanto vero che tale nullità deve essere immediatamente dedotta dalla parte presente ai sensi dell'art. 182 cod. proc. pen., comma 2: nella fattispecie, il ricorrente stesso non segnala di aver tempestivamente assolto al proprio onere (anzi, solleva una questione di legittimità costituzionale che muove dal presupposto della mancata eccezione tempestiva).

Pertanto, sulla base del ricorso medesimo emerge che la nullità verificatasi in presenza della parte non era stata dedotta, rimanendo quindi sanata. Infatti, il disposto dell'art. 180 cod. proc. pen., secondo cui la nullità di ordine generale verificatasi nel corso del giudizio è deducibile dalla parte, dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo, trova un limite nel disposto dell'art. 182 cod. proc. pen., comma 2, il quale prevede una eccezione alla regola della deducibilità appena illustrata, con riferimento al caso in cui la parte assista al compimento dell'atto nullo: per tale ipotesi è sancito che la parte, se non può eccepire la nullità prima del compimento dell'atto stesso, deve farlo immediatamente dopo (Sez. 5, n. 18351 del 17/02/2012, Rv. 252680): la regola prevista dal citato art. 182 (che dà rilievo alla presenza della parte quale condizione che impone la deduzione tempestiva di una nullità), costituisce, infatti, non estensione ma eccezione rispetto ai principi generali di cui al menzionato art. 180, nel senso che impedisce di eccepire successivamente nullità che altrimenti bene e fisiologicamente avrebbero potuto essere eccepite in una precedente fase processuale.

La stessa Corte Costituzionale ha avuto modo di utilizzare il bene costituzionale dell'efficienza del processo quale parametro per censurare la razionalità di norme processuali che consentivano il perseguimento di intenti dilatori (sentenze n. 353 del 1996 e n. 10 del 1997). La lealtà non implica collaborazione con l'autorità giudiziaria per il raggiungimento di uno scopo comune, ma certamente comporta che anche l'attività della difesa debba convergere verso la finalità di un processo di ragionevole durata, poichè si tratta di un risultato il cui perseguimento deve essere a carico di tutti i soggetti processuali, una volta rispettate le insopprimibili garanzie difensive.

Su questo punto il ricorrente ha sollevato una questione di legittimità costituzionale proprio sull'art. 182 cod. proc. pen. e sulla sua compatibilità con il disposto dell'art. 117 Cost. e art. 6 CEDU. Tuttavia la questione si presenta come manifestamente infondata: ed invero, il potere officioso di escludere le prove già ammesse ma successivamente rivelatesi superflue è dipendente e costituisce null'altro che un limite del principale diritto della parte di difendersi provando.

Questo diritto è oggetto di una interpretazione conforme al principio della "parità delle armi" che è sancito dall'art. 6, della CEDU, a sua volta ripreso anche dall'art. 111 Cost., comma 2, in tema di contraddittorio tra le parti, e che consiste, come è scritto nel precetto sovranazionale, nel diritto dell'accusato ad ottenere non solo la citazione ma anche l'interrogatorio dei testimoni a discarico, a pari condizioni dei testimoni a carico.

Tuttavia, il principio del contraddittorio sul terreno della prova, affermato dall'art. 111 Cost., comma 4, è certamente compatibile con limitazioni legislative che integrano la riserva costituzionale in tema di ragionevole durata, sopra richiamata: soluzioni differenti sacrificherebbero gravemente, infatti, i principi di ragionevole durata, efficienza, speditezza ed economia del processo, senza salvaguardare alcun apprezzabile interesse della parte, se non quello, eventuale e non costituzionalmente protetto, alla prescrizione dei reati.

In altri termini, il principio della parità delle armi implica che a ciascuna delle parti debba essere consentita una ragionevole opportunità di presentare la sua posizione, incluse le prove, in condizione tale da non risultare collocata in sostanziale svantaggio rispetto al suo contraddittore: e l'opportunità, allorquando reputi, di ravvisare una nullità così serbando il diritto ad un ricorso sul punto, ma nell'ambito di un perimetro che contemperi anche i già rammentati principi di economia del processo e ragionevole durata di esso.

