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Partecipazione al dibattimento a distanza è compatibile con i diritto di difesa? (Corte Cost. 324/99)

22 luglio 1999, Corte Costituzionale

La partecipazione al dibattimento dell’imputato deve rispondere, per quel che si é detto, al canone della "effettività", così da far risultare adeguatamente garantita la possibilità, per l’imputato stesso ed il suo difensore, di esercitare concretamente i relativi diritti.

La premessa secondo cui solo la presenza fisica nel luogo del processo potrebbe assicurare l’effettività del diritto di difesa, non é fondata.

Ciò che occorre, sul piano costituzionale, é che sia garantita l’effettiva partecipazione personale e consapevole dell’imputato al dibattimento, e dunque che i mezzi tecnici, nel caso della partecipazione a distanza, siano del tutto idonei a realizzare quella partecipazione.

La normativa non può limitarsi a delineare i mezzi processuali o tecnici attraverso i quali realizzare gli obiettivi perseguiti ma deve tracciare un esauriente sistema di "risultati" che si presenta in linea con il livello minimo di garanzie che devono cautelare il diritto dell’imputato di "partecipare", e quindi difendersi, per tutto l’arco del dibattimento. Fondamentale é infatti a questo proposito la previsione secondo la quale il collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza ed il luogo di custodia deve essere realizzato con modalità tali da rendere "effettiva", e dunque concreta e non soltanto "virtuale", la possibilità di percepire e comunicare, così saldando intimamente fra loro le potenzialità ed i perfezionamenti sempre offerti dalla tecnica alle esigenze di un "realismo partecipativo" che non può non ritenersi, in sè, del tutto in linea con gli strumenti che l’ordinamento deve necessariamente mettere a disposizione per consentire un adeguato esercizio del diritto di difesa nella fase del dibattimento. Esigenze, quelle appena accennate, che si completano attraverso la analoga cautela con la quale il legislatore ha inteso assicurare il contatto fra gli imputati, mentre al difensore é sempre consentito, eventualmente anche tramite un sostituto, di essere presente nel luogo dove si trova l’imputato, così come al difensore ed all’imputato sono parimenti posti a disposizione strumenti tecnici "idonei", che assicurino la reciproca possibilità di consultarsi riservatamente.

 

 

 

CORTE COSTITUZIONALE

SENTENZA N. 342

ANNO 1999

composta dai signori Giudici:

- Dott.   Renato GRANATA, Presidente

- Prof.    Giuliano VASSALLI

- Prof.    Francesco GUIZZI               

- Prof.    Cesare MIRABELLI            

- Prof.    Fernando SANTOSUOSSO            

- Avv.    Massimo VARI                     

- Dott.   Cesare RUPERTO                

- Dott.   Riccardo CHIEPPA             

- Prof.    Gustavo ZAGREBELSKY              

- Prof.    Valerio ONIDA                    

- Prof.    Carlo MEZZANOTTE                     

- Avv.    Fernanda CONTRI               

- Prof.    Guido NEPPI MODONA                

- Prof.    Piero Alberto CAPOTOSTI             

- Prof.    Annibale MARINI               

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 7 gennaio 1998, n. 11 (Disciplina della partecipazione al procedimento penale a distanza e dell’esame in dibattimento dei collaboratori di giustizia, nonchè modifica della competenza sui reclami in tema di articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario), promossi con ordinanze emesse il 14 aprile 1998 dalla Corte di assise di Catania, il 2 giugno 1998 dalla Corte di assise di Napoli e il 13 novembre 1998 dalla Corte di appello di Napoli, rispettivamente iscritte ai nn. 484 e 671 del registro ordinanze 1998 ed al n. 96 del registro ordinanze 1999 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, nn. 27 e 39, prima serie speciale, dell’anno 1998 e n. 9, prima serie speciale, dell’anno 1999.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 14 aprile 1999 il Giudice relatore Giuliano Vassalli.

