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Omessa diagnosi: quando è reato? (Cass. 24384/18)

30 maggio 2018, Cassazione penale

Per poter valutare la responsabilità penale sotto il profilo dell'omessa diagnosi, deve essere accertato il profilo della natura colposa della condotta del medico (ivi compreso l’accertamento del grado dell’eventuale colpa), sia sotto il profilo della sua rispondenza o meno ai criteri riconducibili alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, sia sotto il profilo della portata salvifica che il comportamento eventualmente alternativo e ritenuto doveroso avrebbe avuto, attraverso un giudizio fondato su criteri di elevata probabilità logica e non su mere basi probabilistico-statistiche.

Il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di elevata probabilità logica, che, a sua volta, deve essere fondato, oltre che su un ragionamento deduttivo basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo circa il ruolo salvifico della condotta omessa, elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e focalizzato sulle particolarità del caso concreto.


CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE - SENTENZA 30 maggio 2018, n.24384

Pres. Piccialli – est. Pavich

Ritenuto in fatto

1. In data 13 marzo 2017, la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza con la quale M.L. , il 21 gennaio 2016, era stato dichiarato colpevole dal Tribunale di Roma in ordine al reato a lui ascritto ex art. 589 cod.pen. (omicidio colposo in danno di Co.Re. , deceduta presso l’ospedale (omissis) il (omissis) ).

Per meglio comprendere i termini del giudizio, giova precisare che la Co. era stata sottoposta, il (omissis) , presso la casa di cura S., a un intervento chirurgico di plastica di laparatocele e revisione della cicatrice in seguito a pregressa isterectomia ombelico-pubica, intervento cui aveva preso parte il dott. M. ; e che dall’addebito a lui inizialmente mosso in cooperazione colposa con altri medici, con riferimento a detto intervento chirurgico - e segnatamente alla circostanza, non confermata nel giudizio, che in tale occasione sarebbe stata procurata alla paziente una perforazione intestinale -, il M. era stato prosciolto già in primo grado. Tale decisione è divenuta definitiva.

Residuava in appello l’addebito mosso al M. in relazione al decorso postoperatorio, riferibile agli accadimenti che di seguito si riassumono.

2. Il giorno successivo all’operazione, ossia il (omissis) , la Co. viene dimessa a domicilio.

Successivamente compaiono dolori addominali, seguiti da vomito, meteorismo intestinale e difficoltà di evacuazione e all’espulsione dell’aria, che inducono la donna a rivolgersi nuovamente ai medici. Il 22 novembre il chirurgo plastico dott. E.S. , dopo avere visitato a domicilio la Co. , informa il dott. M. , chirurgo addominale che aveva partecipato all’intervento, della sintomatologia dolorosa, che secondo il medesimo rende necessaria la somministrazione di toradol.

Il dott. M. , il pomeriggio del giorno successivo (23 novembre), sottopone a visita la Co. . All’esito della visita, necessariamente non approfondita perché condizionata dalla presenza della medicazione, il sanitario prescrive clisteri evacuativi, ritenendo che i problemi siano riconducibili al decorso post-operatorio.

La situazione però non migliora e la Co. , il 26 novembre, si rivolge al dott. E. , invocando un intervento risolutore. Segue un nuovo ricovero in clinica e quindi, dopo una radiografia diretta dell’addome e una TAC del distretto pelvico-addominale, si giunge alla diagnosi di occlusione intestinale; il M. si determina ad accompagnare quindi la Co. all’ospedale (omissis) , ove viene diagnosticata addirittura una perforazione intestinale.

Qui viene eseguito un intervento chirurgico urgente, cui partecipa il dott. M. , ed inizialmente il decorso post-operatorio sembra non allarmante; ma dal 29 novembre la situazione si aggrava: subentra uno stato febbrile, accompagnato da esiti alterati negli esami di laboratorio; si instaura quindi una sepsi che diviene sempre più severa, coinvolgendo progressivamente organi vitali. Il quadro clinico è via via sempre più drammatico finché, nella serata del 2 dicembre, poche decine di minuti dopo che il chirurgo chiamato a consulto dà indicazioni per una laparatomia d’urgenza, interviene il decesso della donna.

3. La Corte di merito ha ritenuto confermate le accuse al M. sotto il profilo della sottovalutazione diagnostica e dell’omessa prescrizione dei necessari approfondimenti in occasione della visita del 23 novembre: l’imputato, secondo la Corte distrettuale, ben poteva pervenire a una diagnosi differenziale che riferisse, quanto meno in via ipotetica, la sintomatologia dolorosa della donna non già al normale decorso post-operatorio, ma all’insorgere dell’occlusione intestinale, causa scatenante della successiva perforazione intestinale e della conseguente sepsi che condusse poi la Co. all’exitus.

Tale profilo di colpa viene qualificato dalla Corte territoriale come imprudenza (non come negligenza, né tanto meno come imperizia).

