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Precedenti denunce e tenuità del fatto (Cass. 51526/18)

15 novembre 2018, Cassazione penale

La mera presenza di denunzie nei confronti dell’imputato o di precedenti di polizia, di cui si ignora l’esito, non può, di per sé, costituire elemento ostativo al riconoscimento dell’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.; il giudice, quindi, ove risultino in atti denunzie o precedenti di polizia, ove sollecitato dalla difesa o anche di ufficio, deve verificare l’esito di tali segnalazioni, per trarne l’esistenza di eventuali concreti elementi fattuali che dimostrino, in ipotesi, la abitualità del comportamento dell’imputato.

Le denunzie ed i precedenti di polizia,  sono mere ipotesi, prospettazioni unilaterali, cioè, tutte da verificare, e che, isolatamente considerate, non forniscono nemmeno la prova della iscrizione di una compiuta notitia criminis nel registro delle notizie di reato.

Corte di Cassazione

sez. IV Penale, sentenza 4 ottobre – 15 novembre 2018, n. 51526
Presidente Piccialli – Relatore Cenci

Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di Milano il 14 febbraio 2018, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Milano del 18 gennaio 2016, con la quale B.B.O. era stato riconosciuto responsabile del reato di cui al comma 5 dell’art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per avere ceduto 2 grammi di hashish (contenente principio attivo pari a 0,28 grammi da cui sono ricavabili 11 dosi) a M.M.K.E.S.I. , fatto commesso il (omissis) , e, conseguentemente, condannato l’imputato alla pena stimata di giustizia, ha rideterminato, riducendola, la pena.
2. Ricorre tempestivamente per la cassazione della sentenza l’imputato, tramite difensore, affidandosi a due motivi con i quali denunzia promiscuamente difetto di motivazione e violazione di legge, anche sotto il profilo del travisamento della prova.
2.1. Sotto il primo profilo, censura l’affermazione di penale responsabilità, non avendo gli agenti di polizia giudiziaria assistito a nessuna cessione tra B.B.O. e M.M.K.E.S.I. ma soltanto ad uno scambio giudicato sospetto: in conseguenza, sarebbe illegittima ed ingiusta la condanna, neutra e priva di significato essendo la disponibilità di denaro contante in capo all’imputato e non essendosi rinvenuti oggetti riconducibili allo svolgimento di attività di spaccio a carico dell’imputato, il quale si è sempre, sin dal primo momento, dichiarato innocente.
2.2. Lamenta poi la mancata applicazione dell’art. 131-bis cod. pen., invocata in appello ma illegittimamente - si stima - negata dai giudici di merito, che hanno valorizzato, per escludere la non abitualità della condotta, meri precedenti di polizia, che sarebbero privi di valore ed inutilizzabili, anche perché non sono stati acquisiti i fascicoli processuali relativi alle denunzie e alle segnalazioni nei confronti dell’imputato onde verificare l’esito delle stesse.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è parzialmente fondato, nei limiti di cui appresso.

1.1. Quanto al primo motivo, i giudici di merito, con valutazione congrua, non illogica ed immune da vizi di legittimità, hanno fondato l’affermazione di responsabilità sulla consegna repentina, direttamente percepita dalla polizia giudiziaria, di un qualcosa da parte di B.B.O. a M.M.K.E.S.I. e nel rinvenimento nelle tasche del secondo da parte della p.g., immediatamente intervenuta, di due grammi di hashish e addosso al primo di banconote (p. 3 della sentenza impugnata e p. 2 di quella del Tribunale).

