Home
Lo studio
Risorse
Contatti
Lo studio

Decisioni

Oscuramento dei dati personali nelle sentenze: solo se motivi legittimi (Cass. 11959/17)

13 marzo 2017, Cassazione penale

In tema di trattamento di dati personali, la richiesta di oscuramento delle generalità e degli altri dati identificativi dell'interessato riportati sulla sentenza o altro provvedimento, di cui all'art. 52, comma primo, D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, deve essere fondata su "motivi legittimi", da intendersi quali "motivi opportuni" la cui valutazione impone un equilibrato bilanciamento tra esigenze di riservatezza del singolo e di pubblicità della sentenza.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Sez. VI, Sent., (ud. 15/02/2017) 13-03-2017, n. 11959

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IPPOLITO Francesco - Presidente -

Dott. TRONCI Andrea - rel. Consigliere -

Dott. RICCIARELLI Massimo - Consigliere -

Dott. GIORDANO Emilia Anna - Consigliere -

Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

A.R., nato il (OMISSIS) parte offesa;

nel procedimento contro:

P.P.;

avverso il decreto del 10/02/2015 del GIP TRIBUNALE di L'AQUILA;

sentita la relazione svolta dal Consigliere Dr. ANDREA TRONCI;

lette le conclusioni del PG, in persona del Sost. Dr. Lori Perla, la quale ha chiesto annullarsi l'impugnata ordinanza, con rinvio degli atti al Tribunale di L'Aquila.

Svolgimento del processo


1. All'esito dell'opposizione proposta dalle rispettive parti lese nei procedimenti riuniti a carico di A.R. - indagato per i reati di abuso e rivelazione di segreto d'ufficio, in relazione all'attività svolta di giudice delegato ai fallimenti, all'asserito fine di avvantaggiare l'avv. DDA, con conseguente pregiudizio del commercialista P.P., rimosso dagli incarichi precedentemente conferitigli in numerose procedure - ed a carico del predetto P. - nei cui confronti sono stati ipotizzati i reati di calunnia e diffamazione in danno dell' A. - il g.i.p. del Tribunale di L'Aquila, con ordinanza in data 10.02.2015, previa declaratoria d'inammissibilità dell'opposizione a firma del P. (stante la sua ritenuta veste di mero danneggiato), ha disposto l'archiviazione degli anzidetti procedimenti per infondatezza delle notizie di reato.

2. Avverso detto provvedimento il difensore di fiducia dell' A. ha interposto tempestivo ricorso per cassazione, sulla scorta di due motivi di doglianza:

- con il primo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 409 c.p.p., per avere il g.i.p. esercitato "i poteri previsti da tale norma oltre i confini... della richiesta presentata dall'organo titolare del potere di accusa", con conseguente abnormità del relativo provvedimento, del tutto avulso dal vigente sistema processuale, posto che "il p.m. presso il Tribunale di L'Aquila, con la richiesta di archiviazione presentata il 20.10.2014 si era limitato a domandare l'archiviazione del solo reato di calunnia sul presupposto di un presunto difetto dell'elemento psicologico, e non aveva minimamente richiesto l'archiviazione del reato di diffamazione, non avendo peraltro dedicato neanche un rigo della sua richiesta alla configurabilità di questo delitto, neanche per escluderlo";

- con il secondo deduce, in ogni caso, mancanza di motivazione, ovvero motivazione meramente apparente - sempre in relazione alla decisione assunta con riferimento all'ipotesi di reato ex art. 595 c.p. - posto che gli atti provenienti dal P., presenti nel fascicolo ed a tal fine trascritti nel corpo del ricorso, danno conto del dolus in re ipsa qui sussistente, tale "che non poteva sfuggire al P.P. e che non necessita di particolari indagini sulla presenza o assenza dell'elemento soggettivo".

3. Con memoria depositata il 21.11.2016, il difensore dell'imputato P. ha sollecitato la pronuncia di declaratoria d'inammissibilità, rilevando a tal fine essersi in presenza, al più, di un mero "lapsus calami", posto che "la reale volontà dell'inquirente si ricava per facta concludentia non solo dall'aver richiesto "l'archiviazione del procedimento", ma anche e soprattutto dal non avere prima, durante e dopo la sua istanza al gip, mai effettuato uno stralcio ovvero aperto un separato fascicolo per il reato di diffamazione, ovvero impugnato personalmente l'ordinanza": a significare, cioè, come l'intento perseguito con chiarezza dal magistrato titolare delle indagini "fosse quell(o) di chiudere l'intera vicenda processuale che aveva contrapposto il Dr. A. ed il Dr. P. con una reciproca archiviazione". Non senza aggiungere in conclusione - essendo anzi espressamente additato come l'argomento dirimente, in conformità all'insegnamento della giurisprudenza di legittimità - doversi ritenere che il p.m. abbia valutato la condotta di calunnia assorbente della fattispecie di diffamazione.

