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Patto di quota lite eccessivo? (Cass. 26568/21)

30 settembre 2021, Cassazione civile

Il c.d. "patto di quota lite" tra l'avvocato e la parte da lui assistita  era vietato in modo assoluto dall'art. 2233 c.c., comma 3, nella sua originaria formulazione, ma tale patto è divenuto lecito in base alla modifica di cui al D.L. n. 223 del 2006, art. 2, convertito, con modifiche, nella L. n. 248 del 2006: è ora stabilito l'obbligo di forma scritta, sotto pena di nullità, per i patti conclusi tra gli avvocati e i clienti contenenti la regolazione dei compensi professionali.

La nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense introdotta dalla L. 31 dicembre 2012, n. 247, pur affermando che la pattuizione dei compensi sia libera (art. 13, comma 3), ha tuttavia esplicitamente previsto il divieto dei patti "con i quali l'avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa" (art. 13, comma 4), in tal modo reintroducendo il divieto del patto di quota lite tra il 2006 ed il 2012.

L'aleatorietà del patto di quota lite non esclude peraltro la possibilità di valutarne l'equità: in altri termini, la liceità in astratto di quell'accordo non esclude che in sede di giudizio disciplinare possa essere valutata la concretezza del caso specifico allo scopo di verificare se la stima effettuata dalle parti era, all'epoca della conclusione dell'accordo che lega compenso e risultato, ragionevole o, al contrario, sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e della natura del servizio professionale, comprensivo dell'assunzione del rischio.

Il patto di quota lite è libero dal 2012 ma non può prevedere che il compenso corrisponda ad una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa: in sede giudiziaria è liberamente valutabile l'equità dell'accordo e può essere accertato se la stima effettuata dalle parti era, all'epoca della conclusione del patto che lega compenso a risultato, ragionevole o, al contrario, sproporzionata per eccesso, rispetto alla tariffa di mercato.

Cassazione Civile

sez. II, ord., 30 settembre 2021, n. 26568
Presidente Gorjan – Relatore Bellini

Fatti di causa

Con ricorso ex art. 702 c.p.c., nonché del D.Lgs. n. 150 del 2011, ex artt. 14 e segg., l'avv. G.G. adiva il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere per la condanna al pagamento dei compensi professionali nei confronti di B.R. e T.L., esponendo di aver assistito il B. nel procedimento civile R.G. n. 2426/2007, proposto nei confronti della T., redigendo l'atto introduttivo e partecipando alla fase istruttoria, con escussione dei testi e quindi alla discussione in udienza, innanzi al Giudice del Lavoro, per impugnativa di illegittimo licenziamento. Il ricorrente chiedeva la liquidazione di Euro 52.000,00 in virtù del patto di quota-lite intercorso con il B. e il pagamento in solido di entrambi i resistenti in virtù dell'accordo transattivo dai medesimi sottoscritto.

Si costituiva in giudizio il B. disconoscendo la firma apposta al patto di quota-lite e invocandone in ogni caso la nullità, con rigetto della pretesa creditoria azionata.

Si costituiva la T., che eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva, sottolineando che il Giudice del Lavoro aveva condannato la medesima al pagamento delle competenze e diritti del giudizio al procuratore dichiaratosi antistatario e chiedendo, nel merito, il rigetto della domanda perché infondata.

Con ordinanza n. 877/2016 del 25.5.2016 il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere rigettava le domande proposte dal ricorrente e poneva a suo carico le spese della procedura. In particolare, il Tribunale riteneva fondata l'eccezione di carenza di legittimazione passiva della T.; che il Giudice del Lavoro aveva condannato al pagamento delle spese di lite direttamente nei confronti del ricorrente dichiaratosi antistatario, per cui era inammissibile un'ulteriore pronuncia di condanna. Rilevava che il B. aveva disconosciuto la sottoscrizione, cui non aveva fatto seguito la richiesta di verificazione da parte dell'avv. G.. Il Tribunale riteneva, pertanto, che la mancata proposizione dell'istanza di verificazione equivaleva a una dichiarazione di non volersi avvalere della scrittura privata come mezzo di prova, con la conseguenza che il Giudice non doveva tenerne conto (Cass. n. 155 del 1994). Quindi, del patto non stata era raggiunta alcuna prova e non poteva essere preso a parametro per la liquidazione dei compensi richiesti. Infine il Tribunale riteneva di applicare la Tariffa Professionale del 2004, ancora vigente alla data del procedimento sopra indicato, in base alla quale doveva riconoscersi a titolo di onorario la somma di Euro 3.090,50, mentre il Giudice del Lavoro aveva liquidato in favore del ricorrente la somma di Euro 5.000,00, per cui il ricorrente non aveva diritto alla differenza in quanto la somma riconosciuta dal Collegio era inferiore a quella liquidata dal Giudice del Lavoro. Inoltre, avendo il ricorrente ottenuto in via diretta il pagamento dei compensi, risultava essere già stato liquidato e nulla gli era più dovuto.