Peraltro, nella fattispecie, appare persino non rilevante la questione sollevata: non risponde al vero l'affermazione del ricorrente secondo la quale il giudice di appello si sarebbe limitato a valutare immotivatamente come superflue le deposizioni dei testimoni a discarico non più ammessi; in effetti, la sentenza impugnata, a pag. 7, evidenzia che la decisione della revoca di testimoni a discarico era dovuta non al fatto che era stato privilegiato il racconto della controparte, ma proprio al fatto che era stato dato credito all'imputato, prestando fede al suo racconto e ritenendo che le dichiarazioni rese da quest'ultimo già riscontravano, in larga parte, le testimonianze assunte, tanto da rendere non utili le ulteriori audizioni richieste dalla difesa poichè quelle dichiarazioni si ritenevano fornire - addirittura in misura maggiore di quanto possibile con l'audizione dei testi esclusi - contributi conoscitivi idonei a consentire una piena ricostruzione dell'accaduto.

La violazione del diritto di difesa, sub specie di mancata ammissione delle prove dedotte, esige che ne sia precisata la portata indicando specificamente le prove che l'imputato non ha potuto assumere e le ragioni della loro rilevanza ai fini della decisione nel contesto processuale di riferimento, considerato che il diritto dell'imputato di difendersi citando e facendo esaminare i propri testi, trova un limite nel potere del giudice di escludere le prove superflue ed irrilevanti, ex art. 495 cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 10425 del 28/10/2015 - dep. 2016, Lanzafame, Rv. 26755901; Sez. 2, n. 2350 del 21/12/2004 - dep. 2005, Papalia ed altri, Rv. 23071701).

Nella fattispecie, la sentenza impugnata reca una specifica, dettagliata e ragionevole motivazione sul necessario requisito della superfluità delle audizioni di ulteriori testimoni, senza alcuna violazione del diritto della parte di "difendersi provando": la Corte territoriale precisa che, proprio sulla base delle dichiarazioni dell'imputato, era stato possibile ricostruire, senza dubbi di sorta, quanto accaduto, e cioè che il mortaio de quo era stato portato nella radura proprio dal ricorrente e non a sua insaputa, e proprio allo scopo di esplodere colpi di festa seguendo la ritualità di quegli incontri; parimenti, era stato il ricorrente a chiarire di avere portato, previo acquisto, la polvere pirica raccolta in una scatola di latta (vista e descritta appunto dalla persona offesa nelle mani del ricorrente quando questi armeggiava sul mortaio per l'accensione), di avere provato a caricare il mortaio e ad avere consentito ad altri di proseguire l'opera, restando nei pressi mai dissociandosi dall'azione).

Si consideri che, sotto il profilo riguardante l'omessa assunzione di testi già ammessi, occorre osservare che il diritto dell'imputato all'ammissione delle prove a discarico, di cui all'art. 495 c.p.p., comma 2, va coordinato con il potere attribuito al giudice dal comma 4 del medesimo articolo, di revocare l'ammissione di prove che risultino "superflue". Tale potere, esercitato dal giudice sulla base delle risultanze della istruttoria dibattimentale, è ben più ampio di quello che al medesimo è riconosciuto all'inizio del dibattimento, fase regolata dal più restrittivo canone di cui all'art. 190 cod. proc. pen., in base al quale, stante il diritto delle parti alla prova, il giudice può non ammettere le sole prove vietate dalla legge o quelle che "manifestamente" risultino superflue o irrilevanti (Sez. 6, n. 13792 del 06/10/1999, Rv. 215281; Sez. 6, n. 5562 del 13/04/2000, Rv. 220547).

p. 3. Con il secondo motivo si censura una asserita inosservanza di norme processuali ed una asserita erronea applicazione di legge: si sostiene che il giudice avrebbe dovuto disporre la rinnovazione dell'istruttoria sulla base della sentenza CEDU Dan/Moldavia mentre aveva ritenuto apoditticamente che i testi non sentiti non potessero aggiungere nulla.