Ritenuto in fatto

1. – La Corte di assise di Catania ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 7 gennaio 1998, n. 11 (Disciplina della partecipazione al procedimento penale a distanza e dell’esame in dibattimento dei collaboratori di giustizia, nonchè modifica della competenza sui reclami in tema di articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario) per contrasto con gli artt. 10, 13 (verosimilmente: 3), 24 e 27 della Costituzione. A parere della Corte rimettente, le norme impugnate, nel prevedere la partecipazione a distanza degli imputati sottoposti al regime di cui all’art. 41-bisdell’ordinamento penitenziario, contrasterebbero anzitutto con l’art. 24 Cost., in quanto il diritto di difesa non può ritenersi garantito in tutti i casi in cui – come nella specie – il relativo esercizio é reso "anche semplicemente più difficoltoso".

Violato sarebbe anche l’art. 10 Cost., giacchè l’art. 6, lettere c) e d), della Convenzione europea dei diritti dell’uomo assicurano all’accusato il diritto di interrogare i testimoni nelle stesse condizioni in cui vi procede il pubblico ministero, con la possibilità, quindi, di intervenire tempestivamente tramite il difensore. La stessa Convenzione, poi, prevede il diritto dell’imputato ad un processo pubblico che presuppone – ad avviso della Corte rimettente – la presenza reale "(e non ‘virtuale’, come si usa ormai dire)" dell’imputato in aula. Violato sarebbe, inoltre, l’art. 13 (recte: 3) Cost., in quanto la normativa censurata introdurrebbe una disparità di trattamento tra imputati a seconda della contestazione elevata, compromettendo al tempo stesso la presunzione di non colpevolezza sancita dall’art. 27 Cost. In sostanza – rileva la Corte – sarebbe "la stessa accusa a determinare le diverse modalità di svolgimento del dibattimento nei confronti di alcuni imputati attraverso il mezzo della contestazione".

2. – Nel giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. A parere della Avvocatura non sussisterebbe, infatti, violazione dell’art. 27 Cost. in quanto la sottoposizione al regime di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario non comporta per i soggetti che vi sono sottoposti che gli stessi siano considerati "colpevoli" per altri fatti in relazione ai quali vengano successivamente processati. Neppure vulnerato sarebbe l’art. 13 Cost.: non risulterebbe infatti appropriato, ad avviso della difesa erariale, "il richiamo alla disparità di trattamento di soggetti "imputati"; sussiste infatti – si afferma nell’atto di intervento – precisa fonte normativa in relazione alla quale un soggetto si trova ristretto in regime di 41-bis e comunque lo stesso si trova "limitato" nella propria libertà personale in forza di una sentenza dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge". Quanto, poi, alla prospettata violazione dell’art. 10 Cost., per contrasto con i principî sanciti dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’Avvocatura ritiene che il meccanismo delineato dalla normativa impugnata per la celebrazione del processo penale a distanza, consenta non solo la difesa dell’imputato, ma anche il diritto di interrogare i testimoni, il che realizzerebbe il diritto di difesa tecnica nella udienza dibattimentale.

3. – Anche la Corte di assise di Napoli ha impugnato gli "artt. 1 e segg." della legge 7 gennaio 1998, n. 11, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. in quanto solo la presenza in aula dell’imputato può consentirgli di avere una piena ed ampia conoscenza degli accadimenti che si verificano e di reagire ad essi con quella tempestività e prontezza che la sua condizione richiede. Si sottolinea, d’altra parte, che la normativa impugnata consegue obbligatoriamente alla emanazione di un provvedimento amministrativo costitutivo di un particolare status (quello di sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario), che penalizza la piena esplicazione del diritto di difesa, soprattutto in mancanza di qualsiasi controllo giurisdizionale sull’esistenza di ragioni superiori che giustifichino la compressione di un tale diritto.