Avverso l'ordinanza propone ricorso per cassazione l'avv. G.G. sulla base di tre motivi. Resistono B.R. e T.L. ciascuno con controricorso.

Ragioni della decisione

1. - In via pregiudiziale, B.R. ha eccepito l'inammissibilità del ricorso, giacché l'ordinanza conclusiva di un procedimento sommario di cognizione instaurato dall'avvocato per ottenere il compenso professionale era appellabile ove la controversia riguardasse l'an debeatur (cfr. Cass. n. 19873 del 2015; Cass. n. 21554 del 2014; Cass. n. 1666 del 2012). Anche la controricorrente T.L. deduceva l'inammissibilità del ricorso, sia in quanto l'ordinanza, avente natura sostanziale di sentenza, era appellabile, sia in quanto il provvedimento impugnato aveva deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Suprema Corte e l'esame dei motivi non offriva elementi per mutare l'orientamento della stessa.

1.1. - Le eccezioni non possono essere accolte, giacché le sezioni unite di questa Corte hanno affermato che "La controversia di cui alla L. n. 794 del 1942, art. 28, tanto se introdotta con ricorso ai sensi dell'art. 702-bis c.p.c., quanto se introdotta con ricorso per decreto ingiuntivo, ha ad oggetto la domanda di condanna del cliente al pagamento delle spettanze giudiziali dell'avvocato tanto se prima della lite vi sia una contestazione sull'an debeatur quanto se non vi sia e, una volta introdotta, resta soggetta (nel secondo caso a seguito dell'opposizione) al rito indicato dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 14, anche quando il cliente dell'avvocato non si limiti a sollevare contestazioni sulla quantificazione del credito alla stregua della tariffa, ma sollevi contestazioni in ordine all'esistenza del rapporto, alle prestazioni eseguite ed in genere riguardo all'an. Soltanto qualora il convenuto svolga una difesa che si articoli con la proposizione di una domanda (riconvenzionale, di compensazione, di accertamento con efficacia di giudicato di un rapporto pregiudicante), l'introduzione di una domanda ulteriore rispetto a quella originaria e la sua esorbitanza dal rito di cui all'art. 14, comporta - sempre che non si ponga anche un problema di spostamento della competenza per ragioni di connessione (da risolversi ai sensi delle disposizioni degli artt. 34,35 e 36 c.p.c.) e, se è stata adita la corte di appello, il problema della soggezione della domanda del cliente alla competenza di un giudice di primo grado, che ne impone la rimessione ad esso - che, ai sensi dell'art. 702-ter c.p.c., comma 4, si debba dar corso alla trattazione di detta domanda con il rito sommario" (Cass., sez. un., n. 4485 del 2018).

2. - Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la "Violazione e falsa applicazione della L. n. 247 del 2012, art. 13, comma 8, art. 24 Cost., D.L. n. 1 del 2012, art. 9, comma 2, conv. in L. n. 27 del 2012, in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5", osservando che, sia la legittimazione passiva della T., sia l'applicabilità della L. n. 247 del 2012, art. 13, comma 8, renderebbero palese che: a) la controversia tra il B. e la T. si era conclusa con un atto transattivo con il quale le parti avevano inteso porre fine alla lite, tra di loro pendente innanzi alla Corte d'Appello di Napoli Sezione Lavoro, di guisa cioè da integrare il presupposto di cui alla disposizione in oggetto ("quando una controversia oggetto di procedimento giudiziale o arbitrale viene definita mediante accordi presi in qualsiasi forma"); b) la solidarietà dei resistenti al pagamento dei compensi non poteva essere negata dall'emissione della sentenza del Giudice del Lavoro, soprattutto in virtù di quanto stabilito dalla Suprema Corte con sentenza (Cass. n. 9633 del 2010), secondo la quale il compenso all'avvocato è svincolato dalla pronuncia emessa dal Giudice in punto di spese processuali, ben potendo lo stesso essere maggiore rispetto a quanto statuito in sentenza in riferimento alla specialità della controversia, all'opera prestata, alla sua complessità.