Nella parte finale della motivazione viene poi esclusa la rilevanza, nel caso di specie, dell’osservanza delle linee-guida (o delle buone pratiche) che, secondo la difesa, non sarebbero state disattese dal M. nella sua condotta; e viene altresì esclusa l’applicabilità al caso di specie della lex mitior, costituita dall’art. 3 della legge Balduzzi (n. 189/2002) ed eventualmente dall’art. 590-sexies cod.pen. introdotto dalla legge n. 24/2017 (legge Gelli-Bianco).

4. Avverso la prefata sentenza ricorre il M. , per il tramite dei suoi difensori di fiducia.

Il ricorso consta di quattro motivi di doglianza.

4.1. Con il primo motivo si denuncia vizio di motivazione con particolare riguardo ai criteri identificativi della colpa professionale in ambito medico. Dopo avere riassunto il corso degli eventi, l’esponente lamenta in primo luogo che la condotta del M. (giudicata 'attendista' dai giudici d’appello, avendo l’imputato omesso di prescrivere ulteriori accertamenti e di formulare una diagnosi e una valutazione della paziente) sia stata qualificata in termini di imprudenza, e che la Corte di merito non si sia adeguatamente posta il problema della violazione delle regole prescritte dalla professione medica e della presenza o meno di elementi per pervenire a una diagnosi di sospetta occlusione intestinale: elementi che in realtà non si manifestarono, a fronte di una dolenzia del tutto compatibile con un normale decorso post-operatorio e senza i segni classicamente deponenti per una perforazione intestinale, come affermato dallo stesso perito dott. V. . Il ricorrente ribadisce quindi che l’operato del dott. M. non si discostò dai protocolli sanitari previsti in un quadro simile; e sul punto la risposta della Corte di merito, oltreché elusiva delle questioni poste con l’appello, è del tutto illogica nell’affermare che le linee-guida e le buone pratiche non c’entrino nulla con il caso di specie. Da ciò discende, secondo l’argomentare del deducente, l’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 590-sexies cod.pen. (introdotto, come detto, dalla recente legge n. 24/2017 meglio nota come legge Gelli-Bianco): ciò in quanto, si afferma nel ricorso, non già di imprudenza, ma al più di imperizia deve parlarsi nella specie; inoltre vi è stata conformità della condotta del sanitario alle linee guida concretamente esigibili (i periti Ve. e V. , nella loro relazione, affermano che la letteratura medica largamente maggioritaria - con la sola eccezione di un singolo autore - consiglia una 'vigile attesa'); ed infine, non può sicuramente parlarsi, nel caso di specie, di colpa grave, questione sulla quale del resto la sentenza impugnata omette completamente di intervenire. Sotto quest’ultimo profilo, indipendentemente dalla qualificazione della colpa del dott. M. come imprudenza o imperizia, troverebbe comunque applicazione l’esimente di cui all’art. 3 della legge Balduzzi (n. 189/2012). Ancora, i periti escludono che la comparsa del vomito (ridotta peraltro a un singolo episodio) avesse sostanziale rilevanza ai fini di una diagnosi di sospetta occlusione intestinale, dovendo al riguardo privilegiarsi la chiusura completa dell’alvo a feci e gas e l’acutizzarsi del dolore addominale: sintomi che il 23 novembre non si erano ancora manifestati nella Co. . Infine, l’esponente conclude escludendo la ravvisabilità di una condotta lato sensu colposa (e a maggior motivo gravemente colposa) da parte del dott. M. sotto il profilo della prevedibilità dell’evento, in mancanza di una legge scientifica di copertura in grado di spiegare le possibili conseguenze dei sintomi presentati dalla paziente in occasione della visita dei 23 novembre.

4.2. Con il secondo motivo si lamenta vizio di motivazione in riferimento alla configurabilità del nesso di causalità e della certezza processuale della dipendenza eziologica dell’evento dalla condotta dell’imputato: richiamati brevemente i principi affermati in materia dalla giurisprudenza di legittimità, il deducente denuncia in primo luogo le argomentazioni della Corte di merito laddove essa critica la tesi della difesa additandola come meramente distruttiva, a fronte del fatto che nella specie vi sono lampanti incertezze e debolezze nell’impianto accusatorio, tali da non consentire l’affermazione di penale responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio.

Indi il ricorrente sottolinea la mancanza di certezze in ordine a una serie di rilevanti circostanze.

In primo luogo è incerto il momento di verificazione dell’occlusione del piccolo intestino: non può affermarsi che essa fosse già in corso al momento della visita del 23 novembre, e nemmeno che a tale data vi fossero le condizioni per prevederla. I dolori lamentati dalla paziente erano del resto compatibili con il normale decorso post-operatorio; la distensione addominale non era apprezzabile a causa della fasciatura e il fatto che la Co. presentasse addome gibboso era del tutto fisiologico; l’addome era trattabile, e l’episodio di rigurgito era risultato isolato e seguito da una sensazione di miglioramento; non vi era chiusura completa dell’alvo, atteso che la donna aveva espulso gas nella giornata del 21 novembre; il ritardo nella canalizzazione rientrava inoltre nella normalità post-operatoria.

