Home
Lo studio
Risorse
Contatti
Lo studio

Decisioni

Omicidio Carlo Giuliani la G8: nessuna violazione CEDU (Corte EDU, 24/3/2011)

24 marzo 2011, Corte Europea dei diritti dell'Uomo

In caso di uso di forza letale da parte di pubblici ufficiali, il compito della Corte europea dei diritti dell'Uomo consiste nel verificare se e in quale misura si possa ritenere che i giudici nazionali, prima di giungere a una qualsiasi conclusione, abbiano sottoposto la causa di cui erano investiti all’esame scrupoloso richiesto dall’articolo 2 della Convenzione, allo scopo di assicurare che la forza di dissuasione del sistema giudiziario attuato e l’importanza del ruolo che quest’ultimo deve svolgere nella prevenzione delle violazioni del diritto alla vita non siano sminuite.

In occasione dei tragici fatti occorsi in Piazza Alimonda durante il G8 di Genova il ricorso alla forza omicida è stato «assolutamente necessario» per «assicurare la difesa di ogni persona dalla violenza illegale» e non vi è stata violazione degli obblighi positivi di tutelare la vita in ragione dell’organizzazione e della pianificazione delle operazioni di polizia.

L’inchiesta relativa all'omicidio di Carlo giuliano non ha mancato di imparzialità e di indipendenza e l'autorità giudiziaria ha concluso con celerità delle indagini, condotte con la diligenza richiesta in materia.

Considerato il loro carattere sostanziale, gli articoli 2 e 3 della Convenzione contengono un obbligo procedurale di condurre un’inchiesta effettiva per quanto riguarda le violazioni addotte dell’elemento materiale di tali disposizioni. In effetti, una legge che vieti in maniera generale agli agenti dello Stato di procedere a omicidi arbitrari sarebbe in pratica inefficace se non esistesse alcuna procedura che permetta di controllare la legalità del ricorso alla forza omicida da parte delle autorità dello Stato. L’obbligo di tutelare il diritto alla vita che tale disposizione impone, insieme al dovere generale che incombe sullo Stato in virtù dell’articolo 1 della Convenzione di «riconosce[re] ad ogni persona sottoposta alla [sua] giurisdizione i diritti e le libertà fondamentali indicati nella (...) Convenzione», implica ed esige di condurre una forma di inchiesta efficace quando il ricorso alla forza, in particolare da parte di agenti dello Stato, ha comportato la morte di una persona. Lo Stato deve dunque assicurare, con tutti i mezzi di cui dispone, una reazione adeguata – giudiziaria o di altro tipo – affinché il quadro legislativo e amministrativo di tutela del diritto alla vita sia effettivamente attuato e affinché, se necessario, le violazioni del diritto in gioco siano represse e sanzionate.

In via generale, si può considerare che, affinché un’inchiesta su un’allegazione di omicidio illecito commesso da agenti dello Stato sia effettiva, è necessario che le persone che ne sono incaricate siano indipendenti dalle persone implicate. Ciò presuppone non solo l’assenza di qualsiasi legame gerarchico o istituzionale, ma anche una indipendenza pratica. È in gioco l’adesione dell’opinione pubblica al monopolio dello Stato in materia di ricorso alla forza.

L’inchiesta deve anche essere effettiva nel senso che deve permettere di determinare se il ricorso alla forza era giustificato o meno date le circostanze, nonché di identificare e – se del caso – sanzionare i responsabili. Non si tratta di un obbligo di risultato, ma di mezzi. Le autorità devono aver adottato tutte le misure ragionevoli a loro disposizione per acquisire le prove relative ai fatti in questione, ivi comprese, tra le altre, le deposizioni dei testimoni oculari, delle perizie e, eventualmente, un’autopsia idonea a fornire un resoconto completo e preciso delle ferite e un’analisi oggettiva degli accertamenti clinici, soprattutto della causa del decesso. Qualsiasi lacuna dell’inchiesta che ne comprometta la capacità di stabilire la causa del decesso o le responsabilità rischia di non rispondere a questa norma.

L’inchiesta deve essere accessibile alla famiglia della vittima nella misura necessaria alla salvaguardia dei suoi interessi legittimi. Il pubblico deve anche poter esercitare un diritto di ispezione sufficiente sulla stessa, in misura variabile a seconda dei casi, anche se l’articolo 2 non impone alle autorità l’obbligo di soddisfare a qualsiasi richiesta di misura di indagine che possa essere formulata da un parente della vittima durante l’inchiesta.


L’articolo 2 non implica  il diritto per un ricorrente di far perseguire o condannare penalmente dei terzi o un obbligo di risultato che presuppone che ogni azione penale debba concludersi con una condanna, se non addirittura con la pronuncia di una pena determinata, ma i giudici nazionali non possono in alcun caso mostrarsi disposti a lasciare impuniti degli attentati alla vita. 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
GRANDE CAMERA
CAUSA Giuliani e Gaggio c. Italia
(Ricorso n. 23458/02)
SENTENZA
STRASBURGO
24 marzo 2011

 

La presente sentenza è definitiva. Può subire variazioni di forma...

Nella causa Giuliani e Gaggio c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo, costituita in una Grande Camera composta da:
Jean-Paul Costa, presidente,
Christos Rozakis,
Françoise Tulkens,
Ireneu Cabral Barreto,
Boštjan M. Zupančič,
Nina Vajić,
Elisabeth Steiner,
Alvina Gyulumyan,
Renate Jaeger,
David Thór Björgvinsson,
Ineta Ziemele,
Isabelle Berro-Lefèvre,
Ledi Bianku,
Nona Tsotsoria,
Zdravka Kalaydjieva,
Işıl Karakaş,
Guido Raimondi, giudici,
e da Vincent Berger, giureconsulto,
Dopo avere deliberato in camera di consiglio il 29 settembre 2010 e il 16 febbraio 2011,
Pronuncia la seguente sentenza, adottata in tale ultima data:


PROCEDIMENTO


1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 23458/02) nei confronti della Repubblica italiana con cui tre cittadini di quello Stato, il sig. Giuliano Giuliani, la sig.ra Adelaide Gaggio (coniugata Giuliani) e la sig.ra Elena Giuliani («i ricorrenti»), hanno adito la Corte il 18 giugno 2002 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).
2. I ricorrenti sono stati rappresentati dagli Avv. N. Paoletti e G. Pisapia, del foro di Roma. Il governo italiano («il Governo») è stato rappresentato dal suo agente, sig.ra E. Spatafora, e dal suo co-agente, sig. N. Lettieri.
3. I ricorrenti lamentavano il decesso del figlio e fratello, Carlo Giuliani, a loro parere dovuto ad un ricorso eccessivo alla forza. Accusavano inoltre lo Stato convenuto di non avere adottato le disposizioni legislative, amministrative e regolamentari necessarie per limitare al massimo le conseguenze nefaste dell’uso della forza, di non avere organizzato e pianificato le operazioni di polizia in modo conforme all’obbligo di tutelare la vita e di non avere svolto un’inchiesta efficace sulle circostanze del decesso del loro familiare.
4. Il ricorso è stato assegnato alla quarta sezione della Corte (articolo 52 § 1 del regolamento). Il 6 febbraio 2007, all’esito di un’udienza dedicata all’esame contestuale delle questioni di ricevibilità e di merito (articolo 54 § 3 del regolamento), esso è stato dichiarato ricevibile da una camera di detta sezione, composta dai seguenti giudici: Nicolas Bratza, Josep Casadevall, Giovanni Bonello, Kristaq Traja, Vladimiro Zagrebelsky, Stanislav Pavlovschi, Lech Garlicki, nonché da Lawrence Early, cancelliere di sezione.
5. Il 25 agosto 2009, una camera della quarta sezione, composta da Nicolas Bratza, Josep Casadevall, Lech Garlicki, Giovanni Bonello, Vladimiro Zagrebelsky, Ljiljana Mijović, Ján Šikuta, giudici, e da Lawrence Early, cancelliere di sezione, ha pronunciato una sentenza in cui ha concluso: all’unanimità, che non vi era stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione sotto il profilo materiale quanto all’uso eccessivo della forza; con cinque voti contro due, che non vi era stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione sotto il profilo materiale quanto agli obblighi positivi di tutelare la vita; con quattro voti contro tre, che vi era stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione sotto il profilo procedurale; all’unanimità, non doversi esaminare la causa sotto il profilo degli articoli 3, 6 e 13 della Convenzione; all’unanimità, che non vi era stata violazione dell’articolo 38 della Convenzione. Essa ha altresì concesso 15.000 euro (EUR) a ciascuno dei ricorrenti Giuliano Giuliani e Adelaide Gaggio e 10.000 EUR alla ricorrente Elena Giuliani, per danni morali.
6. Il 24 novembre 2009, il Governo e i ricorrenti hanno chiesto il rinvio della causa dinanzi alla Grande Camera in virtù degli articoli 43 della Convenzione e 73 del regolamento. Il 1o marzo 2010, un collegio della Grande Camera ha accolto le loro richieste.
7. La composizione della Grande Camera è stata stabilita conformemente agli articoli 26 §§ 4 e 5 della Convenzione e 24 del regolamento.
8. Ricorrenti e Governo hanno depositato osservazioni scritte complementari (articolo 59 § 1 del regolamento).
9. Il 27 settembre 2010, i giudici (titolari e supplenti) designati a pronunciarsi nella presente causa hanno visionato i CD-rom presentati dalle parti il 28 giugno e il 9 luglio 2010 (successivo paragrafo 139).
10. Una pubblica udienza si è tenuta al Palazzo dei diritti dell’uomo, a Strasburgo, il 29 settembre 2010 (articolo 59 § 3 del regolamento).

Sono comparsi:

  • per il Governo
    N. LETTIERI,    co-agente,
    P. ACCARDO,    co-agente,
    G. ALBENZIO,    avvocato dello Stato;
  • per i ricorrenti
    N. PAOLETTI,
    G. PAOLETTI,
    N. PAOLETTI,    consulenti legali
    C. SARTORI,    consigliere.

La Corte li ha sentiti nelle loro dichiarazioni.


IN FATTO


I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO
11. I ricorrenti sono nati rispettivamente nel 1938, 1944 e 1972; risiedono a Genova e a Milano. Sono rispettivamente il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani, ferito a morte da una pallottola durante le manifestazioni a margine del «G8» tenutosi a Genova nel luglio del 2001.

A. Il contesto del G8 di Genova e i fatti che hanno preceduto il decesso di Carlo Giuliani

12. I giorni 19, 20 e 21 luglio 2001 si svolse a Genova il cosiddetto vertice del «G8». In città furono organizzate numerose manifestazioni «no-global» e le autorità italiane attivarono un imponente dispositivo di sicurezza. In virtù dell’articolo 4 § 1 della legge n. 149 dell’8 giugno 2000, il prefetto di Genova era autorizzato a ricorrere al personale militare delle forze armate per le esigenze di pubblica sicurezza legate allo svolgimento del vertice. Inoltre, con una rete metallica era stata delimitata una «zona rossa» nella parte della città interessata dagli incontri del G8 (il centro storico), così da consentirvi l’accesso ai soli residenti e addetti ai lavori. L’accesso al porto era stato vietato e l’aeroporto chiuso al traffico. La zona rossa era inserita in una zona gialla, a sua volta circondata da una zona bianca (zona normale).
13. L’ordine di servizio del 19 luglio 2001 fu emesso dal comandante delle forze dell’ordine la vigilia del decesso di Carlo Giuliani. Esso riassume così le priorità delle forze dell’ordine: predisporre all’interno della zona rossa una linea di difesa in grado di respingere rapidamente ogni tentativo d’intrusione; predisporre all’interno della zona gialla una linea di difesa in grado di far fronte ad ogni azione, tenuto conto del posizionamento dei manifestanti in diversi punti nonché delle azioni poste in essere da elementi più estremisti; adottare misure di ordine pubblico lungo gli assi interessati dalle manifestazioni, tenuto conto del pericolo di aggressioni favorito dagli effetti di massa.
14. Le parti convengono sul fatto che l’ordine di servizio del 19 luglio 2001 ha modificato i piani stabiliti fino a quel momento quanto al modo di dispiegare le risorse ed i mezzi disponibili, al fine di consentire alle forze dell’ordine di neutralizzare efficacemente ogni tentativo di penetrazione nella zona rossa da parte di partecipanti alla manifestazione detta delle «Tute Bianche», annunciata ed autorizzata per l’indomani.
15. I ricorrenti sostengono che l’ordine di servizio del 19 luglio ha attribuito ad un plotone di carabinieri coinvolto nel decesso di Carlo Giuliani una funzione dinamica, mentre prima esso avrebbe avuto un ruolo statico. Il Governo ha sostenuto che le istruzioni contenute negli ordini di servizio sono state trasmesse verbalmente agli ufficiali presenti sul campo.
16. Era stato predisposto un sistema di comunicazioni radio. Esso prevedeva una centrale operativa situata presso la questura di Genova, in contatto con le forze presenti sul campo. I carabinieri e gli agenti di polizia non potevano comunicare direttamente tra loro via radio; potevano contattare unicamente la centrale operativa.
17. La mattina del 20 luglio, gruppi di manifestanti particolarmente aggressivi, incappucciati e mascherati (i «Black Block») provocarono numerosi incidenti e scontri con le forze dell’ordine. Il corteo delle Tute Bianche doveva partire dallo stadio Carlini. La manifestazione raggruppava diverse organizzazioni: rappresentanti del movimento «no global», dei centri sociali, dei giovani comunisti del Partito «Rifondazione Comunista». Essi credevano nella contestazione non violenta (disobbedienza civile), ma avevano annunciato un obiettivo politico: tentare di valicare il confine della zona rossa. Il 19 luglio 2001, il questore di Genova aveva vietato al corteo delle Tute Bianche di penetrare in quella zona e in quella adiacente ed aveva dispiegato le forze dell’ordine in modo da fermare il corteo all’altezza di piazza Verdi. Il corteo poteva sfilare quindi tra lo stadio Carlini e piazza Verdi, percorrendo via Tolemaide in tutta la sua lunghezza, ossia ben oltre l’incrocio tra detta via e corso Torino, dove – come sarà detto in seguito – si verificarono scontri.
18. Verso le ore 13.30, il corteo si mosse e avanzò lentamente verso ovest. Nel settore di via Tolemaide, vi erano tracce di precedenti disordini. Un gruppo di contatto composto da politici e un gruppo di giornalisti muniti di cineprese e macchine fotografiche camminavano in testa al corteo. Quest’ultimo rallentò e si fermò ripetutamente. Nella zona di via Tolemaide, alcuni scontri opposero persone mascherate e incappucciate alle forze dell’ordine. Il corteo raggiunse il tunnel della ferrovia, all’incrocio di corso Torino. Improvvisamente, alcuni carabinieri, ai comandi del sig. Mondelli, lanciarono lacrimogeni sul corteo. I carabinieri avanzarono con l’aiuto degli sfollagente. Il corteo fu respinto verso est fino all’incrocio con via d’Invrea.
19. I manifestanti si divisero: alcuni si diressero verso il mare, altri si rifugiarono prima in via d’Invrea poi nel settore di piazza Alimonda. Alcuni dei manifestanti reagirono all’assalto lanciando all’indirizzo delle forze dell’ordine oggetti contundenti, quali bottiglie di vetro e contenitori della spazzatura. Alcuni blindati dei carabinieri percorsero a gran velocità via Casaregis e via d’Invrea, sfondando le barricate innalzate dai manifestanti e provocando l’allontanamento dei manifestanti presenti sul posto. Alle ore 15.22, la centrale operativa ordinò al sig. Mondelli di farsi da parte e di lasciare passare il corteo.
20. Alcuni manifestanti organizzarono una risposta violenta. Vi furono scontri con le forze dell’ordine. Verso le ore 15.40, un gruppo di manifestanti attaccò un furgone blindato dei carabinieri e lo incendiò.
B. Il decesso di Carlo Giuliani
21. Verso le ore 17, un gruppo di manifestanti, all’apparenza molto aggressivi, attirò l’attenzione del battaglione Sicilia, composto da una cinquantina di carabinieri postati vicino a piazza Alimonda. Vicino a questi ultimi stazionavano due jeep Defender. Il funzionario di polizia Lauro ordinò di caricare i manifestanti. A piedi e seguiti dalle jeep, i carabinieri eseguirono l’ordine. I manifestanti riuscirono a respingere la carica costringendo i carabinieri a ripiegare in ordine sparso nei pressi di piazza Alimonda. Le immagini riprese dall’elicottero alle ore 17.23 mostrano i manifestanti che inseguono le forze dell’ordine lungo via Caffa.
22. In seguito al ritiro dei carabinieri, le jeep cercarono di lasciare il posto procedendo in retromarcia. Una di esse riuscì ad allontanarsi, mentre l’altra rimase bloccata da un cassonetto rovesciato. All’improvviso, diversi manifestanti armati di pietre, bastoni e spranghe di ferro la circondarono. I finestrini laterali posteriori e il lunotto della jeep furono infranti. I manifestanti insultarono e minacciarono gli occupanti della jeep e lanciarono pietre e un estintore contro il veicolo.
23. A bordo della jeep si trovavano tre carabinieri: Filippo Cavataio («F.C.»), il conducente, Mario Placanica («M.P.») e Dario Raffone («D.R.»). M.P., intossicato dalle granate lacrimogene che aveva lanciato nel corso della giornata, era stato autorizzato dal capitano Cappello, comandante di una compagnia di carabinieri, a salire sulla jeep per allontanarsi dal luogo degli scontri. Accoccolato nella parte posteriore della jeep, ferito, in preda al panico, egli si proteggeva (stando alle dichiarazioni del manifestante Predonzani) da un lato con uno scudo. Urlando ai manifestanti di andarsene, «altrimenti li avrebbe uccisi», M.P. estrasse la sua Beretta 9mm, la puntò in direzione del lunotto infranto del veicolo e, dopo qualche decina di secondi, sparò due colpi.
24. Uno dei colpi raggiunse Carlo Giuliani, un manifestante incappucciato, al volto, sotto l’occhio sinistro. Egli si trovava vicino alla parte posteriore della jeep ed aveva appena raccolto e sollevato un estintore vuoto. Stramazzò vicino alla ruota posteriore sinistra del veicolo.
25. Poco dopo, F.C. riuscì a rimettere in moto la jeep e, per liberarsi, fece marcia indietro, passando così sul corpo di Carlo Giuliani. Inserì poi la prima marcia e, passando una seconda volta sul corpo di Carlo Giuliani, lasciò il posto. La jeep si diresse quindi verso piazza Tommaseo.
26. Dopo «pochi metri», il maresciallo dei carabinieri Amatori salì a bordo della jeep e si mise al volante, «dato che il conducente era in stato di shock». Anche il carabiniere Rando salì sul veicolo.
27. Alcuni agenti di polizia che stazionavano sull’altro lato di piazza Alimonda intervennero e dispersero i manifestanti. Furono raggiunti da alcuni carabinieri. Alle ore 17.27, un agente di polizia presente sul posto chiamò la centrale operativa per chiedere un’ambulanza. In seguito, un medico arrivato sul posto constatò il decesso di Carlo Giuliani.
28. Il ministero dell’Interno ha affermato che era impossibile indicare il numero esatto di carabinieri e agenti di polizia presenti sul posto al momento del decesso di Carlo Giuliani. Vi erano approssimativamente cinquanta carabinieri, ad una distanza di 150 metri dalla jeep. Inoltre, a 200 metri, all’altezza di piazza Tommaseo, vi era un gruppo di agenti di polizia.
29. Basandosi, tra l’altro, sulle testimonianze rese da alcuni membri delle forze dell’ordine durante un processo parallelo (il «processo dei 25», si vedano i successivi paragrafi 121-138), i ricorrenti sostengono in particolare che, in piazza Alimonda, i carabinieri si erano potuti togliere le maschere antigas, rifocillare e riposare. In quel «contesto tranquillo», il capitano Cappello aveva ordinato a M.P. e a D.R. di salire a bordo di una delle due jeep. A suo avviso, quei due carabinieri erano psicologicamente «a terra» e non rispondevano più ai requisiti fisici per essere in servizio. Inoltre, ritenendo opportuno che M.P. smettesse di lanciare lacrimogeni, Cappello gli aveva tolto il lancialacrimogeni e la borsa contenente i gas lacrimogeni.
30. Quanto alle fotografie scattate poco prima dello sparo letale, i ricorrenti fanno notare che l’arma era tenuta orizzontalmente e verso il basso. Rinviano inoltre alle dichiarazioni del tenente colonnello Truglio (successivo paragrafo 43), il quale ha affermato di essersi trovato ad una decina di metri da piazza Alimonda e a trenta - quaranta metri dalla jeep. Ad alcune decine di metri dalla jeep si trovavano i carabinieri (un centinaio). Gli agenti di polizia erano in fondo a via Caffa, in direzione di piazza Tommaseo. I ricorrenti ricordano che le fotografie acquisite agli atti d’inchiesta mostrano chiaramente la presenza di carabinieri non lontano dalla jeep.

C. L’inchiesta condotta dalle autorità nazionali

1. I primi atti d’inchiesta
31. A qualche metro dal corpo di Carlo Giuliani fu rinvenuto un bossolo. Non fu trovata alcuna pallottola. Accanto al corpo furono recuperati, tra gli altri, un estintore e una pietra sporca di sangue. Quegli oggetti furono sequestrati dalla polizia. Dal fascicolo emerge che il pubblico ministero affidò alla polizia trentasei atti d’inchiesta. La jeep che aveva ospitato M.P., l’arma e l’equipaggiamento di questi rimasero nelle mani dei carabinieri e, in seguito, formarono oggetto di sequestro giudiziario. Un bossolo fu rinvenuto all’interno della jeep.
32. La sera del 20 luglio 2001, la squadra mobile della polizia di Genova sentì due poliziotti, i sigg. Martino e Fiorillo. Il 21 luglio 2001, il capitano Cappello, responsabile della compagnia ECHO, riferì gli avvenimenti della vigilia e fece i nomi dei carabinieri che si erano trovati a bordo della jeep. Dichiarò di non avere sentito alcuno sparo, probabilmente a causa dell’auricolare della radio, del casco e della maschera antigas che limitavano il suo udito.

2. La sottoposizione ad indagini di M.P. e F.C.
33. Nella notte tra il 20 e il 21 luglio 2001, M.P. e F.C. furono identificati e sentiti dal pubblico ministero di Genova come indiziati di omicidio volontario. Gli interrogatori si svolsero nei locali del comando dei carabinieri di Genova.
a) Le prime dichiarazioni di M.P.
34. M.P. era un carabiniere ausiliario, assegnato al battaglione n. 12 «Sicilia» ed inserito nella compagnia ECHO, costituita per le necessità del G8. Insieme ad altre quattro compagnie provenienti da altre regioni d’Italia, la compagnia ECHO faceva parte del CCIR, posto agli ordini del tenente colonnello Truglio. La compagnia ECHO era agli ordini del capitano Cappello e dei suoi vice Mirante e Zappia, e sotto la direzione e il coordinamento di Lauro, vicequestore di Roma. Ciascuna delle cinque compagnie era divisa in quattro plotoni di cinquanta uomini ciascuno. Il comandante di tutte le compagnie era il colonnello Leso.
35. Nato il 13 agosto 1980 ed entrato in servizio il 16 settembre 2000, M.P. aveva venti anni e undici mesi, all’epoca dei fatti. Granatiere, era stato assegnato al lancio di lacrimogeni. Dichiarò che avrebbe dovuto spostarsi a piedi con il suo plotone durante le operazioni di mantenimento e ristabilimento dell’ordine pubblico. Dopo avere lanciato diversi ordigni lacrimogeni, con gli occhi e il volto in fiamme, aveva chiesto al capitano Cappello l’autorizzazione a salire a bordo di una jeep. Poco dopo, un altro carabiniere (D.R.), ferito, lo aveva raggiunto.
36. M.P. affermò di avere avuto molta paura, per via di tutto quello che aveva visto lanciare durante la giornata, e di avere temuto soprattutto che i manifestanti lanciassero delle bottiglie Molotov. Spiegò che la sua paura era cresciuta dopo essere stato ferito ad una gamba da un oggetto metallico e alla testa da una pietra. Aveva percepito la presenza di aggressori a causa delle sassaiole ed aveva pensato che «centinaia di manifestanti accerchiassero la jeep», anche se aggiunse che «al momento degli spari, non c’era nessuno in vista». Precisò di essere stato «in preda al panico». Ad un certo punto, si era reso conto di avere impugnato la pistola; aveva sporto la mano, armata, dal lunotto della jeep e, dopo circa un minuto, aveva sparato due colpi. Sostenne di non essersi accorto della presenza di Carlo Giuliani dietro la jeep, né prima né dopo avere sparato.
b) Le dichiarazioni di F.C.
37. F.C., il conducente della jeep, nato il 3 settembre 1977, era in servizio da ventidue mesi. All’epoca dei fatti, aveva ventitré anni e dieci mesi. Dichiarò di essersi trovato in una stradina nei pressi di piazza Alimonda e di avere cercato di tornare a marcia indietro verso la piazza in quanto il plotone indietreggiava incalzato dai manifestanti. Aveva tuttavia trovato la strada bloccata da un cassonetto. Il motore si era spento. Egli aveva concentrato i suoi sforzi sul modo di liberare la jeep, mentre i compagni a bordo del veicolo urlavano. Per questo motivo, non aveva sentito le detonazioni. Infine, dichiarò: «Non ho notato persone a terra perché indossavo una maschera che mi limitava il campo visivo (...), inoltre la visuale laterale, nella vettura, non è ottimale. Ho fatto retromarcia e non ho avvertito alcuna resistenza; in verità, ho sentito un sobbalzo della ruota sulla sinistra, ho pensato ad un mucchio di rifiuti dato che il cassonetto era stato rovesciato. Avevo un solo pensiero in testa: allontanarmi da quel disastro».
c) Le dichiarazioni di D.R.
38. D.R., nato il 25 gennaio 1982, svolgeva il servizio militare dal 16 marzo 2001. All’epoca dei fatti, aveva diciannove anni e sei mesi. Dichiarò di essere stato colpito al volto e alla schiena da pietre lanciate da alcuni manifestanti e di avere cominciato a sanguinare. Aveva cercato di proteggersi coprendosi il volto, mentre M.P. aveva cercato a sua volta di fargli scudo col corpo. In quel momento, non aveva visto più niente, ma aveva sentito le grida e il rumore dei colpi e degli oggetti che entravano nell’abitacolo della jeep. Aveva sentito M.P. urlare agli aggressori di smetterla e di andarsene, poi due detonazioni.
d) Le seconde dichiarazioni di M.P.
39. L’11 settembre 2001, M.P., interrogato dal pubblico ministero, confermò le dichiarazioni del 20 luglio 2001 ed aggiunse di avere urlato ai manifestanti «andatevene o vi uccido!».

3. Le altre dichiarazioni raccolte durante l’inchiesta
a) Le dichiarazioni rese da altri carabinieri
40. Il maresciallo Amatori, che si trovava sull’altra jeep presente in piazza Alimonda, dichiarò di avere visto che la jeep con a bordo M.P. era rimasta bloccata da un cassonetto ed era circondata da numerosi manifestanti, «certamente più di venti». Questi ultimi lanciavano oggetti contro la jeep. In particolare, aveva visto un manifestante lanciare un estintore contro il lunotto. Aveva sentito le detonazioni e visto Carlo Giuliani crollare a terra. La jeep era poi passata due volte sul corpo di Carlo Giuliani. Dopo che la jeep era riuscita a lasciare piazza Alimonda, egli si era avvicinato ad essa ed aveva visto il conducente scendere dalla vettura e chiedere aiuto, visibilmente agitato. Il maresciallo aveva quindi preso il posto del conducente e notato che M.P. impugnava una pistola; gli aveva ordinato di rimettere la sicura. Aveva pensato immediatamente che fosse l’arma che aveva sparato poco prima, ma non ne aveva parlato con M.P.; questi era ferito e sanguinava dalla testa. Il conducente gli disse di avere sentito le detonazioni mentre faceva manovra. Il maresciallo non ricevette alcuna spiegazione in merito alle circostanze all’origine della decisione di sparare e non pose alcuna domanda al riguardo.
41. Il carabiniere Rando aveva raggiunto la jeep a piedi. Dichiarò di avere visto l’arma fuori del fodero e di avere chiesto a M.P. se avesse sparato. Questi aveva risposto di sì, senza precisare se avesse sparato in aria o in direzione di un determinato manifestante. M.P. ripeteva incessantemente «volevano uccidermi, non voglio morire».
42. L’11 settembre 2001, il pubblico ministero sentì il capitano Cappello, comandante della compagnia ECHO (precedente paragrafo 34). Questi dichiarò di avere autorizzato M.P. a salire sulla jeep e di avere recuperato il lancialacrimogeni di quest’ultimo. M.P. era in difficoltà. In seguito (al «processo dei 25», udienza del 20 settembre 2005), egli precisò che M.P. era fisicamente inidoneo a continuare il servizio per problemi psicologici e di tensione nervosa. Cappello si era poi diretto con i suoi uomini – una cinquantina – verso l’angolo tra piazza Alimonda e via Caffa. Il funzionario di polizia Lauro lo aveva pregato di risalire via Caffa in direzione di via Tolemaide per aiutare le forze impegnate laggiù a respingere i manifestanti. Cappello era rimasto perplesso di fronte a tale richiesta, visto il numero e la stanchezza degli uomini a sua disposizione. Cionondimeno, li aveva postati in via Caffa. Sotto la spinta dei manifestanti provenienti da via Tolemaide, i carabinieri erano stati costretti ad indietreggiare; avevano ripiegato prima in modo ordinato, poi in ordine sparso. Cappello non si era reso conto che, al momento della ritirata, i carabinieri erano seguiti dalle due jeep, la cui presenza non aveva alcuna «giustificazione funzionale». I manifestanti erano stati dispersi solo grazie all’intervento di squadre mobili della polizia, presenti sull’altro lato di piazza Alimonda. Solo allora egli aveva constatato che un uomo incappucciato giaceva a terra, a quanto sembrava, gravemente ferito. Alcuni dei suoi uomini portavano un casco equipaggiato con videocamere, il che avrebbe permesso di chiarire lo svolgimento dei fatti; le videoregistrazioni erano state consegnate al colonnello Leso.
43. Il tenente colonnello Truglio, superiore gerarchico del capitano Cappello, dichiarò di essersi fermato ad una decina di metri da piazza Alimonda e a trenta - quaranta metri dalla jeep e di avere notato che essa passava su un corpo steso a terra.

b) Le dichiarazioni del funzionario di polizia Lauro
44. Il 21 dicembre 2001, Lauro fu sentito dal pubblico ministero. Dichiarò di avere appreso della modifica degli ordini di servizio il 20 luglio 2001 al mattino. Durante l’udienza celebrata il 26 aprile 2005 nell’ambito del «processo dei 25», Lauro affermò di essere stato informato, il 19 luglio 2011, che per l’indomani non era stato autorizzato nessun corteo. Il 20 luglio, egli continuava ad ignorare che un corteo era stato autorizzato a sfilare. Nel corso della giornata, si era recato in piazza Tommaseo, teatro di scontri con i manifestanti. Alle ore 15.30, in un momento di calma, il tenente colonnello Truglio e le due jeep avevano raggiunto il contingente. Tra le ore 16.00 e le ore 16.45, il contingente era stato coinvolto in alcuni scontri in corso Torino. Poi, era giunto nel settore delle piazze Tommaseo e Alimonda. Il tenente colonnello Truglio e le due jeep erano tornate e il contingente era stato riorganizzato. In fondo a via Caffa, Lauro aveva notato un gruppo di manifestanti. Essi avevano formato una barriera con alcuni cassonetti su ruote e avanzavano verso le forze dell’ordine. Lauro aveva chiesto a Cappello se gli uomini di questi fossero in grado di far fronte alla situazione ed aveva ottenuto una risposta affermativa. Lauro e il contingente si erano quindi sistemati vicino a via Caffa. Egli aveva sentito l’ordine di ripiegare ed assistito alla ritirata disordinata del contingente.
c) Le altre dichiarazioni rese al pubblico ministero
45. Il pubblico ministero sentì anche alcuni manifestanti presenti al momento dei fatti. Alcuni di loro dichiararono di essersi trovati molto vicino alla jeep, di avere lanciato essi stessi delle pietre e di avere colpito la jeep con bastoni ed altri oggetti. Secondo uno dei manifestanti, M.P. aveva urlato «bastardi, vi ucciderò tutti!». Un altro si era accorto che il carabiniere a bordo della jeep aveva estratto la pistola; allora aveva gridato ai compagni di fare attenzione e si era allontanato. Un altro dichiarò che M.P. si era protetto da un lato con uno scudo.
46. Alcune persone che avevano assistito ai fatti dalle finestre delle loro abitazioni dichiararono di avere visto un manifestante raccogliere un estintore e sollevarlo. Avevano udito due detonazioni e avevano visto il manifestante crollare a terra.