1.2. Quanto al secondo motivo di ricorso, con il quale si contesta il diniego dell’art. 131-bis cod. pen. in base al rilievo che l’imputato ha due precedenti dattiloscopici specifici, che non offrirebbero prova della abitualità criminosa, anche perché - si sottolinea - il giudice di merito non ha verificato l’esito delle denunzie nei confronti di B.B.O. , si osserva quanto segue.
Vero è che - in diverso ambito - al fine della concedibilità o meno delle circostanze attenuanti generiche si è precisato che il giudice, alla luce dei criteri di determinazione della pena di cui all’art. 133 cod. pen., può ben considerare i precedenti giudiziari, ancorché non definitivi (Sez. 5, n. 39473 del 13/06/2013, Paderni, Rv. 257200; v. altresì, con specifico riferimento alle sentenze non definitive, Sez. 5, ord. n. 3540 del 05/07/1999, D’Alessio, Rv. 214477, e, quanto ai meri precedenti di polizia, Sez. 2, n. 18189 del 05/05/2010, Vaglietti e altri, Rv. 247469), anche se successivi al compimento dell’illecito per cui si procede (Sez. 6, n. 21838 del 23/05/2012, Giovane e altri, Rv. 252881), in quanto elementi che sono espressione della personalità dell’imputato (cfr. Sez. 4, n. 18795 del 07/04/2016, P., Rv. 266705, con specifico riferimento ad illeciti prescritti o amnistiati): il caso in esame, tuttavia, è diverso.

È diverso sia perché si deve non già modulare la pena ma verificare la sussistenza o meno di una causa di non punibilità, il cui riconoscimento importa che l’autore materiale del fatto vada esente da pena, sia perché la difesa (p. 5 dell’appello) ha espressamente contestato la rilevanza dei meri precedenti di polizia al fine dell’accertamento dell’abitualità della condotta, nell’ottica della ipotizzata applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., contestualmente invocata, senza trovare alcuna risposta da parte della Corte di merito, che ha solo ribadito che esistono due precedenti dattiloscopici.

Ed il tema posto dal ricorrente è serio, poiché attiene alla esatta individuazione dei confini del comportamento abituale quale presupposto ostativo al riconoscimento della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto.

1.2.1. Per risolvere il problema, appare opportuno prendere le mosse dalla ricostruzione svolta dalla S.C. nella qualificata composizione a Sezioni unite nella recente sentenza del 2016, ric. Tushaj, la cui massima ufficiale recita: "Ai fini del presupposto ostativo alla configurabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis cod. pen., il comportamento è abituale quando l’autore, anche successivamente al reato per cui si procede, ha commesso almeno due illeciti, oltre quello preso in esame. (In motivazione, la Corte ha chiarito che, ai fini della valutazione del presupposto indicato, il giudice può fare riferimento non solo alle condanne irrevocabili ed agli illeciti sottoposti alla sua cognizione - nel caso in cui il procedimento riguardi distinti reati della stessa indole, anche se tenui- ma anche ai reati in precedenza ritenuti non punibili ex art. 131 bis cod. pen.)" (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266591).
Nella ampia motivazione della decisione si legge, al riguardo, quanto segue:

"(...) l’ambito applicativo del nuovo istituto è definito non solo dalla gravità del reato desunta dalla pena edittale, ma anche da un profilo soggettivo afferente alla non abitualità del comportamento. Tale ultimo aspetto presenta concreta rilevanza nel presente giudizio (...) Occorre dunque intendere quale sia la portata del terzo comma dell’art. 131-bis che definisce il comportamento abituale.
Sebbene la relazione al decreto legislativo ritenga esemplificative le indicazioni offerte dalla norma, è condivisibile l’opinione diffusa ed autorevole che si sia in presenza di norma tassativa, di tipizzazione dell’abitualità. Tale interpretazione è confermata dal fatto che il progetto originario aveva deliberatamente omesso di definire l’abitualità al fine di lasciare al giudice spazi di manovra che, invece, il legislatore ha evidentemente ritenuto di dover eliminare.
Il testo della legge lascia subito intendere che il nuovo istituto dell’abitualità è frutto del sottosistema generato dalla riforma ed al suo interno deve essere letto. Sarebbe dunque fuorviante riferirsi esclusivamente alle categorie tradizionali, come quelle della condanna e della recidiva. In breve, secondo opinione comune e condivisa, la norma intende escludere dall’ambito della particolare tenuità del fatto comportamenti seriali

Alcune indicazioni della nuova normativa sono chiare, atteso il riferimento ad istituti codicistici: delinquente abituale, professionale, per tendenza.

Parimenti non oscuro è il riferimento alla commissione di più reati della stessa indole. In primo luogo, non si parla di condanne ma di reati. Inoltre, il tenore letterale lascia intendere che l’abitualità si concretizza in presenza di una pluralità di illeciti della stessa indole (dunque almeno due) diversi da quello oggetto del procedimento nel quale si pone la questione dell’applicabilità dell’art. 131-bis. In breve, il terzo illecito della medesima indole dà legalmente luogo alla serialità che asta all’applicazione dell’istituto.