In secondo luogo, il deducente rileva l’assenza di certezze anche in punto di tempo di azione (con riferimento al nesso causale tra condotta omessa ed evento): viene anzi evidenziato che il tempo per agire sarebbe stato con ogni probabilità comunque insufficiente. Lo stesso Tribunale, nella sentenza di primo grado, aveva ammesso che solo l’esecuzione in successione di svariati esami e accertamenti avrebbe potuto portare alla diagnosi compiuta. Quindi mancava la prova che, quand’anche fosse stata formulata la diagnosi di sospetta occlusione a seguito della visita del 23 novembre, si sarebbe potuto evitare il decesso della paziente; ed anzi verosimilmente sarebbero mancati i tempi tecnici per evitare la morte della Co. . Anche sotto questo profilo, la motivazione della sentenza impugnata (riportata testualmente per stralci) appare sostanzialmente assente e riconducibile a un’opinione personale dell’organo giudicante.

Da ultimo si affronta il tema dell’eventuale interferenza di decorsi causali alternativi: al riguardo l’esponente sottolinea che non è stata debitamente esaminata la possibilità che l’evento si fosse verificato a causa della presenza dell’infezione virale erpetica riscontrata sulla paziente in sede autoptica, tesi avvalorata dalla prof.ssa G. e alla quale gli stessi periti, pur dando una diversa interpretazione dei dati di laboratorio (peraltro su basi probabilistiche non univoche), hanno riconosciuto validità scientifica. Sul punto la sentenza impugnata è in netta contraddizione con le emergenze processuali, laddove si afferma che l’eventuale riattivazione di preesistenti virus latenti (connessi cioè alla suddetta infezione erpetica) viene invece qualificata come l’ultimo anello di una catena causale originata comunque dalla perforazione intestinale.

4.3. Con il terzo motivo di ricorso si denuncia vizio di motivazione con riguardo al trattamento sanzionatorio, che immotivatamente il Tribunale prima, la Corte d’appello poi hanno determinato in misura largamente superiore al minimo edittale: in specie la Corte di merito giustifica la conferma della sanzione applicata in primo grado senza neppure prendere in considerazione le doglianze difensive, e sul solo rilievo che l’elevata professionalità del dott. M. costituiva nella specie, semmai, un fattore di aggravamento della pena. Ciò in sostanziale spregio al principio secondo il quale il giudice, quanto più ritenga di allontanarsi dal minimo edittale, tanto più deve fornire analiticamente le ragioni dell’esercizio di tale potere discrezionale. Inoltre il riferimento al 'danno irreparabile' prodotto, quale fattore di aggravamento della pena, è incomprensibile se rapportato a una fattispecie di omicidio colposo nella quale il danno è, perciò stesso, irreparabile. Infine si censura la parte della motivazione in cui si evidenzia l’irrilevanza della quantificazione della pena in concreto, sul rilievo che essa non verrà mai scontata e che ciò che conta è la condanna come 'punto di riequilibrio del torto commesso, del danno provocato'.

4.4. Con il quarto motivo di ricorso si denuncia, infine, vizio di motivazione in riferimento alla determinazione della provvisionale immediatamente esecutiva posta a carico del ricorrente, nonché alla liquidazione delle spese di costituzione e patrocinio sostenute dalle parti civili.

5. Va infine dato atto che le parti civili C.V. e C.M. , per il tramite del loro difensore, hanno depositato in Cancelleria, il 20 aprile 2018, una memoria nella quale contestano gli argomenti posti a base del ricorso, che chiedono venga dichiarato inammissibile o, quanto meno, rigettato.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è fondato, per diverse ragioni evidenziate sia nel primo che nel secondo motivo di ricorso, attinenti sia al profilo della colpa, sia al profilo del nesso causale.

2. In primo luogo, presta il fianco a censure (puntualmente formulate dal ricorrente) la trattazione da parte dei giudici di merito (il Tribunale prima, la Corte distrettuale poi) del tema dell’oggettiva riferibilità scientifica dei sintomi presentati dalla Co. il 23 novembre a una sospetta occlusione intestinale: riferibilità scientifica che la sentenza impugnata sembra dare per scontata, ancorandola da un lato al verificarsi dell’occlusione nei giorni successivi (senza che però sia risultato possibile individuare con precisione il momento d’insorgenza della stessa), dall’altro a un generico criterio di prudenza, che però non viene meglio circostanziato e si risolve in una serie di considerazioni di carattere generale (il grado di sopportazione del dolore da parte della paziente, l’avvenuta somministrazione di analgesici idonei a mascherare i sintomi ecc.) e di richiami alle comunicazioni della paziente, tra la sera del 22 novembre e la mattina del 23, in cui la donna descrive i propri sintomi dolorosi non già al dott. M. , ma ad un altro sanitario (il dott. E. ) e ad altre persone.

In sostanza, il rimprovero rivolto al M. da parte della Corte d’appello è quello di non essere pervenuto a una diagnosi e, soprattutto, di non avere considerato una diagnosi differenziale, ossia di non avere valutato adeguatamente la presenza di sintomi che potevano essere variamente interpretati.

Nel percorso motivazionale seguito dalla Corte di merito non è però chiarito in base a quali elementi istruttori tali sintomi possano essere oggettivamente riconducibili (anche) a una possibile occlusione in corso o in evoluzione.