3.1 Anche il difensore del ricorrente ha depositato propria memoria, con cui - dato atto previamente della restituzione alla sezione di provenienza del fascicolo inizialmente trasmesso alla settima sezione con richiesta di inammissibilità - ha insistito sulla fondatezza dei già illustrati motivi a sostegno della proposta impugnazione.

4. Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta, con cui, ravvisando profili di abnormità sotto il profilo funzionale, "per avere il giudice disposto l'archiviazione anche per il reato di cui all'art. 595 c.p., in relazione al quale il pubblico ministero non ne aveva fatto formalmente richiesta", ha chiesto disporsi l'annullamento dell'impugnata ordinanza, con ogni conseguente statuizione.

Detta impostazione è stata contestata dal difensore del P. con note depositate il 9 febbraio u.s., con cui sono stati ribaditi i termini delle argomentazioni di cui alla precedente memoria e si è da ultimo formalizzata espressa richiesta di oscuramento dei dati di cui all'emananda sentenza, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Motivi della decisione

1. Il provvedimento del g.i.p. del Tribunale di L'Aquila non merita le censure avverso esso formulate.

2. In linea generale, è ius receptum che l'atto processuale si connota in senso abnorme, dal punto di vista strutturale, allorchè, per la sua singolarità, si ponga al di fuori del sistema organico della legge processuale; ovvero sotto il profilo funzionale, quando esso, pur non estraneo al sistema normativo, determini la stasi del processo e l'impossibilità di proseguirlo (cfr., da ultimo, Cass. Sez. 2, sent. n. 2484 del 21.10.2014 - dep. 20.01.2015, Rv. 262275).

Quanto, poi, alla tematica inerente all'ampiezza dei poteri di cui è titolare il giudice, in sede di delibazione della richiesta di archiviazione proveniente dal pubblico ministero, essa deve essere affrontata e risolta tenendo conto, da un lato, della spettanza al magistrato inquirente delle decisioni circa l'esercizio dell'azione penale; e, dall'altro, della necessità di assicurare effettività al principio dell'esercizio obbligatorio dell'azione penale, cui è appunto preordinato il controllo giurisdizionale, previsto dal sistema ordinamentale, sulla rinuncia a detto esercizio ad opera del suo titolare.

A tale ultimo proposito, osserva Cass. Sez. 6, sent. n. 37658 del 10.06.2014, Rv. 261645 - le cui argomentazioni questo Collegio pienamente condivide e fa proprie - che, "Ad un aspetto di tale controllo si riferisce il principio, ormai comunemente affermato, di completa devoluzione al giudice della materia processuale cui si riferisce la domanda di archiviazione", posto che la verifica anzidetta "sarebbe di fatto elusa se il pubblico ministero potesse evitarla semplicemente non iscrivendo nel registro di cui all'art. 335 c.p.p. una determinata notizia di reato. E ciò vale tanto sotto il profilo soggettivo, cioè in rapporto alla possibile responsabilità di persone diverse da quella per la quale sia richiesta l'archiviazione in ordine ad un determinato fatto, tanto sotto il profilo oggettivo, cioè relativamente a fatti ulteriori o diversi rispetto a quelli per i quali vi è stata iscrizione nei confronti della persona cui si riferisce la richiesta". Con l'avvertenza, tuttavia, che la latitudine di tale potere di controllo non può spingersi fino alla legittimazione dell'ordine di formulare l'imputazione nei confronti di soggetti estranei alle indagini fino allora espletate o per ipotesi di reato diverse da quelle per le quali si procede: "Ciò, essenzialmente, perchè spetta al pubblico ministero di condurre proprie valutazioni (anche in punto di indagini) circa il promovimento dell'azione per ogni reato, e tale condizione verrebbe a mancare se l'azione fosse imposta in assenza delle sue determinazioni (le quali mancherebbero, per definizione, quanto a reati non compresi nella richiesta di archiviazione e non iscritti). Spetta certamente al giudice, però, di sollecitare il pubblico ministero a valutare notizie di reato dallo stesso trascurate, in analogia con quanto avviene per ogni illecito del quale il pubblico ufficiale prenda cognizione nell'esercizio delle proprie funzioni".