Ciò non risponde al vero: in primo luogo, per come già visto in precedenza, la decisione di ritenere superflue le ulteriori testimonianze non era stata apoditticamente motivata, bensì dettagliatamente argomentata; in secondo luogo, premesso - in linea generale - che la rinnovazione dell' istruttoria nel giudizio di appello, attesa la presunzione di completezza dell'istruttoria espletata in primo grado, è un istituto di carattere eccezionale al quale può farsi ricorso esclusivamente allorchè il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti (Sez. Un., n. 12602 del 17/12/2015, Rv. 266820), l'obbligo di rinnovare l'istruzione e di escutere nuovamente i dichiaranti (obbligo sancito dall'art. 6 CEDU, come interpretato dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo del 5 luglio 2011, nel caso Dan c/Moldavia) non trova applicazione nella fattispecie, poichè esso riguarda il tema della valutazione della prova testimoniale da parte del giudice d'appello e la nuova escussione dei dichiaranti soltanto quando il giudice apprezzi diversamente la loro attendibilità rispetto a quanto ritenuto in primo grado: all'evidenza, si tratta di ipotesi differente da quanto qui in discussione, poichè la Corte territoriale non ha affatto valutato diversamente i testimoni già sentiti in primo grado nè ha concluso con una decisione più sfavorevole all'imputato, atteso che la pena è stata diminuita in ragione di una ritenuta esclusione della responsabilità per una delle fattispecie contestate.

p. 4. Con il terzo motivo si censura una asserita erronea applicazione di legge e altrettanto asserita contraddittorietà della motivazione: si sostiene che la sentenza impugnata aveva sostanzialmente riconosciuto la responsabilità di più persone fra cui l'imputato concludendo in modo congetturale poichè aveva ritenuto che un fatto remoto (e cioè l'avere portato il mortaio all'inizio della serata) fosse alla base della sua responsabilità ritenuta di tipo morale e non aveva spiegato quale obbligo gravasse sul C. di impedire l'evento.

Si tratta di una doglianza infondata: non risponde al vero che la Corte territoriale si sia arrestata ad una valutazione congetturale ed abbia tratto un giudizio di responsabilità da un fatto remoto, ignorando una causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento: la sentenza impugnata rappresenta l'evidenza di una lesione colposa derivata dall'esplosione del vecchio mortaio, causata dalla imprudenza con cui diverse persone (tra cui appunto il ricorrente) si erano prodigate nel caricamento di polvere pirica e carta, nonostante l'evidente imperizia nello svolgere detta operazione. Si sottolinea che l'uso del mortaio era stato previsto, voluto ed organizzato dall'imputato, il quale lo aveva acquistato, lo aveva portato alla radura e lo aveva posto a disposizione della Compagnia (OMISSIS); poi aveva iniziato a caricarlo e, dopo qualche tentativo connotato da insuccesso, aveva consentito ad altre persone di proseguire con i tentativi di caricamento al fine di far partire il colpo; ma la sentenza pone in rilievo che il ricorrente non aveva mai mutato programma, non aveva abbandonato l'idea degli spari, non aveva messo da parte il mortaio ed anzi era rimasto nei pressi a seguire le operazioni di caricamento che si svolgevano sotto i suoi occhi, tanto che era stato proprio lui a scorgere per primo l'accensione della miccia ed a preavvertire il pericolo di quelle imprudenti operazioni, alle quali era seguito il boato e poi la ferita alla persona offesa, la quale aveva riferito di aver visto proprio il ricorrente nel mentre versava polvere pirica nel mortaio. E la Corte territoriale riporta anche che lo stesso ricorrente, sin dal primo momento, si era sentito responsabile di quanto accaduto: dunque - scrive il giudice - non vi era stata dissociazione del C., che era rimasto sempre presente e consapevole di quanto altri stavano facendo, con sua attiva partecipazione, iniziata portando il mortaio e la polvere pirica e mantenuta sino alla fine.

Si tratta di conclusioni nè erronee nè contraddittorie, ma in linea con la giurisprudenza di questa Corte: infatti, l'esplosione di un colpo di un'arma da fuoco del tipo mortaio, caricata (in modo palesemente improvvisato) in una radura piena di persone integra gli estremi della condotta colposa, sotto il profilo dell'imprudenza.

E questa responsabilità è piena, secondo i parametri di cui all'art. 113 cod. pen.: in tema di rapporto di causalità, non può ritenersi causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento il comportamento negligente di un soggetto che trovi la sua origine e spiegazione nella condotta colposa altrui. Era stato il ricorrente ad affidare colposamente a soggetti inesperti un ordigno pericoloso per sua natura, e lui stesso non ignorava l'imperizia delle persone che si erano avvicendate, tanto che lui stesso aveva consigliato di smettere, non dando però poi corpo a questo pensiero. In ogni caso, egli non aveva revocato l'affidamento riposto nei soggetti inesperti, e questo dato è sufficiente per integrare la responsabilità di cui all'art. 113 cod. pen..