Va peraltro osservato che, sotto questo profilo, risulta di maggiore aiuto la lettura della sentenza di primo grado, che forma un unicum argomentativo con quella impugnata, trattandosi di doppia conforme.

Nel richiamare il riferimento dei periti ai segni clinici (dolore, vomito, chiusura completa dell’alvo a feci e gas, distensione addominale) che avrebbero potuto suggerire al dott. M. la presenza di un quadro occlusivo, il Tribunale sostiene che tali segni clinici erano sostanzialmente presenti al momento della visita eseguita dall’imputato nel primo pomeriggio del 23 novembre, e che ciò sarebbe confermato dagli sms che, in quelle ore, la Co. inviò non solo al dott. E. , ma anche ad alcune amiche e all’infermiera B. .

A fronte di tale percorso argomentativo, deve però rilevarsi in primo luogo che il momento in cui comparve l’occlusione non è stato individuato in modo preciso dai periti, ma collocato in un range compreso nel periodo a partire dal 22-23 novembre e fino al 24 novembre, mentre la perforazione si collocherebbe tra il 24 e il 26 novembre (vds. pagine da 40 a 42 della sentenza di primo grado).

Ciò posto, il fatto che, al momento della visita presso la clinica (...), la Co. stesse male e che presentasse un quadro sintomatico come quello descritto non consente di sapere fino a che punto il dott. M. fosse in grado di apprezzare tale quadro nella sua gravità, se è vero che (come riconosciuto nella stessa sentenza impugnata) la visita fu 'necessariamente non approfondita, ostacolata dalla medicazione' (pag. 3 sentenza d’appello), che il riferimento ai dolori e all’avere 'dato di stomaco' più volte è presente in comunicazioni via sms con altre persone (ma non con il M. ) e che - come detto - neppure i periti sono stati in grado di collocare con certezza l’occlusione intestinale 'a monte' della visita del pomeriggio del 23 novembre.

A fronte di ciò, il dott. M. (il cui esame è riportato alle pagine 13 e ss. della sentenza di primo grado ed è richiamato nella sentenza impugnata) riferisce che non vi erano particolari segnali di allarme, che il quadro complessivo era compatibile con il decorso post-operatorio, che la sintomatologia dolorosa si collocava a livello della colonna vertebrale e dei reni, che l’addome della Co. risultava trattabile e che la stessa, pur riferendo di non essere riuscita ad andare in bagno, segnalava di avere espulso un pò d’aria e scarse feci.

I periti hanno, di contro, ritenuto che la sintomatologia presentata dalla paziente avrebbe potuto, in via d’ipotesi, orientare verso il sospetto di un quadro occlusivo o sub-occlusivo e suggerire il ricorso ad ulteriori strumenti diagnostici, esprimendo l’avviso che, poiché la visita avveniva in una struttura come la casa di cura (...), tali accertamenti (prelievo per esami ematochimici, RX diretta addome, TAC addominale), pur nella loro complessità, potevano essere eseguiti in tempi sufficienti prima dell’evoluzione degli eventi.

Tale valutazione (una prognosi postuma, in sostanza) sconta, tuttavia, tre punti deboli che si riverberano sulla tenuta argomentativa delle decisioni di merito, che aderiscono ad essa.

Il primo, fondamentale punto debole è costituito dalla genericità della valutazione circa l’idoneità predittiva ex ante dei sintomi sottoposti all’attenzione del dott. M. a condurre ulteriori accertamenti, sulla scorta del corteo sintomatologico descritto in atti: i segni clinici giudicati suggestivi vengono ricavati sulla base di una valutazione indiretta ed incompleta della sintomatologia lamentata dalla donna attraverso gli sms, piuttosto che sulla base di elementi che, al momento della visita, fossero conoscibili o manifestati al dott. M. . A quest’ultimo furono descritti dalla Co. dolori alla schiena e ai reni (e ciò è confermato dal dott. E. , cui la Co. aveva precedentemente riferito il sintomo in analoghi termini) e fu fatto riferimento dalla paziente alle pur scarse emissioni di feci e di gas (dato, quest’ultimo, confermato anche dagli sms), laddove lo stesso argomentare peritale fa riferimento, tra i segni clinici suggestivi del quadro occlusivo, a un dolore localizzato 'prevalentemente a livello centroaddominale' e alla 'chiusura completa' dell’alvo a feci e gas (pag. 30 sentenza di primo grado).

Il secondo punto, altrettanto importante, è costituito dalla valutazione controfattuale del comportamento indicato dai periti come auspicabile (l’esecuzione di accertamenti strumentali all’interno della clinica (...)), la cui portata salvifica appare però ispirata essenzialmente a un criterio meramente probabilistico/statistico (ricorrono infatti valutazioni ipotetiche di 'potenzialità' e di 'eventualità' nell’apparato argomentativo peritale), piuttosto che a un rigoroso ragionamento logico, nonostante l’affermato richiamo a criteri di credibilità logico-razionale.