1.1. - Il motivo è inammissibile.

1.2. - Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere - nel dichiarare fondato il difetto di legittimazione passiva della resistente T., richiamando la L. n. 247 del 2012, art. 13, comma 8, che prevede che "quando una controversia oggetto di procedimento giudiziale o arbitrale viene definita mediante accordi presi in qualsiasi forma, le parti sono solidalmente tenute al pagamento dei compensi e dei rimborsi delle spese a tutti gli avvocati costituiti che hanno prestato la loro attività professionale negli ultimi tra anni e che risultino ancora creditori, salvo espressa rinuncia al beneficio della solidarietà" - osservava in fatto che l'ipotesi della transazione non riguardava il caso in esame, ritenendo fondata l'eccezione di carenza di legittimazione passiva invocata dalla difesa della T.. Laddove il Giudice del Lavoro aveva condannato la medesima al pagamento delle spese di lite, direttamente nei confronti dell'attuale ricorrente, il quale s'era dichiarato procuratore anticipatario, e dovendosi quindi ritenere inammissibile una ulteriore pronuncia di condanna, per violazione del principio del ne bis in idem (ordinanza pagg. 2-3).

A prescindere, dunque, dalle considerazioni circa la estensione dell'ambito di applicabilità della L. n. 247 del 2012, citato art. 13, comma 8 (residuando non spiegata dal ricorrente l'asserita violazione dell'art. 24 Cost. e del D.L. n. 1 del 2012, art. 9, comma 2), il Tribunale ne aveva delineata portata e congruenza nel contesto della specifica domanda giudiziale, proposta riguardo al thema decidendun della fattispecie de qua.

1.3. - Costituisce principio consolidato quello secondo cui l'apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016). Ne consegue che tale accertamento è censurabile in sede di legittimità, unicamente nel caso in cui la motivazione stessa risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire l'iter logico seguito dal giudice per attribuire al rapporto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche; con la precisazione che nessuna di tali censure può risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (tra le tante, Cass. n. 26683 del 2006; Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 1754 del 2006).

2. - Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la "Violazione e falsa applicazione dell'art. 216 c.p.c., art. 24 Cost., artt. 1988 e 2697 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5", ponendo in rilievo come la Corte di merito avesse errato nell'attribuire rilevanza giuridica alla generica contestazione, da parte del B., sia del contenuto, sia della sottoscrizione del patto di quota lite. Invero, il medesimo affermava che la sottoscrizione o promessa di pagamento veniva effettuata in data 22.10.2009 dal B. solo pochi giorni prima della definizione del giudizio. Il Collegio avrebbe dovuto ritenere meramente strumentale e come non apposta la generica dichiarazione del B.. Il riconoscimento della sottoscrizione avrebbe dovuto far ritenere come provato il preciso obbligo del B. di ottemperare agli impegni assunti. Pertanto, nessun onere poteva sorgere in capo al ricorrente, né in ordine al deposito dell'originale della scrittura, né in ordine a una richiesta di verificazione, tenuto conto del riconoscimento della sottoscrizione da parte del B..

2.1. - Il motivo è inammissibile.