4. Il materiale audiovisivo
47. Il pubblico ministero ordinò alle forze dell’ordine di consegnargli il materiale audiovisivo che poteva contribuire alla ricostruzione dei fatti verificatisi in piazza Alimonda. Infatti, erano state fatte fotografie e videoregistrazioni da squadre di addetti alle riprese, da telecamere montate su elicotteri e da minitelecamere montate sui caschi di alcuni agenti. Erano peraltro disponibili anche immagini di provenienza privata.
5. Le perizie
a) L’autopsia
48. Nelle ventiquattro ore, il pubblico ministero ordinò un’autopsia ai fini dell’accertamento della causa del decesso di Carlo Giuliani. Il 21 luglio 2001, alle ore 12.10, un avviso di autopsia – contenente la precisazione che la parte lesa poteva nominare un perito e un difensore – fu notificato al primo ricorrente, padre della vittima. Alle ore 15.15, i dott. Canale e Salvi, periti della procura, furono formalmente investiti del mandato, ed ebbero inizio le operazioni di autopsia. I ricorrenti non inviarono nessun rappresentante né perito da loro designato.
49. I periti chiesero alla procura sessanta giorni di tempo per depositare il rapporto dell’autopsia. La procura accolse la richiesta. Il 23 luglio 2001, il pubblico ministero autorizzò la cremazione del corpo di Carlo Giuliani, voluta dai familiari.
50. Il rapporto di perizia fu depositato il 6 novembre 2001. Stando ad esso, Carlo Giuliani era stato colpito sotto l’occhio sinistro da un proiettile che aveva attraversato il cranio ed era uscito dalla parete posteriore sinistra. La traiettoria del proiettile era stata la seguente: sparato da oltre cinquanta centimetri di distanza, dal davanti verso il dietro, da destra verso sinistra, dall’alto verso il basso. Carlo Giuliani era alto 1,65 m. Lo sparatore si trovava di fronte alla vittima, leggermente spostato verso destra. Secondo i periti, il colpo d’arma da fuoco alla testa aveva causato la morte in pochi minuti; il passaggio della jeep sul corpo aveva provocato solo lesioni secondarie e non valutabili agli organi toracici e addominali.
b) Le perizie medicolegali su M.P. e D.R.
51. Dopo avere lasciato piazza Alimonda, i tre carabinieri a bordo della jeep si erano recati al pronto soccorso dell’ospedale di Genova. M.P. aveva lamentato contusioni diffuse alla gamba destra ed un trauma cranico con ferite aperte; nonostante il parere dei medici, propensi a ricoverarlo, M.P. aveva firmato per uscire e, verso le ore 21.30, aveva lasciato l’ospedale. Aveva riportato un trauma cranico, provocato, secondo lui, da un colpo alla testa infertogli con un corpo contundente mentre si trovava a bordo della jeep.
52. D.R. presentava contusioni e graffi sul naso e sullo zigomo destro, contusioni alla spalla sinistra e al piede sinistro. F.C. soffriva di una sindrome psicologica post-traumatica guaribile in quindici giorni.
53. Le perizie medico-legali effettuate per stabilire la natura di tali lesioni e il legame delle stesse con l’aggressione subita dagli occupanti della jeep conclusero che le ferite riportate da M.P. e da D.R. non erano tali da comportare rischi per la vita. Le ferite riportate da M.P. alla testa potevano essere state causate da una sassata, ma era impossibile stabilire l’origine delle altre ferite. La lesione riportata da D.R. al volto poteva essere stata causata da una sassata e quella alla spalla da un colpo inflitto con un’asse.

c) Le perizie balistiche disposte dal pubblico ministero

i. La prima perizia
54. Il 4 settembre 2001, il pubblico ministero incaricò il dott. Cantarella di stabilire se i due bossoli rinvenuti sul posto (uno nella jeep, l’altro a pochi metri dal corpo di Carlo Giuliani – precedente paragrafo 31) provenissero dalla stessa arma, in particolare da quella di M.P. Nel suo rapporto datato 5 dicembre 2001, il perito ritenne che vi fosse il 90% di probabilità che il bossolo rinvenuto nella jeep provenisse dalla pistola di M.P., mentre vi era solo il 10% di probabilità che quello rinvenuto vicino al corpo di Carlo Giuliani provenisse dalla stessa pistola. In applicazione dell’articolo 392 del codice di procedura penale (CPP), la perizia fu effettuata unilateralmente, vale a dire senza che la parte lesa avesse la possibilità di parteciparvi.

ii. La seconda perizia
55. Il pubblico ministero nominò un secondo perito, l’ispettore di polizia Manetto. In un rapporto presentato il 15 gennaio 2002, questi affermò che esisteva il 60% di probabilità che il bossolo rinvenuto vicino al corpo della vittima provenisse dall’arma di M.P. Egli concluse che i due bossoli provenivano da quella pistola. Inoltre, a suo parere, la distanza tra M.P. e Carlo Giuliani al momento dell’impatto variava tra i 110 e i 140 centimetri. La perizia fu effettuata unilateralmente.

iii. La terza perizia
56. Il 12 febbraio 2002, la procura incaricò un collegio di periti (composto dai proff. Balossino, Benedetti, Romanini e Torre) di «ricostruire, anche in forma virtuale, la condotta di M.P. e di Carlo Giuliani negli istanti immediatamente precedenti e successivi a quello in cui la pallottola ha attinto il corpo». In particolare, i periti dovevano «stabilire la distanza che separava M.P. da Carlo Giuliani, i rispettivi angoli di vista e il campo visivo di M.P. all’interno della jeep al momento degli spari.» Dagli atti risulta che il prof. Romanini era l’autore di un articolo, pubblicato nel settembre del 2001 su una rivista specializzata (TAC Armi), in cui aveva affermato, tra l’altro, che la condotta di M.P. costituiva una «evidente reazione difensiva, pienamente giustificata».
57. I rappresentanti e i periti dei ricorrenti parteciparono agli atti della perizia collegiale. L’Avv. Vinci, legale dei ricorrenti, dichiarò di non volere presentare alcuna domanda di incidente probatorio. L’articolo 392, cc. 1 f) e 2, del CPP consente al pubblico ministero e alla persona sottoposta alle indagini di chiedere al giudice per le indagini preliminari - il «GIP» - di ordinare una perizia se questa riguarda una persona, una cosa o un luogo il cui stato è soggetto a modificazione non evitabile, o quando, se fosse disposta nel dibattimento, la perizia ne potrebbe determinare una sospensione superiore a sessanta giorni. Ai sensi dell’articolo 394 del CPP, la persona offesa può chiedere al pubblico ministero di promuovere un incidente probatorio. Se decide di non accogliere la richiesta, il pubblico ministero pronuncia decreto motivato e lo fa notificare alla persona offesa.
58. Il 20 aprile 2002, fu effettuato un sopralluogo. In quell’occasione, sul muro di un edificio di piazza Alimonda, a circa cinque metri di altezza, si scoprì l’esistenza di un impatto provocato da uno sparo.
59. Il 10 giugno 2002, i periti depositarono il loro rapporto. Nel documento si premetteva che l’indisponibilità del cadavere di Carlo Giuliani (dovuta alla cremazione) aveva costituito il grande ostacolo alla completezza del lavoro dei periti: essi non avevano potuto né riesaminare alcune parti del corpo né cercare delle microtracce. Basandosi sul «poco materiale a disposizione», i periti tentavano innanzitutto di rispondere alla domanda relativa a quale fosse stato l’impatto della pallottola su Carlo Giuliani ed esponevano le considerazioni che seguono.
60. Le ferite al cranio erano gravissime ed avevano causato la morte «in breve tempo». La pallottola non era uscita intera dalla testa di Carlo Giuliani. Dal referto radiologico della tac «total body» effettuata sul cadavere prima dell’autopsia risultava infatti che al di sopra delle ossa della parte occipitale si trovava un «frammento sottocutaneo probabilmente di natura metallica». Dall’aspetto, quel pezzo di metallo opaco sembrava essere un frammento di camiciatura. Quanto al foro d’ingresso sul volto, il suo aspetto non si prestava ad un’interpretazione univoca. La sua forma irregolare si spiegava infatti in primo luogo con la tipologia dei tessuti della zona del corpo raggiunta dalla pallottola. Era tuttavia possibile avanzare l’ipotesi che la pallottola non avesse colpito direttamente Carlo Giuliani, ma avesse incontrato un oggetto intermedio, capace di deformarla e rallentarla, prima di raggiungere il corpo della vittima. Tale ipotesi avrebbe spiegato le dimensioni ridotte del foro di uscita e il frammentarsi della pallottola all’interno della testa di Carlo Giuliani.
61. I periti avevano rinvenuto un piccolo frammento metallico di piombo, proveniente verosimilmente dalla pallottola. Si era staccato dal passamontagna di Carlo Giuliani quando questo era stato maneggiato. Impossibile stabilire se esso provenisse dalla parte anteriore, laterale o posteriore del passamontagna. Su tale frammento metallico vi erano tracce di una materia che non apparteneva al proiettile in quanto tale, ma proveniva da un materiale utilizzato nell’edilizia. Inoltre, erano stati rinvenuti microframmenti di piombo nella parte anteriore e in quella posteriore del passamontagna. Ciò sembrava confermare l’ipotesi secondo la quale la pallottola aveva perduto parte della sua camiciatura al momento dell’impatto. Impossibile stabilire la natura dell’«oggetto intermedio» che sarebbe stato toccato dalla pallottola, ma si poteva escludere che si trattasse dell’estintore che Carlo Giuliani sollevava con le braccia. La distanza di tiro era stata superiore a 50-100 centimetri.
62. Per ricostruire i fatti nel quadro della «teoria dell’oggetto intermedio», i periti avevano proceduto poi a prove di sparo e a simulazioni video e al computer. Avevano concluso che non era possibile stabilire la traiettoria della pallottola perché la collisione l’aveva certamente modificata. Basandosi su una sequenza video dei fatti in cui una pietra si disintegrava in aria e sulla detonazione percepita nel nastro sonoro, i periti ritenevano che la pietra fosse esplosa subito dopo lo sparo. Una simulazione al computer mostrava la pallottola, sparata verso l’alto, che colpiva Carlo Giuliani dopo essersi scontrata con quella pietra, lanciata da un altro manifestante contro la jeep. I periti ritenevano che la distanza tra Carlo Giuliani e la jeep fosse stata di circa 1,75 metri e che, al momento dello sparo, M.P. avesse potuto vedere Carlo Giuliani.

6. Le indagini condotte dai ricorrenti

63. I ricorrenti depositarono una dichiarazione resa dinanzi al loro avvocato da J.M., un manifestante, il 19 febbraio 2002. Questi aveva dichiarato in particolare che Carlo Giuliani era ancora vivo dopo il passaggio della jeep sul suo corpo. I ricorrenti produssero anche la dichiarazione di un carabiniere (V.M.) che riferiva di una prassi, secondo lui diffusa all’interno delle forze dell’ordine, consistente nel modificare i proiettili del tipo utilizzato da M.P. al fine di aumentarne la capacità di espansione e quindi di frammentazione.
64. I ricorrenti depositarono infine due rapporti redatti da periti di loro fiducia. Secondo uno di loro, il dott. Gentile, la pallottola era già frammentata nell’istante in cui aveva raggiunto la vittima. La frammentazione della pallottola poteva spiegarsi con un difetto di fabbricazione o con una manipolazione del proiettile finalizzata ad aumentarne la capacità di frammentazione. Stando al perito, quelle due ipotesi si verificavano tuttavia raramente e, quindi, erano meno probabili di quella avanzata dai periti del pubblico ministero (vale a dire che la pallottola avesse urtato un oggetto intermedio).
65. Secondo gli altri periti incaricati dai ricorrenti di ricostruire lo svolgimento dei fatti, la pietra si era frammentata in seguito alla collisione non con la pallottola sparata da M.P, ma con la jeep. Per poter ricostruire i fatti a partire dal materiale audiovisivo, ed in particolare dalle foto, bisognava per forza stabilire la posizione esatta del fotografo, soprattutto il suo angolo di visione, tenendo conto anche del tipo di materiale utilizzato. Inoltre, occorreva mettere in relazione, da un lato, le immagini e il tempo e, dall’altro, le immagini e il suono. I periti dei ricorrenti contestavano il metodo dei periti del pubblico ministero, i quali si erano basati su una «simulazione video e al computer» e non avevano esaminato le immagini disponibili con rigore e precisione. Anche il metodo seguito in occasione delle prove di sparo aveva formato oggetto di critiche.
66. I periti dei ricorrenti concludevano che, al momento dello sparo, Carlo Giuliani si trovava a circa tre metri dalla jeep. Non si poteva negare che la pallottola fosse frammentata quando aveva raggiunto la vittima; tuttavia, era da escludere un impatto con la pietra che appariva nel video: una pietra avrebbe deformato la pallottola in modo diverso ed avrebbe lasciato un altro tipo di traccia sul corpo di Carlo Giuliani. Inoltre, M.P. non aveva sparato verso l’alto.
D. La richiesta di archiviazione e l’opposizione dei ricorrenti
1. La richiesta di archiviazione
67. All’esito dell’inchiesta interna, la procura di Genova decise di chiedere l’archiviazione delle accuse elevate contro M.P. e F.C. Preliminarmente, il pubblico ministero osservava che l’organizzazione delle operazioni di mantenimento e ristabilimento dell’ordine pubblico era stata modificata profondamente la notte tra il 19 e il 20 luglio 2001 e riteneva che ciò spiegasse una parte delle disfunzioni verificatesi il 20 luglio. Tuttavia, non enumerava le modifiche e le disfunzioni che ne erano derivate.
68. Il pubblico ministero notava poi che le versioni dei fatti fornite da Lauro e Cappello divergevano su un punto preciso: il primo affermava che la decisione di postare le forze dell’ordine in via Caffa per bloccare i manifestanti era stata presa di comune accordo, mentre il secondo sosteneva che era una decisione unilaterale di Lauro, presa nonostante i rischi connessi al numero ridotto e alla stanchezza degli effettivi.
69. Peraltro, i periti concordavano sui seguenti fatti: la pistola di M.P. aveva sparato due pallottole, la prima delle quali aveva colpito mortalmente Carlo Giuliani; la pallottola in questione non si era frammentata unicamente a causa dell’impatto con la vittima; la fotografia raffigurante Carlo Giuliani con in mano l’estintore era stata scattata mentre egli si trovava a circa tre metri dalla jeep.
70. Le opinioni dei periti divergevano invece sui seguenti punti:
a) nell’istante in cui era stato colpito, Carlo Giuliani era a 1,75 metri dalla jeep secondo i periti del pubblico ministero, ma a circa 3 metri per i periti della famiglia Giuliani;
b) per i periti della famiglia Giuliani, lo sparo era partito prima che si potesse vedere la pietra nel video, mentre i periti del pubblico ministero pensavano il contrario.
71. Le parti concordavano nell’affermare che la pallottola era già frammentata quando aveva colpito la vittima. Il pubblico ministero ne deduceva quindi che le parti concordavano anche sulle cause di tale frammentazione e che i ricorrenti aderivano alla «teoria dell’oggetto intermedio». Le altre ipotesi avanzate dai ricorrenti per spiegare la frammentazione della pallottola – quali la manipolazione o il difetto di fabbricazione del proiettile – erano considerate dai ricorrenti stessi molto più improbabili. Pertanto, secondo il pubblico ministero, tali ipotesi non potevano fornire una valida spiegazione.
72. L’inchiesta era stata lunga, in particolare a causa dei ritardi accusati da alcuni periti, della «superficialità» del rapporto dell’autopsia e degli errori commessi dal dott. Cantarella, uno dei periti. Essa aveva comunque consentito di affrontare ed approfondire ogni questione pertinente e di concludere che l’ipotesi della pallottola sparata verso l’alto e deviata da una pietra era «la più convincente». Gli elementi del fascicolo non permettevano invece di stabilire se M.P. avesse sparato con la sola intenzione di disperdere i manifestanti o assumendosi il rischio di ferirne od ucciderne uno o più. Tre le ipotesi, delle quali «nessuna troverà [avrebbe trovato] mai conferma»:
- si trattava di spari intimidatori e quindi di omicidio colposo;
- M.P. aveva sparato per fermare l’aggressione e si era assunto il rischio di uccidere, nel qual caso vi era stato omicidio volontario;
- M.P. aveva mirato a Carlo Giuliani, si trattava quindi di omicidio volontario.
Secondo il pubblico ministero, gli elementi del fascicolo consentivano di escludere la terza ipotesi.
73. Il pubblico ministero affermava poi che la collisione tra la pietra e la pallottola non era tale da interrompere il nesso di causalità tra il comportamento di M.P. e il decesso di Carlo Giuliani. Il nesso di causalità sussisteva, quindi si trattava di sapere se M.P. avesse agito per legittima difesa.
74. Era accertato che l’integrità fisica degli occupanti della jeep era a rischio e che M.P. aveva «risposto» in situazione di pericolo. Occorreva valutare quella risposta, tanto dal punto di vista della necessità quanto da quello della proporzionalità, «aspetto quest’ultimo di certo il più delicato».
75. Stando al pubblico ministero, M.P. non aveva avuto alternative e non ci si poteva aspettare da lui un comportamento diverso: «la jeep era accerchiata dai manifestanti [e] l’aggressione fisica nei confronti degli occupanti evidente e virulenta». La sensazione di M.P. di essere in pericolo di vita era giustificata. La pistola era uno strumento capace di far cessare l’aggressione e alcuna critica poteva essere mossa a M.P. per l’equipaggiamento che aveva in dotazione. Non si poteva pretendere che M.P. si astenesse dall’utilizzare la sua arma e subisse un’aggressione tale da minacciare la sua integrità fisica. Queste considerazioni giustificavano l’archiviazione del procedimento.

2. L’opposizione dei ricorrenti
76. Il 10 dicembre 2002, i ricorrenti fecero opposizione alla richiesta di archiviazione del pubblico ministero. Basandosi sul fatto che lo stesso pubblico ministero aveva ammesso che l’inchiesta era stata caratterizzata da errori e da domande rimaste senza risposte certe, essi sostenevano che la ricerca della verità rendesse indispensabile un dibattimento in contraddittorio. A loro avviso, non si poteva affermare al tempo stesso che M.P. aveva sparato in aria e che aveva agito per legittima difesa; egli aveva infatti dichiarato di non avere visto Carlo Giuliani al momento dello sparo.
77. I ricorrenti facevano poi notare che la tesi dell’oggetto intermedio, da essi contestata, era stata formulata un anno dopo i fatti e si basava su una mera ipotesi non corroborata da elementi oggettivi. Potevano essere avanzate altre spiegazioni.
78. Inoltre i ricorrenti facevano osservare che, stando agli atti, Carlo Giuliani era ancora vivo dopo il passaggio della jeep sul suo corpo. Sottolineavano che l’autopsia, che aveva concluso per l’assenza di lesioni apprezzabili provocate dai passaggi della jeep, era stata definita superficiale dal pubblico ministero e criticavano la scelta di affidare ai carabinieri diversi atti d’inchiesta.
79. Ne conseguiva che M.P. e F.C. avrebbero dovuto essere rinviati a giudizio. In via sussidiaria, i ricorrenti chiedevano che fossero compiuti ulteriori atti d’inchiesta, in particolare:

  1.     una perizia volta a stabilire le cause e il momento del decesso di Carlo Giuliani, in particolare per sapere se questi fosse ancora vivo durante e dopo il passaggio della jeep;
  2.     un’audizione del capo della polizia, dott. De Gennaro, e del carabiniere Zappia, per sapere quali direttive fossero state impartite in merito al porto dell’arma sulla coscia;
  3.     la ricerca e l’identificazione dell’autore del lancio della pietra che aveva deviato la pallottola;
  4.     una seconda audizione dei manifestanti presentatisi spontaneamente;
  5.     l’audizione del carabiniere V.M., che aveva riferito della prassi consistente nell’incidere la punta dei proiettili (precedente paragrafo 63);
  6.     una perizia sui bossoli rinvenuti e sulle armi di tutti gli agenti di polizia presenti in piazza Alimonda al momento dei fatti.

3. L’udienza dinanzi al GIP80. L’udienza dinanzi al giudice per le indagini preliminari ebbe luogo il 17 aprile 2003. I ricorrenti confermarono la tesi secondo cui il proiettile mortale non era stato deviato ed aveva raggiunto direttamente la vittima. Essi ammettevano tuttavia che non vi erano prove che M.P. avesse modificato il proiettile per aumentarne la prestazione; si trattava di una semplice ipotesi.
81. Il procuratore dichiarò di avere l’impressione che «su alcune questioni, sulle quali [egli] aveva creduto vi fosse accordo, non vi era alcun accordo e vi erano invece delle divergenze». Egli ricordò che il perito dei ricorrenti, il sig. Gentile, era d’accordo sul fatto che il proiettile era stato danneggiato prima di raggiungere Carlo Giuliani. Inoltre, aveva riconosciuto che, tra le possibili cause del danno, vi era un impatto con qualcosa oppure un difetto intrinseco del proiettile, e che questa seconda ipotesi era meno probabile della prima.

E. La decisione del giudice per le indagini preliminari

82. Con ordinanza depositata in cancelleria il 5 maggio 2003 il giudice per le indagini preliminari di Genova accolse la richiesta di archiviazione della Procura .

1. L’accertamento dei fatti
83. Il giudice per le indagini preliminari fece riferimento ad un resoconto dei fatti, redatto da un anonimo francese, messo in rete da un sito anarchico (www.anarchy99.net), resoconto che il giudice considerò attendibile vista la congruenza di quanto narrato con il materiale audiovisivo e con le dichiarazioni dei testimoni. Il resoconto in questione descriveva la situazione nella piazza Alimonda e riportava una carica dei manifestanti contro i carabinieri con, in prima linea, coloro che lanciavano tutto quello che trovavano e, in seconda linea, coloro che trasportavano cassonetti e contenitori della spazzatura che potevano servire da barricate mobili. L’atmosfera sulla piazza era descritta come «furiosa», con le forze dell’ordine attaccate da una folla che avanzava, lanciava proiettili e ne recuperava subito altri. I carabinieri, a loro volta, lanciavano lacrimogeni, ma alla fine un contingente fu costretto a retrocedere verso piazza Alimonda, dove una delle due jeep che li accompagnavano si trovò bloccata e circondata dai manifestanti. Armati di spranghe e di altri oggetti, questi ultimi iniziarono picchiare contro la carrozzeria della jeep, di cui fu rotto il vetro posteriore. L’autore del racconto sentì due detonazioni e riuscì a vedere la mano di uno dei due carabinieri all’interno della jeep che teneva un’arma. Quando la jeep si allontanò e si attenuò il rumore, egli scorse il corpo di un giovane gravemente ferito alla testa e steso a terra. L’autore del racconto ha anche descritto la collera di alcuni manifestanti di fronte alla notizia della morte di uno di loro.
84. Il giudice per le indagini preliminari osservò che il racconto del manifestante anonimo concordava con le conclusioni dell’indagine secondo cui, verso le ore 17.00, un gruppo di manifestanti si era attestato in via Caffa, all’incrocio con via Tolemaide, innalzando barricate con cassonetti per la spazzatura, carrelli di supermercati ed altri oggetti. Da tale barricata il gruppo aveva iniziato un fitto lancio di pietre e corpi contundenti all’indirizzo di un contingente dei Carabinieri che, inizialmente posizionato in piazza Alimonda all’angolo con via Caffa, aveva iniziato ad avanzare allo scopo di fermare i manifestanti il cui gruppo era nel frattempo numericamente aumentato. Due jeep, di cui una guidata da F.C. e sulla quale si trovavano M.P. e D.R., avevano raggiunto il contingente dei carabinieri; tuttavia, i manifestanti avevano posto in essere una violenta carica, che aveva costretto il contingente a ritirarsi. Le jeep avevano fatto retromarcia verso la piazza Alimonda, dove una era andata a sbattere contro un cassonetto della spazzatura. Nel volgere di pochi attimi i manifestanti avevano accerchiato il veicolo, colpendolo con ogni mezzo disponibile e lanciando pietre. Come risulta dal materiale audiovisivo versato agli atti, i vetri della jeep erano stati erano stati sfondati con pietre, spranghe e bastoni. L’accanimento dei manifestanti contro la jeep era stato «impressionante»; alcune pietre avevano colpito i carabinieri al volto e alla testa e uno dei manifestanti, il sig. Monai, aveva infilato una lunga trave di legno attraverso uno dei finestrini, cagionando in tal modo a D.R. delle contusioni escoriate in sede scapolare destra.
85. In una delle fotografie si vede M.P. nell’atto di respingere un estintore con il piede; si trattava molto probabilmente dell’oggetto metallico che gli aveva determinato una forte contusione alla gamba. Le fotografie successive mostrano una mano che impugna un’arma al limite superiore della sagoma della ruota di scorta della jeep, mentre un giovane (Carlo Giuliani) si china al suolo e raccoglie un estintore, con ogni probabilità allo scopo di scagliarlo verso il lunotto posteriore della jeep. È in questo momento che dall’interno della jeep sono partiti due spari e il giovane si è accasciato. La jeep ha investito due volte il suo corpo prima di poter lasciare i luoghi.
86. Tutti gli elementi disponibili, ivi comprese le dichiarazioni di M.P. del 20 luglio 2001 (paragrafi 34-36 supra), portavano a pensare che la morte di Carlo Giuliani era stata provocata da uno dei colpi di arma da fuoco sparati da M.P. Il giudice per le indagini preliminari citava quasi integralmente le dichiarazioni in questione, in cui M.P. parlava del suo panico, delle ferite che erano state inferte a lui e a D.R., e del fatto che, nel momento in cui aveva puntato la pistola, non aveva visto nessuno ma aveva percepito la presenza di aggressori a causa del lancio ininterrotto di pietre. Questa versione concordava con le dichiarazioni di D.R. e di F.C., nonché con quelle di altri militari e dei testimoni. Inoltre, dal fascicolo risultava che M.P. aveva delle contusioni e delle ferite alla gamba destra, al braccio e alla sommità del cranio; D.R. riportava delle escoriazioni al viso e delle contusioni alla spalla e al piede; F.C. presentava una sindrome post-traumatica guaribile in quindici giorni (paragrafi 51-53 supra).

2. La teoria dell’«oggetto intermedio»
87. Il GIP prese atto che gli elementi del fascicolo dimostravano che il primo proiettile sparato da M.P. aveva colpito Carlo Giuliani in modo letale. Uscendo dall’osso occipitale del cranio, il proiettile in questione aveva perso un frammento del suo rivestimento, come risultava dalle radiografie fatte prima dell’autopsia. Tali circostanze, nonché le caratteristiche delle ferite di entrate e di uscita, avevano portato i periti della procura a formulare la tesi secondo la quale il proiettile aveva percosso un oggetto prima di colpire Carlo Giuliani. In effetti, la ferita di entrata era molto irregolare e la ferita di uscita aveva delle dimensioni ridotte, come avveniva in caso di dispersione di energia e/o di frammentazione del proiettile.
88. Nel caso di specie, si trattava di un proiettile blindato di calibro 9 mm parabellum, e dunque di grande potenza. Tale potenza la debole resistenza opposta dai tessuti attraversati dal proiettile confermavano la tesi dei periti della procura. Inoltre, nel passamontagna della vittima era stato trovato un «minuscolo frammento di piombo», compatibile con i proiettili di cui M.P. disponeva e sul quale si erano fissate delle particelle di osso, il che faceva pensare che il proiettile aveva perso una parte della sua blindatura prima di raggiungere l’osso.
89. Secondo le simulazioni di sparo, l’oggetto intermedio che ha frammentato il proiettile non poteva essere né l’estintore portato dalla vittima né una delle ossa che il proiettile aveva attraversato; si poteva trattare, invece, di uno dei numerosi sassi lanciati dai manifestanti in direzione della jeep. Ciò sembrava confermato dal filmato che mostra un sasso che si disintegra in aria nello stesso momento in cui si sente una detonazione. La simultaneità del suono e della disintegrazione dell’oggetto portava a ritenere meno convincente la tesi dei periti dei ricorrenti secondo cui il sasso in questione si era frantumato contro il tetto della jeep. Inoltre, il frammento di piombo presente nel passamontagna della vittima riportava delle tracce di materiali utilizzati nell’edilizia. Infine, le prove di sparo mostravano che quando venivano colpiti da un \» in modo simile a quello visibile sul filmato e danneggiavano la blindatura delle cartucce. I test compiuti mostravano che la disintegrazione aveva delle caratteristiche diverse (la produzione di polvere, meno abbondante, era consecutiva e non concomitante alla frammentazione) quando tali oggetti venivano lanciati contro un veicolo.
90. Il secondo colpo sparato da M.P. aveva lasciato una traccia (a 5,30 metri di altezza) sul muro della chiesa di piazza Alimonda. Il primo aveva raggiunto Carlo Giuliani. La traiettoria iniziale di questo sparo non aveva potuto essere stabilita dalla perizia balistica. I periti della procura, tuttavia, avevano considerato il fatto che la jeep era alta 1,96 metri e che il sasso che si vedeva nel filmato si trovava a circa 1,90 m di altezza quando la videocamera l’aveva ripreso. Pertanto, avevano effettuato delle prove di tiro posizionando l’arma a circa 1,30 metri da un sasso sospeso a 1,90 metri dal suolo: ne era risultato che il proiettile era stato deviato verso il basso e aveva raggiunto un «vassoio raccoglitore» (situato a 1,75 metri dall’arma), ad altezze variabili tra 1,10 e 1,80 metri. Questi dati concordavano con le deposizioni di alcuni manifestanti, testimoni oculari dei fatti, secondo le quali Carlo Giuliani si trovava a circa 2 metri dalla jeep quando è stato colpito mortalmente dal proiettile. I periti della procura non disponevano di tali deposizioni al momento in cui avevano svolto il loro compito.
91. Alla luce di quanto precede era opportuno pensare che, conformemente alle conclusioni dei periti della procura, lo sparo era stato esploso verso l’alto, sopra Carlo Giuliani che era alto 1,65 metri. In effetti, il sasso si era disintegrato a 1,90 metri dal suolo.

3. L’angolo visivo di M.P.
92. Era probabile che l’angolo visivo di M.P. fosse stato limitato dalla ruota di scorta della jeep. Tuttavia, era difficile avere delle certezze su questo punto, in quanto il viso di M.P. non compariva in nessuna delle foto versate agli atti, foto che invece mostravano chiaramente la sua mano che impugnava l’arma. Le immagini facevano tuttavia pensare che egli si trovasse almeno in posizione semidistesa o accovacciato al pavimento, come confermavano le dichiarazioni dello stesso M.P., nonché quelle di D.R. e del manifestante Predonzani. Ciò permetteva di concludere che M.P. non aveva potuto vedere le persone che si trovavano nei pressi della portiera posteriore della jeep sotto la ruota di scorta, e che aveva sparato allo scopo di intimidire i manifestanti.

4. La qualificazione giuridica della condotta di M.P.
93. Avendo così ricostruito i fatti, il GIP esaminò la questione della qualificazione giuridica della condotta di M.P. Al riguardo, la procura aveva formulato due ipotesi (paragrafo 72 supra): a) che M.P. avesse sparato più in alto possibile nel solo intento di intimidire gli aggressori, nel cui caso doveva rispondere di omicidio colposo; b) che M.P. avesse sparato senza mirare a nulla o nessuno, con l’intenzione di far cessare l’aggressione, nel cui caso doveva rispondere di omicidio volontario, per «dolo eventuale», poiché aveva accettato il rischio di colpire dei manifestanti.
94. Il GIP ritenne che la prima ipotesi della procura non fosse corretta. In effetti, se M.P. avesse sparato il più in alto possibile, la sua condotta sarebbe stata non punibile ai sensi dell’articolo 53 del codice penale (CP) e, in ogni caso, il nesso di causalità sarebbe stato interrotto da un fattore imprevedibile e incontrollabile, ossia la collisione del proiettile con un oggetto intermedio.
95. Se, invece, si fosse seguita la seconda ipotesi della procura, si doveva stabilire se una causa di giustificazione (ossia l’uso legittimo delle armi e/o la legittima difesa – articoli 53 e 52 del CP, v. paragrafi 142-144 infra) neutralizzava la responsabilità penale e rendeva la condotta di M.P. non punibile.

5. La questione di stabilire se M.P. aveva fatto un uso legittimo delle armi (articolo 53 del CP)
96. Il GIP esaminò anzitutto la questione di stabilire se il ricorso a un’arma era stato necessario. L’articolo 53 del CP (paragrafo 143 infra) attribuiva ai pubblici ufficiali un potere più ampio di quello di cui disponeva ogni persona nell’ambito della legittima difesa; in effetti, questa causa di giustificazione non era subordinata alla condizione della proporzionalità tra minaccia e reazione, ma a quella della «necessità». Anche per i pubblici ufficiali l’uso di un’arma costituiva un rimedio estremo (extrema ratio); tuttavia, il verificarsi di un evento più grave di quello previsto dal pubblico ufficiale non poteva essere posto a carico di quest’ultimo, poiché ciò rientrava nel rischio inerente l’uso delle armi da fuoco. In generale, l’articolo 53 del CP giustificava il ricorso alla forza quando era necessario per contrastare una violenza o una resistenza all’autorità.
97. M.P. si era trovato in una situazione di estrema violenza volta a destabilizzare l’ordine pubblico e riguardante i carabinieri, la cui incolumità fisica era direttamente minacciata. Il GIP citò al riguardo degli estratti delle testimonianze di due aggressori della jeep (Predonzani e Monai) che parlavano, ancora una volta, della violenza con cui l’attacco era stato condotto, e si riferì alle fotografie versate agli atti. La condotta della vittima non si traduceva in un atto di aggressione isolato, ma in una delle fasi di un violento attacco che varie persone avevano condotto contro la jeep, facendola ribaltare e cercando, probabilmente, di aprirne la portiera posteriore.
98. Gli elementi del fascicolo portavano a escludere che M.P. avesse deliberatamente mirato contro Carlo Giuliani; tuttavia, anche a voler supporre che ciò fosse avvenuto, nelle circostanze particolari del caso di specie la sua condotta sarebbe stata giustificata dall’articolo 53 del CP, in quanto era legittimo sparare verso gli aggressori per obbligarli a cessare il loro attacco, cercando allo stesso tempo di limitare i danni, ad esempio evitando di toccare degli organi vitali. In conclusione, l’uso dell’arma da fuoco era giustificato e poteva non essere gravemente pregiudizievole, dal momento che M.P. aveva «sicuramente sparato verso l’alto» e che il proiettile aveva colpito Carlo Giuliani solo perché la sua traiettoria era stata deviata in maniera imprevedibile.

6. La questione di stabilire se M.P. aveva agito in stato di legittima difesa (articolo 52 del CP)
99. Il GIP ritenne poi di dover decidere se M.P. aveva agito per legittima difesa, criterio «più rigoroso» di neutralizzazione della responsabilità. Il giudice considerò che M.P. aveva, a giusto titolo, avuto l’impressione di un pericolo per la propria incolumità fisica e per quella dei suoi compagni, e che tale pericolo era esistito a causa della violenta aggressione contro la jeep perpetrata da una folla di aggressori, e non solo da Carlo Giuliani. Per essere valutata nel suo contesto, la risposta di M.P. doveva essere messa in rapporto con tale aggressione. La tesi della famiglia della vittima, secondo la quale le ferite che M.P. aveva riportato alla testa non erano dovute ai sassi lanciati dai manifestanti ma ad un urto contro la leva interna del lampeggiatore posizionato sul tetto della jeep, non poteva essere presa in considerazione.
100. La risposta di M.P. era stata necessaria, tenuto conto del numero di aggressori, dei mezzi utilizzati, della continuatività degli atti di violenza, delle ferite dei carabinieri presenti nella jeep e della difficoltà per il veicolo di allontanarsi dalla piazza in quanto il motore si spegneva. Tale risposta era stata adeguata, visto il grado di violenza.
101. Se M.P. non avesse estratto l’arma e sparato due volte, l’aggressione non sarebbe cessata, e se l’estintore – che M.P. aveva già respinto una volta con la gamba – fosse stato introdotto nella jeep, avrebbe cagionato gravi lesioni ai suoi occupanti, se non peggio. In materia di proporzionalità tra aggressione e risposta, la Corte di cassazione aveva precisato che bisognava mettere in relazione i beni minacciati e i mezzi a disposizione dell’imputato, e che poteva esservi legittima difesa anche se il danno inflitto all’aggressore era lievemente superiore a quello che l’imputato rischiava di subire (v. sentenza della prima sezione della Corte di cassazione n. 08204 del 13 aprile 1987, Catania). Inoltre, la risposta doveva essere quella che, nelle circostanze del caso di specie, era l’unica possibile, in quanto altre risposte meno pregiudizievoli per l’aggressore non erano idonee a scartare il pericolo (v. sentenza della prima sezione della Corte di cassazione n. 02554 del 1o dicembre 1995, P.M. e Vellino). Quando l’aggredito disponeva di un’arma da fuoco come unico mezzo di difesa, doveva limitarsi a mostrarsi pronto ad utilizzarla o a sparare verso il suolo o in aria, o ancora verso l’aggressore, cercando tuttavia di colpirlo in zone non vitali, al solo scopo di ferirlo, non di ucciderlo (v. sentenza della Corte di cassazione del 20 settembre 1982, Tosani).
102. Nel caso di specie, M.P. disponeva di un solo mezzo per contrastare l’aggressione: la sua arma da fuoco. Ne aveva fatto un uso proporzionato, dal momento che prima di sparare aveva urlato ai manifestanti di andarsene affinché questi cambiassero comportamento; poi aveva sparato verso l’alto e il proiettile aveva colpito la vittima per una tragica fatalità. Se avesse voluto essere certo di causare dei danni ai suoi aggressori, avrebbe sparato attraverso i finestrini laterali della jeep, accanto ai quali si trovavano numerosi manifestanti. Di conseguenza, aveva agito in stato di legittima difesa. Ciò premesso, era poco importante stabilire se M.P. avesse potuto intravvedere Carlo Giuliani (come sostenevano i periti dei ricorrenti e come ritenevano possibile i periti della procura) o se, come era più probabile, non l’aveva visto e aveva sparato nel punto più alto che la sua posizione gli consentiva, accettando il rischio di colpire qualcuno.

7. Le accuse mosse contro F.C.
103. Il GIP ritenne inoltre che gli elementi del fascicolo permettevano di escludere la responsabilità penale di F.C. dato che, come avevano indicato i periti medico-legali, la morte di Carlo Giuliani era stata senza alcun dubbio provocata, nel giro di pochi minuti, dallo sparo. I passaggi della jeep sul corpo della vittima avevano cagionato solo delle contusioni e delle ecchimosi. In ogni caso, tenuto conto della confusione che regnava attorno alla jeep, F.C. non era riuscito né a vedere Carlo Giuliani né ad accorgersi che si era accasciato a terra.