Il terzo punto debole è costituito dalla scarsa attenzione ai criteri enucleati dalla letteratura scientifica (che optano, in simili casi, per la c.d. 'attesa vigile'), pur a fronte di una ritenuta - e neppure più di tanto esplorata - carenza di univoche indicazioni provenienti da protocolli, linee-guida o altre procedure consimili. Lo stesso riferimento della sentenza alla condotta diagnostica ideale (la c.d. 'attesa vigile': non è ben chiaro, al riguardo, in che cosa tale condotta sarebbe diversa secondo la Corte di merito rispetto a quella del dott. M. ) finisce per costituire, sul piano della tenuta logica, un elemento di contraddittorietà sotto il profilo dell’indagine causale relativa al nesso fra il comportamento addebitato all’odierno ricorrente e l’evento mortale.

3. In stretta correlazione con quanto si è appena detto, deve registrarsi una sostanziale elusione, da parte della Corte distrettuale (ma, a ben vedere, anche da parte del Tribunale nella sentenza di primo grado), di alcuni temi di fondamentale importanza ai fini dell’individuazione della condotta colposa nell’ambito dell’esercizio della professione sanitaria: ci si riferisce

  • all’omessa considerazione della riconducibilità o meno della condotta del dott. M. alle buone pratiche clinico-assistenziali (ed in specie alla qualificazione come tali dei criteri di 'vigile attesa' accreditati dalla prevalente lettura scientifica);
  • alla riferibilità della condotta dell’imputato (che si assume colposa) ad imprudenza piuttosto che a negligenza o imperizia; ed infine
  • al grado della colpa.

Temi, questi, che alla stregua dello ius superveniens non potevano essere liquidati come irrilevanti, ma dovevano essere convenientemente affrontati.

Procediamo con ordine.

4. Quanto alla conformità o meno della condotta del dott. M. alle best practices, la Corte di merito ha energicamente affermato, nell’impugnata sentenza, che era preciso dovere del sanitario pervenire a una diagnosi e considerare una diagnosi differenziale, e la violazione di tale dovere ha costituito un’abdicazione alla sua funzione di medico, e ciò non avrebbe nulla a che vedere con le linee guida o con le buone prassi, ma solo con la logica.

Il problema, però, è che, per poter verificare se la condotta dell’imputato (che il Collegio d’appello giudica 'imprudente', si vedrà con quali implicazioni) sia stata penalmente rilevante, non può prescindersi da una verifica della conformità o della non conformità di tale condotta alle suddette regole della medicina, in quanto evocate da disposizioni di legge (l’art. 3 della legge 189/2012 e l’art. 6 della legge 24/2017, introduttivo del nuovo art. 590-sexies cod.pen.) che, pur entrate in vigore in epoca successiva alla commissione del reato ascritto al dott. M. , erano più favorevoli (almeno per quanto concerne la disciplina recata dalla legge 189/2012) e, perciò, potenzialmente idonee a scriminarne (o a renderne non punibile) l’operato, in base ai criteri generali stabiliti dall’art. 2 cod.pen..

Nel lungo percorso argomentativo della sentenza d’appello non è dato apprezzare alcuno specifico riferimento ad elementi probatori o valutativi che consentano di escludere (o, per converso, di affermare) l’adesione dell’operato dell’odierno ricorrente alle best practices.

Tale passaggio era tuttavia ineludibile, perché, come noto, l’art. 3, comma 1, della legge Balduzzi parlava non solo di 'linee guida', ma anche di 'buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica', disponendo che l’esercente la professione sanitaria che si atteneva ad esse non rispondeva penalmente per colpa lieve; l’art. 590-sexies, comma secondo, cod.pen. (introdotto dall’art. 6 della legge Gelli-Bianco) stabilisce dal canto suo che, quando l’evento lesivo o mortale si è verificato per imperizia, la punibilità è esclusa qualora siano rispettate le raccomandazioni contenute nelle linee guida approvate ai sensi di legge, o, in mancanza, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le suddette raccomandazioni siano adeguate alle specificità del caso concreto.

Detta in poveri termini, vi era la necessità di un previa, accurato accertamento del rispetto, da parte del dott. M. , dei protocolli sanitari prescritti per accertamenti diagnostici del tipo e nelle condizioni di cui alla visita del 23 novembre sulla paziente Co. : necessità che, conviene fin d’ora evidenziare, si poneva non solo per una compiuta disamina della rilevanza penale della condotta (eventualmente) colposa ascrivibili al sanitario, ma anche per un’indagine su quello che sarebbe stato il comportamento alternativo diligente che ci si doveva attendere da lui, in funzione dell’analisi controfattuale della riferibilità causale del decesso della paziente alla sua condotta.

5. Altro aspetto di non marginale rilievo riguarda il fatto che la Corte territoriale ha inquadrato la condotta del dott. M. come imprudente, piuttosto che negligente o imperita. L’assunto sembra teso a evitare soprattutto che il comportamento dell’imputato possa essere qualificato come caratterizzato da imperizia, escludendo eo ipso l’applicabilità al caso di specie della causa di non punibilità introdotta dalla legge Gelli-Bianco (art. 590-sexies cod.pen.), riferita per l’appunto all’imperizia.

In realtà, sulla questione (tutt’altro che semplice) occorre fare chiarezza.