2.2. - Com'e' noto, il c.d. "patto di quota lite" tra l'avvocato e la parte da lui assistita ha avuto una complessa evoluzione legislativa. Vietato in modo assoluto dall'art. 2233 c.c., comma 3, nella sua originaria formulazione, tale patto è divenuto lecito in base alla modifica di cui al D.L. n. 223 del 2006, art. 2, convertito, con modifiche, nella L. n. 248 del 2006, che ha stabilito l'abrogazione delle disposizioni legislative che prevedevano, tra l'altro, "il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti". L'art. 2 cit., successivo comma 2-bis, introdotto in sede di conversione, ha poi riscritto l'ultimo comma dell'art. 2233 c.c., stabilendo l'obbligo di forma scritta, sotto pena di nullità, per i patti conclusi tra gli avvocati e i clienti contenenti la regolazione dei compensi professionali. La nuova disciplina dell'ordinamento della professione forense introdotta dalla L. 31 dicembre 2012, n. 247, pur affermando che la pattuizione dei compensi sia libera (art. 13, comma 3), ha tuttavia esplicitamente previsto il divieto dei patti "con i quali l'avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa" (art. 13, comma 4), in tal modo reintroducendo il divieto del patto di quota lite (Cass., sez. un., n. 6002 del 2021; Cass., sez. un., n. conf. n. 17726 del 2018; Cass., sez. un., n. 25012 del 2014), collocabile nel periodo intermedio tra la riforma di cui al D.L. n. 223 del 2006 e la L. n. 247 del 2012, in quanto datato 22.10.2009.

Le Sezioni Unite hanno anche stabilito che l'aleatorietà del patto in questione "non esclude la possibilità di valutarne l'equità". In altri termini, la liceità in astratto di quell'accordo non esclude che in sede di giudizio disciplinare possa essere valutata la concretezza del caso specifico allo scopo di verificare se "la stima effettuata dalle parti era, all'epoca della conclusione dell'accordo che lega compenso e risultato, ragionevole o, al contrario, sproporzionata per eccesso rispetto alla tariffa di mercato, tenuto conto di tutti i fattori rilevanti, in particolare del valore e della complessità della lite e della natura del servizio professionale, comprensivo dell'assunzione del rischio" (così Cass., sez. un., n. 25012 del 2014, cit.; Cass. n. 6519 del 2012).

2.3. - Con riferimento, poi, al profilo riguardante il disconoscimento della sottoscrizione del patto di quota lite da parte del controricorrente B., va posta in rilevo la giurisprudenza consolidata di questa Corte (Cass. n. 22064 del 2020; Cass. n. 10231 del 2013; Cass. n. 6534 del 2013), secondo cui, dedotta in giudizio dal creditore la falsità materiale di una quietanza (id est del patto quota lite), è onere del sottoscrittore proporre querela di falso per fornire la prova dell'avvenuta contraffazione del documento ed interrompere il collegamento, quanto alla provenienza, tra dichiarazione e sottoscrizione. La querela di falso postula (nell'ipotesi di sua proposizione relativa a scrittura privata) che quest'ultima sia stata riconosciuta, volontariamente dal suo autore o che debba considerarsi legalmente come tale, e che il querelante intenda eliminare la sua efficacia probatoria attribuitale dall'art. 2702 c.c., o, almeno, voglia contestare la genuinità dell'inerente documento, ragion per cui la proponibilità della suddetta querela presuppone, in ogni caso, che la scrittura alla quale si rivolge sia stata sottoscritta, costituendo, invero, la sottoscrizione un suo elemento essenziale (Cass. n. 18323 del 2007).

La scrittura privata, una volta intervenuto il riconoscimento o un equipollente legale di questo, è assistita da una presunzione di veridicità per quanto attiene alla riferibilità di essa al suo sottoscrittore, sicché la difformità tra l'imputabilità formale del documento e l'effettiva titolarità della volontà che esso esprime, quando non attenga ad un'intrinseca divergenza del contenuto, ma all'estrinseco collegamento dell'espressione apparente, non è accertabile con i normali mezzi di contestazione e prova, ma soltanto con lo speciale procedimento previsto dalla legge per infirmare il collegamento fra dichiarazione e sottoscrizione, cioè con la querela di falso (in senso conforme Cass. n. 18664 del 2012; Cass. n. 3532 del 1972; Cass. n. 1258 del 1971). Pertanto, l'istanza di verificazione non può che riguardare documenti originali, a nulla rilevando un disconoscimento effettuato nei confronti di una semplice copia fotostatica (Cass. n. 9971 del 2014), (residua anche in questo motivo la non spiegata violazione dell'art. 24 Cost. e art. 1988 c.c., rispetto al paradigma di cui all'art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).