8. Il rigetto delle istanze dei ricorrenti volte a ottenere un’integrazione delle indagini
104. Il GIP rigettò tutte le istanze dei ricorrenti volte a ottenere che fossero compiuti nuovi atti di indagine (paragrafo 79 supra). I motivi di tale rigetto si possono riassumere come segue:

  1. quanto alla perizia medico-legale per determinare se Carlo Giuliani fosse ancora vivo nel momento in cui veniva arrotato dalla jeep (paragrafo 79 a) supra), le verifiche compiute in precedenza a questo riguardo erano state scrupolose; inoltre, la parte lesa aveva avuto l’opportunità di incaricare un perito di sua scelta di assistere all’autopsia, ma non si era avvalsa di tale possibilità, e la salma della vittima era stata cremata appena tre giorni dopo la sua morte, il che aveva reso impossibile ogni ulteriore accertamento;
  2. quanto all’audizione del capo della polizia De Gennaro e del sottotenente dei Carabinieri Zappia, in ordine alla regolarità dell’utilizzo di «fondine a coscia» come quella dalla quale MP risulta aver estratto l’arma (paragrafo 79 b) supra), era evidente che le direttive impartite per la gestione dell’ordine pubblico non potevano che essere di ordine generale e non contemplavano istruzioni relativamente ad episodi non prevedibili di attacco diretto alle persone dei militari; inoltre, la posizione in cui M.P. portava la pistola non aveva alcuna rilevanza nel caso di specie, posto che l’interessato avrebbe legittimamente potuto far uso dell’arma dovunque l’avesse portata o altrimenti reperita;
  3. qualsiasi indagine ai fini dell’identificazione della persona che aveva lanciato il sasso che avrebbe deviato la traiettoria del proiettile (paragrafo 79 c) supra) era destinata all’insuccesso, atteso che non era realistico pensare che i manifestanti avessero seguito la traiettoria dei sassi dopo averli lanciati; in ogni caso, sarebbe stato impossibile identificare l’autore del lancio in questione e le sue dichiarazioni sarebbero state comunque irrilevanti a fronte dei risultati tecnici di cui disponeva il GIP;
  4. una nuova audizione dei manifestanti Monai e Predonzani sul comportamento dei militari all’interno della jeep, sul numero di manifestanti che si trovavano vicino al veicolo, sulla persona che, all’interno della jeep, effettivamente impugnava l’arma, sulla posizione di Carlo Giuliani e sul numero di vetri della jeep che erano rotti (paragrafo 79 d) supra), era perfettamente inutile. I testimoni in questione avevano fatto dichiarazioni in epoca molto vicina ai fatti e dunque quando il ricordo era più vivido; tali dichiarazioni contenevano dei particolari estremamente precisi, che avevano trovato riscontro nel materiale video fotografico in atti. Infine, non era rilevante sapere quanti vetri della jeep fossero rotti, posto che era incontestabile che erano rotti alcuni vetri sul lato destro e il lunotto posteriore;
  5. non era necessario procedere all’audizione di D’Auria, che avrebbe dovuto confermare che, contrariamente a quanto aveva fatto capire M.P., in piazza Alimonda non erano state lanciate Molotov, e indicare la distanza alla quale si trovava quando ha scattato la fotografia sulla quale si sono basati i periti della procura per effettuare la ricostruzione balistica. In effetti, la fotografia in questione non aveva costituito che un riferimento per determinare la posizione in cui si trovava Carlo Giuliani; tale posizione è stata calcolata tenendo conto della posizione assunta dalle persone con riferimento ad elementi fissi presenti sul posto. Inoltre, M.P. non aveva mai affermato che fossero state esplose Molotov in piazza Alimonda, ma si era limitato a riferire che temeva che ciò potesse avvenire;
  6. quanto all’audizione del maresciallo Primavera sui tempi di rottura del vetro posteriore del portellone della jeep, le fotografie mostravano chiaramente che ciò era avvenuto ben prima degli spari e che questi ultimi non erano la causa della rottura del vetro; una diversa percezione da parte del testimone di cui i ricorrenti chiedevano l’audizione non sarebbe stata di natura tale da modificare tali conclusioni;
  7. le riprese effettuate in piazza Alimonda da due carabinieri che avevano telecamere sui caschi si trovavano già agli atti;
  8. l’audizione del carabiniere V.M. sui motivi della pratica consistente nell’intagliare la punta dei proiettili (paragrafo 79 e) supra) era senza interesse; non si poteva che prendere atto che tale malcostume era raro, e in ogni caso si disponeva già dei risultati delle perizie balistiche disposte, che si basavano su riscontri oggettivi. Inoltre, nulla indicava nella fattispecie che M.P. avesse seguito la pratica in questione, atteso che gli ulteriori proiettili sequestrati nel caricatore della sua pistola erano risultati perfettamente regolari;
  9. era incontestabile che i danni alla jeep erano stati cagionati dal lancio di pietre ed altri oggetti contundenti; non era dunque necessario disporre una consulenza tecnica sul veicolo in questione;
  10. la consulenza tecnica sui bossoli in sequestro per accertare da quale arma fossero stati sparati (paragrafo 79 f) supra), era un «accertamento privo di concreta rilevanza», poiché non vi era dubbio che il colpo mortale era stato esploso dall’arma di M.P.; ciò veniva confermato dalle dichiarazioni dell’interessato e dai risultati delle consulenze.

9. La decisione di delegare ai carabinieri alcuni atti di indagine
105. Il GIP scartò le critiche degli avvocati dei ricorrenti, secondo le quali era stato inopportuno delegare numerosi atti di indagine ai carabinieri e condurre molte audizioni in presenza di appartenenti all’Arma dei carabinieri. Il giudice osservò che i fatti avvenuti in piazza Alimonda erano stati ricostruiti grazie al materiale video fotografico in atti, e sulla base delle dichiarazioni delle stesse persone che avevano partecipato ai fatti, prendendo in considerazione ogni ipotesi plausibile.
106. Alla luce di quanto sopra esposto, il GIP di Genova ritenne opportuno archiviare il procedimento.

F. L’indagine parlamentare conoscitiva

107. Il 2 agosto 2001 i presidenti del Senato e della Camera dei deputati decisero che un’indagine conoscitiva sui fatti avvenuti in occasione del G8 di Genova sarebbe stata condotta dalle commissioni per gli affari costituzionali delle due camere del Parlamento. A tal fine, fu creata una commissione rappresentativa dei gruppi parlamentari, composta da diciotto deputati e diciotto senatori (la «commissione parlamentare»).
108. L’8 agosto 2001 la commissione parlamentare sentì il comandante generale dell’Arma dei carabinieri. Quest’ultimo dichiarò in particolare che, per spalleggiare i 1.200 militari del comando provinciale, erano stati mandati a Genova 4.673 nuove unità più 375 carabinieri specializzati. Solo il 27% degli uomini presenti a Genova erano carabinieri ausiliari in servizio militare (per le operazioni di mantenimento dell’ordine pubblico tale percentuale si aggirava normalmente intorno al 70 %). Nella maggior parte dei casi questi carabinieri ausiliari avevano effettuato nove o dieci mesi di servizio ed erano stati già impiegati in contesti simili. A partire da aprile 2001, tutti gli effettivi che dovevano intervenire a Genova avevano beneficiato di una formazione in materia di ordine pubblico e di utilizzo del materiale in dotazione. Erano stati organizzati delle esercitazioni collettive e dei seminari; questi ultimi vertevano sull’individuazione delle potenziali minacce e sulla topografia di Genova. Tutti i membri dell’effettivo disponevano di un casco di protezione, scudi, manganelli, maschere a gas e tute ignifughe con protezione per le parti del corpo più esposte. I militari avevano una pistola d’ordinanza e numerosi lancia-lacrimogeni erano stati forniti ai plotoni; inoltre, vi erano 100 veicoli blindati e 226 veicoli con griglie di protezione, a cui si aggiungevano dei veicoli speciali (ad esempio dei veicoli dotati di barriere mobili per rafforzare le barriere fisse di protezione della zona rossa).
109. Da una nota del comando generale dell’Arma dei carabinieri risulta che, in vista del G8, un’aliquota scelta di 928 unità aveva beneficiato di un programma di addestramento a Velletri, che trattava sia argomenti teorici (psicologia della folla e dei gruppi di opposizione, tecniche di mantenimento dell’ordine pubblico, gestione delle situazioni di urgenza) che pratici (attività fisica, utilizzo di mezzi, materiali ed attrezzature, esercitazione finale «con debriefing»). Il resto degli effettivi aveva beneficiato di un corso di tre giorni sulle tecniche da utilizzare nelle operazioni di mantenimento dell’ordine pubblico. Quarantotto ufficiali avevano preso parte a un seminario di informazioni che verteva in particolare sulla topografia della città di Genova.
110. Il 5 settembre 2001 la commissione parlamentare d’inchiesta procedette all’audizione del dott. Lauro, un funzionario della polizia di Roma che aveva partecipato alle operazioni di mantenimento e ripristino dell’ordine pubblico a Genova (paragrafo 34 supra).
111. Il dott. Lauro dichiarò che i carabinieri erano attrezzati di laringofoni, degli strumenti che permettono di comunicare tra loro molto rapidamente. Chiamato a spiegare perché le forze dell’ordine che si trovavano abbastanza vicine alla jeep (a una distanza compresa tra 15 e 20 metri) non fossero intervenute, Lauro rispose che gli uomini erano in servizio dal mattino e avevano avuto vari scontri durante la giornata. Egli aggiunse che non aveva notato, al momento dei fatti, che vi fosse un gruppo di carabinieri e agenti di polizia che sarebbero potuti intervenire.
112. Quanto alla funzione delle due jeep, Lauro spiegò che queste avevano portato dei viveri intorno alle 16.00, che erano ripartite e poi ricomparse dopo circa un’ora per verificare se vi fossero dei feriti. Inoltre, Lauro dichiarò di aver chiamato un’ambulanza per Carlo Giuliani, poiché non vi erano medici sul posto.
113. Il 20 settembre 2001 la commissione parlamentare depositò un rapporto contenente le conclusioni della propria maggioranza all’esito dell’indagine conoscitiva. Tale documento espone le modalità di organizzazione del G8 di Genova, il contesto politico e di protesta che ha caratterizzato l’incontro in questione ed eventi simili nel mondo, e numerosi contatti che hanno avuto luogo tra i rappresentanti delle istituzioni e delle associazioni che fanno parte del Genoa Social Forum al fine di evitare problemi di ordine pubblico e preparare l’accoglienza dei manifestanti. Malgrado tale dialogo, il movimento di protesta non era riuscito a isolare gli elementi violenti, «circa 10.000 persone»; tra queste, bisognava fare una distinzione tra i Black Bloc e i soggetti «parassitari», ossia quelli che approfittavano dei cortei per nascondersi.
114. Diciottomila unità delle forze dell’ordine avevano partecipato alle operazioni, i delegati erano circa 2.000 e i giornalisti accreditati 4.750; i manifestanti erano decine di migliaia (100.000 avevano partecipato alla manifestazione finale). Dei seminari sul coordinamento e la formazione delle forze dell’ordine (con l’intervento di formatori appartenenti alla polizia di Los Angeles) si erano tenuti il 24 aprile e il 18 e 19 giugno 2001). Gli organi interessati avevano fatto – benché con deplorevole ritardo – delle esercitazioni pratiche. L’amministrazione aveva fatto delle ricerche sulle munizioni non letali (tra cui le pallottole di gomma), in particolare attraverso delle missioni di studio presso le polizie straniere. Le autorità erano state informate che dei Black Bloc provenienti da ambienti anarchici italiani e stranieri avrebbero potuto recarsi a Genova. Dopo dei contatti con polizie straniere, si era deciso di sospendere l’applicazione degli accordi di Schengen dal 13 al 21 luglio 2001. A partire dal 14 luglio, erano stati effettuati dei controlli alle frontiere italiane per selezionare l’entrata dei manifestanti e impedire l’accesso di elementi violenti. Nel frattempo, con ordinanza in data 12 luglio 2001, il questore di Genova aveva indicato le zone della città in cui si sarebbero svolti il G8 e le manifestazioni nonché, in maniera analitica, il dispositivo di sicurezza predisposto in ciascun settore.
115. La commissione parlamentare esaminò poi i vari episodi di violenza e i confronti che avevano avuto luogo tra le forze dell’ordine e i manifestanti il 19, 20 e 21 luglio 2001 (in particolare durante una perquisizione in una scuola, definita dalla commissione come «l’esempio forse più significativo di carenze organizzative e di disfunzioni operative»). Per quanto riguarda specificamente la morte di Carlo Giuliani, la commissione osservò che un carabiniere aveva esploso lo sparo mortale mentre la vittima si apprestava a lanciare verso di lui un estintore; tale carabiniere era stato precedentemente colpito alla testa da un altro manifestante. Poiché era in corso un’inchiesta penale, la commissione decise di concentrare la propria analisi sulla «situazione generale che aveva generato il tragico evento», esaminando in particolare il sistema di comunicazione tra i contingenti delle forze dell’ordine, i loro comandanti e i centri operativi, allo scopo di verificare le modalità di coordinamento tra i vari settori. La commissione osservò inoltre che la «causa fondamentale» della perdita di una vita umana era «la violenza cieca esercitata dai gruppi estremisti che mettevano in pericolo la vita dei giovani che si erano immischiati nelle loro attività criminali».
116. Secondo la commissione, nell’insieme il G8 aveva avuto dei risultati positivi. Benché fossero state rilevate delle lacune nel coordinamento delle operazioni, non bisognava dimenticare che le forze dell’ordine si erano confrontate con un numero di soggetti violenti compreso tra 6.000 e 9.000, e non isolati dai manifestanti pacifici (la commissione ricordò in proposito il «doppio gioco» praticato dal Genoa Social Forum). Il rapporto della commissione parlamentare si concludeva come segue:
«La commissione (...) ribadisce che la violenza non è e non deve essere strumento di azione politica e che in un Paese democratico la legalità è un valore fondamentale. Nel contempo sottolinea un richiamo forte all’inviolabilità dei principi costituzionali di libertà di manifestazione del pensiero, di rispetto della persona - anche, forse soprattutto, quando privata della libertà perché in arresto -, nonché della tutela necessaria alla sicurezza dei cittadini e dell’ordine pubblico; auspica che, ove emergano fatti di rilevanza penale o di violazione disciplinare, l’autorità giudiziaria e gli organi amministrativi identifichino i responsabili e ne sanzionino i comportamenti..»
117. Il Governo ha prodotto dinanzi alla Corte i verbali delle audizioni, dinanzi alla commissione parlamentare, del ministro dell’Interno, del direttore generale del dipartimento di pubblica sicurezza e del comandante generale della Guardia di finanza.
118. Il 20 settembre 2001 alcuni parlamentari chiesero al Governo di spiegare per quali motivi le forze dell’ordine spiegate durante le operazioni di mantenimento e ripristino dell’ordine pubblico fossero dotate di munizioni letali e non di pallottole di gomma. I parlamentari in questione raccomandavano l’uso di questo tipo di proiettili, sostenendo che erano stati impiegati a più riprese e con successo in alcuni paesi stranieri.
119. Il rappresentante del Governo rispose che la legislazione non prevedeva questa possibilità e che, del resto, non era accertato che tali munizioni non cagionavano anch’esse dei danni molto gravi alla vittima. Infine, egli spiegò che erano in corso delle ricerche sull’opportunità di introdurre armi letali e non letali.
120. Il 22 giugno 2006 i ricorrenti chiesero alla presidenza del Consiglio dei Ministri e al ministero della Difesa la riparazione dei danni subiti in conseguenza del decesso di Carlo Giuliani. Il Governo ha precisato che si era deciso di non accogliere tale domanda in quanto era stato stabilito nell’ambito di un procedimento penale che M.P. aveva agito per legittima difesa. Per lo stesso motivo, nei confronti di M.P. non fu avviata alcuna azione disciplinare.

G. Le decisioni rese nel «processo dei 25»

1. La sentenza di primo grado
121. Il 13 marzo 2008 il tribunale di Genova pubblicò la motivazione della sentenza adottata il 14 dicembre 2007 all’esito del processo intentato contro venticinque manifestanti per numerosi reati commessi il 20 luglio 2001 (in particolare danneggiamento, furto, devastazione, saccheggiamento, atti di violenza nei confronti di membri delle forze dell’ordine). Nel corso del dibattimento, durante 144 udienze, il tribunale di Genova ebbe modo di procedere all’audizione di numerosi testimoni e di esaminare in dettaglio il copioso materiale audiovisivo.
122. Il tribunale ritenne in particolare che l’attacco dei carabinieri contro il corteo delle Tute Bianche era stato illegale e arbitrario. In effetti, il corteo era stato autorizzato e i manifestanti non avevano commesso atti significativi di violenza nei confronti dei carabinieri. L’attacco di questi ultimi era stato condotto contro centinaia di persone inoffensive e non era stato dato alcun ordine di disperdersi. Anche la carica successiva era stata illegale e arbitraria. Essa non era stata preceduta da un ordine di disperdersi, non era stata ordinata dall’ufficiale competente e non era stata necessaria.
123. Le modalità di intervento erano state anch’esse illegali: i carabinieri avevano lanciato dei dispositivi lacrimogeni ad altezza d’uomo; molti manifestanti presentavano ferite inflitte per mezzo di manganelli non regolari, i mezzi blindati avevano sfondato le barricate e inseguito la folla fino a sopra i marciapiedi, con l’intenzione manifesta di fare male.
124. L’illegalità e l’arbitrarietà delle manovre dei carabinieri giustificavano i comportamenti di resistenza adottati dai manifestanti durante l’uso di gas lacrimogeni, la carica del corteo e i successivi scontri avvenuti nelle vie laterali fino alle 15.30, ossia fino al momento in cui i carabinieri avevano eseguito l’ordine di fermarsi e lasciar passare il corteo. Secondo il tribunale gli imputati si erano trovati in una situazione di «risposta necessaria» di fronte agli atti arbitrari della forza pubblica, ai sensi dell’articolo 4 del decreto legislativo n. 288 del 1944. Tale disposizione recita:
«Non si applicano le disposizioni di cui agli articoli 336, 337, 338, 339, 342 e 343 del codice penale [norme che sanzionano vari atti di resistenza contro la forza pubblica] quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ovvero il pubblico impiegato abbia dato causa al fatto preveduto negli stessi articoli, eccedendo con atti arbitrari i limiti delle sue attribuzioni.»
125. Il tribunale decise di trasmettere il fascicolo alla procura, in quanto le dichiarazioni del sig. Mondelli e di altri due membri delle forze dell’ordine, secondo le quali il loro attacco era stato necessario per rispondere all’aggressione dei manifestanti, non corrispondevano alla realtà.
126. Dopo le 15.30, anche se i manifestanti avevano forse mantenuto la sensazione di essere state vittime di abusi e ingiustizie, il loro comportamento non era più difensivo ma piuttosto dovuto a un desiderio di vendetta e, in quanto tale, ingiustificato e perseguibile.
127. L’attacco ordinato dal funzionario di polizia Lauro, che aveva scatenato i fatti avvenuti nella piazza Alimonda, non era stato né illegale né arbitrario. Pertanto, la violenta reazione dei manifestanti, che aveva portato all’inseguimento dei carabinieri e all’assalto contro la jeep, non poteva essere considerato una reazione di difesa.
128. I carabinieri a bordo della jeep avevano potuto temere di essere oggetto di un tentativo di linciaggio. Il fatto che i manifestanti che li circondavano non disponessero di cocktail Molotov e non fossero dunque in grado di incendiare il veicolo era un elemento valutabile ex post. Gli occupanti della jeep non potevano essere colpevolizzati per aver ceduto al panico.
129. Carlo Giuliani si trovava probabilmente a quattro metri dalla jeep quando era stato abbattuto. M.P. aveva dichiarato che vedeva solo ciò che succedeva nell’abitacolo. Al momento dello sparo, era allungato e aveva i piedi rivolti verso la porta posteriore del veicolo. Aveva preso D.R. su di lui e non vedeva la propria mano: non poteva dire se la sua mano si trovava all’interno o all’esterno dell’abitacolo. In ogni caso, aveva sparato verso l’alto.
130. La sentenza del tribunale cita le dichiarazioni del perito Marco Salvi, che ha effettuato l’autopsia sul corpo di Carlo Giuliani. Questi ha affermato in particolare che la traiettoria rimandava ad uno sparo diretto e che il frammento metallico finito nel corpo della vittima era molto difficile da trovare. In effetti tale frammento, visibile allo scanner (paragrafo 60 supra), «doveva essere molto piccolo»; era stato cercato sezionando «per piani» la massa cerebrale, che tuttavia era danneggiata e inzuppata di sangue; più i periti avevano sezionato, più i tessuti si erano alterati. Dato che non si trattava di un proiettile e che non era utile ai fini degli esami balistici, i periti avevano ritenuto che il frammento in questione fosse un particolare irrilevante e non avevano proseguito le ricerche.

2. La sentenza di appello
131. Ventiquattro degli imputati interposero appello avverso la sentenza di primo grado. Con sentenza in data 9 ottobre 2009, il cui testo fu depositato in cancelleria il 23 dicembre 2009, la corte d’appello di Genova confermò in parte le condanne pronunciate dal tribunale, aumentò alcune pene e dichiarò che alcuni reati erano prescritti.
132. Per quanto riguarda l’attacco dei carabinieri contro il corteo delle Tute Bianche, la corte d’appello aderì sostanzialmente alla tesi del tribunale. Essa osservò che i carabinieri avevano incrociato il corteo, che contava circa 10.000 persone, in conseguenza degli itinerari che erano stati loro indicati dalla centrale operativa. Il fronte del corteo, o «gruppo di contatto», era composto da una ventina di persone, per la maggior parte parlamentari, sindaci, personalità del mondo culturale e giornalisti. Vi erano poi una serie di protezioni in plexiglas, unite tra loro; poi seguiva la «testa del corteo», formata da manifestanti muniti di caschi e di protezioni per le spalle e le braccia. Il corteo non aveva incrociato zone di scontri ma aveva semplicemente marciato per circa due chilometri senza incontrare alcun ostacolo. Le protezioni mostravano che, benché non muniti di oggetti contundenti, i manifestanti erano pronti ad eventuali scontri.
133. In queste circostanze era difficile comprendere perché gli ufficiali Bruno e Mondelli avevano deciso di lanciare un assalto contro il corteo: non avevano ricevuto ordini in tal senso e, invece, erano stati pregati di non incrociarlo; quando la centrale operativa aveva compreso che un assalto era in corso, erano echeggiate delle grida di disapprovazione.
134. I carabinieri erano stati chiamati a intervenire d’urgenza nel carcere di Marassi, dove le forze dell’ordine non riuscivano a far fronte all’assalto dei Black Bloc; pertanto, quando avevano incrociato il corteo, avevano cercato di liberare l’incrocio e il tunnel che intendevano imboccare. Secondo la testimonianza ritenuta «neutra», e dunque attendibile, di un giornalista, dei giovani appartenenti al gruppo dei Black Bloc, arrivati dalla direzione opposta a quella del corteo, avevano lanciato sassi verso i carabinieri; ciò aveva scatenato il lancio delle bombe lacrimogene ordinato dal dott. Bruno. La corte d’appello concluse che anche se la carica dei carabinieri era stata legittima, la situazione in cui erano stati chiamati a intervenire si caratterizzava per la violenza dei Black Bloc, che avevano in precedenza saccheggiato altre parti della città, e per le circostanze che l’incrocio che dovevano attraversare era occupato dalla folla e il tunnel era ingombro di barricate.
135. Il tribunale aveva giustamente definito illegittimi i seguenti comportamenti dei carabinieri:

  1. il lancio di lacrimogeni ad altezza d’uomo;
  2. non aver ordinato la dispersione del corteo, che non aveva turbato l’ordine pubblico e che avrebbe potuto introdursi nella zona rossa solo molto più lontano, all’altezza di piazza Verdi;
  3. l’assalto del corteo autorizzato, pacifico e composto di manifestanti non armati; se i Black Bloc avevano gravemente turbato l’ordine pubblico in altre parti della città, nulla provava che erano «coperti» dal corteo, cioè che si erano nascosti all’interno di esso prima o dopo la perpetrazione di atti di vandalismo.

136. Inoltre, vi erano stati degli atti arbitrari, ossia: l’utilizzo di manganelli non regolari (pezzi di legno o di ferro avvolti con lo scotch, che avevano provocato tagli e sanguinamenti gravi); l’utilizzo di mezzi blindati per fare delle «avanzate» tra i manifestanti, inseguendo ad andatura sostenuta alcuni di essi sui marciapiedi (la corte d’appello osservò che i mezzi blindati non disponevano di freni sufficientemente sicuri e che uno di essi aveva inseguito un manifestante «zigzagando», dando l’impressione di volerlo travolgere); il fatto di infliggere lesioni di una gravità eccessiva e il pestaggio di manifestanti, di giornalisti e del conducente di un’ambulanza.
137. L’assalto, illegittimo ed arbitrario, aveva provocato la reazione dei manifestanti, non punibile tenuto conto della causa giustificativa prevista dall’articolo 4 del decreto legislativo n. 288 del 1944. Tuttavia, quando i carabinieri si erano ritirati e un mezzo blindato era rimasto in panne, il pericolo per i manifestanti era cessato. Pertanto, l’attacco del veicolo e dei suoi occupanti non si traduceva in un atto di difesa ma in un atto di ritorsione. A partire da quel momento le Tute Bianche avevano «riconquistato» il loro diritto di riunione e di manifestazione, e ogni atto di violenza e di vandalismo da parte loro, ivi compreso il danneggiamento del mezzo blindato in questione, era costitutivo di un reato.
138. La corte d’appello sottoscrisse la tesi del tribunale secondo la quale, malgrado la loro reazione violenta, i membri del corteo non erano responsabili del reato di danneggiamento. I danni provocati erano stati poco importanti ed erano derivati dall’uso di oggetti (automobili e cassonetti per i rifiuti) come protezione contro i carabinieri. A differenza dei Black Bloc, le Tute Bianche non erano scese in strada con l’intenzione di recare pregiudizio a beni privati o pubblici che rappresentano il sistema da loro contestato. I danni riguardavano solo la zona piuttosto circoscritta in cui si era prodotta la reazione e, in linea generale, erano cessati quando i carabinieri si erano ritirati. Benché «inquietanti», le protezioni portate dai manifestanti delle prime file non potevano far presumere che essi avessero l’intenzione di commettere degli atti di violenza.

H. Il materiale audiovisivo prodotto dalle parti

139. Nel corso del procedimento dinanzi alla Corte le parti hanno prodotto vari supporti audiovisivi. I CD-Rom prodotti dal Governo e dai ricorrenti rispettivamente il 28 giugno e il 9 luglio 2010 sono stati visionati dai giudici della Grande Camera il 27 settembre 2010 (paragrafo 9 supra). Tali documenti mostrano varie fasi delle manifestazioni che si sono svolte a Genova il 20 luglio 2001, e contengono le immagini degli istanti presedenti e successivi allo sparo che ha provocato la morte di Carlo Giuliani. Essi mostrano anche le violenze perpetrate dai manifestanti (lanci di sassi, cariche contro le forze dell’ordine, atti di vandalismo sulla pubblica via e contro i veicoli della polizia e dei carabinieri), nonché quelle imputabili alle autorità. In alcune sequenze, si vedono dei mezzi blindati della polizia che inseguono ad andatura sostenuta i manifestanti sui marciapiedi, e dei poliziotti che pestano un manifestante che giace a terra. Il CD-Rom prodotto dai ricorrenti contiene anche degli estratti della deposizione del dott. Lauro e di una intervista di M.P., trasmessa da un canale televisivo.

I. I documenti amministrativi prodotti dal Governo

140. Il Governo ha prodotto numerosi documenti amministrativi provenienti dalla direzione della polizia, dal ministero dell’Interno e dalla Camera dei Deputati. I documenti pertinenti per la presente causa menzionano i seguenti elementi:
– il 6 febbraio 2001 il dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno aveva trasmesso a tutti i questori una circolare che ricordava in particolare che il lancio di lacrimogeni doveva essere considerato un «ricorso estremo per far fronte a situazioni di una gravità particolare che non possono essere gestite altrimenti»;
– il dipartimento della pubblica sicurezza del ministero dell’Interno aveva predisposto un «manuale informativo per il personale della polizia di Stato» contenente le linee guida da seguire durante il G8 di Genova;
– il 17 luglio 2001, e dunque prima del G8, il ministro dell’Interno era stato sentito dalla Camera dei deputati «sulla situazione dell’ordine pubblico a Genova»;
– il 23 luglio 2001 lo stesso ministro era stato sentito dal Parlamento in merito ai «gravi incidenti verificatisi a Genova in occasione del summit del G8»;
– il 30 e 31 luglio 2001 il dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno aveva presentato dei rapporti sulla condotta delle forze dell’ordine durante la perquisizione, nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, di una scuola che ospitava dei manifestanti, nonché in un ufficio di polizia in cui erano state condotte le persone fermate; si proponeva di avviare delle azioni disciplinari nei confronti di vari funzionari di polizia e del questore di Genova;
– il 6 agosto 2001 la direzione interregionale della polizia aveva trasmesso al capo della polizia i risultati di un’ispezione amministrativa alla questura di Genova, che indicavano alcuni malfunzionamenti organizzativi durante il G8 e analizzavano tredici «episodi potenzialmente deplorevoli» imputabili alle forze dell’ordine e risultanti dal materiale audiovisivo disponibile; nessuno di tali episodi riguarda l’uso della forza da parte di M.P.
141. Il Governo ha inoltre prodotto una nota del dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno del 4 ottobre 2010, da cui risulta che durante il G8 di Genova sono state impiegate circa 18.000 unità delle forze dell’ordine. In particolare, lo Stato ha inviato 14.102 «unità di rinforzo», tra cui 11.352 «operatori di polizia» (agenti di polizia, carabinieri, agenti della Guardia di finanza, del corpo forestale e della polizia penitenziaria) e 2.750 militari delle forze armate. Tra gli 11.352 operatori di polizia, 128 facevano parte delle unità di elite; 2.510 poliziotti e 1.980 carabinieri appartenevano a «reparti mobili», gruppi che dispongono di personale addestrato e attrezzato specificamente per il mantenimento dell’ordine pubblico. Il dipartimento di pubblica sicurezza ha indicato che a partire da marzo 2001 aveva predisposto un piano di formazione specificamente destinato al personale che doveva partecipare al G8, per una gestione dell’ordine pubblico ispirata ai principi della democrazia e del rispetto dei diritti fondamentali (in tal modo, si ricordava ai destinatari di tali formazioni che il ricorso alla forza era una extrema ratio). Erano stati organizzati anche dei seminari di approfondimento che avevano lo scopo di esaminare le dinamiche di eventi quali il G8.


II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

A. Le «cause di giustificazione»

142. Il codice penale (CP) prevede delle situazioni (le cause di giustificazione o scriminanti) che possono neutralizzare la responsabilità penale e rendere non punibile una condotta prevista dalla legge come reato. Si tratta, tra le altre, dell’uso legittimo delle armi e della legittima difesa.

1. L’uso legittimo delle armi
143. L’articolo 53 del codice penale prevede che non è punibile
«il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’autorità e comunque di impedire la consumazione dei delitti di strage, di naufragio, sommersione, disastro aviatorio, disastro ferroviario, omicidio volontario, rapina a mano armata e sequestro di persona. La legge determina gli altri casi nei quali è autorizzato l’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica.»

2. La legittima difesa
144. L’articolo 52 del codice penale prevede che non è punibile
«chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di una offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa.»

3. L’eccesso colposo
145. Ai sensi dell’articolo 55 del codice penale, in particolare in caso di legittima difesa o di uso legittimo delle armi, quando l’interessato ha ecceduto colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’autorità o imposti dalla necessità, il suo comportamento è punibile come delitto colposo, se il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo.

B. Le disposizioni in materia di pubblica sicurezza

146. Gli articoli 18-24 del Testo Unico delle leggi di pubblica sicurezza del 18 giugno 1931 (n. 773) regolano lo svolgimento delle riunioni pubbliche e degli assembramenti in luoghi pubblici o aperti al pubblico. Quando una riunione di questo tipo può mettere in pericolo l’ordine pubblico o la sicurezza, o quando vengono commessi dei reati, la riunione può essere sciolta. Prima di procedere allo scioglimento di tale riunione, i partecipanti sono invitati a disciogliersi dalle forze dell’ordine. Qualora l’invito rimanga senza effetto, è ordinato il discioglimento con tre distinte formali intimazioni. Qualora le tre intimazioni rimangano anch’esse senza effetto, o non possano essere fatte per rivolta od opposizione, gli ufficiali di pubblica sicurezza o dei carabinieri ordinano che la riunione o l’assembramento siano disciolti con la forza. All’esecuzione di tale ordine provvedono la forza pubblica e la forza armata sotto il comando dei rispettivi capi. Le persone che si rifiutano di obbedire all’ordine di discioglimento sono punite con l’arresto (da un mese a un anno) e con l’ammenda (a 30 a 413 euro).

C. La disciplina dell’uso delle armi

147. Una direttiva del ministero dell’Interno, datata febbraio 2001 e indirizzata ai questori, contiene delle disposizioni generali sull’uso dei dispositivi lacrimogeni e degli sfollagente. L’uso di tale materiale deve essere ordinato espressamente e chiaramente dal responsabile del servizio, previa consultazione con il questore. Il personale deve esserne informato.
148. Inoltre, il decreto del presidente della Repubblica n. 359 del 5 ottobre 1991 stabilisce i «i criteri per la determinazione dell’armamento in dotazione all’amministrazione della pubblica sicurezza e al personale della polizia di Stato». Tale decreto contiene una descrizione delle diverse armi in dotazione (articoli 10-32), operando una distinzione tra «dotazione individuale» e «dotazione di reparto». L’armamento individuale consta di una pistola assegnata ad un agente in dotazione personale per tutta la durata del rapporto di servizio (articolo 3 § 2). L’assegnatario deve custodire l’arma, curarne la manutenzione, applicare sempre e ovunque le misure di sicurezza previste e partecipare alle esercitazioni di tiro organizzate dall’Amministrazione (articolo 6 § 1).
149. Viene precisato (articolo 32) che l’amministrazione «può dotarsi di armi per proiettili narcotizzanti» e che in caso di grave necessità e urgenza, con decreto del ministro dell’Interno, il personale della Polizia di Stato all’uopo addestrato può essere autorizzato ad impiegare armi diverse da quelle in dotazione, che siano state adeguatamente sperimentate e comunque non eccedenti le potenzialità offensive delle armi in dotazione alle forze di polizia (articolo 37). Il decreto sopra menzionato dispone inoltre che
l’armamento in dotazione deve essere adeguato e proporzionato alle esigenze della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, della prevenzione e della repressione dei reati e degli altri compiti istituzionali (articolo 1).