Violato sarebbe anche l’art. 3 Cost., in quanto la normativa impugnata imporrebbe soltanto ad alcuni soggetti di difendersi in modo anomalo a parità di imputazioni e presunzione di innocenza, mentre contraddittoriamente vieta, solo con riferimento a specifiche imputazioni, la presenza in aula del medesimo detenuto sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis, dell’ordinamento penitenziario, il quale viene diversamente trattato in presenza di un’identica presunzione di pericolosità.

4. – Pure la Corte di appello di Napoli solleva, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. "1 e segg." della legge 7 gennaio 1998, n. 11, "riguardante la partecipazione al dibattimento in collegamento tele-video di imputati sottoposti al regime detentivo di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario". Ritiene la Corte rimettente che il collegamento in videoconferenza comprometta il diritto di difesa in quanto, non essendo consentita la presenza fisica dell’imputato nell’aula del dibattimento, viene precluso il rapporto immediato tra difensore ed assistito, che é indispensabile per un pieno ed efficace esercizio del diritto di difesa. Compromissione, quella di cui si é detto, non sanata da accorgimenti tecnici, giacchè il colloquio riservato tra difensore ed assistito postula l’impossibilità per il primo di continuare a seguire il dibattimento. Violato sarebbe anche il principio sancito dall’art. 3 Cost. attesa la disparità di trattamento ravvisabile nel fatto che relativamente allo stesso imputato, sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, il collegamento in videoconferenza é previsto solo per alcune specifiche imputazioni, mentre é consentita la traduzione in aula per altri reati di cui sia imputato.

5. – Anche in quest’ultimo giudizio é intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata "inammissibile od infondata". A parere della difesa dello Stato la normativa oggetto di impugnativa e gli accorgimenti che essa consente di adottare permettono di ritenere che le modalità secondo le quali si svolge il collegamento audiovisivo siano tali da consentire una effettiva "partecipazione" al dibattimento cautelando al tempo stesso i contatti riservati tra difensore e assistito. Neppure viene ravvisata, secondo la difesa erariale, la denunciata violazione dell’art. 3 Cost. "in quanto appare assolutamente legittimo che il legislatore, sulla base della propria discrezionalità, abbia ritenuto necessaria l’adozione delle cautele del sistema della videoconferenza solo in taluni casi, ossia in riferimento alle imputazioni per gravi reati".

Considerato in diritto

1. – Le ordinanze di rimessione, con varietà di accenti e con differenziati livelli di puntualizzazione, sollevano questioni tutte riconducibili alla medesima disciplina normativa, prospettando censure fra loro in larga misura sovrapponibili: l’evidente analogia dei temi coinvolti impone pertanto la riunione dei relativi giudizi, onde consentirne la definizione con un’unica sentenza.

