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Palpeggia una puerpera fingendosi infermiere: è reato (Cass. 52399/18)

21 novembre 2018, Cassazione penale

Ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, è sufficiente che l’agente abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte del soggetto passivo al compimento degli atti sessuali a suo carico; ne consegue che è irrilevante l’eventuale errore sull’espressione del dissenso, anche ove questo non sia stato esplicitato, in considerazione dell’errore della vittima sulla posizione personale dell’imputato.

L’approfittare dell’errore altrui, mentre non rileva nell’ipotesi del delitto di sostituzione di persona, assume giuridica rilevanza nel delitto di violenza sessuale sia per la diversa letterale previsione normativa, e sia per la particolare delicatezza del bene giuridico tutelato nei delitti contro la libertà personale (sessuale). Infatti l’errore sul consenso della persona offesa non scrimina nei delitti di violenza sessuale, a meno che non sia relativo ad un contenuto espressivo, della vittima, equivoco.

Per la configurabilità dell’ipotesi di cui all’art. 609 bis, comma 2, n. 2, cod. pen. non è inoltre necessaria una condotta attiva, che concorra ad originare l’errore altrui, ma è sufficiente profittare dell’errore altrui (anche se non direttamente cagionato) in quanto il soggetto è conscio dell’assenza del consenso della vittima, o del consenso viziato, dalla falsa rappresentazione della persona offesa sulle qualità professionali dell’agente

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 19 giugno – 21 novembre 2018, n. 52399
Presidente Cavallo – Relatore Socci

Ritenuto in fatto

1. La Corte di appello di Bologna, con sentenza del 29 settembre 2C)17, ha confermato la decisione del Tribunale di Bologna del 7 giugno 2C)11, che aveva condannato F.P. alla pena di anni 1 e mesi 2 di reclusione relativamente al reato di cui all’art. 609 bis, commi 2 e 3, cod. pen., poiché, nella qualità e mansione di dipendente dell’Ospedale (omissis) , con qualifica di operatore socio sanitario (OSS), violando i doveri di incaricato di pubblico servizio di livello esecutivo, abusando della apparenza determinata dall’abbigliamento di addetto al servizio notturno, come inserviente di reparto, presso la Divisione di Ostetricia, e della sua presenza nei locali dove vengono conservati i biberon con il latte delle puerpere, essendosi presentata la signora B.G. , che aveva dato alla luce una bimba in data (omissis) e che chiedeva informazioni sulla quantità di latte da estrarre e conservare per la successiva somministrazione alla neonata e sull’eventuale ritardo della montata lattea, sostituendosi con l’inganno al personale abilitato ed usurpando la relativa funzione e profittando delle condizioni psichiche della puerpera (art. 61, n. 5, cod. pen.) compiva un atto tipico della professione propria dei medici, delle ostetriche e delle infermiere professionali (art. 348, cod. pen.), costringeva la parte offesa a subire atti sessuali, inducendo la puerpera ad aprire la propria tuta, a mostrargli il seno, sul quale effettuava manovre di palpazione e compressione delle mammelle e toccamento dei capezzoli. Reato commesso l’(omissis) .
2. L’imputato ha proposto ricorso per cassazione, tramite difensore, per i motivi di seguito enunciati, nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen..