D. I diritti della parte lesa durante le indagini preliminari e dopo una domanda di archiviazione della procura

150. Ai sensi dell’articolo 79 del codice di procedura penale (CPP), la parte lesa può costituirsi parte civile a partire dall’udienza preliminare, ossia l’udienza durante la quale il giudice è chiamato a decidere se l’imputato deve essere rinviato in giudizio. Prima di tale udienza, o nei casi in cui questa non ha luogo in quanto la causa è stata archiviata in uno stadio anteriore, la parte lesa può esercitare alcune facoltà. Le disposizioni pertinenti del CPP recitano:
Articolo 90
«La persona offesa dal reato, oltre ad esercitare i diritti e le facoltà ad essa espressamente riconosciuti dalla legge in ogni stato e grado del procedimento, può presentare memorie e, con esclusione del giudizio di cassazione, indicare elementi di prova.»
Articolo 101
«La persona offesa dal reato, per l’esercizio dei diritti e delle facoltà ad essa attribuiti, può nominare un difensore (...)»
Articolo 359 c. 1
«Il pubblico ministero, quando procede ad accertamenti tecnici (...) per cui sono necessarie specifiche competenze, può nominare ed avvalersi di consulenti, che non possono rifiutare la loro opera.»
Articolo 360
«Quando gli accertamenti previsti all’articolo 359 riguardano persone, cose o luoghi il cui stato è soggetto a modificazione, il pubblico ministero avvisa, senza ritardo, la persona sottoposta alle indagini, la persona offesa dal reato e i difensori del giorno, dell’ora e del luogo fissati per il conferimento dell’incarico e della facoltà di nominare consulenti tecnici.
(...)
3. I difensori nonché i consulenti tecnici eventualmente nominati hanno diritto di assistere al conferimento dell’incarico, di partecipare agli accertamenti e di formulare osservazioni e riserve.»
Articolo 392
«1. Nel corso delle indagini preliminari il pubblico ministero e la persona sottoposta alle indagini possono chiedere al giudice che si proceda con incidente probatorio (...).
2. Il pubblico ministero e la persona sottoposta alle indagini possono altresì chiedere una perizia che, se fosse disposta nel dibattimento, ne potrebbe determinare una sospensione superiore a sessanta giorni.»
Articolo 394
«1. La persona offesa può chiedere al pubblico ministero di promuovere un incidente probatorio.
2. Se non accoglie la richiesta, il pubblico ministero pronuncia decreto motivato e lo fa notificare alla persona offesa.»
151. Il pubblico ministero non può decidere di archiviare una causa, ma unicamente chiedere al GIP di farlo. La parte lesa può opporsi a tale richiesta. Le disposizioni pertinenti del CPP sono le seguenti:
Articolo 409
«1. Fuori dei casi in cui sia stata presentata l’opposizione prevista dall’articolo 410 il giudice, se accoglie la richiesta di archiviazione, pronuncia decreto motivato e restituisce gli atti al pubblico ministero. (...)
2. Se non accoglie la richiesta [di archiviazione], il giudice fissa la data dell’udienza in camera di consiglio e ne fa dare avviso al pubblico ministero, alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa dal reato. Il procedimento si svolge nelle forme previste dall’art. 127. Fino al giorno dell’udienza gli atti restano depositati in cancelleria con facoltà del difensore di estrarne copia.
(...)
4. A seguito dell’udienza, il giudice, se ritiene necessarie ulteriori indagini, le indica con ordinanza al pubblico ministero fissando il termine indispensabile per il compimento di esse.
5. Fuori del caso previsto al comma 4 il giudice, quando non accoglie la richiesta di archiviazione, dispone con ordinanza che, entro dieci giorni, il pubblico ministero formuli l’imputazione. (...)
6. L’ordinanza di archiviazione è ricorribile per cassazione solo nei casi di nullità previsti dall’art. 127 comma 5 [in particolare l’inosservanza delle disposizioni procedurali in materia di udienze in camera di consiglio].»
Articolo 410
«1. Con l’opposizione alla richiesta di archiviazione la persona offesa dal reato chiede la prosecuzione delle indagini preliminari indicando, a pena di inammissibilità, l’oggetto della investigazione suppletiva e i relativi elementi di prova.
2. Se l’opposizione è inammissibile e la notizia di reato è infondata, il giudice dispone l’archiviazione con decreto motivato e restituisce gli atti al pubblico ministero.
(...)»
E. Sepoltura e cremazione
152. L’articolo 116 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, relativo alle indagini sulla morte di una persona per la quale sorge sospetto di reato, dispone:
«Se per la morte di una persona sorge sospetto di reato, il procuratore della Repubblica accerta la causa della morte e, se lo ravvisa necessario, ordina l’autopsia secondo le modalità previste dall’articolo 360 del codice di procedura penale ovvero fa richiesta di incidente probatorio (...)
(...)La sepoltura non può essere eseguita senza l’ordine del procuratore della Repubblica.»
153. L’articolo 79 del decreto del Presidente della Repubblica n. 285 del 10 settembre 1990 prevede che, per la cremazione di un cadavere in caso di morte improvvisa o sospetta, occorre la presentazione del nulla osta dell’autorità giudiziaria.

III. PRINCIPI E DOCUMENTI INTERNAZIONALI PERTINENTI

A. I principi fondamentali ONU sull’uso della forza e delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine

154. Questi principi (i «Principi dell’ONU»), adottati dall’ottavo Congresso delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine e il trattamento dei rei, che si è tenuto a L’Avana (Cuba) dal 27 agosto al 7 settembre 1990, nelle loro parti pertinenti, recitano:
«1. I poteri pubblici e le autorità di polizia adotteranno ed applicheranno delle normative sull’uso della forza e delle armi da fuoco contro le persone da parte delle forze dell’ordine. Nell’elaborazione di tali normative, i governi e i servizi di repressione terranno costantemente presenti le questioni etiche legate all’uso della forza e delle armi da fuoco.
2. I governi e le autorità di polizia predisporranno la più ampia gamma di mezzi possibile e doteranno le forze dell’ordine di vari tipi di armi e munizioni che permetteranno un uso differenziato della forza e delle armi da fuoco. A tal fine, sarebbe opportuno realizzare delle armi non mortali neutralizzanti da utilizzare nelle situazioni appropriate, allo scopo di limitare sempre più il ricorso ai mezzi atti a cagionare la morte o delle ferite. Dovrebbe essere anche possibile, allo stesso scopo, fornire alle forze dell’ordine degli strumenti di difesa come giubbotti antiproiettile, caschi e veicoli blindati affinché sia sempre meno necessario utilizzare armi di qualsiasi tipo.
(...)
9. Le forze dell’ordine non utilizzeranno armi da fuoco contro le persone se non per autodifesa o per difendere altre persone da una minaccia immediata di morte o di grave ferimento, per prevenire il compimento di crimini particolarmente gravi che comportino seria minaccia alla vita, per arrestare persone che rappresentino tali pericoli e resistano alla loro autorità, o per evitarne la fuga, e comunque soltanto quando metodi meno estremi si rivelino insufficienti al raggiungimento di tali obiettivi. In ogni circostanza, l’uso intenzionale e letale di armi da fuoco potrà essere consentito soltanto quando strettamente inevitabile al fine di proteggere la vita.
10. Nelle circostanze previste dal principio n. 9, gli agenti delle forze dell’ordine dovranno identificarsi come tali ed impartire un chiaro avvertimento della loro intenzione di impiegare armi da fuoco, attendendo un tempo sufficiente perché l’avvertimento venga osservato, a meno che far ciò non li ponga inopportunamente a rischio o non dia origine a rischio di morte o di danno grave per altre persone o non sia chiaramente inappropriato o inutile per le circostanze del caso.
11. Una normativa che regola l’uso delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine deve comprendere delle direttive volte a:
a) Specificare le circostanze in cui le forze dell’ordine sono autorizzate a portare armi da fuoco e prescrivere i tipi di armi da fuoco e munizioni autorizzate;
b) Assicurarsi che le armi da fuoco vengano utilizzate solo in circostanze appropriate e in modo da minimizzare il rischio di danni inutili;
c) Vietare l’utilizzo delle armi da fuoco e delle munizioni che provocano ferite inutili o presentano un rischio ingiustificato;
d) Disciplinare il controllo, il deposito e la consegna di armi da fuoco e prevedere in particolare delle procedure conformemente alle quali le forze dell’ordine devono rendere conto di tutte le armi e le munizioni ad esse consegnate;
e) Prevedere che devono essere fatte delle intimazioni, all’occorrenza, in caso di utilizzo di armi da fuoco;
f) Prevedere un sistema di rapporti in caso di utilizzo di armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine nell’esercizio delle loro funzioni.
(...)
18. I poteri pubblici e le autorità di polizia devono assicurarsi che tutte le forze dell’ordine vengano selezionate mediante procedure adeguate, che presentino le qualità morali e i requisiti psicologici e fisici richiesti per il buon esercizio delle loro funzioni e che ricevano una formazione professionale costante e completa. È opportuno verificare periodicamente se essi continuano ad essere idonei all’esercizio di tali funzioni.
19. I poteri pubblici e le autorità di polizia devono assicurarsi che tutte le forze dell’ordine vengano selezionate mediante procedure adeguate, che presentino le qualità morali e i requisiti psicologici e fisici richiesti per il buon esercizio delle loro funzioni e che ricevano una formazione professionale costante e completa. È opportuno verificare periodicamente se essi continuano ad essere idonei all’esercizio di tali funzioni.
20. Per la formazione delle forze dell’ordine i poteri pubblici e le autorità di polizia presteranno particolare attenzione alle questioni di etica di polizia e di rispetto dei diritti dell’uomo, in particolare nell’ambito delle inchieste, e ai mezzi per evitare l’uso della forza o delle armi da fuoco, ivi compresa la risoluzione pacifica dei conflitti, la conoscenza del comportamento delle folle e i metodi di persuasione, di negoziazione e di mediazione, nonché i mezzi tecnici, al fine di limitare l’uso della forza o delle armi da fuoco. Le autorità di polizia dovrebbero rivedere il loro programma di formazione e i loro metodi di azione in occasione di particolari incidenti.
(...)»

B. Il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o dei trattamenti inumani o degradanti (CPT)

155. Nel 2004 il CPT effettuò una visita in Italia. Nelle sue parti pertinenti per la presente causa il rapporto del CPT, reso pubblico il 17 aprile 2006, recita:
«14. Il CPT ha avviato dal 2001 un dialogo con le autorità italiane con riguardo ai fatti che sono avvenuti a Napoli (il 17 marzo 2001) e a Genova (dal 20 al 22 luglio 2001). Le autorità italiane hanno continuato ad informare il Comitato sul seguito riservato alle accuse di maltrattamenti formulate nei confronti delle forze dell’ordine. In questo ambito, le autorità hanno fornito, in occasione della visita, una lista dei procedimenti giudiziari e disciplinari in corso.
Il CPT desidera essere regolarmente informato sull’evoluzione dei procedimenti giudiziari e disciplinari di cui sopra. Inoltre, desidera ricevere informazioni dettagliate sui provvedimenti adottati dalle autorità italiane allo scopo di evitare che si ripetano episodi simili in futuro (ad esempio, a livello della gestione delle operazioni di mantenimento dell’ordine su vasta scala, a livello della formazione del personale, di dirigenza e di esecuzione, e a livello dei sistemi di controllo e di ispezione).
15. Nel suo rapporto sulla visita del 2000, il CPT aveva raccomandato che fossero adottati provvedimenti in materia di formazione dei membri delle forze dell’ordine, più in particolare per quanto riguarda l’integrazione dei principi dei diritti dell’uomo alla formazione pratica – iniziale e continua – alla gestione delle situazioni ad alto rischio, come il fermo e l’interrogatorio di sospetti. Nelle loro risposte, le autorità italiane hanno dato solo risposte di natura generale sulla componente «diritti dell’uomo» della formazione proposta ai membri delle forze dell’ordine. Il CPT spera di ricevere informazioni più dettagliate – e aggiornate – su questa questione (...). »

C. I documenti prodotti dal Comitato contro la tortura (CAT) delle Nazioni Unite

156. Il Governo ha prodotto i documenti che riassumono l’esame, da parte del CAT, dei rapporti sottoposti dagli Stati parte in applicazione dell’articolo 19 della Convenzione dell’ONU conto la tortura e altre pene o trattamenti inumani o degradanti. Una parte del quarto rapporto periodico presentato dall’Italia (datato 4 maggio 2004) è dedicata ai «fatti di Genova» (paragrafi 365-395). Essa riprende essenzialmente alcuni passaggi del rapporto della commissione parlamentare (paragrafi 113-116 supra). Il CAT ha esaminato il quarto rapporto periodico dell’Italia durante le sue 762a e 765a sedute, tenute il 4 e il 7 maggio 2007, e ha adottato, durante le sue 777a e 778a sedute, un documento contenente delle conclusioni e delle raccomandazioni. Nelle sue parti pertinenti per la presente causa, il rapporto del CAT recita:
«Formazione
15. Il Comitato prende atto con apprezzamento delle informazioni dettagliate fornite dallo Stato parte sulla formazione dei suoi agenti delle forze dell’ordine, del personale penitenziario, della polizia di frontiera, delle forze armate. Tuttavia il Comitato si rammarica della mancanza di informazione a proposito della formazione sull’impiego di mezzi non violenti, del controllo della folla e uso della forza e delle armi. In aggiunta il Comitato lamenta la mancanza di informazioni sull’impatto della formazione effettuata agli agenti delle forze dell’ordine e della polizia di frontiera e sul grado di efficacia dei programmi di formazione nel ridurre la commissione di fatti di tortura e maltrattamenti (articolo 10).
Lo Stato Parte dovrebbe ulteriormente sviluppare e attuare programmi di formazione per garantire che:
a) Tutti gli agenti delle forze dell’ordine, guardie di frontiera e personale che lavora nei CPT e nei CPTA siano pienamente informati delle disposizioni della Convenzione, che non saranno tollerate infrazioni, le quali saranno anzi investigate, e che coloro che avranno commesso violazioni saranno perseguiti;
b) Tutti gli agenti delle forze dell’ordine siano adeguatamente attrezzati e formati ad impiegare mezzi non violenti e fare ricorso all’uso della forza e delle armi solo quando strettamente necessario ed in modo proporzionato. A tal fine, le autorità italiane dovrebbero condurre una revisione approfondita delle attuali pratiche di polizia, compreso l’addestramento e l’impiego delle forze dell’ordine nel controllo della folla e regolamenti sull’uso della forza e delle armi da parte degli agenti.
In aggiunta, il Comitato raccomanda che tutto il personale competente riceva un addestramento specifico su come identificare i segni di tortura e di maltrattamento e che il Protocollo di Istanbul del 1999 (Manuale sulla investigazione e documentazione efficaci di tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, inumani o degradanti) diventi parte integrale della formazione dei medici.
Inoltre, lo Stato Parte dovrebbe sviluppare e mettere in atto una metodologia per valutare l’efficacia e l’impatto dei suoi programmi di formazione e di educazione sulla riduzione dei casi di tortura e di maltrattamenti.
(...)
Maltrattamento ed uso eccessivo della forza
17. Il Comitato prende nota con preoccupazione delle continue asserzioni di uso eccessivo della forza e di maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine. A tale riguardo il Comitato è particolarmente preoccupato per le denunce che stanno emergendo su un asserito eccessivo uso della forza e maltrattamenti da parte degli agenti delle forze dell’ordine durante le dimostrazioni di Napoli (marzo 2001) nell’ambito del terzo Global Forum, di Genova (luglio 2001) nell’ambito del Summit del G8 e in Val di Susa (dicembre 2005). Il Comitato è anche preoccupato che tali fatti, come risulta da rapporti, siano accaduti durante incontri di football ma segnala la recente adozione della Legge n. 41/2007, intitolata “Misure urgenti di prevenzione e repressione di episodi di violenza durante gli incontri di calcio” (articoli 12, 13 e 16).
Il Comitato raccomanda che lo Stato Parte dovrebbe adottare misure efficaci per:
a) Far pervenire un messaggio chiaro e non ambiguo a tutti i livelli gerarchici delle forze di polizia e del personale penitenziario, anche attraverso l’introduzione di un codice di condotta per tutti gli agenti, che tortura, violenza e maltrattamenti sono inaccettabili;
b) Accertarsi che coloro i quali segnalano aggressioni da parte delle forze dell’ordine siano protetti da atti di intimidazione e possibili rappresaglie per tali denunce;
c) Garantire che gli agenti delle forze dell’ordine impieghino la forza solo nei casi strettamente necessari e nella misura richiesta dall’espletamento delle proprie funzioni.
In aggiunta, lo Stato Parte dovrebbe informare il Comitato dello stato di avanzamento dei procedimenti giudiziari e disciplinari relativi ai fatti sopra indicati.
18. Il Comitato è preoccupato in merito ad asserzioni circa il fatto che agenti delle forze dell’ordine non indossassero i propri badge identificativi durante le dimostrazioni connesse con il Summit del G8 a Genova nel 2001 rendendo così impossibile la loro identificazione in caso di ricorso per tortura o maltrattamento (articoli 12 e 13).
Lo Stato Parte dovrebbe assicurarsi che tutti gli agenti delle forze dell’ordine in servizio mostrino in modo chiaro i propri badge identificativi per assicurare la propria responsabilità individuale e la protezione contro la tortura, trattamenti o punizioni inumani o degradanti.
Investigazioni rapide ed imparziali
19. Il Comitato è preoccupato per il numero di denunce di maltrattamenti commessi da forze dell’ordine e il limitato numero di investigazioni effettuate dallo Stato Parte in tali casi e l’ancor più limitato numero di condanne nei casi investigati. Il Comitato prende nota con preoccupazione del fatto che il crimine di tortura, che non è contemplato come tale nel Codice Penale italiano, punibile invece in base ad altre disposizioni del Codice Penale, potrebbe in alcuni casi essere soggetto alla previsione di limitazioni. Il Comitato è dell’avviso che atti di tortura non possano essere soggetti a nessuna previsione di limitazioni e apprezza la dichiarazione fatta dalla delegazione dello Stato Parte che si sta considerando una modificazione di tali limitazioni (articoli 1, 4, 12 e 16).
Il Comitato raccomanda che lo Stato Parte dovrebbe:
a) Rafforzare le misure per garantire investigazioni rapide, imparziali ed efficaci sulle denunce di tortura e maltrattamenti perpetrati da agenti delle forze dell’ordine. In particolare, tali investigazioni dovrebbero non essere effettuate da o sotto il controllo della polizia, bensì da parte di un’autorità indipendente. In relazione con casi prima facie di tortura e maltrattamenti, il sospettato dovrebbe di regola essere soggetto a sospensione o trasferimento durante il processo di investigazione specialmente quando esista il rischio che possa impedire l’investigazione stessa;
b) Processare e condannare a pene appropriate i colpevoli in modo da eliminare ogni immunità del personale delle forze dell’ordine colpevole di violazioni proibite dalla Convenzione;
c) Rivedere le norme e disposizioni sulla previsione di limitazioni e allinearle pienamente con gli obblighi derivanti dalla Convenzione in modo che atti di tortura come anche tentativi di commettere atti di tortura perpetrati da parte di qualsiasi persona che possa essere correo o complice di tortura, possano essere investigati, perseguiti e condannati senza limitazioni di tempo.»


IN DIRITTO


I. SULL’ADDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 2 DELLA CONVENZIONE SOTTO IL PROFILO MATERIALE

157. I ricorrenti lamentano che Carlo Giuliani è stato ucciso dalle forze dell’ordine e che le autorità non hanno tutelato la sua vita. Invocano l’articolo 2 della Convenzione, così redatto:
«1. Il diritto di ogni persona alla vita è tutelato dalla legge. La morte non può essere inflitta a nessuno intenzionalmente, se non in esecuzione di una sentenza capitale pronunciata da un tribunale quando il reato sia punito con tale pena dalla legge.
2. La morte non si considera inflitta in violazione di questo articolo quando sia il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario:
a) per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale;
b) per eseguire un arresto regolare o impedire l’evasione di una persona regolarmente detenuta;
c) per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un’insurrezione.»

A. Sulla questione se il ricorso alla forza letale fosse giustificato

158. Innanzitutto, stando ai ricorrenti, nelle particolari circostanze del caso di specie, la forza letale di cui M.P. ha fatto uso non era «assolutamente necessaria» per le finalità di cui al paragrafo 2 dell’articolo 2 della Convenzione. Il Governo si oppone a tale tesi.

1. Argomentazioni delle parti
a) I ricorrenti
159. I ricorrenti rammentano di non avere mai aderito alla «teoria dell’oggetto intermedio». Secondo il loro perito, il dott. Gentile, il proiettile non si era frammentato raggiungendo il corpo della vittima (precedente paragrafo 64). Tuttavia, non disponendo del proiettile e non conoscendo né la forma né le dimensioni dell’«oggetto intermedio», sarebbe stato impossibile formulare un’ipotesi scientifica sul tipo di collisione subita dal proiettile nella sua traiettoria e sostenere che questa era stata deviata. Inoltre, secondo gli altri periti incaricati dai ricorrenti, la pietra si era frammentata contro la jeep, non a causa della pallottola sparata da M.P. (precedente paragrafo 65).
160. Stando ai ricorrenti, gli occupanti della jeep non si trovavano in pericolo di vita: il loro veicolo, una jeep Defender, era sufficientemente robusto, anche in assenza di blindatura. Inoltre, i manifestanti visibili nelle immagini non sarebbero stati più di una dozzina. Essi non avrebbero avuto armi letali e non avrebbero accerchiato la jeep: nessun manifestante si trovava né a sinistra né davanti al veicolo, a giudicare dal materiale audiovisivo disponibile. A bordo della jeep vi sarebbe stato uno scudo, come dimostrerebbero le fotografie. M.P. avrebbe indossato un giubbotto antiproiettile e avrebbe avuto a disposizione due caschi. Infine, altre forze dell’ordine si sarebbero trovate nelle vicinanze e niente proverebbe che le ferite riportate da M.P. e da D.R. siano state inflitte al momento dei fatti.
161. Come sarebbe emerso dall’autopsia (precedente paragrafo 50) e come si sarebbe potuto evincere dalle dichiarazioni dello stesso interessato, M.P. avrebbe sparato dall’alto verso il basso. Al riguardo, i ricorrenti ricordano che, durante l’interrogatorio del 20 luglio 2001 dinanzi ai rappresentanti della procura di Genova, M.P. ha dichiarato di non avere avuto nessuno nel suo campo visivo nell’istante in cui aveva puntato la pistola; egli percepiva le sassaiole e la presenza di aggressori, ma non li vedeva (precedente paragrafo 36). Sarebbe quindi difficile immaginare che M.P. abbia potuto agire per legittima difesa rispetto all’azione di Carlo Giuliani, che non vedeva. Né quest’ultimo né gli altri manifestanti erano armati, quindi, secondo i ricorrenti, la reazione di M.P. non può essere ritenuta proporzionata.
162. Del resto, le dichiarazioni di M.P. sarebbero contraddittorie. Nei primi due interrogatori (del 20 luglio e dell’11 settembre 2001, precedenti paragrafi 36 e 39), egli avrebbe detto di non avere visto Carlo Giuliani e non avrebbe affermato di avere sparato verso l’alto (il che, secondo i ricorrenti, equivale ad ammettere implicitamente di avere sparato ad altezza d’uomo). Tuttavia, all’udienza del 1o giugno 2007 nel «processo dei 25», egli avrebbe dichiarato di avere sparato con il braccio in aria, il che sarebbe contraddetto da una fotografia prodotta dalla difesa, in cui egli è colto nell’atto di puntare l’arma ad altezza d’uomo, in orizzontale e verso il basso. Infine, durante un’intervista trasmessa dalla televisione il 15 novembre 2007, M.P. avrebbe affermato di avere «tentato di sparare il più in alto possibile», di non avere mirato a Carlo Giuliani e di non essere mai stato un buon tiratore. Avrebbe aggiunto di essere stato mandato al G8 di Genova in sostituzione di un collega che non voleva andarci.
163. Infine, secondo i ricorrenti, M.P. non ha dato chiari avvertimenti dell’intenzione di usare l’arma da fuoco e alcune fotografie scattate al momento dei fatti mostrano uno scudo utilizzato come protezione al posto di uno dei vetri rotti della jeep.
b) Il Governo
164. Secondo il Governo, la Corte non sarebbe competente a rimettere in discussione i risultati dell’inchiesta e le conclusioni dei giudici nazionali. Pertanto, la risposta – negativa – all’interrogativo se le autorità nazionali siano venute meno al dovere di tutelare la vita di Carlo Giuliani sarebbe enunciata nella richiesta di archiviazione. Il Governo invoca a sostegno di queste sue affermazioni la decisione Grams c. Germania (n. 33677/96, CEDU 1999-VII) e l’opinione parzialmente dissenziente dei giudici Thomassen e Zagrebelsky allegata alla sentenza Ramsahai ed altri c. Paesi Bassi (n. 52391/99, 10 novembre 2005), e chiede alla Corte di seguire tale approccio.
165. Nel caso di specie, la morte non sarebbe stata inflitta intenzionalmente e non vi sarebbe stato «uso eccessivo della forza». Inoltre, mancherebbe un qualsiasi nesso di causalità tra il colpo sparato da M.P. e il decesso di Carlo Giuliani. Al riguardo, il Governo osserva sì che, nella decisione di archiviazione, il GIP ha applicato gli articoli 52 e 53 del CP, ma ritiene anche che il GIP non abbia per questo trascurato la circostanza eccezionale ed imprevedibile della deviazione dello sparo in seguito alla collisione con una pietra, circostanza che sarebbe stata valutata sul terreno della proporzionalità. Il Governo ne deduce che la decisione di archiviazione ha escluso la responsabilità di M.P. perché il nesso di causalità tra lo sparo e il decesso di Carlo Giuliani era stato interrotto dalla collisione tra la pallottola e la pietra e dalla deviazione della traiettoria dello sparo.
166. Secondo il GIP, M.P. ha agito di sua iniziativa, in preda al panico, in una situazione tale da indurlo ragionevolmente a ritenere la sua vita, o la sua integrità fisica, esposta ad un pericolo grave ed imminente. Inoltre, M.P. non avrebbe mirato a Carlo Giuliani né ad altri. Avrebbe sparato verso l’alto, in una direzione incompatibile con il rischio di colpire qualcuno. Il decesso non sarebbe stato la conseguenza voluta e diretta di un ricorso alla forza, e tale forza non sarebbe stata potenzialmente letale (si vedano, in particolare, Scavuzzo-Hager ed altri c. Svizzera, n. 41773/98, §§ 58 e 60, 7 febbraio 2006, e Kathleen Stewart c. Regno Unito, n. 10044/82, decisione della Commissione del 10 luglio 1984, Decisioni e rapporti (DR) 39).
167. I periti delle due parti sarebbero stati d’accordo nel ritenere che la pallottola era già frammentata prima di colpire la vittima. Le ipotesi sulle cause della frammentazione della pallottola avanzate dai ricorrenti – quali una manipolazione della pallottola al fine di aumentarne la capacità di frammentazione o un difetto di fabbricazione – sarebbero state ritenute dagli stessi ricorrenti «molto più improbabili» (precedenti paragrafi 64, 71 e 81) e non avrebbero potuto fornire una spiegazione valida. L’impossibilità di identificare l’oggetto intermedio sarebbe solo un dettaglio, incapace di incidere in modo decisivo sulle conclusioni dell’inchiesta.
168. A titolo accessorio, il Governo sostiene che il ricorso alla forza letale è stato «assolutamente necessario» e «proporzionato». Esso sottolinea i seguenti elementi: l’ampiezza e il carattere generalizzato della violenza prevalente nell’ambito delle manifestazioni; la forza dell’assalto dei manifestanti contro il contingente dei carabinieri un attimo prima degli atti controversi e il parossismo della violenza raggiunto dagli avvenimenti in quel momento; lo stato personale, fisico e psicologico dei carabinieri coinvolti, soprattutto di M.P.; l’estrema brevità della scena, dall’assalto sferrato al veicolo fino allo sparo mortale; il fatto che M.P. ha sparato solo due colpi e li ha diretti verso l’alto; la probabilità che M.P. non potesse vedere la vittima al momento dello sparo, o che potesse tutt’al più scorgerla indistintamente, al limite del suo campo visivo; le ferite riportate da M.P. e D.R.
169. Secondo il Governo, non è provato che la fotografia in cui la pistola spunta dal lunotto della jeep indichi la posizione dell’arma al momento dei due spari. M.P. avrebbe infatti estratto l’arma almeno qualche secondo prima di sparare; ora, una frazione di secondo sarebbe bastata per spostare la mano di pochi centimetri o per modificare l’angolo di tiro di pochi gradi. La fotografia in questione non fornirebbe quindi la prova della responsabilità di M.P. quanto alla morte di Carlo Giuliani e non contraddirebbe la tesi dell’incidente imprevedibile.
170. Sarebbe stato obiettivamente impossibile, per il pubblico ministero, sapere quali fossero l’atteggiamento psicologico e le precise intenzioni di M.P., stante il suo stato di confusione e di panico al momento dei fatti. L’equipaggiamento di M.P. sarebbe stato costituito dalla tenuta di ordine pubblico, da due caschi muniti di visiera, da uno zaino, da sei grandi ordigni lacrimogeni, da un filtro per maschera antigas, da una pistola Beretta e dal suo caricatore. Il ministero dell’Interno avrebbe affermato che non era possibile sapere se vi fosse stato uno scudo a bordo della jeep.
171. La posizione del veicolo era tale da rendere impossibile la fuga. Pertanto, M.P. non avrebbe avuto altra scelta che sparare. Inoltre, i carabinieri a bordo della jeep non sarebbero stati in grado di chiamare aiuto, a causa del loro stato di panico, delle intenzioni aggressive dei manifestanti e della rapidità dell’azione. Del resto, i soccorsi non sarebbero potuti arrivare in tempo, tenuto conto della distanza e del fatto che le forze dell’ordine dovevano riorganizzarsi ed erano, anch’esse, impegnate in uno scontro con i manifestanti. Il Governo fa riferimento alle immagini audiovisive prodotte dinanzi alla Corte. A suo avviso, esse dimostrano che, se M.P. non avesse usato la pistola, il violento attacco portato da circa 70 manifestanti contro il veicolo delle forze dell’ordine avrebbe condotto al decesso di uno degli occupanti.
172. La richiesta di archiviazione del pubblico ministero avrebbe tenuto conto di tutti questi elementi, nonché del principio del favor rei: la decisione di archiviazione si impone, nel diritto italiano, ogniqualvolta esistano dubbi e appaia impossibile sostenere l’accusa dinanzi al tribunale per l’impossibilità del dibattimento di integrare in modo significativo il materiale probatorio.

2. La sentenza della camera
173. La camera ha concluso che l’uso della forza non era stato sproporzionato. La constatazione si basava, essenzialmente, sull’accettazione del ragionamento seguito dal GIP nella decisione di archiviazione, che la camera ha ritenuto fondata sull’esame dettagliato delle testimonianze raccolte e del materiale fotografico e audiovisivo disponibile. La camera ha aggiunto che, prima di sparare, M.P. aveva impugnato l’arma in modo visibile dall’esterno (paragrafi 214-227 della sentenza della camera).