2.4. - Quanto al resistente B., nei confronti del quale il ricorrente Avv. G. invoca il "patto quota lite" sottoscritto in data 22.10.2009, il Tribunale ha rilevato che il medesimo resistente, nell'atto introduttivo (v. comparsa di costituzione) ne aveva formalmente disconosciuto la sottoscrizione; sicché la parte che intendeva valersi della scrittura disconosciuta (nella specie il ricorrente) aveva l'onere di chiederne la verificazione ex art. 216 c.p.c., risultando tuttavia detta richiesta omessa dalla difesa del ricorrente nel corso della prima udienza utile; laddove non poteva ignorarsi che la mancata proposizione della istanza di verificazione di una scrittura privata disconosciuta equivale, per presunzione di legge, ad una dichiarazione di non volersi avvalere della scrittura stessa come mezzo di prova, con la conseguenza che il giudice non ne deve tener conto (Cass. n. 155 del 1994; conf. Cass. n. 2220 del 2012; Cass. n. 27506 del 2017).

Poiché, dunque, il disconoscimento è stato operato nei confronti della sottoscizione al patto di quota lite, posto a fondamento della pretesa creditoria azionata, a titolo di compenso professionale deve concludersi che di tale patto non risulta raggiunta alcuna prova e non può essere assunto a parametro per la liquidazione dei compensi richiesti.

3. - Con il terzo motivo, il ricorrente deduce la "Violazione e falsa applicazione del D.M. n. 55 del 2014 e D.M. n. 127 del 2004 e, comunque, delle norme a governo del diritto ai compensi/competenze professionali dell'avvocato e, comunque, dei diritti, onorari e spese", poiché il Tribunale non aveva espletato attività istruttoria, essendosi la causa celebrata e conclusa in una sola udienza. Invero, i giudizi esperiti erano stati due (il primo conclusosi all'esito della prima udienza e il secondo in cui era stato espletato interrogatorio formale e prova per testi), analiticamente descritti in ricorso e corredati dei relativi documenti. Inoltre, il Tribunale qualificava la controversia quale opposizione a decreto ingiuntivo, mentre si trattava di giudizi diretti ad accertare la sussistenza di un rapporto subordinato, l'illegittimità del licenziamento irrogato al B. e la condanna della T. al pagamento di differenze retributive. Si richiama la giurisprudenza di legittimità secondo la quale, in tema di liquidazione del compenso, è il cliente a dover fornire la prova che l'avvocato abbia svolto l'attività difensionale con imperizia o con impegno inferiore alla comune diligenza; altrimenti le singole voci ben possono essere liquidate al di sopra del minimo tariffario; solo ove l'avvocato chieda compensi al di sopra del massimo, egli deve fornire la prova degli elementi costitutivi del diritto fatto valere (Cass. n. 9237 del 2015). La prova del maggior compenso (deduce il ricorrente) era stata offerta con il deposito del patto di quota lite o promessa di pagamento, sottoscritto dal B..

3.1. - Il motivo è inammissibile.

3.2. - Va posto in rilievo che il Tribunale riteneva che, quanto alle spese di procedura, esse si liquidavano ai sensi del D.M. n. 55 del 2014, in considerazione della attività processuale svolta e del valore della controversia, nonché in considerazione dell'esito del giudizio. Giova ricordare che, a norma del D.M. 20 luglio 2012, n. 140, art. 41, che ha dato attuazione alla prescrizione contenuta nel D.L. 24 gennaio 2012, n. 1, art. 9, comma 2, convertito dalla L. 24 marzo 2012, n. 271, le disposizioni con cui detto decreto ha determinato i parametri ai quali devono esser commisurati i compensi dei professionisti, in luogo delle abrogate tariffe professionali, sono destinate a trovare applicazione quando, come nella specie, la liquidazione sia operata da un organo giurisdizionale in epoca successiva all'entrata in vigore del medesimo decreto. Reputa il collegio che, per ragioni di ordine sistematico e dovendosi dare al citato art. 41 del Decreto Ministeriale un'interpretazione il più possibile coerente con i principi generali cui è ispirato l'ordinamento, la citata disposizione debba essere letta nel senso che i nuovi parametri siano da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta in epoca precedente, quando ancora erano in vigore le tariffe professionali abrogate (Cass., sez. un., n. 17406 del 2012).