In dottrina, come noto, alcuni Autori hanno cercato di dare una definizione chiara e netta delle tre nozioni (negligenza, imprudenza, imperizia).

In termini affatto generali e necessariamente imprecisi, si tende ad ascrivere alla categoria dell’imperizia il comportamento del soggetto inosservante delle regole cautelari perché 'inesperto', soprattutto sul piano esecutivo; alla categoria della negligenza il comportamento del soggetto inosservante per non avere fatto ciò che era doveroso fare; alla categoria dell’imprudenza il comportamento del soggetto inosservante per avere fatto ciò che era doveroso non fare. Ma, a fronte di tali tentativi, diversi Autori riconoscono e mettono in luce la sussistenza di margini talora evanescenti, quando non di (almeno parziali) sovrapposizioni, tra le tre nozioni appena richiamate.

La giurisprudenza tradizionalmente valuta il concetto di 'imperizia' nei reati colposi - addebitati a soggetti che rivestono determinate qualifiche dirigenziali e che prestano corrispondenti mansioni di elevata delicatezza, specializzazione e responsabilità - 'in rapporto alla qualifica e all’attività svolta in concreto, le quali esigono l’osservanza delle regole e delle precauzioni doverose da parte della media dei soggetti rivestenti identica qualifica e svolgenti identiche mansioni' (così Sez. 4, n. 12416 del 18/04/1986, Vollono, Rv. 174226).

Con particolare riguardo ai casi di responsabilità per delitti colposi in ambito sanitario, è noto che un risalente indirizzo seguito dalla Corte di legittimità (Sez. 4, n. 12249 del 05/11/1984 - dep. 1985, Pinedda, Rv. 171396; Sez. 4, n. 5241 del 11/01/1978, Gandini, Rv. 138892; Sez. 4, n. 1301 del 18/10/1978 - dep. 1979, Andria, Rv. 141044; Cass. Sez. 4, n. 5860 del 19/02/1981, Desiato, Rv. 149347) tendeva a distinguere la valutazione della responsabilità colposa dell’esercente la professione sanitaria a seconda che egli avesse operato con imperizia, ovvero con negligenza o imprudenza: nel primo caso, si prendevano a riferimento i parametri indicati dall’art. 2236 cod.civ. (secondo il quale la responsabilità è limitata al dolo o alla colpa grave se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà); nel secondo caso si giudicava secondo gli ordinari parametri della responsabilità colposa in ambito penale. Secondo tale orientamento, che si poneva nel solco della nota sentenza n. 166/1973 della Corte costituzionale, il carattere colposo della condotta del sanitario doveva essere valutato nel ristretto ambito della colpa grave stabilito dall’art. 2236 cod. civ. quando l’addebito fosse mosso sotto il profilo dell’imperizia, mentre qualora la responsabilità del professionista trovasse la propria origine nella negligenza e nell’imprudenza i criteri per l’accertamento della colpa del medico dovevano essere comuni a quelli con i quali si valuta ogni condotta colposa.

Era dunque già presente, nella giurisprudenza di legittimità, una distinzione tra imperizia da un lato, e imprudenza e negligenza dall’altro, ai fini della determinazione dei criteri di valutazione della responsabilità colposa del sanitario, sia pure in un quadro normativo affatto diverso dall’attuale.

Nel tempo, il citato indirizzo cedette il posto ad un altro e più rigoroso orientamento, in cui si escludeva che lo statuto della colpa professionale del sanitario in ambito penalistico potesse articolarsi in modo differenziato rispetto alle generali previsioni riguardanti la colpa penale.

Si legge ad esempio, nella sentenza Lazzeri del 1991 (Sez 4, n. 4028 del 22/02/1991, Lazzeri, Rv. 187774), che la colpa professionale del sanitario 'deve essere valutata con larghezza e comprensione per la peculiarità dell’esercizio dell’arte medica e per la difficoltà dei casi particolari, ma pur sempre nell’ambito dei criteri dettati per l’individuazione della colpa medesima dall’art. 43 del cod.pen.. Tale accertamento non può essere effettuato in base al disposto dell’art. 2236 del codice civile, secondo cui il prestatore d’opera è esonerato dall’obbligo del risarcimento dei danni, quando la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, tranne che nell’ipotesi di commissione del fatto con dolo o colpa grave. L’applicabilità di tale norma è esclusa dalla sistematica disciplina del dolo e della colpa in diritto penale per la quale il grado della colpa è previsto solo come criterio per la determinazione della pena, o come circostanza aggravante, e mai per determinare la stessa sussistenza dell’elemento psicologico del reato, sicché il minor grado della colpa non può avere in alcun caso efficacia scriminante'.