3. Valutazione della Corte
a) Principi generali
174. La Corte rammenta che l’articolo 2 è uno degli articoli fondamentali della Convenzione e che nessuna deroga ai sensi dell’articolo 15 è ad esso autorizzata in tempo di pace. A guisa dell’articolo 3 della Convenzione, esso sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche che formano il Consiglio d’Europa (si vedano, tra molte altre, Andronicou e Constantinou c. Cipro, 9 ottobre 1997, § 171, Recueil des arrêts et décisions 1997-VI, e Solomou ed altri c. Turchia, n. 36832/97, § 63, 24 giugno 2008).
175. Le eccezioni indicate nel paragrafo 2 mostrano che l’articolo 2 riguarda sì i casi in cui la morte sia stata inflitta intenzionalmente, ma anche che quello non è il suo unico oggetto. Considerato nel suo complesso, il testo dell’articolo 2 dimostra che il paragrafo 2 non indica prima di tutto le situazioni in cui è consentito infliggere intenzionalmente la morte, bensì descrive quelle in cui è possibile fare «ricorso alla forza» e, con ciò, dare involontariamente la morte. Il ricorso alla forza deve tuttavia essersi reso «assolutamente necessario» per raggiungere uno degli obiettivi di cui ai commi a), b) o c) (McCann ed altri c. Regno Unito, 27 settembre 1995, § 148, serie A n. 324, e Solomou ed altri, succitata, § 64).
176. L’uso dei termini «assolutamente necessario» sta a dimostrare che occorre applicare un criterio di necessità più stretto ed imperioso di quello normalmente utilizzato per stabilire se l’intervento dello Stato sia «necessario in una società democratica» ai sensi del paragrafo 2 degli articoli da 8 a 11 della Convenzione. In particolare, la forza utilizzata deve essere strettamente proporzionata agli scopi menzionati nel paragrafo 2 a), b) e c) dell’articolo 2. Per giunta, riconoscendo l’importanza di questa disposizione in una società democratica, la Corte deve farsi un’opinione esaminando con la massima attenzione i casi in cui sia inflitta la morte, in particolare a seguito dell’uso deliberato della forza letale, e prendere in considerazione non solo le azioni degli agenti dello Stato che ad essa hanno fatto ricorso, ma anche il complesso delle circostanze della causa, soprattutto la preparazione e il controllo delle azioni in questione (McCann ed altri, succitata, §§ 147-150, e Andronicou e Constantinou, succitata, § 171; si vedano anche Avşar c. Turchia, n. 25657/94, § 391, CEDU 2001-VII, e Musayev ed altri c. Russia, nn. 57941/00, 58699/00 e 60403/00, § 142, 26 luglio 2007).
177. Le circostanze in cui la privazione della vita può trovare giustificazione devono essere interpretate in modo stretto. L’oggetto e lo scopo della Convenzione quale strumento di tutela dei diritti dei privati cittadini esigono anche che l’articolo 2 sia interpretato ed applicato in modo da rendere le sue garanzie concrete ed effettive (Solompu ed altri, succitata, § 63). In particolare, ad avviso della Corte, l’apertura del fuoco deve, quando sia possibile, essere preceduta da spari di avvertimento (Kallis e Androulla Panayi c. Turchia, n. 45388/99, § 62, 27 ottobre 2009; si veda, in particolare, il principio n. 10 dei Principi dell’ONU, precedente paragrafo 154).
178. L’uso della forza da parte di agenti dello Stato per raggiungere uno degli obiettivi enunciati nel paragrafo 2 dell’articolo 2 della Convenzione può essere giustificato ai sensi di detta disposizione quando sia fondato su un convincimento onesto ritenuto, a giusto titolo, valido all’epoca dei fatti, ma rivelatosi erroneo in seguito. Affermare il contrario significherebbe imporre allo Stato e ai suoi agenti incaricati dell’applicazione delle leggi un onere irrealistico che rischierebbe di essere assolto a prezzo della loro vita e di quella altrui (McCann ed altri, succitata, § 200, e Andronicou e Constantinou, succitata, § 192).
179. Nel decidere se il ricorso alla forza letale sia stato legittimo, la Corte non può, riflettendo nella serenità delle deliberazioni, sostituire la sua valutazione della situazione a quella dell’agente che, nel fuoco dell’azione, ha dovuto reagire a quanto avvertiva in tutta onestà come un pericolo, al fine di salvarsi la vita (Bubbins c. Regno Unito, n. 50196/99, § 139, CEDU 2005-II).
180. La Corte deve evitare anche di assumere il ruolo di giudice del merito competente a valutare i fatti, a meno che ciò non sia reso inevitabile dalle circostanze di una particolare causa (si veda, ad esempio, McKerr c. Regno Unito (dec.), n. 28883/95, 4 aprile 2000). In linea di principio, qualora siano stati condotti procedimenti interni, non spetta alla Corte sostituire la sua versione dei fatti a quella dei giudici nazionali, i quali hanno il compito di accertare i fatti sulla base delle prove da essi raccolte (si veda, tra molte altre, Edwards c. Regno Unito, 16 dicembre 1992, § 34, serie A n. 247-B, e Klaas c. Germania, 22 settembre 1993, § 29, serie A n. 269). Le loro constatazioni non vincolano la Corte, la quale rimane libera di fare le sue valutazioni alla luce di tutti gli elementi a sua disposizione. Nonostante ciò, in genere, essa si discosterà dalle constatazioni di fatto dei giudici nazionali solo se viene in possesso di elementi convincenti a tal fine (Avşar, succitata, § 283, e Barbu Anghelescu c. Romania, n. 46430/99, § 52, 5 ottobre 2004).
181. Per la valutazione degli elementi di fatto, la Corte aderisce al principio della prova «al di là di ogni ragionevole dubbio», ma aggiunge che una tale prova può risultare da un insieme di indizi, o di presunzioni non confutate, sufficientemente gravi, precisi e concordanti; inoltre, può essere preso in considerazione il comportamento tenuto dalle parti durante la ricerca delle prove (Irlanda c. Regno Unito, 18 gennaio 1978, § 161, serie A n. 336, e Orhan c. Turchia, n. 25656/94, § 264, 18 giugno 2002). Del resto, il grado di convincimento necessario per giungere ad una particolare conclusione e, al riguardo, la ripartizione dell’onere della prova sono intrinsecamente legati alla specificità dei fatti, alla natura dell’accusa formulata e al diritto convenzionale in gioco. La Corte è attenta anche alla gravità di una constatazione di violazione di diritti fondamentali da parte di uno Stato contraente (Ribitsch c. Austria, 4 dicembre 1995, § 32, serie A n. 336, Ilaşcu ed altri c. Moldova e Russia [GC], n. 48787/99, § 26, CEDU 2004-VII, Natchova ed altri c. Bulgaria [GC], nn. 43577/98 e 43579/98, § 147, CEDU 2005-VII, e Solomou e altri, succitata, § 66).
182. La Corte deve mostrarsi particolarmente vigile nei casi di addotte violazioni degli articoli 2 e 3 della Convenzione (si veda, mutatis mutandis, Ribitsch, succitata, § 32). Quando tali addotte violazioni abbiano dato luogo a procedimenti penali dinanzi ai giudici interni, occorre tenere presente che la responsabilità penale si differenzia dalla responsabilità dello Stato ai sensi della Convenzione. La Corte è competente unicamente a valutare la seconda. La responsabilità ai sensi della Convenzione deriva dalle disposizioni di questa, le quali devono essere interpretate alla luce dell’oggetto e dello scopo della Convenzione e tenuto conto di ogni norma o principio di diritto internazionale pertinente. Non bisogna confondere la responsabilità di uno Stato in ragione degli atti dei suoi organi, agenti o impiegati e le questioni di diritto interno riguardanti la responsabilità penale individuale, la cui valutazione spetta ai giudici interni. Non rientra tra i compiti della Corte pronunciare verdetti di colpevolezza o di innocenza ai sensi del diritto penale (Tanlı c. Turchia, n. 26129/95, § 111, CEDU 2001-III, e Avşar, succitata, § 284).
b) Applicazione di tali principi al caso di specie
183. La Corte ritiene opportuno iniziare il suo esame dai seguenti fatti, che nessuna delle parti contesta. Nel corso della giornata del 20 luglio 2001 si erano verificati numerosi scontri tra i manifestanti e le forze dell’ordine. In particolare, era stato preso d’assalto il carcere di Marassi (precedente paragrafo 134), i carabinieri avevano caricato il corteo delle Tute Bianche (precedenti paragrafi 18-19, 122-124 e 132-136) e un blindato dei carabinieri era stato incendiato (precedente paragrafo 20). Dopo questi episodi, verso le ore 17.00, in un momento di relativa calma, un battaglione dei carabinieri aveva preso posizione in piazza Alimonda, dove si trovavano due jeep Defender; una di esse ospitava due carabinieri non più in grado di continuare il servizio, M.P. e D.R. (precedenti paragrafi 21, 23 e 29).
184. Poco dopo, i carabinieri abbandonarono la posizione per fronteggiare un gruppo di manifestanti aggressivi; le jeep seguirono i carabinieri. Tuttavia, questi ultimi furono costretti a ripiegare rapidamente in quanto i manifestanti era riusciti a respingere la loro carica; le jeep cercarono allora di allontanarsi a marcia indietro; quella che ospitava M.P. e D.R. rimase bloccata da un cassonetto rovesciato e non poté ripartire rapidamente perché il motore si era spento (precedenti paragrafi 21-22).
185. Peraltro, la presente causa è uno dei rari casi in cui gli istanti precedenti e successivi all’uso della forza letale da parte di un agente dello Stato sono stati fotografati e filmati. La Corte non può quindi esimersi dall’attribuire un peso significativo alle immagini filmate prodotte dalle parti, che ha avuto modo di visionare (precedenti paragrafi 9 e 139) e la cui autenticità non è stata messa in discussione.
186. Ora, da quelle immagini e dalle fotografie acquisite agli atti emerge che, dal preciso istante in cui si ritrovò bloccata dal cassonetto, la jeep guidata da F.C. fu attaccata e almeno parzialmente accerchiata dai manifestanti, i quali si accanirono contro di essa e i suoi occupanti scuotendo il veicolo e lanciando pietre ad altri oggetti contundenti. Il finestrino posteriore della jeep fu sfondato; un estintore fu lanciato all’interno del veicolo, ma M.P. riuscì a respingerlo. Le immagini e le fotografie mostrano anche un manifestante nell’atto di conficcare una trave di legno nel veicolo attraverso il finestrino laterale, il che causò il ferimento ad una spalla di D.R., l’altro carabiniere esonerato dal servizio (precedente paragrafo 84).
187. Si trattava con tutta evidenza di un attacco illegale e violentissimo portato contro un veicolo delle forze dell’ordine che cercava solo di lasciare il posto e non costituiva alcun pericolo per i manifestanti. Quali che fossero le intenzioni dei manifestanti nei confronti del veicolo e/o dei suoi occupanti, la possibilità di un linciaggio non può essere esclusa. Anche il tribunale di Genova lo ha evidenziato (precedente paragrafo 128).
188. Al riguardo, la Corte rammenta che è necessario mettersi nella prospettiva delle vittime dell’aggressione al momento dei fatti (precedente paragrafo 179). Ad esempio, è vero che altri carabinieri era posizionati nelle vicinanze e sarebbero potuti andare in soccorso degli occupanti della jeep se la situazione fosse degenerata ancora. Tuttavia, la circostanza non poteva essere nota a M.P., il quale, ferito e in preda al panico, era disteso nella parte posteriore del veicolo accerchiato da numerosi manifestanti e, quindi, non poteva avere una visione chiara della ripartizione delle forze in campo e delle opzioni logistiche a disposizione delle forze dell’ordine. Come risulta dalle immagini filmate, poco prima degli spari letali la jeep era completamente alla mercé dei manifestanti.
189. Alla luce di quanto precede, e tenuto conto anche dell’estrema violenza dell’attacco contro la jeep quale risulta dalle immagini visionate dalla Corte, essa ritiene che M.P. abbia agito nell’onesta convinzione che la sua vita e la sua integrità fisica, nonché la vita e l’integrità fisica dei colleghi, fossero in pericolo a causa dell’aggressione illegale di cui erano oggetto. Ciò autorizzava M.P. a fare uso di mezzi appropriati per assicurare la sua difesa e quella degli altri occupanti della jeep.
190. Dalle fotografie emerge, ed è stato confermato dalle deposizioni dell’interessato e di alcuni manifestanti (precedenti paragrafi 36, 39 e 45), che prima di sparare M.P. aveva mostrato la pistola tendendo la mano in direzione del finestrino posteriore del veicolo ed aveva urlato ai manifestanti di andarsene se non volevano essere uccisi. Agli occhi della Corte, il comportamento e le parole di M.P. costituiscono un chiaro avvertimento di un’imminente apertura del fuoco. Del resto, nelle fotografie, si può vedere almeno un manifestante allontanarsi rapidamente dal posto in quel preciso momento.
191. In un contesto di estrema tensione, Carlo Giuliani decise di raccogliere un estintore abbandonato a terra e lo portò all’altezza del petto, nell’apparente intento di lanciarlo contro gli occupanti del veicolo. Il suo comportamento poteva ragionevolmente essere interpretato da M.P. nel senso che, malgrado gli avvertimenti verbali e l’esposizione della pistola, l’aggressione contro la jeep non sarebbe cessata né sarebbe stata meno virulenta. Del resto, la stragrande maggioranza dei manifestanti sembrava proseguire l’attacco. L’onesta convinzione di M.P. di essere in pericolo di vita non poteva quindi che risultarne rafforzata. A parere della Corte, ciò giustificava il ricorso ad un mezzo di difesa potenzialmente letale, quale dei colpi d’arma da fuoco.
192. La Corte osserva poi che non è stato possibile stabilire con certezza la direzione degli spari. Secondo una tesi sostenuta dai periti del pubblico ministero (precedenti paragrafi 60-62), contestata dai ricorrenti (precedenti paragrafi 80 e 159), ma accolta dal GIP di Genova (precedenti paragrafi 87-91), M.P. avrebbe sparato verso l’alto e colpito la vittima perché uno dei proiettili sarebbe stato deviato accidentalmente da una delle numerose pietre lanciate dai manifestanti. Se fosse accertato che i fatti si sono svolti così, si dovrebbe concludere che la morte di Carlo Giuliani è dipesa dalla sfortuna, un evento raro ed imprevedibile che ha diretto su di lui una pallottola altrimenti destinata a perdersi in aria (si veda, in particolare, Bakan c. Turchia, n. 50939/99, §§ 52-56, 12 giugno 2007, sentenza in cui la Corte ha escluso qualsiasi violazione dell’articolo 2 della Convenzione constatando che la pallottola letale aveva toccato il familiare dei ricorrenti di rimbalzo).
193. Tuttavia, nel caso di specie la Corte non ritiene necessario approfondire la questione dell’opportunità di prendere in considerazione la «teoria dell’oggetto intermedio», sulla cui fondatezza vi è stata discordanza tra le conclusioni dei periti autori della terza perizia balistica, quelle dei periti dei ricorrenti e quelle del rapporto di autopsia (precedenti paragrafi 60-62, 66 e 50). Essa si limita a rilevare che, come osservato a giusto titolo dal GIP di Genova (precedente paragrafo 92) e come emerge dalle fotografie, il campo visivo di M.P. era limitato dalla ruota di scorta della jeep. Egli era infatti semidisteso o accoccolato sul pavimento del veicolo. Poiché, nonostante gli avvertimenti, i manifestanti persistevano nell’aggressione e il pericolo al quale egli era esposto – in particolare un probabile secondo lancio dell’estintore al suo indirizzo – era imminente, M.P. poteva sparare, per assicurare la sua difesa, solo nell’esiguo spazio esistente tra la ruota di scorta ed il tetto della jeep. Di per sé, la circostanza che uno sparo diretto in quello spazio rischiasse di ferire uno degli aggressori, se non di colpirlo mortalmente, come sfortunatamente è avvenuto, non può indurre a ritenere che l’azione difensiva fosse eccessiva o sproporzionata.
194. Alla luce di quanto precede, la Corte giunge alla conclusione che, nel caso di specie, il ricorso alla forza letale è stato assolutamente necessario «per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale», ai sensi dell’articolo 2 § 2 a) della Convenzione (precedente paragrafo 176).
195. Ne consegue che non vi è stata al riguardo violazione dell’articolo 2 sotto il profilo materiale.
196. Questa conclusione dispensa la Corte dall’accertare se l’uso della forza sia stato reso inevitabile anche «per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un’insurrezione», ai sensi del comma c) del paragrafo 2 dell’articolo 2.

B. Sulla questione se lo Stato convenuto abbia adottato le disposizioni legislative, amministrative e regolamentari necessarie per ridurre al minimo le conseguenze nefaste dell’uso della forza

197. Come avevano fatto dinanzi alla camera, i ricorrenti denunciano anche le lacune del quadro normativo interno. Il Governo si oppone alle loro doglianze. La camera non ha preso in esame tali questioni.

1. Argomentazioni delle parti
a) I ricorrenti
198. I ricorrenti lamentano l’assenza di un quadro legislativo atto a tutelare la vita dei manifestanti. Secondo loro, il diritto interno ha reso inevitabile l’uso dell’arma da fuoco. Lo dimostrerebbe l’archiviazione di ogni accusa per la conformità della condotta di M.P. agli articoli 52 e 53 del CP. Ora, alla luce della giurisprudenza della Corte, un contesto normativo lacunoso abbasserebbe il livello di tutela legale del diritto alla vita richiesto in uno Stato democratico. In particolare, i ricorrenti attirano l’attenzione della Corte sui seguenti punti.
i. L’omissione di equipaggiare le forze dell’ordine con armi non letali
199. I ricorrenti sottolineano che M.P. non avrebbe potuto uccidere se fosse stato munito di un’arma non letale quale una pistola a pallottole di gomma (si vedano Güleç c. Turchia, 27 luglio 1998, § 71, Recueil 1998-IV, e Şimşek ed altri c. Turchia, nn. 35072/97 e 37194/97, § 111, 26 luglio 2005). La preminenza del rispetto della vita umana e l’obbligo di ridurre al minimo i rischi per la vita avrebbero richiesto di dotare le forze dell’ordine di armi non letali (pistole elettriche, fucili a colla, pistole a pallottole di gomma) in occasione di manifestazioni popolari (come avverrebbe nel Regno Unito e come sarebbe avvenuto in occasione del G20 di Pittsburgh). Sul punto, i ricorrenti invocano il principio n. 2 dei Principi dell’ONU (precedente paragrafo 154) e fanno notare che, nel caso di specie, era facile prevedere disordini. La pistola Beretta SB calibro 9 Parabellum a disposizione di M.P. sarebbe una pistola semiautomatica, qualificata come arma da guerra dalla legislazione italiana; una volta armata, essa non avrebbe bisogno di ricarica per i colpi successivi e consentirebbe di sparare quindici colpi consecutivi in pochi secondi, rapidamente e con una buona precisione di tiro.
200. Durante un’inchiesta parlamentare, il Governo avrebbe dichiarato che la legislazione in vigore non prevedeva l’utilizzo di armi non letali, quali le pistole a pallottole di gomma (precedenti paragrafi 118-119). L’affermazione non sarebbe corretta; tali armi sarebbero infatti specificamente previste dalle regole d’ingaggio date al contingente italiano in Iraq, dove esso sarebbe incaricato del mantenimento dell’ordine in zona di guerra.
201. Inoltre, secondo i ricorrenti, anche se, in alcune circostanze, le pallottole di gomma possono rivelarsi pericolose, esse non possono essere paragonate alle pallottole reali (si veda, in particolare, la decisione Kathleen Stewart succitata, § 28). Inoltre, essi affermano che un certo numero di carabinieri ha utilizzato armi non regolamentari, quali sfollagente metallici.
ii. Assenza, nel diritto italiano, di disposizioni adeguate che disciplinino l’utilizzo di armi letali in occasione di manifestazioni popolari
202. I ricorrenti osservano che le disposizioni sull’utilizzo della forza da parte delle forze dell’ordine sono gli articoli 53 del CP e 24 del Testo Unico di pubblica sicurezza (precedenti paragrafi 143 e 146). Tali disposizioni, emanate nel 1930 e 1931, vale a dire nel periodo fascista, non sarebbero compatibili né con le norme internazionali più recenti né con i principi del pensiero giuridico liberale. Esse sarebbero sintomatiche dell’autoritarismo che regnava all’epoca della loro adozione. In particolare, il concetto di «necessità» che legittima l’uso delle armi e quello di «uso della forza» non sarebbero equivalenti ai principi risultanti dalla giurisprudenza di Strasburgo, fondata sull’«assoluta necessità».
203. Inoltre, ai sensi dell’articolo 52 del CP, la legittima difesa si applica quando «la reazione difensiva sia proporzionata all’offesa»; ora ciò non equivarrebbe alle formule «assolutamente inevitabile per tutelare vite umane» e «strettamente proporzionato [alle circostanze]» che figurano nella giurisprudenza della Corte.
204. Del resto, in Italia mancherebbero disposizioni regolamentari chiare e conformi alle norme internazionali in materia di uso delle armi da fuoco. Nessuno degli ordini di servizio del questore di Genova presentati dal Governo regolamentava la questione. I ricorrenti fanno riferimento ai Principi dell’ONU (precedente paragrafo 154) e, in particolare, all’obbligo per le autorità pubbliche e le autorità di polizia di adottare ed applicare disposizioni in materia (principio n. 1). Essi invocano anche il principio n. 11, il quale indica lo specifico contenuto da dare a tali disposizioni.
b) Il Governo
205. Il Governo osserva innanzitutto che il diritto italiano non consente l’utilizzo di pallottole di gomma. Queste ultime potrebbero provocare la morte se sparate da una distanza inferiore a 50 metri (decisione Kathleen Stewart succitata). Nel caso di specie, la distanza tra M.P. e Carlo Giuliani sarebbe stata inferiore ad un metro, il che indurrebbe a ritenere che anche una pallottola di gomma sarebbe stata letale. La sperimentazione delle armi e munizioni «non letali» effettuata negli anni ‘80 sarebbe stata sospesa in seguito ad incidenti che avevano dimostrato la capacità di dette armi e munizioni di provocare la morte o ferite gravissime. Inoltre, le pallottole di gomma avrebbero incoraggiato l’utilizzo delle armi, nell’illusione di non provocare danni.
206. In ogni caso, le armi munite di pallottole reali sarebbero destinate alla difesa personale in caso di pericolo imminente e serio e non sarebbero utilizzate nelle operazioni di mantenimento dell’ordine. In Italia, infatti, le forze di polizia non sparerebbero sulla folla, né con il piombo né con la gomma. Le armi non letali sarebbero concepite per un uso massiccio finalizzato a contrastare un assalto importante di manifestanti o a disperderli. Nel caso di specie, le forze dell’ordine non avrebbero mai ricevuto l’ordine di sparare e il loro equipaggiamento sarebbe stato destinato alla difesa personale.
207. Nessuna specifica disposizione riguardante l’uso delle armi da fuoco sarebbe stata adottata in vista del G8, ma le circolari del Comando generale dei carabinieri avrebbero richiamato le norme del CP.

3. Valutazione della Corte
a) Principi generali
208. L’articolo 2 § 1 costringe lo Stato non solo ad astenersi dal provocare la morte in modo volontario ed irregolare, ma anche a adottare le misure necessarie alla tutela della vita delle persone soggette alla sua giurisdizione (L.C.B. c. Regno Unito, 9 giugno 1998, § 36, Recueil 1998-III, e Osman c. Regno Unito, 28 ottobre 1998, § 115, Recueil 1998-VIII).
209. Il fondamentale dovere di assicurare il diritto alla vita implica in particolare, per lo Stato, l’obbligo di predisporre un quadro giuridico ed amministrativo appropriato che definisca le circostanze limitate in cui i rappresentanti dell’applicazione delle leggi possono fare ricorso alla forza e uso di armi da fuoco, tenuto conto delle norme internazionali in materia (Makaratzis c. Grecia [GC], n. 50385/99, §§ 57-59, CEDU 2004-XI, e Bakan, succitata, § 49; si vedano anche le disposizioni pertinenti dei Prinicipi dell’Onu, precedente paragrafo 154). Conformemente al principio di stretta proporzionalità, inerente all’articolo 2 (precedente paragrafo 176), il quadro giuridico nazionale deve subordinare il ricorso alle armi da fuoco ad un’attenta valutazione della situazione (si veda, mutatis mutandis, Natchova ed altri, succitata, § 96). Inoltre, il diritto nazionale che disciplina le operazioni di polizia deve offrire un sistema di garanzie adeguate ed effettive contro l’arbitrio e l’abuso della forza, e persino contro gli incidenti evitabili (Makaratzis, succitata, § 58).
210. Nell’applicare questi principi, la Corte ha, ad esempio, ritenuto insufficiente il quadro giuridico bulgaro, che consentiva alla polizia di sparare su qualsiasi militare fuggitivo che non si arrendesse subito dopo un’intimazione e uno sparo di avvertimento, senza contenere alcuna chiara garanzia volta ad impedire che la morte fosse inflitta in modo arbitrario (Nachova ed altri, succitata, §§ 99-102), o ancora il quadro normativo turco, adottato nel 1934, che comprendeva un ampio ventaglio di situazioni in cui la polizia poteva utilizzare le armi da fuoco senza che fosse chiamata in causa la sua responsabilità (Erdoğan ed altri c. Turchia, n. 19807/92, §§ 77-78, 25 aprile 2006). In compenso, essa ha ritenuto conforme alla Convenzione un regolamento contenente l’elencazione limitativa delle situazioni in cui ai gendarmi era consentito fare uso delle armi da fuoco e la precisazione che tale uso doveva essere preso in considerazione come ultimo ricorso e che spari di avvertimento dovevano precedere gli spari ad altezza dei piedi e gli spari liberi (Bakan, succitata, § 51).
b) Applicazione di tali principi al caso di specie
211. La Corte osserva che, a giudizio del GIP di Genova, la legittimità del ricorso alla forza da parte di M.P. doveva essere valutata alla luce degli articoli 52 e 53 del CP. Pertanto, ad avviso della Corte, tali disposizioni costituivano, nel caso di specie, il quadro giuridico che definiva le circostanze in cui l’uso delle armi da fuoco era autorizzato.
212. La prima di tali disposizioni prevede la causa giustificativa della legittima difesa, ben nota agli ordinamenti giuridici degli Stati contraenti. Essa menziona la «necessità» della difesa e l’«attualità» del pericolo ed esige un rapporto di proporzionalità tra reazione ed aggressione (precedente paragrafo 144). Anche se i termini utilizzati non sono identici, essa si avvicina al testo dell’articolo 2 della Convenzione e contiene gli elementi richiesti dalla giurisprudenza della Corte.
213. L’articolo 53 del CP è sì caratterizzato da formule più vaghe, ma fa comunque riferimento alla «necessità» di respingere una violenza (precedente paragrafo 143).
214. Da un punto di vista puramente semantico, la «necessità» menzionata dalla legge italiana sembra riguardare la mera esistenza di un bisogno imperioso, mentre la «necessità assoluta» voluta dalla Convenzione impone di scegliere, tra i mezzi disponibili per raggiungere un medesimo scopo, quello che comporta il rischio minore per la vita altrui. Tuttavia, la differenza nel testo della legge è suscettibile di essere colmata dall’interpretazione dei giudici interni. Infatti, come emerge dal decreto di archiviazione, i giudici interni hanno interpretato l’articolo 52 del CP nel senso di autorizzare l’uso della forza letale solo come ultimo ricorso e solo qualora altre risposte meno pregiudizievoli siano inidonee ad allontanare il pericolo (precedente paragrafo 101, recante indicazione dei riferimenti fatti dal GIP di Genova alla giurisprudenza della Corte di cassazione in materia).
215. Ne consegue che le differenze tra le norme enunciate e la locuzione «assolutamente necessario» contenuta nell’articolo 2 § 2 non sono rilevanti al punto da far concludere, per ciò solo, per l’assenza di un appropriato quadro giuridico interno (Perk ed altri c. Turchia, n. 50739/99, § 60, 28 marzo 2006, e Bakan, succitata, § 51; si veda anche, a contrario, Natchova ed altri, succitata, §§ 96-102).
216. I ricorrenti deplorano poi che le forze dell’ordine non abbiano avuto in dotazione armi non letali, in particolare pistole con pallottole di gomma. Tuttavia, la Corte osserva che gli agenti presenti sul posto disponevano, per disperdere e domare la folla, di mezzi non letali, quali i gas lacrimogeni (si veda, a contrario, Güleç, succitata, § 71, e Şimşek, succitata, §§ 108 e 111). In generale, si potrebbe discutere sull’opportunità di fornire alle forze dell’ordine anche altri mezzi di questo tipo, quali cannoni ad acqua e pistole caricate con munizioni non letali. Tuttavia, speculazioni di questo genere non sono pertinenti nel caso di specie; qui la morte è stata inflitta non nell’ambito di un’operazione di dispersione dei manifestanti e di controllo di un corteo, bensì durante un attacco violento e puntuale che, come la Corte ha appena constatato (precedenti paragrafi 185-189), costituiva un pericolo imminente e grave per la vita di tre carabinieri. Ora, la Convenzione, nell’interpretazione che di essa dà la Corte, non può indurre a concludere che alle forze dell’ordine non è consentito di disporre di armi letali per opporsi a simili attacchi.
217. Infine, quanto alla tesi dei ricorrenti secondo la quale un certo numero di carabinieri avrebbe utilizzato armi non regolamentari, quali sfollagente metallici (precedente paragrafo 201), la Corte non vede come questa circostanza potrebbe essere messa in relazione con il decesso di Carlo Giuliani.
218. Ne consegue che non vi è stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione sotto il profilo materiale quanto al quadro legislativo interno che disciplina l’uso della forza letale o quanto alle armi in dotazione alle forze dell’ordine durante il G8 di Genova.
C. Sulla questione se l’organizzazione e la pianificazione delle operazioni di polizia fossero conformi all’obbligo di tutelare la vita derivante dall’articolo 2 della Convenzione
219. Secondo i ricorrenti, la responsabilità dello Stato è impegnata anche in ragione delle lacune nella pianificazione, nell’organizzazione e nella gestione dell’operazione di mantenimento dell’ordine. Il Governo si oppone a questa tesi.