Dato atto che siffatta impostazione si conforma appieno a quanto autorevolmente affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte - secondo cui, "In materia di procedimento di archiviazione, costituisce atto abnorme, in quanto esorbita dai poteri del giudice per le indagini preliminari, sia l'ordine d'imputazione coatta emesso nei confronti di persona non indagata, sia quello emesso nei confronti dell'indagato per reati diversi da quelli per i quali il pubblico ministero aveva richiesto l'archiviazione (La Suprema Corte ha precisato che, nelle suddette ipotesi, il giudice per le indagini preliminari deve limitarsi ad ordinare le relative iscrizioni nel registro di cui all'art. 335 c.p.p.)": così sent. n. 4319 del 28.11.2013 - dep. 2014, Rv. 257786 - si tratta ora di fare applicazione degli enunciati principi al caso in esame.

3. Nella fattispecie è indubbio che il pubblico ministero, dopo aver sollecitato la pronuncia del provvedimento di archiviazione con riferimento al procedimento penale pendente a carico del P., senza alcuna specificazione - e, dunque, apparentemente con riguardo ad entrambi gli illeciti ipotizzati nei suoi confronti in parte motiva ha poi trattato del solo addebito previsto e punito dall'art. 368 c.p.: il dato è testuale e trova conforto anche nelle argomentazioni a supporto, incentrate sulla ritenuta assenza, in capo all'indagato, della "consapevolezza della falsità dell'accusa, che è l'essenza del dolo del delitto di calunnia", ovvero - quanto meno - sull'esistenza di "forti dubbi", reputati all'evidenza insuperabili, in ordine a siffatta consapevolezza.

Tuttavia, prima di concludere nel senso che il g.i.p. abbia deliberato al di là dei limiti dell'investitura ricevuta dal pubblico ministero - ossia con riferimento ad una notitia criminis, relativamente alla quale il magistrato procedente non risulta aver assunto la propria determinazione - collocandosi quindi il suo provvedimento al di fuori dei confini del vigente sistema processuale e connotandosi effettivamente, in conformità alla denuncia dell'odierno ricorrente, per la sua (strutturale) abnormità, s'impongono più approfondite riflessioni.

4. E' indubbio che la diffamazione ben può costituire oggetto della falsa incolpazione in cui si sostanzia il delitto di calunnia, che, in tal caso, riveste portata assorbente (cfr., in parte motiva, Sez. 6, sent. n. 1255 del 28.11.2013 - dep. 14.01.2014, Rv. 258006; v. anche Sez. 1, sent. n. 22066 del 12.02.2013, Rv. 255945), in ossequio al criterio di specialità (cfr. Sez. 6, sent. n. 26994 del 06.05.2003, rv. 227714).

Naturalmente, poichè nel caso di specie ci si trova in presenza non - per così dire - dell'ipotesi positiva, ma di quella inversa, occorre verificare la valenza dell'affermazione.

A tale riguardo, è stato condivisibilmente affermato che "E' viziata da illogicità la motivazione del giudice di merito che - con riguardo ai delitti di diffamazione e di calunnia, contestati ex art. 81 c.p., comma 1, e, quindi, commessi con un'unica dichiarazione diretta a più persone, falsamente attributiva di una condotta che, se rispondente al vero, costituirebbe reato affermi la sussistenza del delitto di diffamazione senza motivare il proprio dissenso dalla pronuncia assolutoria, seppur coperta da giudicato, relativa al delitto di calunnia, fondata sul presupposto che l'agente aveva il fondato convincimento della colpevolezza della persona cui ha attribuito la condotta criminosa, atteso che trattandosi di delitti commessi con unica dichiarazione diretta a più persone, essi sono connotati dal medesimo elemento psicologico (dolo generico), di talchè l'errore sulla verità della condotta attribuita, se pur determinato da colpa, vale ad escludere la punibilità con riferimento ad entrambe le ipotesi criminose, sanzionabili esclusivamente a titolo di dolo" (così Sez. 5, sent. n. 49021 del 05.11.2004, Rv. 231283).