Tuttavia, più di recente, la Corte regolatrice ha riconosciuto che il principio civilistico di cui all’art. 2236 cod. civ. che assegna rilevanza soltanto alla colpa grave 'può trovare applicazione in ambito penalistico come regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà ovvero qualora si versi in una situazione di emergenza, in quanto la colpa del terapeuta deve essere parametrata alla difficoltà tecnico-scientifica dell’intervento richiesto ed al contesto in cui esso si è svolto. Ne consegue che non sussistono i presupposti per parametrare l’imputazione soggettiva al canone della colpa grave ove si tratti di casi non difficili e fronteggiabili con interventi conformi agli standard' (Cass. Sez. 4, n. 4391 del 22/11/2011 - dep. 2012, Di Lella, Rv. 251941). In tal modo, da un lato, si recuperava la differenziazione tra la valutazione dell’imperizia (con riguardo a situazioni di peculiare difficoltà tecnico-operativa) e quella relativa ai restanti casi 'non difficili'; dall’altro, si faceva riferimento a questi ultimi (da valutarsi secondo gli ordinari criteri di cui all’art. 43 cod.pen.) laddove essi fossero fronteggiabili 'con criteri conformi agli standard', ossia alle normali prassi sanitarie raccomandate per quello specifico intervento.

In seguito all’entrata in vigore della legge Balduzzi, accanto a sentenze nelle quali si ritiene necessario accertare 'se vi sia stato un errore determinato da una condotta negligente o imprudente' pur a fronte del rispetto di linee guida accreditate presso la comunità scientifica (Sez. 4, n. 18430 del 05/11/2013 - dep. 2014, Loiotila, Rv. 261294), ve ne sono altre secondo le quali la disciplina di cui all’art. 3 della legge Balduzzi, pur trovando terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia, può tuttavia venire in rilievo anche quando il parametro valutativo della condotta dell’agente sia quello della diligenza (Sez. 4, n. 47289 del 09/10/2014, Stefanetti, Rv. 260739), o comunque in ipotesi di errori connotati da profili di colpa generica diversi dall’imperizia (Sez. 4, n. 23283 del 11/05/2016, Denegri, Rv. 266903).

Con l’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco, il parametro dell’imperizia ha assunto, come si è visto, maggior rilievo. Dopo una travagliata vicenda interpretativa, la questione della corretta interpretazione da dare al citato art. 6 della legge 24/2017 (introduttivo dell’art. 590-sexies cod.pen.) è stata devoluta alle Sezioni Unite, le quali, con sentenza resa il 21 dicembre scorso (Sez. U, n. 8770 del 21/12/2017, ric. Mariotti), hanno affermato il seguente principio di diritto:

'L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica:

a) se l’evento si è verificato per colpa (anche 'lieve') da negligenza o imprudenza;

b) se l’evento si è verificato per colpa (anche 'lieve') da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;

c) se l’evento si è verificato per colpa (anche 'lieve') da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche che non risultino adeguate alla specificità del caso concreto;

d) se l’evento si è verificato per colpa 'grave' da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni, di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle specifiche difficoltà tecniche dell’atto medico'.

Naturalmente uno dei problemi che si pongono, in conseguenza di tale assetto interpretativo, è costituito dall’individuazione della legge penale più favorevole in relazione ai singoli casi concreti, anche risalenti ad epoca antecedente gli ultimi interventi legislativi, in base a quanto previsto dalle disposizioni sulla successione delle leggi penali nel tempo.

Alla stregua delle considerazioni che precedono e dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale che si è cercato di illustrare, appare di tutta evidenza che non poteva prescindersi da un accurato inquadramento della condotta del dott. M. non solo con riguardo al fatto che essa rispettasse o meno le linee guida o le buone pratiche, ma anche con riguardo al fatto che la stessa potesse qualificarsi come improntata a imperizia, o a negligenza, o a imprudenza.

Sebbene la Corte di merito abbia qualificato il comportamento dell’odierno ricorrente come imprudente, deve evidenziarsi che, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’imprudenza consiste nella realizzazione di un’attività positiva che non si accompagni nelle speciali circostanze del caso a quelle cautele che l’ordinaria esperienza suggerisce di impiegare a tutela dell’incolumità e degli interessi propri ed altrui (Sez. 4, Sentenza n. 16944 del 20/03/2015, Rota e altri, Rv. 263388); e nella specie la condotta tenuta dal dott. M. , più che un’attività positiva, sarebbe consistita - secondo la stessa Corte di merito - in un’omessa o incompleta diagnosi, accompagnata da una sottovalutazione della sintomatologia che la paziente presentava, dall’omessa prescrizione di accertamenti strumentali a fini diagnostici e dalla prescrizione di un presidio terapeutico generico (clistere). Ciò che sembra semmai ascrivibile in parte al profilo della negligenza, in parte, e sotto altro profilo, a quello dell’imperizia.

A quest’ultimo proposito, è errato escludere che nella specie potesse parlarsi di imperizia sol perché il dott. M. è un clinico di sicuro valore, come dimostrato anche nel successivo comportamento in sala operatoria in occasione dell’intervento d’urgenza del 26 novembre: la nozione di imperizia non va, infatti, rivolta al soggetto nella sua complessiva attività e alle sue capacità professionali, ma al singolo atto qualificato come colposo e che viene a lui addebitato.