1. Argomentazioni delle parti
a) I ricorrenti
220. Per i ricorrenti, la pianificazione e la conduzione dell’intervento delle forze dell’ordine sono state viziate da lacune, omissioni ed errori. A loro avviso, la vita di Carlo Giuliani avrebbe potuto essere salvata se fossero state adottate misure adeguate. Fanno riferimento, in particolare, alle seguenti circostanze.
i. L’assenza di una chiara catena di comando e di un’adeguata organizzazione delle operazioni
221. I ricorrenti fanno notare che l’organizzazione delle operazioni è stata modificata alla vigilia delle manifestazioni, attribuendo ai carabinieri una funzione dinamica (e non statica, come previsto inizialmente), e il cambiamento è stato comunicato verbalmente ai comandanti la mattina del 20 luglio. Come emergerebbe dalle dichiarazioni rese al «processo dei 25» dal funzionario di polizia Lauro e dall’ufficiale dei carabinieri Zappia, i comandanti non sarebbero stati informati correttamente della decisione di autorizzare il corteo delle Tute Bianche. Inoltre, secondo i ricorrenti, le forze dell’ordine selezionate e dispiegate a Genova non conoscevano la città e le sue strade.
222. Il sistema di comunicazioni scelto avrebbe consentito solo gli scambi tra il centro di comando della polizia e quello dei carabinieri, non i contatti radio diretti tra agenti di polizia e carabinieri. Ad avviso dei ricorrenti, queste disfunzioni sono all’origine della situazione critica in cui M.P. si è visto costretto a fare uso della forza letale. Si tratterebbe di un rapporto di causa a effetto che la camera non ha rilevato. I ricorrenti rammentano, al riguardo, che l’organizzazione e la pianificazione delle operazioni di polizia deve essere tale da evitare ogni arbitrio, ogni abuso della forza ed ogni incidente prevedibile. Fanno riferimento alla giurisprudenza della Corte (Makaratzis, succitata, § 68), al principio n. 24 dei Principi dell’ONU e all’opinione parzialmente dissenziente del giudice Bratza, alla quale ha aderito il giudice Šikuta, allegata alla sentenza della camera.
223. La mancanza di una chiara catena di comando sarebbe all’origine dell’attacco dei carabinieri contro il corteo delle Tute Bianche e del fatto che, qualche ora dopo, le jeep hanno seguito i carabinieri, senza ricevere ordini contrari. M.P., che era stato autorizzato a salire sulla jeep, aveva riportato delle bruciature, dava segni d’intolleranza alla maschera antigas, respirava male, era ferito e in preda al panico. Nonostante fosse stata mandata per trasportare M.P. e D.R. all’ospedale, la jeep non lasciò piazza Alimonda prima della carica dei carabinieri, e i due uomini, sofferenti e in preda alla tensione nervosa, rimasero nella parte posteriore del veicolo.
224. L’inchiesta non avrebbe chiarito i motivi per cui le jeep hanno seguito il plotone quando questo è partito all’assalto di un gruppo di manifestanti. I responsabili Lauro e Cappello avrebbero dichiarato al «processo dei 25» di non essersi accorti che le due jeep li seguivano. Cappello avrebbe inoltre affermato: «la jeep al seguito deve essere blindata, altrimenti è un suicidio». A ciò si aggiungerebbe il fatto che le jeep sono state lasciate senza sorveglianza, il che dimostrerebbe, ancora una volta, la mancanza di organizzazione che ha caratterizzato l’azione delle forze dell’ordine.
ii. Le condizioni fisiche e psichiche di M.P. e la sua mancanza di formazione
225. I ricorrenti sottolineano che, a causa delle sue condizioni fisiche e psichiche, M.P. era stato giudicato dai superiori incapace di proseguire il servizio. Malgrado ciò, egli è stato lasciato in possesso di una pistola caricata con pallottole reali e, invece di essere portato immediatamente in ospedale, è stato autorizzato a salire su una jeep sprovvista di protezione. La situazione in cui si trovava avrebbe impedito a M.P. di valutare correttamente il pericolo a cui era esposto. Se avesse ricevuto una formazione adeguata egli non sarebbe stato preso dal panico e avrebbe avuto la lucidità necessaria per valutare ed affrontare correttamente la situazione. Gli spari sarebbero stati evitati se la jeep fosse stata provvista di griglie metalliche di protezione nella parte posteriore e a livello dei finestrini laterali e se l’interessato non fosse stato privato del lancialacrimogeni, che avrebbe potuto utilizzare per difendersi.
226. Ventenne all’epoca del G8 (precedente paragrafo 35), M.P. era giovane e inesperto. Svolgeva il servizio militare nei carabinieri da soli dieci mesi. Aveva seguito un corso di tre mesi alla scuola degli allievi carabinieri e un corso di una settimana al centro di Velletri, consistente, in sostanza, in un addestramento di guerra (il che sarebbe contrario al principio n. 20 dei Principi dell’ONU). Secondo i ricorrenti, egli non aveva quindi ricevuto un addestramento appropriato in fatto di uso di armi da fuoco e non era stato sottoposto ai controlli necessari per verificare le sue capacità morali, fisiche e psichiche. Dotandolo di un’arma letale in occasione del G8, le autorità avrebbero esposto ad un elevato rischio tanto i manifestanti quanto le forze dell’ordine.
227. La giovane età e la mancanza di esperienza contraddistinguevano anche gli altri due carabinieri presenti a bordo della jeep: D.R. aveva diciannove anni e sei mesi e svolgeva il servizio militare da quattro mesi; F.C., non ancora ventiquattrenne, era in servizio da ventidue mesi.
iii. I criteri di selezione del personale delle forze armate per il G8
228. I ricorrenti sostengono che la compagnia di carabinieri CCIR era comandata da persone esperte in missioni di polizia militare internazionale all’estero, ma prive di esperienza in materia di mantenimento e ristabilimento dell’ordine pubblico. Tale sarebbe stato il caso degli ufficiali Leso, Truglio e Cappello. Al momento dei fatti, non sarebbe stato in vigore nessun regolamento contenente criteri di reclutamento e selezione del personale per le operazioni di mantenimento e ristabilimento dell’ordine pubblico, e il Governo avrebbe omesso di precisare le condizioni minime per l’impiego di un carabiniere durante una manifestazione quale il G8. Ciò sarebbe contrario ai principi nn. 18 e 19 dei Principi dell’ONU. Tre quarti delle truppe impiegate a Genova sarebbero stati composti da carabinieri di leva o da carabinieri ausiliari, il che la dice lunga sulla loro mancanza di esperienza. I ricorrenti rammentano anche le osservazioni formulate dal CPT nel rapporto relativo alla visita in Italia (precedente paragrafo 155).
iv. I fatti successivi agli spari letali
229. Secondo i ricorrenti, vi sarebbe stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione anche a causa del fatto che né le forze dell’ordine presenti in piazza Alimonda e nei dintorni né i carabinieri a bordo della jeep sarebbero andati in soccorso di Carlo Giuliani dopo lo sparo mortale. Al riguardo, essi invocano il principio n. 5 dei Principi dell’ONU. Inoltre, sottolineano che la jeep con a bordo M.P., guidata da un altro carabiniere, è passata due volte sul corpo della vittima, la quale, sebbene raggiunta da una pallottola, era ancora in vita.
b) Il Governo
230. Il Governo osserva che la morte di Carlo Giuliani è stata provocata dall’azione individuale di M.P., la quale non sarebbe stata né ordinata né autorizzata dai superiori. Si tratterebbe quindi di una reazione imprevista ed imprevedibile. Le conclusioni dell’inchiesta consentirebbero di escludere ogni responsabilità dello Stato, compresa quella indiretta per presunte lacune nell’organizzazione e nella gestione delle operazioni di mantenimento e ristabilimento dell’ordine pubblico. Le «disfunzioni» di cui parla il pubblico ministero nella richiesta di archiviazione, dovute in particolare alle modifiche apportate all’organizzazione nella notte precedente i fatti (precedente paragrafo 67), non sarebbero state precisate né accertate.
231. In ogni caso, niente indicherebbe l’esistenza di un errore di valutazione nell’organizzazione ricollegabile all’avvenimento controverso. Nessun nesso di causalità può essere stabilito tra la morte di Carlo Giuliani e l’assalto al corteo delle Tute Bianche, il quale non avrebbe «niente a che fare» con gli avvenimenti di piazza Alimonda. Inoltre, niente consentirebbe di affermare che non bisognava condurre il contingente dei carabinieri verso piazza Alimonda per avere il tempo di riorganizzarlo e dispiegarlo di fronte ai manifestanti.
232. La presente causa si differenzierebbe dalle cause Ergi c. Turchia (28 luglio 1998, Recueil 1998 IV), Oğur c. Turchia ([GC], n. 21594/93, CEDH 1999 III) e Makaratzis (succitata) per la natura necessariamente parziale ed approssimativa della pianificazione delle operazioni nell’ambito del G8; i manifestanti potevano infatti rimanere pacifici o divenire violenti. Secondo il Governo, le autorità non potevano prevedere nel dettaglio cosa sarebbe successo e dovevano garantire, nel loro intervento, una flessibilità difficile da programmare.
233. Anche i principi enunciati nelle sentenze McCann ed altri e Andronicou e Constantinou (succitate) sarebbero non pertinenti nel caso di specie. Essi riguarderebbero infatti un’operazione di polizia con un bersaglio preciso, non una guerriglia urbana di tre giorni in costante evoluzione ed estesa all’intera città. In quest’ultima situazione, una pianificazione preventiva sarebbe impossibile; le decisioni sono infatti prese dai comandanti presenti sul posto in funzione dell’ampiezza delle violenze e dei pericoli.
234. Le manifestazioni di Genova avrebbero dovuto essere pacifiche e svolgersi nella legalità. Stando alle immagini video, una gran parte dei manifestanti sono rimasti nei limiti della legalità e della non violenza. Le autorità avrebbero fatto tutto quanto era in loro potere per evitare, nei limiti del possibile, che elementi perturbatori si mischiassero ai manifestanti e facessero degenerare la manifestazione. Malgrado ciò, si sarebbero verificati diversi episodi criminosi, in diverse parti della città, spesso senza rapporto tra loro. In previsione di un’eventuale escalation della situazione, sarebbero state adottate importanti precauzioni. Tuttavia, nessuna autorità avrebbe potuto - «senza l’assistenza di un indovino» - prevedere esattamente quando, dove e come sarebbe scoppiata la violenza e in quali direzioni si sarebbe propagata.
235. Pur negando l’esistenza di lacune imputabili allo Stato e ricollegabili al decesso di Carlo Giuliani, il Governo attira l’attenzione della Corte sui seguenti punti.
236. La modifica dei piani intervenuta il 19 luglio 2001, in seguito alla quale i carabinieri hanno acquisito una funzione più dinamica, sarebbe stata giustificata dall’evoluzione della situazione e dalla crescente aggressività dei manifestanti.
237. Niente dimostrerebbe che la selezione e la formazione degli effettivi siano state insufficienti. La formazione di M.P., D.R. e F.C. avrebbe compreso un addestramento tecnico di base dispensato al momento del reclutamento e corsi di perfezionamento sul mantenimento dell’ordine pubblico e sull’utilizzo dell’equipaggiamento in dotazione. Inoltre, M.P., D.R. e F.C. avrebbero acquisito un’esperienza significativa in occasione di eventi sportivi o di altro tipo. In vista del G8, il personale impiegato a Genova, compresi i tre carabinieri summenzionati, avrebbe partecipato a sessioni di addestramento a Velletri. In tale occasione, degli istruttori esperti avrebbero approfondito le tecniche di intervento da porre in atto durante operazioni di mantenimento dell’ordine pubblico (precedenti paragrafi 108-109). Inoltre, in ragione dell’elevato numero di agenti (18.000) dispiegati sul campo dallo Stato (precedente paragrafo 141), sarebbe stato irrealistico aspettarsi che ogni agente di polizia o carabiniere appartenesse ad unità d’élite.
238. Secondo il Governo, il sistema di comunicazioni scelto dai carabinieri non ha inciso in alcun modo sugli avvenimenti di piazza Alimonda. Se le jeep non erano blindate (ma semplicemente dotate di griglie metalliche a protezione del parabrezza e dei finestrini laterali anteriori) è perché si trattava di semplici veicoli di supporto logistico, non destinati ad essere operativi nell’ambito del mantenimento dell’ordine. Per questo stesso motivo, nella parte posteriore, i finestrini laterali e il lunotto non erano dotati di griglie. Del resto, i manifestanti erano arrivati ad incendiare addirittura un veicolo interamente blindato (precedente paragrafo 20). Le jeep avevano seguito i carabinieri impegnati a fronteggiare i manifestanti, molto probabilmente su iniziativa dei loro conducenti e allo scopo di evitare di ritrovarsi isolate, quindi di diventare facile preda di manifestanti aggressivi.
239. Per il Governo, M.P. disponeva di una pistola carica perché, anche se la sua attività di lanciare lacrimogeni era terminata, doveva potere proteggere la sua vita in caso di aggressione. Se così non fosse stato, è probabile che sarebbe deceduto il carabiniere, non l’aggressore.
240. Quanto ai motivi del mancato intervento delle forze dell’ordine che si trovavano nelle vicinanze della jeep, il Governo osserva che i carabinieri presenti sul posto avevano appena ripiegato sotto la pressione dei manifestanti e, quindi, avevano bisogno di tempo per riorganizzarsi. Quanto agli agenti di polizia, «presenti ad una distanza relativamente breve, ma non nelle immediate vicinanze», essi sarebbero intervenuti il più rapidamente possibile. L’avvenimento tragico si sarebbe del resto verificato in maniera molto rapida (poche decine di secondi in totale).
241. Inoltre, il Governo fa notare che, stando al rapporto di autopsia, il passaggio del veicolo sul corpo di Carlo Giuliani non avrebbe avuto serie conseguenze per questi (precedente paragrafo 50). I soccorsi sarebbero intervenuti rapidamente sul luogo della tragedia.
242. A parere del Governo, le autorità e le forze dell’ordine non avevano altre possibilità di azione. Anche se l’articolo 2 § 2 c) della Convenzione autorizza ad infliggere la morte per «reprimere una sommossa», i carabinieri si sarebbero limitati a cercare di disperdere i manifestanti violenti senza fare danni e, dopo essersi ritrovati intrappolati, a ritirarsi per evitare di essere accerchiati, situazione che avrebbe potuto avere conseguenze ben più gravi. L’attacco portato alla jeep sarebbe stato la conseguenza della trappola tesa dai manifestanti, non il risultato di una disfunzione. Alla luce di quanto precede, la Corte dovrebbe evitare di far passare il messaggio che lo Stato è responsabile di ogni sommossa all’origine della morte di un essere umano.
2. La sentenza della camera
243. La camera ha preso in esame le lacune denunciate dai ricorrenti, vale a dire il modo di comunicazione scelto dalle autorità, la presunta inadeguatezza della diffusione dell’ordine di servizio del 20 luglio e l’addotta mancanza di coordinamento tra le forze dell’ordine. Essa ha concluso che queste ultime avevano dovuto reagire a episodi di violenza repentini ed imprevedibili e, in assenza di un’inchiesta interna approfondita in materia, non era possibile accertare l’esistenza di nessun legame diretto ed immediato tra le lacune denunciate e la morte di Carlo Giuliani. Infine, ad avviso della camera, i soccorsi erano stati chiamati con sufficiente rapidità e la ferita riportata da Carlo Giuliani era grave (paragrafi 228-244 della sentenza della camera).
3. Valutazione della Corte
a) Principi generali
244. Stando alla giurisprudenza della Corte, in alcune circostanze ben definite, l’articolo 2 può imporre alle autorità l’obbligo positivo di adottare in via preventiva misure di ordine pratico per tutelare l’individuo in pericolo di vita a causa del comportamento criminoso altrui (Mastromatteo c. Italia [GC], n. 37703/97, § 67 in fine, CEDU 2002-VIII, Branko Tomašić ed altri c. Croazia, n. 46598/06, § 50, 15 gennaio 2009, e Opuz c. Turchia, n. 33401/02, § 128, 9 giugno 2009).
245. Tuttavia, non risulta da detta giurisprudenza che tale disposizione sottenda l’obbligo positivo di impedire ogni potenziale violenza. Occorre infatti interpretare tale obbligo in modo da non imporre alle autorità un onere insopportabile o eccessivo, tenuto conto delle difficoltà per la polizia di esercitare le sue funzioni nelle società contemporanee e dell’imprevedibilità del comportamento umano, nonché delle scelte operative da compiere in termini di priorità e risorse (Osman, succitata, § 116, e Maiorano ed altri c. Italia, n. 28634/06, § 105,15 dicembre 2009).
246. Pertanto, ogni addotta minaccia alla vita non obbliga le autorità, ai sensi della Convenzione, a adottare misure concrete per prevenirne la realizzazione. La Corte ha affermato che esiste un obbligo positivo a tale effetto quando sia accertato che le autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere dell’esistenza di una minaccia reale ed immediata per la vita di uno o più individui e non hanno adottato, nell’ambito dei loro poteri, le misure che, ragionevolmente, avrebbero forse ovviato tale rischio (Bromiley c. Regno Unito (dec.), n. 33747/96, 23 novembre 1999, Paul e Audrey Edwards c. Regno Unito, n. 46477/99, § 55, CEDU 2002-III, e Branko Tomašić, succitata, §§ 50-51).
247. Al riguardo, è opportuno rammentare che nella sentenza Mastromatteo (succitata, § 69), la Corte ha operato una distinzione tra le cause aventi ad oggetto l’esigenza di garantire una protezione ravvicinata a uno o più individui identificabili in anticipo come potenziali bersagli di un’azione omicida (Osman, succitata, e Paul e Audrey Edwards, succitata; si vedano anche le sentenze successive alla sentenza Mastromatteo: Branko Tomašić e Opuz, succitate) e quelle aventi ad oggetto l’obbligo di garantire una protezione generale della società (Maiorano ed altri, succitata, § 107).
248. Del resto, perché la responsabilità dello Stato possa essere impegnata ai sensi della Convenzione, deve essere accertato che il decesso è il risultato dell’inadempimento, da parte delle autorità nazionali, di tutto quanto ci si poteva ragionevolmente attendere da loro per impedire il materializzarsi di un rischio certo ed immediato per la vita, di cui erano o avrebbero dovuto essere a conoscenza (Osman, succitata, § 116, Mastromatteo, succitata, § 74, e Maiorano ed altri, succitata, § 109).
249. Stando alla sua giurisprudenza, la Corte deve prendere in esame la preparazione e il controllo di un’operazione di polizia all’origine della morte di una o più persone al fine di valutare se, nelle particolari circostanze del caso di specie, le autorità abbiano posto tutta la cura richiesta nell’assicurarsi della riduzione al minimo dei rischi per la vita e se non abbiano dato prova di negligenza nella scelta delle misure adottate (McCann ed altri, succitata, § 194 e 201, e Andronicou e Constantinou, succitata, § 181). Il ricorso alla forza letale da parte degli agenti di polizia può essere giustificato in alcune circostanze. Tuttavia, l’articolo 2 non dà carta bianca. La mancanza di una cornice normativa per l’azione degli agenti dello Stato e l’abbandono di questa all’arbitrio sono incompatibili con il rispetto effettivo dei diritti dell’uomo. Insomma, le operazioni di polizia devono essere delimitate in misura sufficiente dal diritto nazionale, attraverso un sistema di garanzie adeguate ed effettive contro l’arbitrio e l’abuso della forza. La Corte deve quindi prendere in considerazione non solo gli atti degli agenti dello Stato che hanno fatto effettivamente ricorso alla forza, ma anche il complesso delle circostanze in cui essi sono maturati, in particolare la loro preparazione ed il controllo esercitato su di essi. Gli agenti di polizia non devono rimanere nel vago nell’esercizio delle funzioni; un quadro normativo ed amministrativo deve definire le condizioni limitate in cui i responsabili dell’applicazione delle leggi possono ricorrere alla forza e fare uso di armi da fuoco, tenuto conto delle norme internazionali elaborate in materia (Makaratzis, succitata, §§ 58-59).
250. In particolare, i rappresentanti della legge devono ricevere una formazione tale da metterli nelle condizioni di valutare se sia o meno assolutamente necessario utilizzare le armi da fuoco, non solo seguendo alla lettera i regolamenti pertinenti, ma anche tenendo debitamente conto della preminenza del rispetto della vita umana in quanto valore fondamentale (Natchova ed altri, succitata, § 97; si vedano anche le critiche formulate dalla Corte relativamente alla formazione dei militari che avevano ricevuto istruzioni di «sparare per uccidere», McCann ed altri, succitata, §§ 211-214).
251. Infine, non si può dimenticare che la morte di Carlo Giuliani si è verificata nell’ambito di una manifestazione popolare di grande portata. Ora, è vero che gli Stati contraenti sono tenuti a adottare misure ragionevoli ed appropriate al fine di garantire lo svolgimento pacifico delle manifestazioni lecite e la sicurezza di tutti i cittadini, tuttavia essi non possono garantirli in maniera assoluta e godono di un ampio potere di apprezzamento nella scelta del metodo da utilizzare a tale scopo. In materia, essi assumono, in virtù dell’articolo 11 della Convenzione, un obbligo di mezzi e non di risultato (Plattform “Ärzte für das Leben” c. Austria, 21 giugno 1988, § 34, serie A n. 139; Oya Ataman c. Turchia, n. 74552/01, § 35, 5 dicembre 2006, e Protopapa c. Turchia, n. 16084/90, § 108, 24 febbraio 2009). Tuttavia, è importante adottare misure di sicurezza preventive, quali l’invio di soccorsi di urgenza nel luogo delle riunioni o manifestazioni, per garantire il buono svolgimento degli avvenimenti di questo tipo, siano essi di natura politica, culturale, o altra (Oya Ataman, succitata, § 39). Inoltre, in mancanza di atti di violenza da parte dei manifestanti, i poteri pubblici devono dare prova di una certa tolleranza nei confronti degli assembramenti pacifici, affinché la libertà di riunione sancita dall’articolo 11 della Convenzione non sia svuotata di contenuto (Patyi c. Ungheria, n. 5529/05, § 43, 7 ottobre 2008). In linea di massima, ingerenze nel diritto sancito da tale disposizione sono invece giustificate per garantire la difesa dell’ordine e la prevenzione del crimine, nonché la tutela dei diritti e delle libertà altrui, quando i manifestanti si abbandonino ad atti di violenza (Protopapa, succitata, § 109).
b) Applicazione di tali principi al caso di specie
252. Innanzitutto la Corte osserva che le manifestazioni in occasione del G8 di Genova sono degenerate in violenza. La giornata del 20 luglio 2001 è stata caratterizzata da numerosi scontri e tafferugli tra le forze dell’ordine e una parte dei manifestanti. Le immagini filmate prodotte dalle parti lo dimostrano ampiamente. Esse mostrano anche delle violenze commesse da alcuni agenti di polizia nei confronti di manifestanti (precedente paragrafo 139).
253. Ciononostante, il presente ricorso non riguarda l’organizzazione dei servizi di mantenimento dell’ordine durante l’intero G8. Esso si limita a porre, tra gli altri, l’interrogativo relativo all’eventuale esistenza di lacune, nell’organizzazione e nella pianificazione di quell’evento, direttamente ricollegabili al decesso di Carlo Giuliani. Al riguardo, è opportuno rilevare che si sono registrate violenze assai prima dei tragici avvenimenti di piazza Alimonda. In ogni caso, nessun elemento oggettivo induce a pensare che, in assenza di quelle violenze e della carica nei confronti del corteo delle Tute Bianche da parte dei carabinieri, M.P. non sarebbe stato portato ad esplodere dei colpi d’arma da fuoco per difendersi dalla violenza illegale di cui è stato oggetto. La stessa conclusione s’impone quanto alla modifica degli ordini impartiti ai carabinieri la vigilia degli avvenimenti e al sistema di comunicazioni scelto.
254. Al riguardo, la Corte rammenta che l’intervento dei carabinieri in via Caffa (precedenti paragrafi 42-44) e l’attacco alla jeep da parte dei manifestanti si sono verificati in un momento di relativa calma, dopo che, reduce da una lunga giornata di scontri, il plotone dei carabinieri si era posizionato in piazza Alimonda per riposarsi, riorganizzarsi e fare salire gli agenti feriti sulle jeep. Come dimostrano le immagini filmate, lo scontro tra manifestanti e forze dell’ordine fu repentino e durò solo pochi minuti prima degli spari mortali. Era imprevedibile che un attacco di tale violenza si verificasse in quel preciso luogo e nelle condizioni che lo hanno caratterizzato. Del resto, i motivi che avrebbero spinto la folla ad agire così rientrano nel campo della mera speculazione.
255. E’ opportuno notare anche che il Governo aveva posto in essere un importante dispositivo di polizia (18.000 unità – precedenti paragrafi 141 e 237) e che, quanto agli effettivi, essi appartenevano a corpi specializzati o avevano ricevuto una formazione ad hoc in materia di mantenimento dell’ordine pubblico durante manifestazioni di massa. In particolare, M.P. aveva partecipato a sessioni di addestramento a Velletri (precedenti paragrafi 108-109 e 237; si veda, a contrario, Makaratzis, succitata, § 70). Visto l’ingentissimo numero di agenti dispiegati sul campo, non si poteva pretendere che ciascuno di loro avesse una lunga esperienza e/o avesse ricevuto una formazione di parecchi mesi o anni. Giungere a conclusioni diverse significherebbe imporre allo Stato un obbligo esorbitante ed irrealistico. Del resto, come sottolinea a giusto titolo il Governo (precedente paragrafo 233), bisogna distinguere tra le cause in cui le forze dell’ordine hanno un bersaglio preciso ed identificabile (si veda, ad esempio, McCann ed altri, e Andronicou e Constantinou, succitate) e quelle in cui l’obiettivo è il mantenimento dell’ordine in caso di eventuali disordini suscettibili di verificarsi in una zona vasta quanto un’intera città, come nel caso di specie. Solo nel primo tipo di cause ci si può aspettare che tutti gli agenti coinvolti siano altamente specializzati in vista del compito loro assegnato.
256. Ne consegue che non si può concludere per la violazione dell’articolo 2 della Convenzione unicamente in ragione della selezione, per il G8 di Genova, di un carabiniere che, come M.P. all’epoca dei fatti, aveva appena venti anni e undici mesi ed era in servizio solo da dieci mesi (precedente paragrafo 35). La Corte rammenta anche di avere ritenuto che la condotta di M.P. durante l’attacco alla jeep non fosse stata costitutiva di una violazione dell’articolo 2 sotto il profilo materiale (precedenti paragrafi 194-195). Non è accertato che egli abbia assunto iniziative avventate o agito in assenza di istruzioni adeguate (si veda, a contrario, Makaratzis, succitata, § 70).
257. Rimane allora da valutare se le decisioni prese in piazza Alimonda subito prima dell’attacco alla jeep da parte dei manifestanti fossero tali da violare l’obbligo di tutelare la vita. A tal fine, la Corte deve tenere conto delle informazioni a disposizione delle autorità al momento della decisione. Ora, in quel momento, niente lasciava intendere che Carlo Giuliani fosse, più degli altri manifestanti o di qualunque altra persona presente sul posto, il potenziale bersaglio di un’azione letale. Le autorità non avevano quindi l’obbligo di garantirgli una protezione ravvicinata, ma solo quello di evitare di adottare comportamenti che, in modo generale, potessero porre manifestamente in pericolo la vita e l’integrità fisica di ogni persona interessata.
258. Ad avviso della Corte, è concepibile, in una situazione di emergenza quale quella risultante dagli scontri del 20 luglio 2001, che le forze dell’ordine siano indotte ad utilizzare, per offrire riparo agli agenti feriti, veicoli di supporto logistico non blindati. Parimenti, il fatto di non avere ordinato a quei veicoli di raggiungere subito l’ospedale non sembra irragionevole. Infatti, ciò li avrebbe esposti al rischio di attraversare, senza protezione, una parte della città dove sarebbero potuti scoppiare altri disordini. Prima dell’attacco di via Caffa che, come la Corte ha appena constatato, è stato del tutto repentino ed imprevedibile (precedente paragrafo 254), tutto sembrava indicare che le jeep erano più protette in piazza Alimonda, dove stazionavano accanto ad un contingente di carabinieri. Del resto, niente nel fascicolo indica che lo stato fisico dei carabinieri a bordo della jeep era così grave da richiedere un ricovero immediato ed urgente; fondamentalmente, quei militari accusavano sintomi da esposizione prolungata al gas lacrimogeno.
259. Le jeep hanno poi seguito il plotone dei carabinieri quando questo si è diretto verso via Caffa. I motivi di tale scelta non emergono chiaramente dal fascicolo. Comunque sia, poteva trattarsi di una manovra volta ad evitare di rimanere isolate, situazione che, come avrebbero dimostrato i fatti verificatisi da lì a poco, poteva rivelarsi estremamente pericolosa. Inoltre, la manovra è stata effettuata in un momento in cui niente lasciava prevedere che i manifestanti avrebbero potuto costringere i carabinieri, come poi hanno fatto, a ritirarsi in fretta e in ordine sparso, con il conseguente ripiegamento delle jeep a marcia indietro e il blocco di una di esse. La causa immediata di tali fatti è stata l’attacco violento ed illegale dei manifestanti. Ogni scelta operativa fatta dalle forze dell’ordine prima non poteva, con tutta evidenza, tenere conto di questo elemento imprevedibile. Del resto, il fatto che il sistema di comunicazioni scelto consentisse solo gli scambi tra il centro di comando della polizia e quello dei carabinieri, non i contatti radio diretti tra agenti di polizia e carabinieri (precedente paragrafo 222), non può, da solo, bastare a fare concludere per l’assenza di una chiara catena di comando, assenza che, secondo la giurisprudenza della Corte, è un fattore suscettibile di aumentare il rischio che alcuni agenti di polizia sparino in maniera avventata (Makaratzis, succitata, § 68). M.P. era infatti soggetto agli ordini e alle istruzioni dei superiori gerarchici, presenti sul campo.
260. Del resto, la Corte non vede perché la circostanza che M.P. era ferito e giudicato inidoneo a proseguire il servizio avrebbe dovuto indurre il comandante a privarlo dell’arma. Questa costituiva un mezzo di difesa personale appropriato per fronteggiare eventuali attacchi violenti e puntuali tali da costituire un pericolo imminente e grave per la vita. Ed è a questo preciso scopo che infatti è stata adoperata.
261. Infine, quanto ai fatti successivi agli spari mortali (precedente paragrafo 229), la Corte osserva che niente prova che i soccorsi portati a Carlo Giuliani siano stati insufficienti o tardivi e/o che il passaggio della jeep sul corpo della vittima sia stato un atto intenzionale. In ogni caso, come emerge dal rapporto di autopsia (precedente paragrafo 50), le lesioni cerebrali riportate a causa della pallottola sparata da M.P. erano di gravità tale da provocare la morte in pochi minuti.
262. Ne consegue che le autorità italiane non sono venute meno all’obbligo di fare tutto quanto ci si poteva ragionevolmente aspettare da loro per fornire il livello di protezione richiesto in occasione di operazioni che comportano un potenziale rischio di ricorso alla forza letale. Pertanto, non vi è stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione in ragione dell’organizzazione e della pianificazione delle operazioni di polizia in occasione del G8 di Genova e dei tragici fatti verificatisi in piazza Alimonda.

II. SULL’ADDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 2 DELLA CONVENZIONE SOTTO IL PROFILO PROCEDURALE

263. I ricorrenti sostengono che lo Stato convenuto è venuto meno, sotto vari aspetti, agli obblighi procedurali derivanti dall’articolo 2 della Convenzione. Il Governo si oppone a questa tesi.

A. Le questioni sollevate dai ricorrenti

1. Le lacune addotte nel compimento dell’autopsia e nella cremazione della salma
a) Argomenti delle parti
i. I ricorrenti
264. I ricorrenti fanno osservare che, il 21 luglio 2001, la procura ha disposto l’autopsia sul corpo di Carlo Giuliani e ha nominato due periti (Canale e Salvi), che avrebbero dovuto cominciare il loro lavoro lo stesso giorno alle ore 15. La procura avrebbe invitato la polizia a informarne M.P. e i genitori della vittima prima delle ore 13. Sarebbe stato impossibile per i ricorrenti nominare in così poco tempo un medico legale di fiducia affinché partecipasse all’autopsia. La procura avrebbe peraltro autorizzato la cremazione della salma il 23 luglio 2001, molto prima di conoscere l’esito dell’autopsia (i periti disponevano infatti di sessanta giorni per redigere il loro rapporto).
265. I ricorrenti non sarebbero mai stati «parti» alla procedura, in quanto nel diritto italiano la costituzione di parte civile sarebbe possibile solo se vi è la richiesta di rinvio a giudizio. Essendo delle semplici parti lese, essi avrebbero avuto solo delle possibilità limitate di partecipare all’inchiesta. Tali facoltà sarebbero ancora più limitate quando la procura procede, in virtù dell’articolo 360 del CPP, a delle indagini tecniche che non possono essere ripetute (paragrafo 150 supra): in questo caso, la parte lesa potrebbe solo chiedere alla procura di inviare al GIP una domanda di incidente probatorio. Solo in caso di accettazione di tale domanda la parte lesa potrebbe chiedere al GIP di porre delle domande ai periti della procura. Orbene, nella fattispecie l’autopsia sarebbe stata definita un’indagine tecnica che non può essere ripetuta.
266. Infine, i ricorrenti osservano che lo scanner total body effettuato sulla salma di Carlo Giuliani (paragrafo 60 supra) ha permesso di rilevare un frammento metallico dentro la testa, che tuttavia non è stato né trovato né registrato (v. le dichiarazioni del dott. Salvi al «processo dei 25» – paragrafo 130 supra).
ii. Il Governo
267. Il Governo sostiene che l’estrazione del frammento metallico in questione sarebbe stata non solo inutile ma anche impossibile. Essa non avrebbe fornito alcuna informazione supplementare pertinente riguardo alle circostanze in cui M.P. ha fatto ricorso alla forma omicida. In effetti, dei micro-frammenti di piombo erano già stati trovati nel passamontagna della vittima e l’analisi degli stessi aveva confermato la tesi dell’oggetto intermedio. Inoltre, quando la salma di Carlo Giuliani era stata restituita alla famiglia ai fini della cremazione, nulla faceva pensare che il rapporto relativo all’autopsia, che non era stato ancora redatto, sarebbe stato «superficiale». La pratica comune consisterebbe peraltro nel mettere la salma a disposizione della famiglia una volta che i periti hanno comunicato di non averne più bisogno. Ciò risparmierebbe un onere supplementare ai parenti della vittima, pur rispettando i loro diritti derivanti dall’articolo 8 della Convenzione.
268. La cremazione sarebbe stata sollecitata dai ricorrenti stessi che, informati che avrebbe avuto luogo un’autopsia, avrebbero avuto la possibilità di prendervi parte. Il legale degli interessati non avrebbe peraltro formulato alcuna richiesta di incidente probatorio (v. Sottani c. Italia (dec.), n. 26775/02, CEDU 2005-III, causa in cui la Corte aveva rigettato un motivo di ricorso analogo).
269. Come la corte avrebbe avuto occasione di affermare (si veda, mutatis mutandis, R.K. e A.K. c. Regno Unito, n. 38000/05, § 36, 30 settembre 2008), la correttezza di un’inchiesta dovrebbe essere valutata ex ante, sulla base dei fatti noti al momento in cui è stata presa la decisione, e non ex post facto. Un’inchiesta sarebbe lacunosa rispetto alla Convenzione quando le lacune riscontrate ne riducono la capacità di stabilire le circostanze del caso e di identificare i responsabili (Makaratzis, già cit., § 74). Solo dei motivi particolari avrebbero portato la Corte a concludere, in alcuni casi, per la violazione procedurale dell’articolo 2 senza violazione dell’elemento materiale di questa stessa disposizione o dell’articolo 38 della Convenzione (v., ad esempio, Hugh Jordan c. Regno Unito, n. 24746/94, 4 maggio 2001), e in ogni caso ciò avrebbe suscitato delle opinioni divergenti (si veda, ad esempio, Ramsahai e altri c. Paesi Bassi [GC], n. 52391/99, CEDU 2007-VI). Nella fattispecie, le conclusioni delle autorità nazionali sull’esistenza di un caso di legittima difesa sarebbero state confermate dalla camera. Pertanto, ogni eventuale difetto dell’inchiesta non avrebbe potuto minimamente incidere sulla sua effettività.
270. In ogni caso, l’esigenza di efficacia sarebbe un obbligo di mezzi e non di risultato. Il Governo ammette che «da alcuni atti e documenti emergono delle difficoltà nella ricostruzione dei fatti, in particolare a causa della indisponibilità di alcuni elementi». Tuttavia, tali difficoltà non sarebbero imputabili alle autorità o a una negligenza da parte loro, ma risulterebbero da condizioni oggettive e non controllabili. Gli inquirenti avrebbero pertanto adempiuto al loro obbligo di mezzi. Inoltre, il Governo considera che, anche a voler supporre che possa sussistere un dubbio su alcuni elementi, in materia penale il dubbio deve essere favorevole all’imputato e non alla vittima. Infine, non si dovrebbe dimenticare che la Corte ha ritenuto «effettive» delle inchieste interne in cui erano stati commessi errori da parte delle autorità (Grams, decisione già cit., e Menson e altri c. Regno Unito (dec.), n. 47916/99, CEDU 2003-V).
b) La sentenza della camera
271. La camera ha osservato che lo scanner effettuato sulla salma di Carlo Giuliani aveva rilevato la presenza di un frammento metallico nella testa che non era stato né estratto né registrato mentre l’analisi dello stesso sarebbe stata importante ai fini di un «esame balistico e per la ricostruzione dei fatti». Inoltre, i medici incaricati dell’autopsia non avevano «precisato esplicitamente se lo sparo [era stato] diretto». Delle domande cruciali erano dunque rimaste senza risposta, il che aveva portato la procura a definire «superficiale» il rapporto peritale. Tali lacune erano state aggravate dall’autorizzazione a cremare la salma, che era stata data prima che fosse conosciuto il contenuto del rapporto peritale, impedendo ogni ulteriore analisi. La camera ha inoltre deplorato che i ricorrenti abbiano disposto solo di poco tempo per incaricare un perito della loro scelta di partecipare all’autopsia. Pertanto, essa ha concluso per la violazione dell’elemento procedurale dell’articolo 2 della Convenzione (paragrafi 245-251 della sentenza della camera).

2. L’assenza di azioni penali volte a determinare l’eventuale responsabilità di alcuni funzionari di polizia
a) Argomenti delle parti
i. I ricorrenti
272. I ricorrenti considerano che l’articolo 2 della Convenzione è stato violato anche a causa dell’assenza di un’inchiesta amministrativa o penale sulla condotta delle forze dell’ordine durante il G8 di Genova. Ai loro occhi tale inchiesta avrebbe potuto chiarire le responsabilità nella catena di comando e, se del caso, permettere di infliggere delle sanzioni amministrative. L’assenza di inchieste amministrative sarebbe stata confermata dal Governo (paragrafo 280 infra) e dalle dichiarazioni fatte dal colonnello Truglio al «processo dei 25».
273. Da ciò deriverebbe che in nessun momento si sarebbe trattato di valutare la responsabilità globale delle autorità per quanto riguarda le lacune nella pianificazione, nel coordinamento e nella condotta delle operazioni e per quanto riguarda la loro incapacità di garantire un uso proporzionato della forza per disperdere i manifestanti. Non vi sarebbe stata alcuna analisi né sulle istruzioni date ai membri delle forze dell’ordine né sui motivi per cui essi disponevano soltanto di pallottole letali. Il pubblico ministero non si sarebbe mai chiesto se i superiori di M.P. potessero essere considerati responsabili del fatto che avevano lasciato un’arma letale tra le mani di un carabiniere ritenuto inabile a proseguire il servizio.
274. Anche a voler supporre che il Governo abbia ragione a sostenere che l’inchiesta non poteva essere estesa a persone diverse da quelle sospettate di aver commesso il reato, sarebbe il diritto nazionale ad essere incompatibile con l’articolo 2 della Convenzione. Inoltre, nella sua richiesta di archiviazione, il pubblico ministero avrebbe menzionato delle inefficienze (senza precisarne la natura). Poiché tale constatazione non ha dato luogo alla ricerca delle cause e delle responsabilità che l’hanno originata, la Convenzione sarebbe stata violata anche dalla scelta della procura di procedere ad un’inchiesta incompleta.
275. I ricorrenti deplorano il fatto che, lungi dall’essere sanzionati, i superiori gerarchici di M.P. (Leso, Truglio, Cappello e Mirante) avrebbero tutti beneficiato di una promozione. Inoltre, delle promozioni analoghe sarebbero state accordate a funzionari di polizia sospettati di avere sottoposto dei manifestanti ad arresti e violenze illegali. Tuttavia, con sentenza in data 18 maggio 2010, la corte d’appello di Genova avrebbe condannato alcuni di questi alti funzionari a pene comprese tra tre anni e otto mesi e cinque anni di reclusione per fatti avvenuti durante il G8 alla scuola Diaz (venticinque imputati su ventisette sarebbero stati condannati, e le pene pronunciate avrebbero totalizzato ottantacinque anni di reclusione). Il giorno dopo la pronuncia del dispositivo, il sottosegretario agli Affari interni avrebbe dichiarato che nessuno dei dirigenti condannati sarebbe stato radiato e che avrebbero tutti continuato ad avere la fiducia del ministro.
ii. Il Governo
276. Facendo riferimento alle proprie osservazioni sulle circostanze in cui un’inchiesta può essere considerata lacunosa (paragrafo 269 supra), il Governo sostiene che, in assenza di responsabilità legata alla condotta dell’operazione di mantenimento dell’ordine pubblico, il mancato controllo su una tale condotta è ininfluente. La camera stessa avrebbe concluso che la pianificazione e l’organizzazione del G8 di Genova erano stati conformi all’obbligo di tutelare la vita derivante dall’articolo 2. In queste condizioni, nulla avrebbe imposto di indagare sulle persone responsabili di una tale pianificazione.
277. Secondo la camera l’inchiesta non avrebbe chiarito i motivi per cui M.P. non era stato immediatamente condotto all’ospedale, era stato lasciato in possesso di una pistola carica ed era stato messo al riparo in una jeep isolata e priva di protezione. Il Governo fa notare che l’inchiesta interna non ha permesso di determinare con certezza se le jeep hanno seguito il plotone dei carabinieri per un’iniziativa personale dei loro conducenti o in esecuzione di un ordine. Ai suoi occhi, si trattava in ogni caso dell’unica decisione ragionevole dal momento che le jeep dovevano spostarsi insieme e coperte dal plotone. M.P. sarebbe stato fatto entrare nella jeep a causa di un evento improvviso (il suo stato personale) e il veicolo sarebbe rimasto isolato a causa della «trappola» tesa dai manifestanti. La pistola sarebbe stata l’arma di difesa di M.P.
278. Ritenendo che M.P. abbia agito per legittima difesa, il Governo non capisce bene quale reato potrebbe essere ascritto ai responsabili delle operazioni di mantenimento dell’ordine. L’articolo 7 della Convenzione richiederebbe, per punire, un legame di natura intellettuale (coscienza e volontà) che permetta di individuare un elemento di responsabilità nella condotta dell’autore materiale del reato (Sud Fondi Srl e altri c. Italia, n. 75909/01, § 116, 20 gennaio 2009). Nella fattispecie, non si sarebbe potuto attribuire agli organizzatori del servizio d’ordine del G8 un atto materiale riprovevole e/o la coscienza e la volontà di commetterlo.
279. Inoltre, la responsabilità penale sarebbe strettamente personale e presupporrebbe un rapporto di causalità secondo cui il fatto delittuoso è la conseguenza diretta e immediata dell’atto incriminato. Eventuali errori o disfunzioni nell’organizzazione, direzione o condotta delle operazioni di mantenimento dell’ordine pubblico non possono in alcun caso essere considerati come direttamente all’origine del dramma avvenuto in piazza Alimonda. Sarebbe stato dunque superfluo estendere l’inchiesta agli alti responsabili della polizia o cercare altri responsabili. Se la sentenza della camera fosse confermata su questo punto, lo Stato sarebbe obbligato ad avviare delle indagini inutili e dannose, destinate a non portare ad alcun risultato e a intromettersi in modo arbitrario nella vita di persone innocenti.
280. Il Governo precisa che nessuna inchiesta amministrativa o disciplinare è stata avviata nei confronti dei carabinieri. In compenso, due procedimenti penali per atti di violenza presumibilmente commessi nei confronti di manifestanti il 21 e 22 luglio 2001, ossia dopo la morte di Carlo Giuliani, sarebbero in corso nei confronti di vari agenti di polizia. Il «contesto generale» del G8 sarebbe stato peraltro esaminato nell’ambito dell’inchiesta parlamentare conoscitiva (paragrafi 107-117 supra), del «processo dei 25» (paragrafi 121-138 supra) e delle indagini condotte dal ministero dell’Interno (paragrafo 140 supra).
b) La sentenza della camera
281. La camera ha deplorato che l’inchiesta interna sia stata limitata all’esame della responsabilità di M.P. e F.C. e che non sia stato analizzato il «contesto generale» al fine di determinare se le autorità avevano pianificato e gestito le operazioni di mantenimento dell’ordine in modo da evitare il tipo di incidente che ha causato il decesso di Carlo Giuliani. In particolare, non erano stati chiariti i motivi per cui M.P. non era stato immediatamente condotto all’ospedale, era stato lasciato in possesso di una pistola carica ed era stato posto in una jeep isolata e priva di protezione. Una risposta a queste domande sarebbe stata necessaria, tenuto conto dello «stretto legame tra lo sparo mortale e la situazione in cui M.P. e F.C. si [erano trovati» (paragrafi 252-253 della sentenza della camera).