Tale interpretazione è in linea con l’idea di serialità delle condotte che, come si è accennato, ha dall’inizio accompagnato l’iter dei decreto, ma è controversa. Esiste, tuttavia un dato testuale che risulta dirimente.

La Commissione Giustizia, nel vagliare lo schema di decreto legislativo, ne ha richiesto l’adeguamento con l’introduzione di un comma dedicato alla definizione dell’abitualità del comportamento recante la previsione che Il comportamento risulta abituale nel caso in cui il suo autore (...) abbia commesso altri reati della stessa indole. Tale formula è stata in effetti riportata nell’atto normativo con una piccola e sicuramente accidentale variazione: l’espressione altri reati è divenuta più reati.

Dunque tenendo a base il testo indicato dalla Camera e la sua ratio, emerge che l’alterità al plurale dei reati diversi da quello oggetto del processo non lascia dubbio che la serialità ostativa si realizza quando l’autore faccia seguire a due reati della stessa indole un’ulteriore, analoga condotta illecita.

I reati possono ben essere successivi a quello in esame, perché si verte in un ambito diverso da quello della disciplina legale della recidiva; ed è in questione un distinto apprezzamento in ordine, appunto, alla serialità dei comportamenti.
La pluralità dei reati può concretarsi non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche nel caso in cui gli illeciti si trovino al cospetto del giudice che, dunque, è in grado di valutarne l’esistenza; come ad esempio nel caso in cui il procedimento riguardi distinti reati della stessa indole, anche se tenui.

Ulteriore questione è se il reato ritenuto non punibile per tenuità (e conseguentemente iscritto nel casellario) rilevi ed in che modo ai fini di cui si discute. A tale riguardo occorre premettere che la procedura di memorizzazione delle pronunzie adottate per tenuità dell’offesa costituisce strumento essenziale per la stessa razionalità ed utilità dell’istituto. Infatti è agevole cogliere che l’assenza di annotazione determinerebbe, incongruamente, la possibilità di concessione della non punibiltà molte volte nei confronti della stessa persona.

Né appaiono condivisibili le preoccupazioni di chi vede in tale memorizzazione un vulnus a diritti fondamentali, quando l’accertamento dell’esistenza del reato implicato in tale genere di pronunzia non sia avvenuto all’esito del giudizio. Tali perplessità non tengono conto del fatto che l’annotazione è l’antidoto indispensabile contro l’abuso dell’istituto. Se questo è il trasparente scopo della previsione, non si scorge per quale ragione chi abbia fruito del beneficio all’esito di una procedura che lo ha personalmente coinvolto, possa dolersi della discussa annotazione. Occorre tuttavia ribadire che la trascrizione della decisione serve e rileva solo all’interno del sottosistema di cui ci si occupa.

Il rilievo dell’accertamento in ordine all’esistenza dell’illecito implicato dalla dichiarazione di non punibilità è allora esattamente e solo quello di costituire un "reato" che, sommato agli altri della stessa indole richiesti dalla legge nei termini di cui si è detto, dà luogo alla legale abitualità del comportamento.Insomma, nella valutazione complessiva afferente al giudizio di abitualità ben potranno essere congiuntamente considerati reati oggetto di giudizio ed illeciti accertati per così dire incidentalmente ex art. 131-bis.

Infine è da considerare l’ultima categoria di reati indicati dalla norma: quelli che hanno ad oggetto condotte plurime, abituali e reiterate.

Il legislatore evoca senz’altro, in primo luogo, reati che presentano l’abitualità come tratto tipico: il pensiero corre subito, esemplificativamente, al reato di maltrattamenti in famiglia. Analogamente per ciò che riguarda i reati che presentano nel tipo condotte reiterate. Anche qui un esempio si rinviene agevolmente nel reato di atti persecutori. In tali ambiti, può dirsi, la serialità è un elemento della fattispecie ed è quindi sufficiente a configurare l’abitualità che esclude l’applicazione della disciplina; senza che occorra verificare la presenza di distinti reati.