Infatti, per aversi cooperazione nel delitto colposo, non è nemmeno necessaria la consapevolezza della natura colposa dell'altrui condotta, essendo sufficiente la coscienza dell'altrui partecipazione nello stesso reato, intesa come consapevolezza, da parte dell'agente, del fatto che altri soggetti - in virtù di una contingenza oggettiva e pienamente condivisa - sono investiti di una determinata attività, con una conseguente interazione rilevante anche sul piano cautelare, nel senso che ciascuno è tenuto a rapportare prudentemente la propria condotta a quella degli altri soggetti coinvolti (Sez. 4, n 15324 del 04.02.2016, Rv 266665).

p. 5. Con il quarto motivo si deduce, invece, erronea applicazione di legge con riferimento all'art. 703 cod. pen.: si sostiene che il comma secondo di quella norma contiene una circostanza aggravante ad effetto speciale e non anche una fattispecie autonoma, per cui l'adunanza di persone deve essere connessa ad un luogo abitato.

Il motivo è fondato.

Il giudice di appello ha concluso per la responsabilità del ricorrente in ordine a questa ipotesi criminosa, ritenendo che l'art. 703 c.p., comma 2, configuri una autonoma figura di reato, prevista con riferimento a tutti i contesti in cui il produrre accensioni od esplosioni avvenga dove vi sia adunanza di persone, indipendentemente dal fatto che il posto si trovi su una via pubblica.

L'assunto non è condivisibile: reputa, invece, il Collegio che la citata disposizione dell'art. 703 cpv stabilisce non uno speciale titolo di reato, ma una circostanza aggravante, poichè esso presuppone la nozione del reato semplice in tutti i suoi elementi e a questa aggiunge, senza modificarla, una circostanza che rende maggiore il pericolo per le persone. Si tratta di una circostanza a carattere oggettivo, poichè riguarda il luogo dell'azione e la gravità del pericolo: per effetto di essa viene modificata la specie della pena ordinaria del reato (la Relazione ministeriale sul progetto del codice penale conforta questa interpretazione, qualificando il contenuto della suddetta disposizione corna una circostanza aggravante). Quanto al luogo ove vi sia adunanza o concorso di persone, è necessario che esso sia abitato, o che costituisca adiacenza di luogo abitato o sia una pubblica via ovvero sia tale che il fatto avvenga in direzione di una pubblica via: altrimenti, non sussistendo il fatto nella sua nozione fondamentale, non può sussistere neppure la circostanza aggravante.

Nella fattispecie, non vi è dubbio che l'esplosione de qua sia avvenuta in una radura del monte (OMISSIS) nel territorio di Trento: in sostanza, è un fatto avvenuto in aperta zona di campagna, lontana da un abitato e da vie pubbliche, per cui, nonostante l'adunanza di persone, il reato contestato non sussiste.

p. 6. Con il quinto ed ultimo motivo si deduce una asserita omissione della motivazione in relazione all'obbligo di denunziare la detenzione della carabina poichè non si sarebbe motivato circa un erroneo convincimento dell'imputato: anche questo motivo è infondato, poichè la sentenza impugnata espressamente precisa che il ricorrente si era limitato a chiedere alla Questura il nulla osta per l'acquisto della carabina ma non aveva poi provveduto a presentare la denunzia per la detenzione dell'arma; ed il giudice di appello espressamente aveva escluso un equivoco o una erroneo convincimento, giacchè veniva riportato che, proprio in calce al predetto nulla osta, si precisava in modo evidente che il titolare del nulla osta aveva l'obbligo "di presentare immediata denuncia dell'arma o delle materie esplodenti acquistate, all'Ufficio di P.S. o, se questo manchi, al Comando Carabinieri competente per territorio".

Da questo elemento veniva concluso, con motivazione ragionevole e priva di salti logici, che l'imputato aveva volontariamente omesso di curare l'adempimento obbligatorio.

In conclusione, la sentenza impugnata va annullata senza rinvio limitatamente alla contestazione ex art. 703 cod. pen., perchè il fatto non sussiste, mentre nel resto il ricorso deve essere rigettato. Gli atti vanno inviati ad altra sezione della Corte di Appello di Trento per la rideterminazione della pena per i reati residui.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata senza rinvio limitatamente alla contestazione ex art. 703 c.p., perchè il fatto non sussiste.

Rigetta nel resto il ricorso.

Rinvia ad altra sezione della Corte di Appello di Trento per la rideterminazione della pena per i reati residui.

Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2017