3. Le altre lacune che hanno presumibilmente compromesso l’inchiesta interna
282. I ricorrenti considerano che anche l’inchiesta interna è stata compromessa da molte altre lacune. Il Governo si oppone a questa tesi. La camera non ha ritenuto necessario pronunciarsi su tali questioni (paragrafo 255 della sentenza della camera).
a) Argomenti delle parti
i. I ricorrenti
283. I ricorrenti sostengono che l’inchiesta ha mancato di imparzialità e indipendenza, che è stata incompleta e, avendo portato ad un’archiviazione, li ha privati di dibattimenti pubblici e dunque di un esame pubblico delle circostanze della morte del loro congiunto.
284. Nella domanda di archiviazione, la procura avrebbe espresso dei dubbi circa le intenzioni di M.P. al momento degli spari: non era possibile determinare se egli avesse voluto solo spaventare i suoi aggressori o difendersi sparando verso di loro, accettando il rischio di colpire qualcuno. Secondo il pubblico ministero, si poteva trattare di un omicidio colposo, di un’accettazione del rischio di uccidere qualcuno oppure di un omicidio intenzionale. Dopo aver scartato (senza spiegare debitamente per quale motivo) la terza ipotesi, la procura avrebbe concluso che M.P. aveva agito per legittima difesa e che l’esistenza di un «dubbio» sul fondamento di una causa giustificativa imponeva di chiedere l’archiviazione del procedimento (paragrafi 72-75 supra). Secondo i ricorrenti, le incertezze manifestate dalla procura per quanto riguarda l’accertamento dei fatti imponevano di accettare il dibattimento pubblico e un supplemento istruttorio.
285. I ricorrenti ammettono che hanno potuto formare opposizione contro la richiesta di archiviazione della procura e che, a seguito di questa opposizione, un’udienza in camera di consiglio ha avuto luogo dinanzi al GIP, ma affermano che tale udienza si è svolta a porte chiuse e che solo le parti e i loro difensori hanno potuto assistervi. Inoltre, il GIP avrebbe dovuto decidere sulla base degli elementi sottoposti dalla procura, che aveva sostanzialmente accettato passivamente la versione dei fatti data dai rappresentanti delle forze dell’ordine, senza che la parte lesa abbia potuto interrogare gli imputati, i testimoni e i periti. Il GIP avrebbe accertato i fatti sulla base di un racconto anonimo apparso su Internet e riconducibile a degli anarchici francesi; orbene, sarebbe stato necessario un dibattimento pubblico per verificare l’esattezza di questo racconto. Infine, i ricorrenti non avrebbero disposto di alcun ricorso efficace per opporsi all’ordinanza di archiviazione del GIP, poiché un ricorso per cassazione è ammissibile solo nei casi di nullità non pertinenti nel caso di specie (articolo 409 § 6 del CPP – paragrafo 151 supra).
286. Si dovrebbe anche tenere conto del fatto che le perizie tecniche richieste dalla procura hanno dato risultati contraddittori. I ricorrenti sottolineano i seguenti elementi:
a) secondo la perizia balistica «Cantarella» (del 5 dicembre 2001), il bossolo trovato all’interno della jeep presentava il 90% di compatibilità con la pistola di M.P., mentre il bossolo trovato vicino al corpo di Carlo Giuliani presentava solo il 10% di compatibilità (paragrafo 54 supra);
b) secondo la perizia balistica «Manetto» (del 15 gennaio 2002), i due bossoli provenivano dalla pistola di M.P. e lo sparo mortale era stato esploso dall’alto verso il basso, ad una distanza di 110-140 centimetri dal bersaglio (paragrafo 55 supra);
c) secondo la perizia balistica collegiale del 26 luglio 2002, prima di raggiungere Carlo Giuliani il proiettile aveva urtato un oggetto che ne aveva deviato la traiettoria (paragrafi 56-62 supra);
d) secondo la perizia medico-legale, M.P. aveva sparato dall’alto verso il basso, senza deviazioni (paragrafo 50 supra).
287. Inoltre, il perito Romanini non avrebbe dovuto ricevere l’incarico, in quanto nel settembre 2001 aveva pubblicato in una rivista specializzata in materia di armi un articolo in cui affermava che la condotta di M.P. si traduceva in una «evidente reazione di difesa, pienamente giustificata» (paragrafo 56 supra). La questione della sua imparzialità sarebbe stata sollevata dal quotidiano Il Manifesto il 19 marzo 2003, ossia prima della decisione di archiviazione del 5 maggio 2003. Poiché la causa non ha superato lo stadio delle indagini preliminari, i ricorrenti non avrebbero avuto la possibilità di chiedere l’esclusione del dott. Romanini. La perizia a cui questi ha preso parte avrebbe peraltro avuto una grande importanza, che ha portato alla formulazione della teoria dell’oggetto intermedio accolta dal GIP.
288. I ricorrenti osservano in ogni caso che, poiché l’intervento dell’autorità giudiziaria sul posto non è stato rapido e non ha permesso di preservare lo stato dei luoghi, i proiettili non sarebbero mai stati ritrovati, in modo tale che non sarebbe stato possibile condurre alcuna perizia balistica vera e propria. Solo due bossoli sarebbero stati ritrovati, e non sarebbe nemmeno certo che corrispondano ai proiettili sparati da M.P.
289. Per quanto riguarda la prima e la seconda perizia balistica, i ricorrenti ammettono che avevano la possibilità teorica di chiedere alla procura di inviare al GIP una richiesta di incidente probatorio. Tuttavia, poiché la stessa procura ha chiesto un incidente probatorio e ha subito un rifiuto, i ricorrenti non avrebbero ritenuto utile formulare una richiesta in tal senso.
290. La procura avrebbe inoltre deciso di affidare una parte significativa delle indagini ai carabinieri, e in particolare al comando provinciale di Genova e alla squadra mobile della questura di Genova. I carabinieri avrebbero in particolare:
– sequestrato l’arma di M.P. e accertato che era munita di un caricatore contenente meno di quindici proiettili;
– operato i primi accertamenti tecnici sul corpo di Carlo Giuliani e sulle jeep;
– sequestrato una delle jeep e del materiale che vi si trovava all’interno, tra cui un bossolo;
– costituito una documentazione fotografica sul materiale di cui disponeva M.P. al momento dei fatti;
– acquisito, controllato la conformità e verificato il materiale audiovisivo relativo ai fatti del 20 luglio 2001;
– compilato i verbali di alcune dichiarazioni fatte alla procura.
291. I ricorrenti sottolineano anche che subito dopo la morte di Carlo Giuliani, M.P., D.R. e F.C. si sono allontanati (con la jeep e le armi) fino al momento in cui, alcune ore dopo, la procura ha iniziato le audizioni. Avrebbero avuto un colloquio con i loro superiori e avrebbero avuto la possibilità di comunicare tra loro prima di essere interrogati dalla procura. Inoltre, D.R. sarebbe stato sentito solo il giorno successivo ai fatti, e altri membri delle forze dell’ordine presenti sui luoghi sarebbero stati interrogati con molto ritardo (le deposizioni del capitano Cappello e del suo vice Zappia risalgono all’11 settembre e 21 dicembre 2001).
292. Secondo i ricorrenti, vari carabinieri e agenti di polizia, nonché lo stesso questore, avrebbero dovuto essere indagati nell’ambito del procedimento giudiziario relativo alla morte di Carlo Giuliani. La questura di Genova aveva svolto un ruolo «assolutamente di primo piano» nell’ideazione, nell’organizzazione e nella gestione dell’ordine pubblico durante il G8. Il questore di Genova era il più alto responsabile del mantenimento dell’ordine, la centrale operativa della polizia era quella della questura e i suoi agenti avevano impartito o eseguito ordini di intervento nei confronti del corteo delle Tute Bianche. I ricorrenti considerano che, per garantire l’indipendenza e l’imparzialità dell’inchiesta, la procura avrebbe dovuto affidare quest’ultima alla Guardia di finanza, corpo di polizia giudiziaria non implicato nei fatti.
ii. Il Governo
293. Il Governo ritiene che l’inchiesta sia stata condotta con la celerità necessaria. L’autorità giudiziaria non avrebbe fatto economia di mezzi per accertare i fatti e avrebbe fatto ricorso ai mezzi tecnologici più avanzati così come a metodi più tradizionali. Così, la procura e gli inquirenti avrebbero interrogato nuovamente persone che erano già state sentite una prima volta, quando ciò era sembrato necessario, e avrebbero sentito anche dei residenti che avevano potuto assistere ai fatti. Essa avrebbe proceduto a una ricostruzione dei fatti e a prove di sparo sul posto. Del materiale audiovisivo importante, proveniente dalle forze dell’ordine e da fonti private, sarebbe stato annesso agli atti del procedimento. Tre perizie balistiche sarebbero state disposte dalla procura e il GIP si sarebbe basato su materiale proveniente da fonti vicine ai manifestanti stessi (un racconto pubblicato su un sito Internet anarchico).
294. L’inchiesta sarebbe stata aperta d’ufficio e i ricorrenti avrebbero avuto, fin dall’inizio della stessa, la possibilità di parteciparvi pienamente, facendosi rappresentare da avvocati e nominando dei periti di fiducia. In particolare, i periti dei ricorrenti avrebbero partecipato alla terza perizia balistica e alla ricostruzione dei fatti (paragrafo 57 supra).
295. I ricorrenti avrebbero anche avuto tutto il tempo di formulare delle critiche e delle richieste in sede di opposizione all’archiviazione della causa, e il GIP avrebbe fornito una risposta sufficientemente dettagliata per motivare il rigetto delle loro domande volte a ottenere un complemento di indagine (paragrafo 104 supra). Certo, i ricorrenti non avrebbero avuto la possibilità di chiedere un incidente probatorio relativo ai primi atti dell’inchiesta, ma questo tipo di verifica sarebbe di esclusiva competenza della polizia. Durante la terza perizia balistica, la procura avrebbe chiesto alle parti se avevano obiezioni sull’utilizzo della procedura prevista dall’articolo 360 CPP, e non sarebbe stata sollevata alcuna obiezione. Pur ammettendo che la prima e la seconda perizia balistica sono state fatte unilateralmente (paragrafi 54 e 55 supra), il Governo ritiene che si trattasse unicamente di verifiche di routine, aventi il solo scopo di stabilire se i due bossoli rinvenuti appartenessero o meno all’arma di M.P. Quest’ultimo aveva peraltro già ammesso di aver esploso due colpi, e l’arma era stata comunque riesaminata durante la terza perizia balistica.
296. Fin dai primi istanti successivi al dramma, la squadra mobile della questura di Genova sarebbe intervenuta e avrebbe preso in mano le indagini. I carabinieri sarebbero stati incaricati solo di compiere atti di minore importanza ed essenzialmente qualora fosse necessario sequestrare oggetti che si trovavano in loro possesso – ad esempio il veicolo o l’arma – o di citare a comparire delle persone appartenenti ai loro effettivi. Inoltre, la procura avrebbe ridotto al minimo gli atti delegati, preferendo compiere essa stessa gli interrogatori più importanti e quelli che avrebbero potuto essere influenzati dall’appartenenza degli inquirenti a un corpo di polizia. Tenuto conto dell’autonomia e dell’indipendenza del potere giudiziario in Italia e del fatto che era necessario affidare l’inchiesta a un’autorità di polizia, non si può, secondo il Governo, rimproverare allo Stato alcuna mancanza d’imparzialità. Peraltro, i risultati delle indagini e i motivi dell’archiviazione non avrebbero in alcun modo fatto pensare che si cercasse di nascondere degli elementi.
297. Tutti i periti della procura sarebbero stati dei civili, ad eccezione del secondo perito balistico, che sarebbe stato un poliziotto (paragrafo 55 supra). La procura avrebbe ignorato, all’epoca della nomina del perito Romanini, che questi aveva espresso l’opinione secondo cui M.P. aveva agito per legittima difesa (paragrafo 56 supra). Secondo il Governo, l’articolo di Romanini aveva unicamente lo scopo di esporre una teoria politica fondata sul confronto tra l’episodio in questione e un’altra tragedia, accaduta in precedenza a Napoli. Il fatto di avere scritto tale articolo non avrebbe reso Romanini inidoneo a svolgere in maniera oggettiva e imparziale il suo incarico, che non consisteva nel verificare se gli elementi di fatto dimostravano la tesi secondo cui M.P. aveva agito per legittima difesa. Il collegio di periti avrebbe potuto esprimersi in particolare sulla traiettoria del proiettile. Romanini si sarebbe peraltro limitato ad effettuare delle prove di sparo in presenza degli altri periti, dei ricorrenti e dei periti nominati da questi ultimi. Tale attività «puramente tecnica ed essenzialmente materiale» non avrebbe lasciato spazio a valutazioni preconcette che potessero influenzare le conclusioni dell’inchiesta. Del resto, il Governo osserva che i ricorrenti non hanno sollevato alcuna obiezione relativamente alla nomina di Romanini.
B. Valutazione della Corte
1. Principi generali
298. Considerato il loro carattere sostanziale, gli articoli 2 e 3 della Convenzione contengono un obbligo procedurale di condurre un’inchiesta effettiva per quanto riguarda le violazioni addotte dell’elemento materiale di tali disposizioni (Ergi c. Turchia, 28 luglio 1998, § 82, Recueil 1998 IV, Assenov e altri c. Bulgaria, 28 ottobre 1998, §§ 101-106, Recueil 1998 VIII, e Mastromatteo, già cit., § 89). In effetti, una legge che vieti in maniera generale agli agenti dello Stato di procedere a omicidi arbitrari sarebbe in pratica inefficace se non esistesse alcuna procedura che permetta di controllare la legalità del ricorso alla forza omicida da parte delle autorità dello Stato. L’obbligo di tutelare il diritto alla vita che tale disposizione impone, insieme al dovere generale che incombe sullo Stato in virtù dell’articolo 1 della Convenzione di «riconosce[re] ad ogni persona sottoposta alla [sua] giurisdizione i diritti e le libertà fondamentali indicati nella (...) Convenzione», implica ed esige di condurre una forma di inchiesta efficace quando il ricorso alla forza, in particolare da parte di agenti dello Stato, ha comportato la morte di una persona (McCann e altri, già cit., § 161). Lo Stato deve dunque assicurare, con tutti i mezzi di cui dispone, una reazione adeguata – giudiziaria o di altro tipo – affinché il quadro legislativo e amministrativo di tutela del diritto alla vita sia effettivamente attuato e affinché, se necessario, le violazioni del diritto in gioco siano represse e sanzionate (Zavoloka c. Lettonia, n. 58447/00, § 34, 7 luglio 2009).
299. L’obbligo per lo Stato di condurre un’inchiesta effettiva è considerato nella giurisprudenza della Corte come un obbligo inerente all’articolo 2, che esige in particolare che il diritto alla vita sia «tutelato dalla legge». Benché un’inosservanza di tale obbligo possa avere delle conseguenze sul diritto tutelato dall’articolo 13, l’obbligo procedurale dell’articolo 2 è un obbligo distinto (İlhan c. Turchia [GC], n. 22277/93, §§ 91-92, CEDU 2000 VII, Öneryıldız c. Turchia [GC], n. 48939/99, § 148, CEDU 2004 XII, e Šilih c. Slovenia [GC], n. 71463/01, §§ 153-154, 9 aprile 2009). Essa può dare luogo a una constatazione di «ingerenza» distinta e indipendente. Tale conclusione deriva dal fatto che la Corte ha sempre esaminato la questione degli obblighi procedurali separatamente dalla questione del rispetto dell’obbligo materiale (constatando, se del caso, una violazione distinta dell’elemento procedurale dell’articolo 2), e che in varie occasioni la violazione dell’obbligo procedurale è stata addotta in assenza di motivi di ricorso relativi all’aspetto materiale di tale disposizione (Šilih, già cit., §§ 158-159).
300. In via generale, si può considerare che, affinché un’inchiesta su un’allegazione di omicidio illecito commesso da agenti dello Stato sia effettiva, è necessario che le persone che ne sono incaricate siano indipendenti dalle persone implicate (v., ad esempio, Güleç, già cit.., §§ 81-82, e Oğur, già cit., §§ 91-92). Ciò presuppone non solo l’assenza di qualsiasi legame gerarchico o istituzionale, ma anche una indipendenza pratica. È in gioco l’adesione dell’opinione pubblica al monopolio dello Stato in materia di ricorso alla forza (Hugh Jordan, già cit., § 106, Ramsahai e altri [GC], già cit., § 325, e Kolevi c. Bulgaria, n. 1108/02, § 193, 5 novembre 2009).
301. L’inchiesta deve anche essere effettiva nel senso che deve permettere di determinare se il ricorso alla forza era giustificato o meno date le circostanze (v., ad esempio, Kaya c. Turchia, 19 febbraio 1998, § 87, Recueil 1998-I), nonché di identificare e – se del caso – sanzionare i responsabili (Oğur, già cit., § 88). Non si tratta di un obbligo di risultato, ma di mezzi. Le autorità devono aver adottato tutte le misure ragionevoli a loro disposizione per acquisire le prove relative ai fatti in questione, ivi comprese, tra le altre, le deposizioni dei testimoni oculari, delle perizie e, eventualmente, un’autopsia idonea a fornire un resoconto completo e preciso delle ferite e un’analisi oggettiva degli accertamenti clinici, soprattutto della causa del decesso (riguardo alle autopsie, si veda ad esempio, Salman c. Turchia [GC], n. 21986/93, § 106, CEDU 2000-VII; riguardo ai testimoni si veda, ad esempio, Tanrıkulu c. Turchia [GC], n. 23763/94, § 109, CEDU 1999-IV; riguardo alle perizie si veda, ad esempio, Gül c. Turchia, n. 22676/93, § 89, 14 dicembre 2000). Qualsiasi lacuna dell’inchiesta che ne comprometta la capacità di stabilire la causa del decesso o le responsabilità rischia di non rispondere a questa norma (Avşar, già cit., §§ 393-395).
302. In particolare, le conclusioni dell’inchiesta devono basarsi su un’analisi minuziosa, oggettiva ed imparziale di tutti gli elementi pertinenti. Il rigetto di una pista di indagine che si impone con ogni evidenza compromette in modo decisivo la capacità dell’inchiesta di stabilire le circostanze della causa e l’identità delle persone responsabili (Kolevi, già cit., § 201). Resta comunque il fatto che la natura e il grado dell’esame che risponde al criterio minimo di effettività dipendono dalle circostanze del caso di specie. Essi vengono valutati alla luce di tutti i fatti pertinenti e tenuto conto delle realtà pratiche del lavoro di inchiesta (Velcea e Mazǎre c. Romania, n. 64301/01, § 105, 1o dicembre 2009).
303. Inoltre, l’inchiesta deve essere accessibile alla famiglia della vittima nella misura necessaria alla salvaguardia dei suoi interessi legittimi. Il pubblico deve anche poter esercitare un diritto di ispezione sufficiente sulla stessa, in misura variabile a seconda dei casi (Hugh Jordan, già cit., § 109, e Varnava e altri c. Turchia [GC], nn. 16064/90, 16065/90, 16066/90, 16068/90, 16069/90, 16070/90, 16071/90, 16072/90 e 16073/90, § 191, 18 settembre 2009; v. anche Güleç, già cit., § 82, in cui il padre della vittima non era stato informato della decisione di archiviazione, e Öğur, già cit., § 92, in cui la famiglia della vittima non aveva avuto accesso all’inchiesta e ai documenti prodotti dinanzi ai tribunali).
304. Tuttavia, la divulgazione o la pubblicazione di rapporti di polizia e di elementi di inchiesta può portare a rendere pubblici dei dati sensibili, con effetti pregiudizievoli su privati o su altre inchieste, e non può dunque essere considerata un’esigenza derivante automaticamente dall’articolo 2. L’accesso di cui devono beneficiare il pubblico o i parenti della vittima può dunque essere accordato in altre fasi della procedura (v., tra le altre, McKerr c. Regno Unito, n. 28883/95, § 129, CEDU 2001 III). Peraltro, l’articolo 2 non impone alle autorità l’obbligo di soddisfare a qualsiasi richiesta di misura di indagine che possa essere formulata da un parente della vittima durante l’inchiesta (Ramsahai e altri [GC], già cit., § 348, e Velcea e Mazǎre, già cit., § 113).
305. Un’esigenza di celerità e di diligenza ragionevole è implicita in questo contesto (Yaşa c. Turchia, 2 settembre 1998, §§ 102-104, Recueil 1998-VI, Tanrıkulu, già cit., § 109, e Mahmut Kaya c. Turchia, n. 22535/93, §§ 106-107, CEDU 2000-III). Tuttavia, si deve ammettere che possono esservi ostacoli o difficoltà che impediscono all’inchiesta di procedere in una situazione particolare. In ogni caso, una risposta rapida delle autorità quando si tratta di indagare sul ricorso alla forza omicida può generalmente essere considerata fondamentale per preservare la fiducia del pubblico nel principio di legalità e per evitare ogni apparente tolleranza rispetto ad atti illegali o alla complicità nella perpetrazione degli stessi (McKerr, già cit., §§ 111 e 114, e Opuz, già cit, § 150).
306. Tuttavia, da quanto precede non deriva che l’articolo 2 implicherebbe il diritto per un ricorrente di far perseguire o condannare penalmente dei terzi (Šilih, già cit., § 194; si veda anche, mutatis mutandis, Perez c. Francia [GC], n. 47287/99, § 70, CEDU 2004-I) o un obbligo di risultato che presuppone che ogni azione penale debba concludersi con una condanna, se non addirittura con la pronuncia di una pena determinata (Zavoloka, già cit., § 34 c)).
In compenso, i giudici nazionali non possono in alcun caso mostrarsi disposti a lasciare impuniti degli attentati alla vita. Il compito della Corte consiste dunque nel verificare se e in quale misura si possa ritenere che tali giudici, prima di giungere a una qualsiasi conclusione, abbiano sottoposto la causa di cui erano investiti all’esame scrupoloso richiesto dall’articolo 2 della Convenzione, allo scopo di assicurare che la forza di dissuasione del sistema giudiziario attuato e l’importanza del ruolo che quest’ultimo deve svolgere nella prevenzione delle violazioni del diritto alla vita non siano sminuite (Öneryıldız, già cit., § 96, e Mojsiejew c. Polonia, n. 11818/02, § 53, 24 marzo 2009).
2. Applicazione di questi principi al caso di specie
307. La Corte osserva anzitutto che ha concluso poc’anzi, sotto il profilo materiale dell’articolo 2, che il ricorso alla forza omicida è stato «assolutamente necessario» per «assicurare la difesa di ogni persona dalla violenza illegale» (paragrafo 194 supra) e che non vi è stata violazione degli obblighi positivi di tutelare la vita in ragione dell’organizzazione e della pianificazione delle operazioni di polizia in occasione del G8 di Genova e dei fatti tragici avvenuti in piazza Alimonda (paragrafo 262 supra).
308. Per giungere a questa constatazione la Corte ha disposto, grazie alle informazioni fornite dall’inchiesta interna, di elementi sufficienti che le permettono di assicurarsi che M.P. aveva agito in stato di legittima difesa allo scopo di proteggere la sua vita e la sua integrità fisica, nonché quelle degli altri occupanti della jeep, contro un pericolo grave e imminente, e che sotto il profilo dell’articolo 2 della Convenzione nessuna responsabilità per quanto riguarda la morte di Carlo Giuliani poteva essere imputata ai responsabili dell’organizzazione e della pianificazione del G8 di Genova.
309. Ne consegue che l’inchiesta è stata sufficientemente efficace per permettere di determinare se il ricorso alla forza era stato giustificato nella fattispecie (si veda la giurisprudenza citata nel paragrafo 301 supra) e se l’organizzazione e la pianificazione delle operazioni di polizia erano state conformi all’obbligo di tutelare la vita.
310. Inoltre, la Corte osserva che varie decisioni prese dagli organizzatori del G8 e dai comandanti dei battaglioni presenti sul terreno sono state esaminate e sottoposte ad una valutazione critica nell’ambito del «processo dei 25» (paragrafi 121-138 supra) e dell’indagine conoscitiva condotta dalla commissione parlamentare (paragrafi 107 117 supra). Inoltre, la questura di Genova è stata oggetto di un’ispezione amministrativa (che ha permesso di constatare la disfunzione nell’organizzazione degli interventi delle forze dell’ordine e degli episodi «potenzialmente deplorevoli») e il dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno ha proposto di avviare delle azioni disciplinari nei confronti di vari funzionari di polizia e del questore di Genova (paragrafo 140 supra).
311. Resta da stabilire se i ricorrenti abbiano avuto accesso all’inchiesta in misura tale da permettere loro di salvaguardare i loro interessi legittimi, se l’azione penale abbia soddisfatto ai requisiti di celerità voluti dalla giurisprudenza della Corte e se le persone incaricate dell’inchiesta fossero indipendenti da quelle implicate.
312. A questo riguardo, la Corte osserva che è vero che nel diritto italiano la parte lesa può costituirsi parte civile solo a partire dall’udienza preliminare, che nella fattispecie non ha avuto luogo. Resta comunque il fatto che nella fase delle indagini preliminari essa può esercitare i diritti e le facoltà che le sono espressamente riconosciuti dalla legge. Tra questi vi sono, a titolo di esempio, la facoltà di chiedere al pubblico ministero di sollecitare al GIP la produzione immediata di un mezzo di prova (articolo 394 del CPP) e il diritto di nominare un rappresentante legale. Inoltre, la parte lesa può presentare memorie in ogni stato e grado del procedimento e, con esclusione del giudizio di cassazione, può indicare elementi di prova (articolo 90 del CPP – v. decisione Sottani, già cit., in cui tali considerazioni hanno portato la Corte a ritenere l’elemento civile dell’articolo 6 § 1 della Convenzione applicabile a un procedimento penale in cui la parte ricorrente aveva la qualità di parte lesa ma non quella di parte civile).
313. Nella fattispecie, non viene contestato che i ricorrenti hanno avuto la facoltà di esercitare tali diritti. In particolare, gli interessati hanno nominato dei periti di fiducia a cui hanno affidato l’incarico di redigere dei rapporti peritali che sono stati sottoposti alla procura e al GIP (paragrafi 64-66 supra), e i loro rappresentanti e periti hanno partecipato alla terza perizia balistica (paragrafo 57 supra). Inoltre, hanno potuto opporsi alla domanda di archiviazione e indicare le ulteriori indagini che desideravano fossero compiute. La circostanza che, avvalendosi del suo diritto di valutare i fatti e gli elementi di prova, il GIP di Genova abbia rigettato le loro richieste (paragrafo 104 supra) non può, di per sé, essere costitutiva di una violazione dell’articolo 2 della Convenzione, tanto più che agli occhi della Corte la decisione del GIP su questi punti non sembra viziata da arbitrarietà.
314. I ricorrenti deplorano in particolare di non aver disposto del tempo necessario per incaricare un perito di fiducia in occasione dell’autopsia del 21 luglio 2001. Essi deplorano inoltre il carattere «superficiale» del rapporto di autopsia e l’impossibilità di procedere a nuovi esami medico-legali a causa della cremazione della salma (paragrafo 264 supra).
315. La Corte ammette che il fatto di notificare un avviso di autopsia solo tre ore prima dell’inizio dell’esame (paragrafo 48 supra) può rendere in pratica difficile, se non impossibile, l’esercizio da parte della parte lesa della facoltà di incaricare un perito di fiducia e di ottenere la sua presenza durante gli esami medico-legali. Rimane comunque il fatto che l’articolo 2 non esige, di per sé, che una tale facoltà venga riconosciuta ai parenti della vittima.
316. È vero anche che, quando un esame medico-legale riveste un’importanza fondamentale per la determinazione delle circostanze di un decesso, delle lacune significative nell’esecuzione di un simile esame possono tradursi in gravi mancanze che possono compromettere l’efficacia dell’inchiesta interna. La Corte, in particolare, è giunta a questa conclusione in una causa in cui, in presenza di allegazioni secondo le quali il decesso era dovuto a torture, il rapporto di autopsia firmato da medici che non erano medici legali aveva omesso di rispondere a domande fondamentali (Tanlı, già cit., §§ 149-154).
317. La presente causa, tuttavia, si distingue nettamente dalla causa Tanlı. Inoltre, i ricorrenti non hanno fornito la prova di lacune serie durante l’autopsia di Carlo Giuliani. Inoltre, non si è affermato che i medici legali non avevano determinato con certezza la causa del decesso. In effetti, dinanzi alla Corte i ricorrenti non hanno contestato la conclusione delle autorità nazionali secondo cui Carlo Giuliani era deceduto a causa del proiettile sparato da M.P.
318. I ricorrenti hanno sottolineato che i medici legali avevano omesso di registrare un frammento di proiettile che, secondo i risultati dello scanner effettuato sul corpo, si trovava nella testa della vittima (paragrafo 266 supra). La Corte osserva che il perito Salvi ha dato, al «processo dei 25», la seguente spiegazione: il frammento in questione era piccolissimo e difficile da trovare a causa dell’alterazione dei tessuti cerebrali e della forte presenza di sangue all’interno di questi ultimi; è stato considerato un «dettaglio senza importanza» e si è cessato di cercarlo (paragrafo 130 supra).
319. La Corte non ritiene necessario esaminare la pertinenza di questa spiegazione. Ai fini dell’esame del motivo di ricorso dei ricorrenti, essa si limita a osservare che il frammento in questione avrebbe eventualmente potuto fornire dei chiarimenti sulla questione di stabilire quale fosse stata la traiettoria del proiettile mortale (e in particolare se era stato deviato da un oggetto prima di raggiungere Carlo Giuliani). Tuttavia, come la Corte ha appena osservato sotto il profilo dell’elemento materiale dell’articolo 2 (paragrafi 192-193 supra), l’uso della forza sarebbe stato giustificato in riferimento a tale disposizione anche se la «teoria dell’oggetto intermedio» non aveva potuto essere presa in considerazione. Di conseguenza, il frammento metallico in contestazione non ha costituito un elemento essenziale per l’efficacia dell’inchiesta. Del resto, la Corte osserva che la cremazione del corpo di Carlo Giuliani, che ha impedito ogni ulteriore esame medico-legale, è stata autorizzata su richiesta dei ricorrenti (paragrafo 49 supra).
320. La Corte osserva anche che gli obblighi procedurali derivanti dall’articolo 2 impongono di effettuare una «inchiesta» effettiva e non esigono che si tenga un dibattimento pubblico. Se dunque gli elementi raccolti dalle autorità sono sufficienti per scartare qualsiasi responsabilità penale dell’agente dello Stato che ha fatto uso della forza, la Convenzione non vieta l’archiviazione del procedimento nella fase delle indagini preliminari. Orbene, come la Corte ha appena constatato, le prove raccolte dalla procura, e in particolare le immagini filmate dell’assalto della jeep, permettevano di concludere, al di là di ogni ragionevole dubbio, che M.P. aveva agito in stato di legittima difesa, il che costituisce una causa giustificativa nel diritto penale italiano.
321. Non si può peraltro affermare che la procura ha passivamente ammesso la versione fornita dagli agenti delle forze dell’ordine implicati nei fatti: si è proceduto non solo all’interrogatorio di molti testimoni, ivi compresi dei manifestanti e dei terzi che hanno assistito ai fatti accaduti in piazza Alimonda (paragrafi 45-46 supra), ma anche a varie perizie, tra cui una perizia medico-legale e tre perizie balistiche (paragrafi 48-50 e 54-62 supra). La circostanza che i periti non fossero d’accordo su tutti i punti della ricostruzione dei fatti (e, in particolare, sulla distanza di tiro e sulla traiettoria del proiettile) non era, di per sé, di natura tale da esigere nuove indagini, posto che spettava al giudice valutare la pertinenza delle spiegazioni date dai vari periti e la loro compatibilità con l’esistenza di cause di giustificazione che possano neutralizzare la responsabilità penale degli imputati.
322. È vero che i carabinieri, cioè il corpo a cui appartenevano M.P. e F.C., sono stati incaricati di alcune verifiche (paragrafo 290 supra). Tuttavia, tenuto conto della natura tecnica e oggettiva di tali verifiche, non si può ritenere che tale circostanza abbia pregiudicato l’imparzialità dell’inchiesta. Decidere diversamente limiterebbe in molti casi in modo inaccettabile la possibilità, per i tribunali, di ricorrere alla perizia delle forze dell’ordine, che possiedono spesso una competenza particolare in materia (v., mutatis mutandis e sotto il profilo dell’articolo 6 della Convenzione, Emmanuello c. Italia (dec.), n. 35791/97, 31 agosto 1999) e che, nel caso di specie, erano già presenti sui luoghi e hanno così potuto proteggere la zona e cercare e registrare qualsiasi oggetto pertinente per l’inchiesta. Visto il numero di persone che si trovavano sulla piazza Alimonda e la confusione che vi regnava dopo gli spari, non si può rimproverare alle autorità di non aver trovato alcuni oggetti di piccole dimensioni, ossia i proiettili sparati da M.P.
323. Agli occhi della Corte, si pongono delle questioni più delicate riguardo alla nomina del perito Romanini che, in un articolo apparso in una rivista specialistica, aveva apertamente sottoscritto la tesi secondo cui M.P. aveva agito per legittima difesa (paragrafo 56 supra). Al riguardo, conviene osservare che le perizie disposte nell’ambito dell’inchiesta miravano, tra l’altro, a fornire elementi che suffragavano o meno questa tesi. Pertanto, la presenza di un perito che ha un’idea preconcetta al riguardo era ben lungi dall’essere rassicurante (per quanto riguarda il posto del perito nel procedimento giudiziario, v. Brandstetter c. Austria, 28 agosto 1991, § 59, serie A n. 211). Rimane comunque il fatto che Romanini era solo uno dei quattro periti che compongono un’equipe (v., mutatis mutandis, Mirilachvili c. Russia, n. 6293/04, § 179, 11 dicembre 2008). Era stato nominato dalla procura, e non dal GIP, e non si presentava dunque come un assistente neutro e imparziale di quest’ultimo (v., a contrario, Bönisch c. Austria, 6 maggio 1985, § 33, serie A n. 92, e Sara Lind Eggertsdóttir c. Islanda, n. 3193004, § 47, CEDU 2007-...). Inoltre, le verifiche che era portato a effettuare nell’ambito della perizia balistica erano, essenzialmente, di natura oggettiva e tecnica. La sua presenza non può, pertanto, aver compromesso da sola l’imparzialità dell’inchiesta interna.
324. Peraltro, i ricorrenti non hanno accertato che l’inchiesta ha mancato di imparzialità e di indipendenza o che il corpo di polizia giudiziaria che ha compiuto alcuni atti di indagine era implicato nei fatti a tal punto che si imponeva di affidare tutta l’inchiesta alla guardia di finanza (v. le allegazioni formulate dai ricorrenti ai paragrafi 283 e 292 supra).
325. Per quanto riguarda, infine, la celerità delle indagini, la Corte osserva che queste ultime sono state condotte con la diligenza richiesta in materia. In effetti, il decesso di Carlo Giuliani è avvenuto il 20 luglio 2001, e la procura ha chiuso le indagini preliminari chiedendo l’archiviazione del procedimento circa un anno e quattro mesi dopo, alla fine del 2002. Il 10 dicembre 2002 i ricorrenti si sono opposti a tale richiesta (paragrafo 76 supra), e l’udienza dinanzi al GIP di Genova ha avuto luogo quattro mesi dopo, il 17 aprile 2003 (paragrafo 80 supra). Il testo dell’ordinanza di archiviazione è stato depositato in cancelleria ventitre giorni dopo, il 5 maggio 2003 (paragrafo 82 supra). In queste circostanze, non si può considerare che dei ritardi eccessivi hanno compromesso l’inchiesta.
326. Alla luce di quanto precede, la Corte conclude che non vi è stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione sotto il profilo procedurale.

III. SULL’ADDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 3 DELLA CONVENZIONE

327. I ricorrenti sostengono che l’assenza di soccorsi immediati dopo lo stramazzo a terra di Carlo Giuliani e il passaggio della jeep sul suo corpo hanno contribuito al suo decesso e costituito un trattamento inumano. Essi rinviano ai principi nn. 5 e 8 dei Principi dell’ONU (paragrafo 154 supra) e invocano l’articolo 3 della Convenzione, che recita:
«Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti».
328. Il Governo sostiene che questo motivo di ricorso è manifestamente infondato dal momento che, secondo il rapporto di autopsia, il passaggio del veicolo sul corpo di Carlo Giuliani non ha avuto conseguenze serie per quest’ultimo, e che si è tentato di soccorrere la vittima rapidamente.
329. La camera, osservando che non si poteva dedurre dal comportamento delle forze dell’ordine che esse intendevano infliggere dei dolori o delle sofferenze a Carlo Giuliani, ha ritenuto che non fosse opportuno esaminare la causa sotto il profilo dell’articolo 3 della Convenzione (paragrafi 260-261 della sentenza della camera).
330. La Corte considera che i fatti addotti richiedono un esame sotto il profilo dell’articolo 2 della Convenzione, esame a cui ha proceduto poc’anzi. Pertanto, essa non vede alcun motivo per discostarsi dall’approccio della camera.

IV. SULL’ADDOTTA VIOLAZIONE DEGLI ARTICOLI 6 E 13 DELLA CONVENZIONE

331. I ricorrenti si lamentano di non avere beneficiato di un’inchiesta conforme alle esigenze procedurali derivanti dagli articoli 6 e 13 della Convenzione.
Nelle sue parti pertinenti l’articolo 6 § 1 della Convenzione recita:
«Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole, da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale sia chiamato a pronunciarsi (...) sulle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile (...)»
L’articolo 13 della Convention recita:
«Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella (...) Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.»
332. I ricorrenti sostengono che, alla luce dei risultati contraddittori ed incompleti dell’inchiesta, il caso richiedeva degli approfondimenti, nell’ambito di un vero e proprio dibattimento in contraddittorio.
333. Il Governo chiede alla Corte di dichiarare che nessuna questione distinta si pone sotto il profilo degli articoli 6 e 13 della Convenzione, o che tali disposizioni non sono state violate, tenuto conto della modalità con cui è stata condotta l’inchiesta e della partecipazione dei ricorrenti alla stessa.
334. La camera ha ritenuto che, alla luce della propria constatazione di violazione dell’articolo 2 della Convenzione sotto il profilo procedurale, non era opportuno esaminare la causa sotto il profilo degli articoli 13 o 6 § 1 (paragrafi 265 266 della sentenza della camera).
335. Tenuto conto del fatto che, nella presente causa, i ricorrenti non potevano, nel diritto italiano, costituirsi parte civile nel procedimento penale intentato contro M.P. (v., a contrario e mutatis mutandis, Perez, già cit., §§ 73 75), la Corte ritiene che non sia opportuno esaminare i loro motivi di ricorso sotto il profilo dell’articolo 6 § 1 della Convenzione, ma alla luce dell’obbligo più generale che l’articolo 13 della Convenzione impone agli Stati contraenti, ossia quello di fornire un ricorso effettivo nei casi di violazione della Convenzione, ivi compreso dell’articolo 2 (v., mutatis mutandis, Aksoy c. Turchia, 18 dicembre 1996, §§ 93-94, Recueil 1996 VI).
336. La Corte ricorda che l’«effettività» di un «ricorso» ai sensi dell’articolo 13 non dipende dalla certezza di un esito favorevole per il ricorrente. Parimenti, l’«istanza» menzionata in tale disposizione non deve necessariamente essere un organo giudiziario, ma in questo caso i suoi poteri e le garanzie che essa offre vengono presi in considerazione in sede di valutazione dell’effettività del ricorso che viene esercitato dinanzi ad essa. Inoltre, i ricorsi disponibili nel diritto interno possono, nella loro totalità, soddisfare i requisiti dell’articolo 13, anche se nessuno di essi li soddisfa completamente da solo (Abramiuc c. Romania, n. 37411/02, § 119, 24 febbraio 2009).
337. Nella fattispecie, la Corte ha appena constatato che un’inchiesta interna effettiva, che risponde alle esigenze di rapidità ed imparzialità derivanti dall’articolo 2 della Convenzione, è stata condotta sulle circostanze della morte di Carlo Giuliani (paragrafi 307-326 supra). Tale inchiesta poteva portare ad individuare e sanzionare i responsabili. È vero che i ricorrenti non hanno potuto costituirsi parte civile nell’ambito di questo procedimento; rimane comunque il fatto che essi hanno potuto esercitare le facoltà riconosciute nel diritto italiano alla parte lesa. In ogni caso, tale impossibilità è risultata dal fatto che il giudice penale aveva concluso per l’assenza di un atto penalmente riprovevole. Infine, nulla impediva ai ricorrenti di intentare, prima o contemporaneamente al procedimento penale, un’azione civile per risarcimento danni.
338. In queste circostanze, la Corte ritiene che i ricorrenti hanno disposto di ricorsi effettivi per ottenere riparazione della loro doglianza relativa all’articolo 2 della Convenzione.
339. Di conseguenza, non vi è stata violazione dell’articolo 13 della Convenzione.