Vero è che del D.L. n. 1 del 2012, citato art. 9, comma 3, stabilisce che le abrogate tariffe continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, sino all'entrata in vigore del decreto ministeriale contemplato nel comma precedente; ma da ciò si può trarre argomento per sostenere che sono quelle tariffe (e non i parametri introdotti dal nuovo decreto) a dover trovare ancora applicazione qualora la prestazione professionale di cui si tratta si sia completamente esaurita sotto il vigore delle precedenti tariffe. Non potrebbe invece condividersi l'opinione di chi, con riferimento a prestazioni professionali (iniziatesi prima, ma) ancora in corso quando detto decreto è entrato in vigore ed il giudice deve procedere alla liquidazione del compenso, pretendesse di segmentare le medesime prestazioni nei singoli atti compiuti in causa dal difensore, oppure di distinguere tra loro le diverse fasi di tali prestazioni, per applicare in modo frazionato in parte la precedente ed in parte la nuova regolazione. Osta ad una tale impostazione il rilievo secondo cui (come anche nella relazione accompagnatoria del più volte citato decreto ministeriale non si manca di sottolineare) il compenso evoca la nozione di un corrispettivo unitario, che ha riguardo all'opera professionale complessivamente prestata; e di ciò non si è mai in passato dubitato, quando si è trattato di liquidare onorari maturati all'esito di cause durante le quali si erano succedute nel tempo tariffe professionali diverse, giacché sempre in siffatti casi si è fatto riferimento alla tariffa vigente al momento in cui la prestazione professionale si è esaurita (cfr. Cass. n. 5426 del 2005; Cass. n. 8160 del 2001).

3.3. - L'attuale unificazione di diritti ed onorari nella nuova accezione onnnicomprensiva di "compenso" non può non implicare l'adozione del medesimo principio alla liquidazione di quest'ultimo, tanto più che alcuni degli elementi dei quali l'art. 4 del Decreto Ministeriale impone di tener conto nella liquidazione (complessità delle questioni, pregio dell'opera, risultati conseguiti, ecc.) sarebbero difficilmente apprezzabili ove il compenso dovesse esser riferito a singoli atti o a singole fasi, anziché alla prestazione professionale nella sua interezza. Ne' varrebbe obiettare che detti elementi di valutazione attengono alla liquidazione del compenso dovuto al professionista dal proprio cliente, sembrando inevitabile che essi siano destinati a riflettersi anche sulla liquidazione giudiziale effettuata per determinare il quantum delle spese processuali di cui la parte vittoriosa può pretendere il rimborso nei confronti di quella soccombente.

3.4. - Peraltro, va altresì rilevato che questa Corte ha già avuto modo di chiarire (Cass. n. 19959 del 2014) che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve, appunto, necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato possa rientrare nelle categorie logiche previste dall'art. 360 c.p.c.; sicché è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con una articolazione di motivi, riferiti ad una eterogeneità di profili tra loro confusi o viceversa inestricabilmente combinati, e non chiaramente collegabili ad una delle fattispecie di vizio enucleata dal codice di rito (Cass. n. 11603 del 2018).

Anche il presente motivo di ricorso si presenta privo di una precisa identificazione, necessaria, appunto, per evidenziarne e compiutamente individuarne il preciso contenuto ed analizzarne la fondatezza o meno, sia in generale che riguardo ai singoli motivi proposti. Le censure, in tale modo articolate, risultano eterogenee e rapsodiche, contraddistinte piuttosto dall'evidente scopo di contestare globalmente le motivazioni poste a sostegno della decisione impugnata, risolvendosi, in buona sostanza, nella richiesta di una inammissibile generale (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, in senso antagonista rispetto a quella compiuta dal giudice di appello (Cass. n. 1885 del 2018); così, inammissibilmente, rimettendo nella sostanza al giudice di legittimità il compito di isolare le singole doglianze teoricamente proponibili onde ricondurle a uno dei mezzi di impugnazione enunciati dal citato art. 360 c.p.c., per poi ricercare quali disposizioni possanao essere utilizzabili allo scopo; in sostanza, attibuendo al giudice di legittimità il compito di dar forma e contenuto giuridici alle generiche censure del ricorrente, per poi decidere su di esse.

4. - Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13,comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento in favore dei due controricorrenti delle spese del presente grado di giudizio, che liquida per ciascuno in complessivi Euro 4.300,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, dal ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, della Corte Suprema di Cassazione, il 13 maggio 2021.