Ebbene, nella presente fattispecie il tenore dell'atto di opposizione, al pari di quello del ricorso portato all'attenzione di questa Corte, nella parte in cui pongono l'accento su come, "attraverso gli esposti presentati al CSM ed alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione e, da ultimo, anche attraverso la denuncia-querela sporta dinanzi la Procura della Repubblica di L'Aquila, il P. abbia esposto l'offeso A.R. al discredito della intera amministrazione giudiziaria di appartenenza, descrivendolo come un magistrato che aveva commesso plurimi reati contro la pubblica amministrazione..." (v. pag. 24 dell'atto di opposizione e pagg. 6-7 del ricorso per cassazione), non lascia adito a dubbi di sorta in ordine alla evidente identità della condotta posta a base tanto dell'addebito di calunnia, quanto di quello di diffamazione. Donde l'indubbia sovrapponibilità della vicenda in esame a quella affrontata dalla citata sentenza n. 49021/2004, atteso che, essendosi in presenza di delitti posti in essere con le medesime dichiarazioni, falsamente attributive di una condotta che, ove rispondente a verità, varrebbe senza meno ad integrare reato, gli anzidetti illeciti sono sorretti dall'identico elemento psicologico, sotto forma di dolo generico, per cui l'errore sul fatto costituente reato, ancorchè determinato da colpa, vale ad escludere la sussistenza di ambedue i reati, punibili esclusivamente a titolo doloso.

Nè, in senso contrario, potrebbe fondatamente opinarsi che il reato previsto e punito dall'art. 595 c.p. sia ravvisabile anche ove il fatto attribuito sia vero, in ragione della consapevolezza, in capo al soggetto agente, della maggior offesa derivante alla reputazione della parte lesa dalla sua divulgazione, giacchè osta a siffatta impostazione la titolarità del diritto di critica in capo a ciascun cittadino, del resto qui esercitato proprio attraverso la formalizzazione degli esposti e della denuncia di cui si è detto, sulla scorta del convincimento della verità di quanto rappresentato, riconosciuto tale dallo stesso g.i.p..

Del resto, a supporto ulteriore della correttezza di quanto testè affermato, sta la constatazione - sulla quale ha opportunamente richiamato l'attenzione la difesa dell'indagato - che non un solo atto d'impulso risulta essere stato azionato dal p.m. procedente, il quale, contestualmente alla presentazione della richiesta di archiviazione, non ebbe a disporre la separazione della posizione del P. in ordine al reato di cui all'art. 595 c.p. e ad assumere le conseguenti iniziative, così come, all'esito della pronuncia del qui contestato provvedimento di archiviazione, non risulta aver formalizzato il proprio eventuale dissenso.

Conclusivamente, pertanto, non può che opinarsi che il g.i.p. aquilano, nel doveroso esercizio a tutto tondo della funzione di controllo sua propria, rispetto alla richiesta di non esercizio dell'azione penale da parte del p.m. inquirente, ha correttamente tratto le necessitate implicazioni dell'istanza proveniente dallo stesso titolare dell'azione penale, conformemente al carattere indistinto della detta richiesta di archiviazione. Risulta per l'effetto superato anche il secondo profilo di doglianza, in tema di mancanza, ovvero apparenza di motivazione.

5. Fermo, dunque, il rigetto del ricorso proposto, occorre da ultimo prendere in considerazione l'esplicita richiesta di oscuramento dati avanzata dalla difesa del P., ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

La detta disposizione di legge riconosce all'interessato la facoltà di chiedere all'A.G., "per motivi legittimi" e prima della definizione del relativo grado di giudizio, che sia apposta sulla sentenza o sul provvedimento di cui trattasi, a cura della cancelleria, l'annotazione "volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza o provvedimento in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, l'indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessaiò riportati sulla sentenza o provvedimento".

Il fulcro della norma in questione - destinata ad operare solo in relazione alla riproduzione del provvedimento per finalità di informazione giuridica, in conformità all'espressa previsione del legislatore - è dunque costituito dalla legittimità dei motivi posti a fondamento della richiesta, che segnano all'evidenza il discrimine fra l'accoglimento ed il riò etto della relativa domanda.

Il concetto utilizzato dal legislatore, per certo non felice, abbisogna di un'opportuna interpretazione.

Va innanzi tutto escluso che l'espressione possa essere intesa nell'accezione di "motivi normativi": in tal senso depone sia la clausola di riserva che figura nell'incipit del citato articolo di legge ("Fermo restando quanto previsto dalle disposizioni concernenti la redazione e il contenuto di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali dell'autorità giudiziaria di ogni ordine e grado ...), sia il ricorso ad elementari criteri esegetici, in ragione dell'evidente superfluità di una disposizione che si limiti a fare riferimento a quanto già previsto da altre norme.