Meno agevole è intendere il riferimento alle condotte plurime. Non è tuttavia inevitabile liberarsi del problema interpretativo ritenendo che si sia in presenza di una mera, sciatta ripetizione di ciò che è stato denominato abituale o reiterato; ed occorre piuttosto cercare di dare un distinto senso all’espressione. Orbene, l’unica praticabile soluzione interpretativa è quella di ritenere che si sia fatto riferimento a fattispecie concrete nelle quali si sia in presenza di ripetute, distinte condotte implicate nello sviluppo degli accadimenti. Anche qui un esempio: un reato di lesioni colpose commesso con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro, generato dalla mancata adozione di distinte misure di prevenzione, da un consolidato regime di disinteresse per la sicurezza. In una situazione di tale genere la pluralità e magari la protrazione dei comportamenti colposi imprime al reato un carattere seriale, id est abituale.
(...) I principi sin qui esposti possono essere sintetizzati come segue. (...)
- Il comportamento è abituale quando l’autore ha commesso, anche successivamente, più reati della stessa indole, oltre quello oggetto del procedimento" (così ai punti nn. 14 e 15 del "considerato in diritto").

Appare evidente che l’articolato ragionamento della S.C. che si è riferito sottende reati verificati, pur non pretendendo espressamente la irrevocabilità della decisione sugli stessi, che possono essere anche solo in corso di accertamento giudiziale (a reati, infatti, e non già a condanne, si fa espresso riferimento in motivazione, in cui si puntualizza che "La pluralità dei reati può concretarsi non solo in presenza di condanne irrevocabili, ma anche nel caso in cui gli illeciti si trovino al cospetto del giudice che, dunque, è in grado di valutarne l’esistenza"); in ogni caso, però, non fa riferimento a mere ipotesi, quali sono, a ben vedere, le denunzie ed i precedenti di polizia, prospettazioni unilaterali, cioè, tutte da verificare, e che, isolatamente considerate, non forniscono nemmeno la prova della iscrizione di una compiuta notitia criminis nel registro delle notizie di reato.
1.2.2. L’osservazione trova conferma in una recente pronunzia a Sezioni semplici nella quale si è escluso che il mero "precedente giudiziario" possa essere, di per sé, ostativo al riconoscimento dell’art. 131-bis cod. proc. pen..
Nella parte motiva (punti nn. 5.1. e 5.2. del "considerato in diritto") di Sez. 2, n. 41774 del 11/07/2018, Moretti, non mass., si è posto in luce che "la stessa Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo predisposta dal Governo segnala che la legge delega utilizza un concetto in certa misura diverso rispetto a quello più usuale di occasionalità del fatto e che, ferma restando la necessità che il concetto di non abitualità del comportamento venga precisato in via interpretativa, esso implichi che la presenza di un precedente giudiziario non sia di per sé sola ostativa al riconoscimento della particolare tenuità del fatto, in presenza ovviamente degli altri presupposti. (...) Ne consegue che, a maggior ragione, la sola evidenziazione dell’esistenza di identiche condotte (oggetto di denuncia ?) di cui si sconosce quali esiti processuali abbiano determinato non può, di per sé, ritenersi preclusiva al riconoscimento della particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen."; in conseguenza si è annullata con rinvio la decisione impugnata, limitatamente alla verifica sulla causa di non punibilità.
1.2.3. Dovendosi dare continuità all’orientamento delineato, per la persuasività della motivazione e per l’aderenza ad un’interpretazione garantista della norma in questione, può affermarsi, dunque, il seguente principio di diritto:
"la mera presenza di denunzie nei confronti dell’imputato o di precedenti di polizia, di cui si ignora l’esito, non può, di per sé, costituire elemento ostativo al riconoscimento dell’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.; il giudice, quindi, ove risultino in atti denunzie o precedenti di polizia, ove sollecitato dalla difesa o anche di ufficio, deve verificare l’esito di tali segnalazioni, per trarne l’esistenza di eventuali concreti elementi fattuali che dimostrino, in ipotesi, la abitualità del comportamento dell’imputato".
2. Consegue la statuizione in dispositivo.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla questione relativa all’art. 131-bis c.p. e rinvia sul punto alla Corte d’appello di Milano.
Rigetta il ricorso nel resto.