6. Da ultimo, sempre restando nell’ambito dell’accertamento della colpa in capo all’odierno ricorrente, è stata del tutto trascurata la questione della configurabilità della colpa grave nel comportamento del M. . Anche tale accertamento doveva invece essere condotto, perché - come si è avuto modo di vedere supra a proposito dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale delle nozioni di imprudenza, negligenza e imperizia - il grado della colpa ha assunto, nelle leggi sopravvenute, un diverso e comunque non trascurabile livello di importanza; e tra l’altro, con la legge Balduzzi (per come interpretata dalla giurisprudenza dianzi richiamata), si è visto che è scriminato il comportamento dell’esercente la professione sanitaria che agisca con colpa lieve, ma attenendosi alle linee-guida e alle buone pratiche, a nulla rilevando - secondo la giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto - che la sua condotta sia ascrivibile a imprudenza, negligenza o imperizia.

Come chiarito a seguito della citata sentenza a Sezioni Unite Mariotti, la disciplina di cui al citato art. 3, comma 1, legge 189/2012 (intervenuta successivamente ai fatti per cui si procede) è, nella generalità dei casi, la più favorevole, anche rispetto alla previsione, ulteriormente sopravvenuta, contenuta nell’art. 590-sexies introdotto dalla successiva legge Gelli-Bianco (l. n. 24/2017); con ciò che ne consegue in punto di individuazione della lex mitior ai fini di cui all’art. 2 cod.pen..

Epperò, nella sentenza impugnata, la disamina dei sopra illustrati elementi, alla luce dello ius superveniens (cui pure la Corte di merito fa espresso riferimento), è risultata di fatto totalmente pretermessa; sul punto, dunque, colgono nel segno le considerazioni svolte dal ricorrente nel primo motivo di lagnanza.

7. Ma anche le doglianze contenute nel secondo motivo di ricorso e riferite in particolare alla prova del nesso causale risultano, almeno in taluni aspetti, fondate.

Ci si riferisce in particolare alla questione - in parte già sottoposta a scrutinio - della carenza della prova che l’esecuzione di accertamenti (numerosi e di non immediata esecuzione, a quanto è dato comprendere dalle stesse sentenze di merito) avrebbe avuto effetti salvifici o, comunque, sicuramente favorevoli; alla verifica di un nesso eziologico tra l’omessa prescrizione di tali accertamenti da parte del dott. M. e il successivo, drammatico evolversi delle condizioni della Co. fino al decesso della paziente; e, a monte (lo si ribadisce), all’individuazione univoca del comportamento alternativo diligente secondo i dettami della migliore scienza medica (e, in definitiva, secondo le buone prassi nella specie applicabili).

La Corte di merito, rispetto ai suddetti profili, affronta unicamente il tema del fattore-tempo; e lo fa non già sulla base di un corretto e adeguato esame delle risultanze probatorie sul punto (limitandosi ad affermare che non è stato comprovato quale fosse il momento in cui insorse la perforazione intestinale, e che con ogni probabilità essa non era intervenuta fino a metà giornata del 24 novembre), ma sulla base di una serie di considerazioni che tendono bensì a divaricare il lasso di tempo - in realtà del tutto incerto - nel quale il dott. M. avrebbe potuto fare qualcosa, ma senza chiarire in modo univoco se il comportamento che ci si sarebbe dovuti attendere da lui fosse tale da rendere oggettivamente, tempestivamente e utilmente praticabile l’adozione dei necessari e conseguenti presidi diagnostico-terapeutici.

A fronte del già visto approccio probabilistico seguito al riguardo dal collegio peritale, merita di essere richiamato l’indirizzo della Corte di legittimità in base al quale il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di elevata probabilità logica, che, a sua volta, deve essere fondato, oltre che su un ragionamento deduttivo basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo circa il ruolo salvifico della condotta omessa, elaborato sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e focalizzato sulle particolarità del caso concreto (ex multis Sez. 4, Sentenza n. 26491 del 11/05/2016, Ceglie, Rv. 267734).

All’evidenza, nel percorso argomentativo seguito dalla Corte distrettuale (e anche in quello seguito dal Tribunale nella sentenza di primo grado), siffatta indagine non è stata adeguatamente condotta ed ha lasciato zone d’ombra sia nella ricostruzione del rilievo causale del comportamento addebitato al dott. M. rispetto al decesso della Co. , sia nell’accertamento della portata salvifica del comportamento che egli avrebbe dovuto tenere nell’occorso, avuto riguardo all’evolversi delle condizioni patologiche della paziente.

8. La sentenza impugnata va perciò annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Roma, alla quale va demandata altresì la regolamentazione delle spese tra le parti di questo giudizio di legittimità. La Corte di merito, nel giudizio di rinvio, si atterrà ai principi di diritto dianzi richiamati, sia sotto il profilo della natura colposa della condotta del dott. M. (ivi compreso l’accertamento del grado dell’eventuale colpa), sia sotto il profilo della sua rispondenza o meno ai criteri riconducibili alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, sia sotto il profilo della portata salvifica che il comportamento eventualmente alternativo e ritenuto doveroso avrebbe avuto, attraverso un giudizio fondato su criteri di elevata probabilità logica e non su mere basi probabilistico-statistiche.

Gli ulteriori motivi di doglianza restano, all’evidenza, assorbiti.

 

P.Q.M.

 

Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Roma cui demanda altresì la regolamentazione delle spese tra le parti di questo giudizio di legittimità.