2. – Sono note le ragioni che indussero il legislatore ad introdurre, con efficacia temporanea, attraverso l’approvazione della legge 7 gennaio 1998, n. 11, una particolare e innovativa disciplina che consentiva, in determinate ipotesi, la partecipazione al dibattimento a distanza, mediante un apposito sistema di collegamento audiovisivo, nei confronti di imputati di taluni gravi reati che si trovassero in stato di detenzione carceraria. Come infatti emerge dalla relazione al disegno di legge presentato dal Ministro di grazia e giustizia l’11 luglio 1996 alla Camera dei deputati (atto n. 1845), si era ormai venuta a manifestare in forme preoccupanti la tendenza alla dilatazione dei tempi di definizione della fase dibattimentale, specie per i processi relativi a delitti di criminalità organizzata. Ciò non soltanto in dipendenza dei fenomeni di gigantismo processuale che spesso accompagnano la celebrazione di quei dibattimenti, non di rado coinvolgenti associazioni criminali di vaste dimensioni e tali da comportare l’audizione di numerosissimi testimoni, ma anche perchè gli imputati in stato di detenzione si trovavano spesso a dover contemporaneamente partecipare a più giudizi, pendenti in sedi diverse, con correlativa perdita di continuità nella trattazione del singolo processo, posto che la maggior parte degli imputati non rinunciava al diritto di presenziare alle udienze, di regola numerose, rendendo così necessarie continue traduzioni da una sede all’altra. In tale contesto si prospettava, quindi, il concreto pericolo che la durata dei molti e complessi dibattimenti in corso per gravi delitti di criminalità organizzata potesse protrarsi oltre la scadenza dei termini massimi di durata della custodia cautelare. Accanto a ciò, le frequenti traduzioni di imputati di gravi delitti di stampo mafioso, rese necessarie al fine di consentire a costoro di essere fisicamente presenti non soltanto nelle udienze dibattimentali, ma anche nelle numerose occasioni processuali in cui é prevista la celebrazione della udienza in camera di consiglio, comportavano, accanto al gravoso impegno delle forze dell’ordine per garantire adeguatamente la sicurezza e l’ordine pubblico, anche il rischio che – proprio in dipendenza dei continui trasferimenti – risultasse in concreto vanificata l’efficacia dei provvedimenti di sospensione delle ordinarie regole di trattamento penitenziario adottati nei confronti dei detenuti più pericolosi ai sensi dell’art. 41-bis, secondo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354. Provvedimenti, questi, che, viceversa, apparivano essere "uno strumento essenziale per garantire l’interruzione dei rapporti fra gli associati mafiosi in vinculis ed il resto dell’associazione".

Al fine di fronteggiare tali esigenze, la legge n. 11 del 1998 ha inserito nelle norme di attuazione del codice di procedura penale l’art. 146-bis, di cui é stabilito il termine di efficacia alla data del 31 dicembre 2000, ove é appunto disciplinata la partecipazione al dibattimento a distanza quando si procede per taluni reati espressione delle più gravi manifestazioni della criminalità organizzata di stampo mafioso (quelli indicati nell’art. 51, comma 3-bis, cod. proc. pen. e, cioé, delitti, consumati o tentati, di cui agli artt. 416-bis e 630 cod. pen., delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416-bis, ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonchè i delitti previsti dall’art. 74 del testo unico approvato con d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309) nei confronti di persona che si trova, a qualsiasi titolo, in stato di detenzione in carcere. In presenza di questi presupposti, la partecipazione al dibattimento avviene a distanza qualora sussistano gravi ragioni di sicurezza o di ordine pubblico, qualora il dibattimento sia di particolare complessità e la partecipazione a distanza risulti necessaria ad evitare ritardi nel suo svolgimento, ovvero qualora – ed é appunto questa l’ipotesi sottoposta al giudizio di costituzionalità – si tratti di detenuto nei cui confronti sia stata disposta, per gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, la sospensione dell’applicazione delle regole di trattamento a norma dell’art. 41-bis, comma 2, dell’ordinamento penitenziario.

L’art. 146-bis delle norme di attuazione del codice di procedura penale descrive poi, nel terzo comma, le misure tecniche attraverso cui si attua la partecipazione a distanza: viene attivato un collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza e il luogo della custodia, "con modalità tali da assicurare la contestuale, effettiva e reciproca visibilità delle persone presenti in entrambi i luoghi e la possibilità di udire quanto vi viene detto". Nel quarto comma, infine, vengono assicurate la facoltà del difensore o di un suo sostituto di essere presente nel luogo ove si trova l’imputato e la possibilità che il difensore o il suo sostituto presente nell’aula di udienza e l’imputato si consultino riservatamente, per mezzo di idonei strumenti tecnici.

Il controllo sull’effettivo funzionamento delle modalità tecniche attraverso cui si attua la partecipazione a distanza é assicurato dalla presenza nel luogo in cui si trova l’imputato di un ausiliario del giudice, chiamato a verificare che non siano posti impedimenti o limitazioni all’esercizio dei diritti e delle facoltà spettanti all’imputato, nonchè a dare atto dell’osservanza delle disposizioni di cui ai precedenti terzo e quarto commi (comma 6).