2. 1. Violazione di legge, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. La sentenza impugnata rileva una confessione dell’imputato, ma nelle dichiarazioni del ricorrente non è possibile rintracciare nessuna dichiarazione di contenuto confessorio; al contrario il ricorrente ha sempre affermato di aver effettuato una palpazione del seno quale atto di routine del reparto e al solo scopo di tranquillizzare la donna sull’arrivo della montata lattea.
2. 2. Violazione di legge, art. 609 bis, comma 2, n. 2, cod. pen..
La parte offesa ha escluso, in radice, di aver subito un atto repentino o un volgare palpeggiamento da parte dell’imputato. La parte offesa, infatti, ha riferito di aver subito un palpeggiamento identico a quello ricevuto da personale medico, in altre occasioni; solo che "la cosa venne fatta tutta in silenzio".
La palpazione del seno, durante i giorni immediatamente successivi al parto, è un gesto attinente ad una banale pratica medicea/infermieristica che non presuppone particolari condizioni oggettive o soggettive per essere eseguita, vista la modestissima invasività della manovra, tenuto conto del contesto ospedaliero.
Il ricorrente ha chiarito che aveva solo dato un consiglio per calmare la donna, in piena notte sull’arrivo della montata lattea; voleva solo tranquillizzarla. La condotta tenuta dal ricorrente è relativa ad un gesto pratico dettato dagli anni di esperienza nel settore, e qualificarlo come un atto abusivo medico, come fanno le sentenze di merito, appare una vera forzatura.
Il silenzio, serbato dal ricorrente all’atto della palpazione, e prima della stessa, è stato valutato quale comportamento idoneo per configurare la sostituzione di persona. Invece il silenzio, se non è accompagnato da condotte commissive, non può mai configurare il reato di cui all’art. 494, cod. pen..
È necessario che la persona si attribuisca un falso nome od un falso stato. Le divise degli infermieri hanno il colletto blu, mentre quelle degli OSS hanno il colletto giallo. Il ricorrente indossava la sua divisa e non ha fatto niente per farsi scambiare per un infermiere. Egli, inoltre, era convinto che con la sua divisa fosse ben identificato.
Tutti gli elementi suddetti configurano quantomeno un consenso putativo (art. 59, quarto comma, cod. pen.) della donna alla manovra effettuata, solo per la sua tranquillità. Infatti subito dopo il ricorrente ha invitato la donna a recarsi dall’infermiera poco distante.
2. 3. Violazione di legge, art. 192, cod. proc. pen. e vizio di motivazione sul punto.
La prova dichiarativa della persona offesa è l’unica prova a carico del ricorrente, e la Corte di appello non ha valutato questa testimonianza con il massimo rigore. La donna secondo la sentenza impugnata non avrebbe chiesto nessun controllo dell’arrivo della montata lattea, in quanto era a conoscenza che per il parto cesareo la montata lattea avrebbe ritardato.
Le dichiarazioni della donna però sono in contrasto con quelle della teste C. , infermiera di turno nella notte dei fatti, che ha dichiarato che la parte offesa aveva manifestato dolore al seno e nei casi del genere (manifestazione di dolore) si effettua una palpazione.
Conseguentemente, dalle dichiarazioni dell’infermiera C. , emerge che la donna si era lamentata dei dolori al seno, e il ricorrente non ha fatto altro che tranquillizzarla.
Ha chiesto pertanto l’annullamento della sentenza impugnata.