V. SULL’ADDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 38 DELLA CONVENZIONE

340. I ricorrenti sostengono che il Governo non ha collaborato sufficientemente con la Corte. Essi invocano l’articolo 38 della Convenzione, che recita:
«La Corte esamina la causa in contraddittorio con i rappresentanti delle parti e, se del caso, procede a un’inchiesta per il cui efficace svolgimento le Alte Parti contraenti interessate forniranno tutte le facilitazioni necessarie.»
341. Secondo i ricorrenti, il Governo ha fornito delle risposte false o incomplete (ad esempio per quanto riguarda l’esperienza professionale dei carabinieri presenti a bordo della jeep o la presenza di uno scudo nel veicolo). Inoltre, avrebbe omesso di precisare alcune circostanze fondamentali, in particolare omettendo di:
– fornire l’elenco della struttura di comando del servizio d’ordine fino al vertice;
– precisare i criteri di selezione degli agenti che potevano essere dispiegati durante operazioni di mantenimento e ristabilimento dell’ordine pubblico;
– produrre i fogli matricolari dei carabinieri interessati;
– presentare gli ordini che il funzionario di polizia Lauro e gli ufficiali responsabili della compagnia avevano ricevuto dai loro superiori;
– fornire indicazioni sull’identità della persona che aveva ordinato l’attacco al corteo delle Tute Bianche;
– produrre le trascrizioni delle comunicazioni radio pertinenti.
342. Il Governo osserva di avere il «sacrosanto» diritto di difendersi, e di avere comunque messo a disposizione della Corte tutte le informazioni utili. Quanto alle informazioni relative all’assalto contro il corteo delle «Tute bianche», fa osservare che l’episodio non è in alcun modo correlato agli avvenimenti al centro del presente ricorso.
343. La camera ha ritenuto che non vi era stata violazione dell’articolo 38 della Convenzione poiché, anche se le informazioni fornite dal Governo non coprivano in modo esauriente tutti i punti sopra elencati, il carattere incompleto di tali informazioni non le aveva impedito di esaminare il caso di specie (paragrafi 269-271 della sentenza della camera).
344. La Corte non vede alcun motivo per discostarsi dall’approccio della camera su questo punto. Pertanto, essa conclude che, nella presente causa, non vi è stata violazione dell’articolo 38 della Convenzione.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE

 

  1. Dichiara, con tredici voti contro quattro, che non vi è stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione sotto il profilo materiale per quanto riguarda il ricorso alla forza omicida;
  2. Dichiara, con dieci voti contro sette, che non vi è stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione sotto il profilo materiale per quanto riguarda il quadro normativo interno che regola l’uso della forza omicida o per quanto riguarda le armi in dotazione alle forze dell’ordine durante il G8 di Genova;
  3. Dichiara, con dieci voti contro sette, che non vi è stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione sotto il profilo materiale per quanto riguarda l’organizzazione e la pianificazione delle operazioni di polizia durante il G8 di Genova;
  4. Dichiara, con dieci voti contro sette, che non vi è stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione sotto il profilo procedurale;
  5. Dichiara, all’unanimità, che non è opportuno esaminare la causa dal punto di vista del combinato disposto degli articoli 3 e 6 della Convenzione;
  6. Dichiara, con tredici voti contro quattro, che non vi è stata violazione dell’articolo 13 della Convenzione;
  7. Dichiara, all’unanimità, che non vi è stata violazione dell’articolo 38 della Convenzione.

Fatta in francese e in inglese, poi pronunciata in pubblica udienza al Palazzo dei diritti dell’uomo, a Strasburgo, il 24 marzo 2011.
Vincent Berger Jean-Paul Costa
Giureconsulto Presidente
Alla presente sentenza è allegata, conformemente agli articoli 45 § 2 della Convenzione e 74 § 2 del regolamento, l’esposizione delle seguenti opinioni separate:
– opinione parzialmente divergente comune ai giudici Rozakis, Tulkens, Zupančič, Gyulumyan, Ziemele, Kalaydjieva e Karakaş;
– opinione parzialmente divergente comune ai giudici Tulkens, Zupančič, Gyulumyan e Karakaş;
– opinione parzialmente divergente comune ai giudici Tulkens, Zupančič, Ziemele e Kalaydjieva.

J.-P.C.
V.B.

OPINIONE PARZIALMENTE DIVERGENTE COMUNE AI GIUDICI ROZAKIS, TULKENS, ZUPANČIČ, GYULUMYAN, ZIEMELE, KALAYDJIEVA E KARAKAŞ
Non condividiamo la decisione della maggioranza relativa ai punti 2, 3 e 4 del dispositivo che conclude per la non violazione dell’articolo 2 della Convenzione sotto il profilo materiale e procedurale.
1. Sotto il profilo materiale, l’obbligo positivo di proteggere la vita che incombe sullo Stato ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione solleva, nel caso di specie, due questioni principali che sono, come vedremo, strettamente legate. Da una parte, lo Stato ha adottato le disposizioni di legge, amministrative e regolamentari necessarie per ridurre per quanto possibile i rischi e le conseguenze dell’uso della forza? Dall’altra parte, la pianificazione, l’organizzazione e la gestione delle operazioni di polizia sono state conformi a tale obbligo di proteggere la vita?
2. Riteniamo, inoltre, che l’obbligo di proteggere la vita deve rientrare nel contesto particolare dei fatti di causa: per lo Stato che accetta la responsabilità di organizzare un evento internazionale ad alto rischio, tale obbligo implica il dovere di adottare le misure e di sviluppare le strategie idonee ad assicurare il mantenimento dell’ordine. A tale riguardo, non è possibile sostenere che le autorità non erano al corrente dei possibili pericoli che un evento come il G8 poteva comportare. Del resto, il numero di agenti e di poliziotti mobilitati sul posto lo dimostra chiaramente (paragrafo 255 della sentenza). In queste circostanze, l’articolo 2 della Convenzione non può essere interpretato né applicato come se si trattasse solo di un incidente isolato, in una situazione occasionale di scontri, come la maggioranza lascia intendere. Quando si tratta di manifestazioni di massa, che diventano sempre più numerose in un mondo globalizzato, l’obbligo di proteggere il diritto alla vita sancito dalla Convenzione riveste necessariamente un’altra dimensione.
3. Per quanto riguarda, anzitutto, il quadro normativo interno che regola l’uso della forza omicida che, in riferimento all’articolo 2 della Convenzione, deve essere idoneo a proteggere la vita dei manifestanti, constatiamo delle lacune che hanno avuto un ruolo determinante nel decesso del figlio dei ricorrenti. Di fatto, il Governo non ha fatto riferimento a disposizioni specifiche che disciplinano l’uso delle armi da fuoco durante le azioni di polizia, constatando esso stesso che solo delle circolari del comando generale dei carabinieri avrebbero richiamato le disposizioni generali del codice penale (paragrafo 207 della sentenza).
4. Orbene, i Principi di base delle Nazioni Unite del 1990 sul ricorso alla forza e l’utilizzo delle armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine, che la sentenza cita tra i testi internazionali pertinenti (paragrafo 154), apportano su questo punto degli elementi che ormai non possono più essere ignorati. In effetti, il Preambolo precisa che «I poteri pubblici devono tenere conto [di questi] Principi (...), che sono stati formulati al fine di aiutare gli Stati Membri a garantire e a promuovere il vero ruolo delle forze dell’ordine, a rispettarli nell’ambito della loro legislazione e della loro pratica nazionale e a portarli all’attenzione delle forze dell’ordine nonché di altre persone come i giudici, i pubblici ministeri, gli avvocati, i rappresentanti del potere esecutivo e del potere legislativo e il pubblico».
5. Per quanto riguarda l’uso delle armi da fuoco, il principio n. 2 è fondamentale: «I governi e le autorità di polizia predisporranno la più ampia gamma di mezzi possibile e doteranno le forze dell’ordine di vari tipi di armi e munizioni che permetteranno un uso differenziato della forza e delle armi da fuoco. A tal fine, sarebbe opportuno realizzare delle armi non mortali neutralizzanti da utilizzare nelle situazioni appropriate, allo scopo di limitare sempre più il ricorso ai mezzi atti a cagionare la morte o delle ferite. Dovrebbe essere anche possibile, allo stesso scopo, fornire alle forze dell’ordine degli strumenti di difesa come giubbotti antiproiettile, caschi e veicoli blindati affinché sia sempre meno necessario utilizzare armi di qualsiasi tipo».
6. Certo, nelle circostanze particolari della presente causa, vista la violenza dell’attacco di cui sono stati oggetto M.P. e i suoi compagni, non è sicuro che delle pistole con proiettili di gomma avrebbero avuto un effetto dissuasivo sufficiente per allontanare il pericolo rappresentato da molti manifestanti armati di oggetti contundenti. Lo stesso può dirsi per molte situazioni simili che le forze dell’ordine si possono trovare ad affrontare. Per questo motivo non pretendiamo di affermare che delle armi non letali avrebbero dovuto costituire, nella fattispecie, l’unico equipaggiamento degli agenti di polizia, e spettava allo Stato decidere che questi ultimi dovevano anche disporre di pistole con pallottole vere. Ma, in ogni caso, una cosa è certa: M.P. non ha avuto la scelta di un mezzo di difesa alternativo. Certo. avrebbe potuto sparare in aria o da una diversa angolazione, ma non disponeva, per difendersi, di nessun’altra arma che la pistola Beretta Parabellum.
7. Per quanto riguarda, poi, il secondo aspetto dell’obbligo di proteggere la vita derivante dall’articolo 2 della Convenzione, ossia la pianificazione e la gestione delle operazioni di polizia, consideriamo che si nota una mancanza di organizzazione imputabile allo Stato. Nella sentenza Halis Akın c. Turchia (n. 30304/02, § 24, 13 gennaio 2009), la Corte ricorda che, «riconoscendo l’importanza di questa disposizione in una società democratica, [essa] deve, per formarsi un’opinione, esaminare in modo estremamente attento i casi in cui si fa un uso deliberato della forza omicida, e prendere in considerazione non solo gli atti degli agenti dello Stato che hanno avuto ricorso alla forza, ma anche tutte le circostanze del caso, in particolare la preparazione e il controllo degli atti in questione».
8. M.P., uno dei numerosi carabinieri presenti sui luoghi, che ha esploso lo sparo fatale, era un giovane uomo di venti anni e undici mesi e che compiva il servizio militare da solo dieci mesi. Peraltro, dal fascicolo non risulta che egli abbia beneficiato di un addestramento specifico in materia di mantenimento dell’ordine, o sulla condotta da seguire in caso di disordini avvenuti in occasione di manifestazioni. Infine, considerata la sua giovane età e la sua inesperienza, è difficilmente accettabile che M.P. non sia stato meglio inquadrato dai suoi superiori, e soprattutto che non sia stato oggetto di un’attenzione particolare quando le sue condizioni fisiche e mentali hanno portato a ritenerlo non idoneo a continuare il servizio sul posto; in queste circostanze, inoltre, è particolarmente problematico che M.P. sia stato lasciato in possesso di una pistola carica di pallottole vere.
9. Una tale situazione è in netta contraddizione con il principio n. 18 dei Principi di base delle Nazioni Unite del 1990: «I poteri pubblici e le autorità di polizia devono assicurarsi che tutte le forze dell’ordine vengano selezionate mediante procedure adeguate, che presentino le qualità morali e i requisiti psicologici e fisici richiesti per il buon esercizio delle loro funzioni e che ricevano una formazione professionale costante e completa. È opportuno verificare periodicamente se essi continuano ad essere idonei all’esercizio di tali funzioni.».
10. Infine, per quanto riguarda gli attacchi contro le jeep, che del resto non erano munite di griglie di protezione sui vetri posteriore e laterali, si poteva evidentemente prevedere che queste avrebbero potuto essere oggetto di un attacco, anche se si trattava di veicoli destinati a trasportare gli agenti feriti e non a sostenere l’azione delle forze dell’ordine in caso di confronto con i manifestanti. In effetti, nell’ambito di una guerriglia urbana, era prevedibile che questi ultimi non avrebbero necessariamente sottoposto a un diverso trattamento i veicoli blindati e quelli di supporto logistico.
11. Alla luce di quanto precede, riteniamo che le lacune nell’organizzazione dell’intervento delle forze dell’ordine devono essere prese in considerazione sia dal punto di vista dei criteri di selezione dei carabinieri armati inviati a Genova che di una mancanza di attenzione rispetto alla situazione particolare di M.P. il quale, pur trovandosi in uno stato di sconforto e di panico, è stato lasciato in un veicolo sprovvisto di protezioni adeguate mentre aveva a sua disposizione solo un’arma letale per assicurare la propria difesa. Le esigenze inerenti la protezione della vita umana richiedevano un miglior inquadramento di questo giovane agente.
12. Al paragrafo 253 della sentenza, la maggioranza ritiene che il ricorso non riguardi l’organizzazione dei servizi di mantenimento dell’ordine durante il G8 in quanto tale, ma che esso si limiti a porre, tra l’altro, la questione di stabilire se, nell’organizzazione e nella pianificazione di questo evento, vi sono state delle lacune che possono essere messe in relazione con il decesso di Carlo Giuliani. La nostra conclusione è affermativa. La mancanza di un quadro normativo adeguato per quanto riguarda l’uso delle armi da fuoco combinata con le lacune nella preparazione delle operazioni di polizia e nell’addestramento delle forze dell’ordine rivelano dei problemi seri e gravi nel mantenimento dell’ordine durante il summit del G8. A nostro parere, tali lacune devono essere considerate legate al decesso di Carlo Giuliani. In effetti, se fossero state adottate le misure necessarie, la probabilità che l’attacco dei manifestanti sulla jeep si concludesse con un evento così tragico avrebbe potuto essere ridotta in maniera significativa.
13. L’elemento procedurale dell’articolo 2 della Convenzione pone due quesiti. Il primo riguarda la questione di stabilire se le modalità con cui si è proceduto all’autopsia e alla cremazione del corpo hanno pregiudicato l’efficacia dell’inchiesta; il secondo riguarda l’assenza di un’azione penale dei confronti dei funzionari di polizia.
14. Le circostanze che hanno caratterizzato l’autopsia rivelano delle lacune imputabili alle autorità: anzitutto, i ricorrenti sono stati informati molto in ritardo del compimento di tale atto istruttorio fondamentale, il che ha reso quasi impossibile, per loro, nominare un perito di fiducia; inoltre, come la stessa procura ha sottolineato, il rapporto peritale era «superficiale», in quanto i medici hanno omesso, in particolare, di estrarre e registrare un elemento fondamentale, ossia il frammento di proiettile che si trovava nella testa della vittima. Certo, non è sicuro che gli eventuali riscontri sul frammento avrebbero dato una risposta definitiva alla questione di stabilire se il proiettile letale fosse stato deviato da un oggetto prima di raggiungere il figlio dei ricorrenti. Rimane comunque il fatto che non si poteva escludere che tali verifiche avrebbero potuto fornire dei chiarimenti importanti al riguardo (ad esempio, la natura della deformazione del frammento e la presenza di tracce di materiali avrebbero potuto aiutare a ricostruirne la traiettoria). Inoltre, una pratica comune nelle autopsie consiste nell’estrarre e registrare qualsiasi oggetto che si trovi nel corpo e che abbia potuto contribuire a provocare la morte.
Uno dei periti, il dott. Salvi, ha dichiarato al «processo dei 25» che il frammento in contestazione era piccolissimo, molto difficile da recuperare nella massa cerebrale e, soprattutto, inutile ai fini degli esami balistici. In ogni caso, erano i medici legali a dover fare quanto necessario per registrare ogni oggetto che potesse chiarire le circostanze del decesso e dell’azione omicida in un caso di omicidio che aveva attirato un’attenzione mediatica eccezionale. Le speculazioni dei periti relative all’inutilità del frammento ai fini balistici si sono del resto rivelate errate: tenuto conto delle dichiarazioni di M.P., era fondamentale stabilire se quest’ultimo aveva sparato verso l’alto allo scopo di allontanare i suoi aggressori o ad altezza d’uomo allo scopo di colpirli o accettando il rischio di ucciderli.
Alla luce di quanto precede, riteniamo che le modalità con cui è stata effettuata l’autopsia hanno dato luogo a una violazione dell’articolo 2 della Convenzione sotto il profilo procedurale.
15. Il Governo ritiene che il comportamento dei ricorrenti sia stato «ambiguo». Essi sapevano che i risultati dell’autopsia disposta dalla procura sarebbero stati comunicati solo sessanta giorni dopo. La preoccupazione di assicurarsi della professionalità e dell’affidabilità degli esami compiuti avrebbe potuto portarli a contestare la legalità dell’autopsia o a chiedere una nuova autopsia. Lungi dall’adottare questo approccio, i ricorrenti hanno chiesto l’autorizzazione a cremare la salma. Così facendo, sapevano o avrebbero dovuto sapere che qualora la loro richiesta fosse stata accolta, qualsiasi esame successivo sul corpo del defunto sarebbe divenuto impossibile. Se desideravano lasciare aperta la possibilità di una perizia supplementare, avrebbero dovuto optare per la sepoltura del figlio.
16. Da parte nostra, riteniamo che non si possa rimproverare a dei genitori colpiti da un evento così tragico di non aver valutato attentamente tutte le conseguenze di una richiesta di mettere a disposizione la salma presentata subito dopo il decesso del figlio. La cremazione è stata richiesta dai ricorrenti, ma la procura poteva benissimo rigettare la loro richiesta o esigere che quest’ultima avvenisse solo dopo la pubblicazione dei risultati dell’autopsia. In quest’ultimo caso sarebbe stata auspicabile la fissazione di un termine più breve per i medici legali per l’assolvimento del loro compito. Sessanta giorni per redigere un rapporto di alcune pagine in una causa così delicata e mediatica sembra un tempo eccessivamente lungo.
17. In queste condizioni, riteniamo che la Grande Camera avrebbe dovuto confermare e rafforzare la conclusione della camera secondo la quale le circostanze dell’autopsia e della cremazione del corpo del figlio dei ricorrenti hanno violato l’articolo 2 sotto il profilo procedurale.
18. La seconda questione consiste nello stabilire se l’assenza di un’inchiesta per stabilire l’eventuale responsabilità di alcuni funzionari di polizia ha violato gli obblighi procedurali derivanti dall’articolo 2.
Abbiamo concluso poc’anzi che un certo numero di lacune, imputabili alle autorità italiane, hanno caratterizzato l’inquadramento del carabiniere M.P. e la presa in considerazione della sua situazione particolare durante il G8 di Genova e l’organizzazione delle operazioni di polizia. In questo contesto, vi era un obbligo di avviare delle indagini per chiarire questi aspetti della causa? Nella fattispecie, l’inchiesta interna ha riguardato solo le circostanze precise dell’incidente, limitandosi a individuare eventuali responsabilità degli attori immediati, senza cercare di far luce su eventuali lacune nella pianificazione e gestione degli interventi di mantenimento dell’ordine.
19. Siamo sicuramente d’accordo nell’affermare che sarebbe irragionevole chiedere a uno Stato di avviare un’inchiesta penale laddove non è stato commesso alcun reato. Secondo i principi generali del diritto penale, comuni agli Stati contraenti, nelle circostanze della presente causa le sole persone che potevano, eventualmente, essere considerate penalmente responsabili del decesso del figlio dei ricorrenti erano M.P. e F.C., che sono stati oggetto di inchieste e azioni penali. Ma queste ultime, condotte dalla procura, si sono concluse con una domanda di archiviazione sulla base degli articoli 52 e 53 del codice penale (paragrafi 67 e seguenti della sentenza), accolta dal GIP di Genova (paragrafi 82 e seguenti della sentenza), rendendo impossibile qualsiasi processo in contraddittorio dinanzi a un giudice.
20. Certo, un’estensione degli obblighi procedurali derivanti dall’articolo 2 fino al punto di esigere l’imputazione di altri soggetti imporrebbe allo Stato convenuto un onere eccessivo e sproporzionato e rischierebbe di rivelarsi incompatibile con l’articolo 7 della Convenzione. Rimane comunque il fatto che un’inchiesta idonea a portare all’identificazione e al sanzionamento dei responsabili può essere anche di natura disciplinare. Al riguardo, è sorprendente che, di fronte al decesso di un manifestante a seguito dell’uso della forza letale da parte di un agente dello Stato (fatto rarissimo in Italia), il Governo abbia ammesso che non è stata avviata alcuna inchiesta amministrativa o disciplinare nei confronti dei rappresentanti del mantenimento dell’ordine. Certo, una simile inchiesta avrebbe potuto portare alla conclusione che non sussistevano infrazioni disciplinari nella formazione e nell’inquadramento di M.P. né, più in generale, nell’organizzazione delle operazioni di polizia. Ma, nello stesso tempo, avrebbe potuto chiarire le circostanze che hanno caratterizzato alcuni punti fondamentali del fascicolo, che purtroppo sono rimasti oscuri (in particolare i criteri utilizzati per la selezione e la formazione degli agenti incaricati di assicurare l’ordine pubblico in occasione del G8 e i motivi per cui la situazione personale di M.P. non era stata debitamente presa in considerazione).
21. L’aver omesso di avviare qualsiasi procedimento disciplinare nei confronti dei carabinieri sembra partire dall’idea preconcetta che, malgrado la piega tragica assunta dagli eventi, non poteva essere mosso alcun rimprovero sul modo in cui gli agenti erano stati spiegati sul terreno e gli ordini erano stati impartiti lungo tutta la catena di comando. Da tutti gli argomenti proposti dal Governo in questa causa risulta che i pericoli legati alla situazione di sommossa e i rischi corsi dai poliziotti erano ampiamente prevedibili. Questo approccio è difficile da conciliare con gli obblighi procedurali derivanti dall’articolo 2 della Convenzione.


OPINIONE PARZIALMENTE DIVERGENTE COMUNE AI GIUDICI TULKENS, ZUPANČIČ, GYULUMYAN E KARAKAŞ
Con grande rammarico, non possiamo condividere l’opinione della maggioranza, non solo per quanto riguarda la non violazione procedurale dell’articolo 2 della Convenzione sotto il profilo procedurale e sotto il profilo materiale per quanto riguarda il quadro normativo interno che regola l’utilizzo della forza omicida, delle armi di cui erano dotate le forze dell’ordine durante il G8 di Genova e dell’organizzazione della pianificazione delle operazioni di polizia in occasione del G8 di Genova (punti su cui rinviamo alla nostra opinione parzialmente divergente, condivisa anche dai giudici Rozakis, Ziemele e Kalaydjieva), ma anche per quanto riguarda la constatazione (punto 1 del dispositivo della sentenza) che il ricorso alla forza omicida è stato «assolutamente necessario» nelle circostanze particolari del caso di specie.
1. Per quanto riguarda l’articolo 2 della Convenzione e la questione di stabilire se lo sparo mortale fosse giustificato, non dubitiamo dell’esistenza di un pericolo grave e oggettivo che minacciava M.P. al momento dello sparo mortale. Come emerge dal materiale fotografico e audiovisivo sottoposto dalle parti, la jeep in cui si era riparato era circondata da manifestanti che lanciavano proiettili di ogni tipo e che avevano cercato di tirarlo per le gambe per farlo uscire dal veicolo; la possibilità di un linciaggio non poteva essere scartata. Inoltre, prima di esplodere gli spari in questione, M.P. aveva mostrato la pistola e intimato chiaramente ai manifestanti, urlando, che dovevano andarsene se non volevano essere uccisi. Anche nella confusione che regnava intorno alla jeep al momento dei fatti, la vista di un’arma carica e le minacce proferite da M.P. sono dovute sembrare ai manifestanti delle indicazioni inequivocabili della volontà del carabiniere di difendere la propria vita e/o la propria integrità fisica con l’uso di una forza potenzialmente omicida.
2. Malgrado ciò, il figlio dei ricorrenti ha deciso di proseguire il suo attacco contro il veicolo delle forze dell’ordine e i suoi occupanti, avvicinandosi alla jeep brandendo un estintore sopra il petto, il che faceva temere che lo avrebbe utilizzato come oggetto contundente. Si potrebbe pertanto ritenere che il figlio dei ricorrenti abbia la responsabilità della sua azione illegale, che ha scatenato la piega tragica assunta dagli eventi (v., mutatis mutandis, Solomou e altri c. Turchia, n. 36832/97, § 48, 24 giugno 2008); egli sapeva o avrebbe dovuto sapere che questa lo esponeva al rischio di una reazione degli occupanti del veicolo, eventualmente mediante le armi di cui erano dotati i carabinieri.
3. Tuttavia, vi è un elemento che disturba questa ricostruzione dei fatti e di cui la sentenza della Grande Camera non tiene conto. Interrogato da un rappresentante della procura, M.P. ha dichiarato che non aveva un bersaglio e che, al momento degli spari, nessuno si trovava nel suo campo visivo. Stando alle sue dichiarazioni – provenienti dallo stesso M.P. e la cui attendibilità non è mai stata messa in discussione dai giudici nazionali – si è portati a pensare che il carabiniere non aveva visto l’aggressore avvicinarsi con un estintore e che non aveva mirato contro di lui. Ai sensi dell’articolo 52 del codice penale italiano (il «CP»), la legittima difesa può essere invocata da chi viene costretto a commettere un reato dalla necessità di difendere i suoi diritti contro un pericolo attuale. Tale necessità implica una percezione soggettiva dell’esistenza del pericolo, come dimostra la circostanza che la legge italiana (articolo 55 del CP) prevede la possibilità di punire l’autore del reato per omicidio colposo quando, per negligenza o percezione errata ma colpevole delle circostanze di fatto, ha ecceduto i limiti «imposti dalla necessità». Di conseguenza gli spari sarebbero stati motivati da una difesa non contro l’azione illegale di Carlo Giuliani, ma contro la situazione generalizzata di pericolo creata dall’attacco dei manifestanti sulla jeep.
4. Resta da determinare se la reazione di M.P. era «proporzionata» al pericolo che questi voleva neutralizzare. A tale scopo, era determinante stabilire quale sia stata la traiettoria dello sparo di M.P. In effetti, se la minaccia del lancio imminente di un oggetto ad alto potenziale di distruzione giustifica uno sparo ad altezza d’uomo, uno stato di pericolo generalizzato giustifica solo degli spari in aria (v., in particolare, Kallis e Androulla Panayi c. Turchia, n. 45388/99, § 63, 27 ottobre 2009, in cui la Corte ha precisato che l’apertura del fuoco deve, se possibile, essere preceduta da spari di avvertimento). Se M.P. non avesse visto nessuno che mirava verso di lui direttamente e individualmente, la sua reazione avrebbe dovuto avere lo scopo di allontanare, e non di eliminare, gli aggressori.
5. In altre parole, solo degli spari intimidatori potrebbero soddisfare alle esigenze dell’articolo 2 della Convenzione sotto il profilo sostanziale se risulta che la «difesa» di M.P. non era giustificata dall’esigenza di fermare un’aggressione che poteva comportare, nell’immediato, delle conseguenze gravi non evitabili con una reazione meno radicale (il «pericolo attuale di un’offesa ingiusta» di cui all’articolo 52 del CP). Così vuole il test di «necessità assoluta», che richiede un rapporto di stretta proporzionalità tra gli scopi perseguiti e la forza utilizzata (Andronicou e Constantinou c. Cipro, 9 ottobre 1997, § 171, Recueil des arrêts et décisions 1997-VI): se dei mezzi meno pericolosi per la vita umana possono ragionevolmente sembrare sufficienti per raggiungere l’obiettivo di «assicurare la difesa di ogni persona contro la violenza illegale» o di «reprimere una sommossa», sono tali mezzi a dover essere utilizzati. Peraltro, il CP italiano sembra andare nella stessa direzione quando esige (articolo 52 in fine) che la «reazione di difesa sia proporzionata all’offesa».
6. In sintesi, se M.P. ha voluto difendersi contro l’attacco dei manifestanti attorno alla jeep e non contro il figlio dei ricorrenti in particolare, non si può concludere che il rischio di un grave pericolo per la persona fosse talmente imminente che solo degli spari ad altezza d’uomo avrebbero potuto neutralizzarlo. Se è vero che la jeep era circondata da manifestanti ed era oggetto di lancio di oggetti diversi, rimane comunque il fatto, come risulta dalle fotografie contenute nel fascicolo, che al momento in cui M.P. estrasse la pistola e aprì il fuoco nessuno, ad eccezione di Carlo Giuliani, lo stava attaccando direttamente, individualmente e a distanza ravvicinata. Degli spari in aria sarebbero stati probabilmente sufficienti per disperdere gli aggressori; in caso negativo, M.P. avrebbe avuto il tempo di difendersi successivamente con altri spari, rivolti questa volta contro delle persone che, nonostante gli spari intimidatori, avessero scelto comunque di attaccarlo. A questo riguardo, conviene ricordare che M.P. disponeva di una pistola automatica e che aveva quindici proiettili nel caricatore.
7. Alla luce di quanto precede, come abbiamo già constatato, era determinante sapere quale sia stata la traiettoria dei proiettili sparati da M.P. Su questo punto, sono state proposte due tesi: secondo la prima, difesa dai ricorrenti, lo sparo omicida è stato esploso ad altezza d’uomo; secondo la seconda, sostenuta dal Governo e ritenuta più probabile dal GIP, il proiettile è partito verso l’alto ed è stato deviato in direzione di Carlo Giuliani a seguito di una collisione con un oggetto (probabilmente un sasso) lanciato dai manifestanti.
8. Se si dovesse accettare quest’ultima versione dei fatti, ossia che il proiettile è partito verso l’alto, si potrebbe escludere ogni parvenza di violazione dell’articolo 2, un elemento imprevedibile e incontrollabile che ha trasformato l’azione di avvertimento di M.P. in sparo mortale (v. Bakan c. Turchia, n. 50939/99, §§ 52-56, 12 giugno 2007, causa in cui, durante un inseguimento uno sparo di avvertimento era rimbalzato e aveva ucciso accidentalmente il parente dei ricorrenti, il che aveva portato la Corte a ritenere che il suo decesso era dovuto «alla sfortuna»). Anche nel panico generato da un attacco violento ed inaspettato, si può esigere dai rappresentanti delle forze dell’ordine che facciano precedere l’uso della forza letale da spari di avvertimento; tuttavia, non si può privarli di qualsiasi mezzo di difesa esigendo che si tenga conto della possibilità, statisticamente poco probabile ma teoricamente sempre presente durante i confronti tra la polizia e i manifestanti, della deviazione della traiettoria del proiettile a seguito di una collisione con un oggetto volante.
9. In compenso, se M.P. ha sparato ad altezza d’uomo, si dovrebbe necessariamente, a nostro avviso, concludere che il ricorso alla forza omicida non era «assolutamente necessario» ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione.
10. In queste circostanze, è deplorevole che l’inchiesta interna non abbia potuto determinare con certezza se il proiettile sia o meno rimbalzato su un oggetto prima di raggiungere Carlo Giuliani. Il GIP si è limitato a indicare che la «teoria dell’oggetto intermedio» «poteva essere presa in considerazione» tenuto conto della potenza dell’arma e della scarsa resistenza dei tessuti attraversati dal proiettile.
11. Osserviamo che le autorità disponevano di numerosi elementi per calcolare la traiettoria della pallottola mortale, ossia: i vari rapporti relativi alle perizie medico-legale e balistica; la circostanza che la pallottola si era frantumata; il fatto che un filmato mostra un oggetto che si disintegra in aria prima del momento in cui Carlo Giuliani stramazza al suolo; la tesi dei periti dei ricorrenti secondo la quale la frantumazione del proiettile poteva essere stata causata da fatti diversi da una collisione con un sasso; le fotografie scattate poco prima e poco dopo lo sparo mortale e durante l’autopsia.
12. Il cliché scattato alcuni istanti prima dello sparo mostra la pistola posizionata ad altezza d’uomo (v. anche il punto 6 dell’opinione parzialmente divergente del giudice Bratza allegata alla sentenza della camera) con un angolo compatibile con la ferita di Carlo Giuliani (come risulta dall’autopsia, il proiettile è entrato a livello dell’orbita sinistra ed è uscito dalla parte posteriore del cranio, seguendo una traiettoria dall’alto verso il basso all’interno del corpo). Pertanto, benché non impossibile, è improbabile: a) che M.P. abbia alzato la pistola proprio al momento dello sparo; b) che il proiettile sia rimbalzato contro un oggetto volante; c) che l’angolo di impatto tra l’oggetto e il proiettile sia stato di natura tale da permettere di colpire la vittima in un luogo molto vicino a quello che avrebbe colpito se la pistola non avesse cambiato posizione.
13. Per quanto riguarda il fatto b) di cui sopra, si deve osservare che le fotografie scattate appena prima dello sparo mortale non mostrano alcun sasso o altro oggetto fluttuante in aria, il che sembra indicare che in momenti vicini all’esplosione degli spari non vi era un lancio intensivo di proiettili da parte dei manifestanti. Ciò porta a pensare che ciascuno dei tre fatti sopra indicati aveva, statisticamente, una scarsa probabilità di verificarsi. La probabilità statistica che si siano verificati tutti e tre in rapida successione è ancora minore.
14. Ai sensi della giurisprudenza della Corte, quando un ricorrente presenta degli elementi che portano a pensare, prima facie, che vi è stato un uso eccessivo della forza omicida, spetta al Governo dimostrare il contrario (Toğcu c. Turchia, n. 27601/95, § 95, 31 maggio 2005, e Akkum e altri c. Turchia, n. 21894/93, § 211, CEDU 2005 II). Riteniamo che lo stesso valga quando, per neutralizzare la versione dei ricorrenti, corroborata da supporti visivi, il Governo invoca una teoria statisticamente poco probabile: l’onere di provare che i fatti rarissimi addotti si sono realmente verificati gravava sulle autorità. Tuttavia, una tale prova non è stata fornita né a livello nazionale, né dinanzi alla Corte. Nella sua ordinanza di archiviazione, il GIP stesso ha indicato che la traiettoria iniziale dello sparo non aveva potuto essere determinata dalla perizia balistica.
15. Infine, la sentenza della Grande Camera ci sembra non aver rimesso gli avvenimenti all’origine di questa drammatica causa nel loro vero contesto. In effetti, poiché si trattava di una situazione di violenza individuale, essa ritiene che il ricorso alla forza omicida si è reso necessario per assicurare la legittima difesa della persona in causa conformemente all’articolo 2 § 2 a) della Convenzione (paragrafo 194 della sentenza). In questo modo, essa si esime dall’esaminare la questione di stabilire se l’uso della forza si è reso inevitabile anche «per reprimere, conformemente alla legge, una sommossa o una insurrezione», ai sensi del comma c) del paragrafo 2 dell’articolo 2 (paragrafo 196 della sentenza). Questa era proprio la questione fondamentale da esaminare nel caso di specie.
16. Queste considerazioni portano a concludere che vi è stata violazione dell’articolo 2 della Convenzione sotto il profilo materiale.

OPINIONE PARZIALMENTE DIVERGENTE COMUNE AI GIUDICI TULKENS, ZUPANČIČ, ZIEMELE E KALAYDJIEVA
Non condividiamo la decisione della maggioranza relativa al punto 6 del dispositivo e che conclude per l’assenza di violazione dell’articolo 13 riguardante il ricorso effettivo.
Per quanto riguarda l’articolo 13 della Convenzione, una delle questioni critiche sta nel fatto che i ricorrenti non hanno potuto costituirsi parte civile nel procedimento penale in quanto il GIP ha concluso per un non luogo a procedere. Essi sono stati così privati del sostegno delle autorità procedenti per stabilire i fatti e la prova di questi ultimi.
Al riguardo, sostenere, come fa la sentenza, che «nulla impediva ai ricorrenti di intentare, prima o contemporaneamente al procedimento penale, un’azione civile per risarcimento danni» (paragrafo 337 della sentenza), ci sembra non solo teorico ma anche illusorio, poiché in ogni caso la Grande Camera ritiene che l’operazione di polizia fosse assolutamente legale nel suo insieme.