Infine, il settimo comma prevede che, quando nel dibattimento occorre procedere a confronto o ricognizione dell’imputato o ad altro atto che implica l’osservazione della sua persona, il giudice, ove lo ritenga indispensabile, disponga la presenza dell’imputato nell’aula di udienza.

3. – Come già emerso nel corso dei lavori parlamentari che hanno accompagnato l’iter della legge n. 11 del 1998 e del vasto dibattito che nell’ambito della dottrina é scaturito dalla sua approvazione, era evidente che il problema centrale posto dall’istituto della partecipazione al dibattimento a distanza fosse quello della compatibilità con il diritto di difesa, garantito dall’art. 24, secondo comma, della Costituzione. Sicchè, pur nella generale condivisione degli obiettivi perseguiti dalla novella, le perplessità affacciatesi nelle diverse sedi avevano finito per ruotare tutte essenzialmente attorno alla reale adeguatezza dell’istituto, certo fortemente innovativo, a soddisfare le esigenze partecipative che la fase del dibattimento ontologicamente postula. Nel nucleo delle censure prospettate dai giudici rimettenti é agevolmente rinvenibile l’assunto secondo il quale la mancata presenza fisica dell’imputato nell’aula in cui si celebra il dibattimento integrerebbe un fattore in sè idoneo a compromettere – sempre e comunque – il diritto di difesa, vuoi sotto il profilo della maggiore difficoltà di percepire con esattezza gli accadimenti e ad essi reagire con tempestività, vuoi per la mancanza di un rapporto immediato tra difensore ed assistito. In sostanza, difesa e presenza fisica rappresenterebbero secondo i giudici a quibus i termini di un inscindibile binomio che, solo, varrebbe ad assegnare concretezza all’elemento partecipativo ed effettività al diritto di difesa concordemente evocato, in una prospettiva, per di più, non disgiunta dai consimili valori fondati sulle inequivoche affermazioni enunciate dall’art. 14, paragrafo 3, lettera d), del Patto internazionale sui diritti civili e politici, reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, e dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.

La premessa secondo cui solo la presenza fisica nel luogo del processo potrebbe assicurare l’effettività del diritto di difesa, non é però fondata. Ciò che occorre, sul piano costituzionale, é che sia garantita l’effettiva partecipazione personale e consapevole dell’imputato al dibattimento, e dunque che i mezzi tecnici, nel caso della partecipazione a distanza, siano del tutto idonei a realizzare quella partecipazione.

Da questo punto di vista, le censure del remittente confondono, in sostanza, la struttura della norma e la configurazione del diritto con le modalità pratiche attraverso le quali la norma può in concreto svolgersi e il diritto essere esercitato, cosicchè, in tanto quel diritto potrebbe dirsi compresso, in quanto la norma cui esso si raccorda determinasse - per la sua stessa configurazione e non per vicende ad essa estranee - gli effetti distorsivi che vengono ora denunciati. Ma che nessun effetto distorsivo possa nella specie ritenersi direttamente riconducibile alle disposizioni oggetto di impugnativa si desume con chiarezza dalla circostanza che la normativa in esame, lungi dal limitarsi a delineare i mezzi processuali o tecnici attraverso i quali realizzare gli obiettivi perseguiti, ha tracciato un esauriente sistema di "risultati" che si presenta in linea con il livello minimo di garanzie che devono cautelare il diritto dell’imputato di "partecipare", e quindi difendersi, per tutto l’arco del dibattimento. Fondamentale é infatti a questo proposito la previsione secondo la quale il collegamento audiovisivo tra l’aula di udienza ed il luogo di custodia deve essere realizzato con modalità tali da rendere "effettiva", e dunque concreta e non soltanto "virtuale", la possibilità di percepire e comunicare, così saldando intimamente fra loro le potenzialità ed i perfezionamenti sempre offerti dalla tecnica alle esigenze di un "realismo partecipativo" che non può non ritenersi, in sè, del tutto in linea con gli strumenti che l’ordinamento deve necessariamente mettere a disposizione per consentire un adeguato esercizio del diritto di difesa nella fase del dibattimento. Esigenze, quelle appena accennate, che si completano attraverso la analoga cautela con la quale il legislatore ha inteso assicurare il contatto fra gli imputati, mentre al difensore é sempre consentito, eventualmente anche tramite un sostituto, di essere presente nel luogo dove si trova l’imputato, così come al difensore ed all’imputato sono parimenti posti a disposizione strumenti tecnici "idonei", che assicurino la reciproca possibilità di consultarsi riservatamente. Il tutto ovviamente preservato dal potere-dovere del giudice del dibattimento di effettuare il necessario controllo circa l’impiego di strumenti e modalità tecniche attraverso i quali raggiungere quel livello di effettività partecipativa che il legislatore ha inteso doverosamente garantire, e di assicurare comunque la piena esplicazione della difesa anche con la presenza dell’imputato nell’aula, quando in concreto quella finalità non sia altrimenti raggiungibile per inadeguatezza del mezzo tecnico.

Un quadro di presidî, dunque, di incisività e completezza tali da rendere la normativa in questione aderente al principio sancito dall’art. 24, secondo comma, della Carta fondamentale, non potendosi certo in tale prospettiva evocare il superamento della tradizione - per di più nella specie dovuto alle innovazioni introdotte dalla evoluzione tecnologica - quale elemento in sè idoneo a perturbare equilibri e dinamiche processuali che, al contrario, rimangono nella sostanza inalterati.

Alla stregua di tali rilievi, improprio si rivela anche il richiamo ai principî affermati nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, posto che, sia pure con modalità particolari, la partecipazione al dibattimento dell’imputato deve rispondere, per quel che si é detto, al canone della "effettività", così da far risultare adeguatamente garantita la possibilità, per l’imputato stesso ed il suo difensore, di esercitare concretamente i relativi diritti. D’altra parte, poichè, come si é già rilevato, fra le dichiarate esigenze che la normativa in esame ha inteso soddisfare, un rilievo essenziale ha assunto quella di consentire la rapida celebrazione dei dibattimenti per gravi reati nei confronti di imputati detenuti, non può non derivare da ciò una significativa assonanza proprio con l’indicato strumento dell’ordinamento internazionale, particolarmente attento nel rimarcare la necessità che i processi, specie se a carico di imputati in stato di detenzione, si svolgano in tempi ragionevolmente brevi.

Priva di fondamento appare essere, infine, anche la prospettata violazione del principio di eguaglianza e di quello sancito dall’art. 27, secondo comma, della Costituzione, in quanto le peculiarità che caratterizzano la sottoposizione all’eccezionale regime di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, secondo la configurazione ed i limiti ad esso impressi dalla giurisprudenza di questa Corte, e le altrettanto specifiche connotazioni che qualificano i procedimenti per i quali la normativa impugnata trova applicazione, da un lato adeguatamente giustificano la particolarità della disciplina e, dall’altro, impediscono di ritenere vulnerata la presunzione di non colpevolezza.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e seguenti della legge 7 gennaio 1998, n. 11 (Disciplina della partecipazione al procedimento penale a distanza e dell’esame in dibattimento dei collaboratori di giustizia, nonchè modifica della competenza sui reclami in tema di articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, 13 , 24 e 27 della Costituzione, dalla Corte di assise di Catania, e, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dalla Corte di assise di Napoli e dalla Corte di appello di Napoli con le ordinanze in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 luglio 1999.

Renato GRANATA, Presidente

Fernanda CONTRI, Redattore

Depositata in cancelleria il 22 luglio 1999.