Considerato in diritto

3. Il ricorso è inammissibile perché i motivi di ricorso sono manifestamente infondati e ripetitivi dei motivi di appello, senza critiche specifiche alle motivazioni della sentenza impugnata. Inoltre il ricorso, articolato in fatto, valutato nel suo complesso richiede alla Corte di Cassazione una rivalutazione del fatto, non consentita in sede di legittimità.
La decisione della Corte di appello (unitamente alla sentenza di primo grado) contiene adeguata motivazione, senza contraddizioni e senza manifeste illogicità, sulla responsabilità del ricorrente, e sulla piena attendibilità della parte offesa.
In tema di giudizio di Cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito. (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015 - dep. 27/11/2015, Musso, Rv. 265482).
In tema di motivi di ricorso per Cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento. (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015 - dep. 31/03/2015, O., Rv. 262965). In tema di impugnazioni, il vizio di motivazione non può essere utilmente dedotto in Cassazione solo perché il giudice abbia trascurato o disatteso degli elementi di valutazione che, ad avviso della parte, avrebbero dovuto o potuto dar luogo ad una diversa decisione, poiché ciò si tradurrebbe in una rivalutazione del fatto preclusa in sede di legittimità. (Sez. 1, n. 3385 del 09/03/1995 - dep. 28/03/1995, Pischedda ed altri, Rv. 200705).
4. La Corte di appello (e il Giudice di primo grado), come visto, ha con esauriente motivazione, immune da vizi di manifesta illogicità o contraddizioni, dato conto del suo ragionamento che ha portato alla valutazione di piena attendibilità di B.G. .
Infatti, in tema di reati sessuali, poiché la testimonianza della persona offesa è spesso unica fonte del convincimento del giudice, è essenziale la valutazione circa l’attendibilità del teste; tale giudizio, essendo di tipo fattuale, ossia di merito, in quanto attiene il modo di essere della persona escussa, può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale, mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria. (Sez. 3, n. 41282 del 05/10/2006 - dep. 18/12/2006, Agnelli e altro, Rv. 235578).
Le dichiarazioni della persona offesa possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. A tal fine è necessario che il giudice indichi le emergenze processuali determinanti per la formazione del suo convincimento, consentendo così l’individuazione dell’iter logico -giuridico che ha condotto alla soluzione adottata; mentre non ha rilievo, al riguardo, il silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame qualora si tratti di deduzione disattesa dalla motivazione complessivamente considerata, non essendo necessaria l’esplicita confutazione delle specifiche tesi difensive disattese ed essendo, invece, sufficiente una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione implicita di tale deduzione senza lasciare spazio ad una valida alternativa. (Sez. 5, n. 1666 del 08/07/2014 - dep. 14/01/2015, Pirajno e altro, Rv. 261730); le regole dettate dall’art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigoroso rispetto a quello cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012 - dep. 24/10/2012, Bell’Arte ed altri, Rv. 253214).
4.1. Nel nostro caso le analisi delle due decisioni sono precise, puntuali e rigorose nell’affrontare al tema relativo l’attendibilità della donna, rilevando come l’iniziativa del palpeggiamento è stata presa autonomamente dal ricorrente senza nessuna richiesta della puerpera; la donna infatti ha chiaramente riferito di non essere assolutamente preoccupata per l’arrivo della montata lattea, essendo a conoscenza che nelle ipotesi di parto cesareo (come da lei praticato) la montata lattea arriva in ritardo. Inoltre la sentenza rileva anche la durata eccessiva del palpeggiamento in relazione al tempo necessario (a volte essendo sufficiente solo l’osservazione visiva) e all’effettuazione della manovra in silenzio mentre il personale competente parla con la paziente onde contenerne il disagio.
La Corte di appello analizza con motivazione adeguata tutti i motivi dell’appello, che vengono qui riproposti senza reali critiche di legittimità alla decisione.
4.2. Per il silenzio tenuto dal ricorrente al fine di ingannare la donna sulle sue reali qualità soggettive (OSS e non infermiere) la sentenza impugnata adeguatamente motiva come "l’inganno può derivare anche dal mero silenzio, ossia dal tacere una circostanza essenziale nell’ambito de rapporto instaurato con la controparte - nel caso concreto, l’aver taciuto la sua qualifica professionale - essendo evidente che, qualora l’imputato avesse palesato di non essere l’infermiere di turno, la P.O. si sarebbe ben guardata dallo scoprirsi il seno qualora le fosse stato richiesto; peraltro nel caso in esame il silenzio assume una rilevanza assolutamente determinante, viepiù maliziosa in relazione al contesto costituito da un ambiente - la nursey - ove effettivamente è garantita, anche di notte, la presenza quantomeno di un infermiere, e ad elementi ragionevolmente idonei a generare errori di valutazione (vedasi la divisa sostanzialmente identica a quella del personale infermieristico, salvo per il modesto e confondibile particolare del colore del bordino del colletto della casacca)".