Dunque, per dare un significato compiuto all'espressione che ne occupa - che, ovviamente, non può neppure discendere da un'interpretazione a contrario, non potendosi ammettere l'esito positivo di una richiesta di oscuramento dati per motivi illegittimi - non resta che apprezzarla come sinonimo di "motivi opportuni": donde la particolare ampiezza, opportunamente non predeterminata dal legislatore all'interno di schemi rigidi, delle ragioni che possono essere addotte a sostegno della richiesta che qui interessa, fermo restando che l'accoglimento della richiesta medesima interverrà ogniqualvolta l'A.G. ravviserà un equilibrato bilanciamento tra esigenze di riservatezza del singolo e pubblicità della sentenza, la quale ultima costituisce un necessitato corollario del principio costituzionale dell'amministrazione della giustizia in nome del popolo, massimamente in ambito penale in cui, in ragione degli interessi in gioco, l'intera celebrazione del processo - ivi compresa, dunque, la fase dell'istruttoria dibattimentale - si svolge in forma pubblica (salvo motivato provvedimento in deroga da parte del giudice procedente).

In tal senso, interessanti indicazioni conformi si traggono dalle linee guida dettate dal Garante della privacy il 2 dicembre 2010, "in materia di trattamento di dati personali nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica", pubblicate sulla G.U. n. 2 del 4 gennaio 2011, in cui al punto 3., con specifico riferimento alla c.d. "procedura di anonimizzazione dei provvedimenti giurisdizionali" di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, commi da 1 a 4, si indicano possibili "motivi legittimi", in grado di fondare la relativa richiesta (ovvero di indurre l'A.G. a provvedere d'ufficio), nella "particolare natura dei dati contenuti nel provvedimento (ad esempio, dati sensibili)", ovvero nella "delicatezza della vicenda oggetto del giudizio".

Ora, per ciò che concerne i "dati sensibili", discendendo la loro individuazione direttamente dalla legge - che, al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 4, comma 1, lett. d), li definisce come "i dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonchè i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale" - può tranquillamente affermarsi che nessuno di essi viene in considerazione ed è dunque messo a repentaglio nel caso in questione.

Quanto, poi, alla "delicatezza" della vicenda per cui è processo, è di tutta evidenza come l'estrema latitudine del sostantivo abbia necessità di essere riempita di contenuti concreti, sintomatici della peculiarità del caso e della capacità, insita nella diffusione dei dati relativi, di riverberare - come osserva lo stesso Garante - "negative conseguenze sui vari aspetti della vita sociale e di relazione dell'interessato (ad esempio, in ambito familiare o lavorativo)", così andando ad incidere pesantemente sul diritto alla riservatezza del singolo - si pensi, tipicamente, a fatti riguardanti vessazioni in ambito familiare -: contenuti che non è dato ravvisare nella presente fattispecie, non avendo rilievo in tal senso l'asciutto riferimento, contenuto nell'istanza a firma del difensore del P., allo svolgimento di funzioni giuridizionali sia da parte dell' A., quale magistrato ordinario, che da parte dello stesso P., quale magistrato tributario, in rapporto alla assai "ristretta" comunità di Ascoli Piceno, ove entrambi espletano dette funzioni.

Diversamente opinando, del resto, ogni processo penale dovrebbe comportare l'oscuramento dei dati personali, laddove, per un verso, si è qui in presenza di addebiti che scaturiscono da denunce formalizzate dai diretti interessati, come tali espressione della facoltà, propria dei cittadini di uno Stato di diritto ed a cui si attribuisce valore civico e sociale, di attivare in prima persona la risposta dell'ordinamento in casi di ritenuta violazione della legge penale, conseguentemente non riguardabili di per sè negativamente, salvo solo che esse celino fatti di simulazione di reato o di autocalunnia - nel caso, non ipotizzabili - ovvero ancora di calunnia, quest'ultima espressamente esclusa; per altro verso, l'esercizio di funzioni giurisdizionali non può in alcun modo risolversi nella gratuita attribuzione di una sorta di status superiore, tale da comportare una più intensa ed ampia tutela rispetto a quella riconosciuta agli altri cittadini.

L'istanza in questione va dunque rigettata.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 15 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2017