Si tratta di evidenti accertamenti di fatto, insindacabili in sede di legittimità.
Tuttavia deve rilevarsi che per il delitto di cui all’art. 479, cod. pen. la norma richiede espressamente l’induzione in errore della parte offesa; quindi è necessario un comportamento commissivo ("induce taluno in errore"), e non rileva un atteggiamento solo passivo, il silenzio, o l’aver profittato dell’errore altrui, come ritenuto da questa Corte di Cassazione: "Non commette il delitto previsto dall’art. 494 cod. pen. colui che, non avendo concorso ad originare l’errore altrui, sorto spontaneamente oppure per il fatto di un terzo, profitta dell’errore, sia pure per un proprio interesse. Il delitto in questione e costituito dal fatto di indurre taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona, o attribuendo a se o ad altri un falso nome, o un falso stato, ovvero una qualità cui la legge attribuisce effetti giuridici. Esso richiede dunque che l’agente debba avere indotto in errore un altro soggetto, onde soltanto un comportamento positivo dell’agente stesso, suscettivo di trarre altrui in inganno, può dare luogo all’imputabilità per il titolo di sostituzione di persona" (Sez. 5, n. 1111 del 07/07/1967 - dep. 28/09/1967, CATENACCI, Rv. 10554901).
Viceversa per la fattispecie dell’art. 609 bis, comma 2, n. 2, cod. pen. la norma prevede solo che l’agente abbia tratto in inganno la persona offesa per essersi sostituito ad altra persona. L’approfittare dell’errore altrui mentre non rileva nell’ipotesi del delitto di cui all’art. 494, cod. pen. assume giuridica rilevanza nel delitto dell’art. 609 bis, cod. pen., sia per la diversa letterale previsione normativa, e sia per la particolare delicatezza del bene giuridico tutelato nei delitti contro la libertà personale (sessuale). Infatti l’errore sul consenso della persona offesa non scrimina nei delitti di violenza sessuale, a meno che non sia relativo ad un contenuto espressivo, della vittima, equivoco: "Ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, è sufficiente che l’agente abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte del soggetto passivo al compimento degli atti sessuali a suo carico; ne consegue che è irrilevante l’eventuale errore sull’espressione del dissenso anche ove questo non sia stato esplicitato, potendo semmai fondarsi il dubbio sulla ricorrenza di un valido elemento soggettivo solamente nel caso in cui l’errore si fondi sul contenuto espressivo, in ipotesi equivoco, di precise e positive manifestazioni di volontà promananti dalla parte offesa" (Sez. 3, n. 49597 del 09/03/2016 - dep. 22/11/2016, S, Rv. 26818601).
Né può ritenersi valido un consenso putativo, come pure richiede il ricorrente nel ricorso per cassazione (art. 59, comma 4 cod. pen.): "L’esimente putativa del consenso dell’avente diritto non è configurabile nel delitto di violenza sessuale, in quanto la mancanza del consenso costituisce requisito esplicito della fattispecie e l’errore sul dissenso si sostanzia, pertanto, in un errore inescusabile sulla legge penale. (Fattispecie in cui l’imputato aveva desunto dal ritorno del coniuge nella casa familiare anche la sua volontà di riprendere le loro relazioni intime)" (Sez. 3, n. 2400 del 05/10/2017 - dep. 22/01/2018, S, Rv. 27207401; vedi anche Sez. 3, n. 37166 del 18/05/2016 - dep. 07/09/2016, B e altri, Rv. 26831101).
4.3. Può conseguentemente affermarsi il seguente principio di diritto: "Ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di violenza sessuale, è sufficiente che l’agente abbia la consapevolezza del fatto che non sia stato chiaramente manifestato il consenso da parte del soggetto passivo al compimento degli atti sessuali a suo carico; ne consegue che è irrilevante l’eventuale errore sull’espressione del dissenso, anche ove questo non sia stato esplicitato, in considerazione dell’errore della vittima sulla posizione personale dell’imputato che era stato scambiato per un infermiere mentre era un operatore socio sanitario, non autorizzato ad effettuare la pratica medica di palpeggiamento del seno della paziente. Per la configurabilità dell’ipotesi di cui all’art. 609 bis, comma 2, n. 2, cod. pen. non è inoltre necessaria una condotta attiva, che concorra ad originare l’errore altrui, ma è sufficiente profittare dell’errore altrui (anche se non direttamente cagionato) in quanto il soggetto è conscio dell’assenza del consenso della vittima, o del consenso viziato, dalla falsa rappresentazione della persona offesa sulle qualità professionali dell’agente".
Alla dichiarazione di inammissibilità consegue il pagamento in favore della cassa delle ammende della somma di Euro 2.000,00, e delle spese del procedimento, ex art. 616 cod. proc. pen..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende, nonché alla refusione delle spese sostenute dalle parti civili B.G. e USL Bologna che liquida per ognuna di esse nell’importo di Euro 3.500,00 oltre IVA e CAP.
In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati significativi, a norma dell’art. 52 del d.lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge.