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Negazionismo della Shoah è reato (Cass. 3808/22)

3 febbraio 2022, Cassazione penale

Integra il reato di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, la condotta di chi diffonde col mezzo della stampa, nella pubblica via, volantini, affigga striscioni e realizzi scritte che s'ispirano al nazionalsocialismo, inneggiando alla superiorità della razza bianca contro ogni presenza di giudaismo in Europa, negando l'Olocausto ebraico ("Shoah").

La rilevanza penale del negazionismo non è in contrasto con l'articolo 10 della CEDU; legittima la sanzione imposta dagli ordinamenti degli Stati membri del Consiglio d'Europa all'espressione di opinioni offensive della memoria e dell'identità dei sopravvissuti dell'Olocausto (CEDU, Peta Deutschland c. Germania dell'8 novembre 2012; CEDU, Garaudy c. Francia del 1998; CEDU, Perincek c. Svizzera del 17 dicembre 2013).

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Sent., (ud. 19/11/2021) 03-02-2022, n. 3808

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IASILLO Adriano - Presidente -

Dott. LIUNI Teresa - Consigliere -

Dott. BINENTI Roberto - Consigliere -

Dott. CENTOFANTI Francesco - Consigliere -

Dott. APRILE Stefano - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

C.R., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 15/09/2020 della CORTE APPELLO di MILANO;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

fissata la trattazione con il rito scritto;

udita la relazione svolta dal Consigliere APRILE STEFANO;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore ZACCO FRANCA, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;

lette le conclusioni scritte dell'avv. FC, difensore di C., che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con il provvedimento impugnato, la Corte d'appello di Milano, parzialmente riformando la sentenza pronunciata all'esito del giudizio abbreviato dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Milano in data 9 maggio 2018, confermava la declaratoria di responsabilità di C.R. per il reato di concorso con ignoti nella diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razionale o etnico e di negazione della Shoah (art. 110 c.p., L. n. 654 del 1975, art. 3, comma 1, lett. a), art. 3 bis), nonchè il trattamento sanzionatorio irrogato dal primo giudice nella misura di mesi sei di reclusione, concedendo il beneficio della sospensione condizionale della pena.

1.1. Con concorde valutazione di entrambi i giudici di merito, sulla base di una ricostruzione di fatto che non viene avversata dal ricorrente, è stata affermata la responsabilità dell'imputato, aderente al movimento (OMISSIS) per avere, in concorso con altri individui rimasti ignoti, diffuso idee fondate sulla superiorità o sull'odio raziale o etnico e sulla negazione della Shoah; in particolare, durante la celebrazione del Giorno della Memoria avvenuta del 27 gennaio (OMISSIS), svolgevano attività di propaganda, diffondendo col mezzo della stampa, in alcune vie del centro milanese, volantini, affiggevano striscioni e realizzavano scritte che s'ispiravano al Nazional Socialismo, inneggiando alla superiorità della razza bianca contro ogni presenza di giudaismo in Europa, negando l'Olocausto ebraico.

Secondo la non contestata ricostruzione in fatto, i volantini rinvenuti affissi nelle vie del centro di Milano erano di due tipologie:

- il primo riportava la scritta "siamo sempre stati perseguitati pur non avendo mai dato fastidio a nessuno. La "soluzione finale" era un piano per la nostra eliminazione fisica. Dai campi di concentramento non si usciva vivi. Venivamo trasformati in paralumi, bottoni e saponette. I 6 milioni di morti sono ufficialmente documentati da testimoni oculari e da libri in vendita, tra una caciotta e un culatello, nelle aree di servizio autostradali", poi a seguire l'immagine di Pinocchio recante la scritta sul naso "Made in Israel" e di seguito la scritta "credi ancora a quel che insinua Pinocchio? Perchè tutta questa paura degli studi revisionisti se non c'è nulla da nascondere?";

- il secondo riportava il seguente testo: "27 gennaio (OMISSIS) nella giornata della memoria vogliamo ricordare gli olocausti degli ultimi secoli", proseguendo con una serie di eventi, corredati da supposte statistiche, relative a genocidi registrati nel corso degli ultimi secoli.

L'attività di perquisizione dell'abitazione dell'indagato e delle pertinenze di essa portava anche al rinvenimento di numerosi altri volantini, sempre riconducibili al movimento, inneggianti "la superiorità della razza bianca", ovvero a contenuto discriminatorio, per i quali, a differenza di quelli affissi sulla pubblica via, i giudici di merito escludevano la rilevanza penale per difetto della pubblica diffusione.

2. Ricorre C.R., a mezzo del difensore avv. FC, che chiede l'annullamento della sentenza impugnata, sviluppando due motivi con i quali denuncia:

2.1. - la violazione di legge, in riferimento all'art. 10 della Convenzione EDU e alla L. n. 654 del 1975, art. 3, comma 1, lett. a), 3-bis (ora art. 604-bis c.p.), e il vizio della motivazione con riguardo alla presunzione assoluta di illegalità di ogni pensiero di "natura revisionista sull'olocausto ebraico (Shoah)", sia perchè la sussistenza della Shoah è criticata da numerosi studiosi, sia perchè è illegittimo considerare, ammesso che esista, il genocidio ebraico come l'unico genocidio del quale non si possa neppure parlare, facendone una critica ragionata, a differenza dei genocidi che hanno colpito altre popolazioni, come incomprensibilmente afferma la sentenza della CEDU nella causa Perincek c/o Svizzera, in ciò ingiustamente seguita dai giudici di merito che riconoscono una sorta di "statuto speciale" della Shoah.

Il ricorso, sottoscritto dal difensore, si diffonde nell'invitare la Corte di legittimità a "verificare quali siano le tesi revisionistiche e i fatti storici su cui si basano le idee propalate dal (OMISSIS)" cui il ricorrente aderisce; in particolare il difensore richiama quanto già evidenziato nell'atto di appello: " I) "siamo sempre stati perseguitati pur non avendo mai dato fastidio a nessuno", fa riferimento a fatti storici pacifici: gli attacchi politici del giornale (OMISSIS) contro il Partito tedesco dei lavoratori nel 1919; dichiarazione della seconda guerra mondiale della WJA (World Jewis Agency, organismo di governo del proto-stato ebraico) del 29/8/1939; i boicottaggi ebraici al commercio internazionale di prodotti tedeschi; II) "la soluzione finale era un piano per la nostra eliminazione fisica". "Soluzione finale" è il risultato di una traduzione inesatta della frase (soluzione totale ebraica) che riguardava il piano di espulsione degli Ebrei dal territorio del Reich che seguiva a quello già tentato da Francia e Gran Bretagna e che si era concretizzato in un tentativo di deportazione. Sostanzialmente l'idea era di trasferire gli Ebrei in Madagascar (rientra tra gli ordini ricevuti da Eichmann). La giustificazione era che essi erano, a causa della loro dichiarazione di guerra del 29 agosto 1939, formalmente un popolo nemico della Germania. La soluzione finale prospettata da Goering non era, quindi, l'eliminazione fisica degli internati, ma piuttosto il loro allontanamento fuori dal Reich, in territori sempre sotto il controllo tedesco. Tesi forse non condivisibili ma basate su fatti storici acclarati e documenti in possesso di tutti gli storici; III) "dai campi di concentramento non si usciva vivi" si basa sulla circostanza che vi siano stati dei sopravvissuti e che, comunque, la media dei decessi si avvicinasse a quella dei soldati al fronte. Si riferisce, altresì, al fatto che il numero di 6 milioni di morti nel lager non sia cifra certa in quanto molta documentazione è andata distrutta; IV) l'immagine di Pinocchio e la scritta "made in Israel", "fa riferimento al fatto che la favola di "Pinocchio" in realtà è stata adattata da Collodi da un'antica novella ebraica (Pinocchio e Mastro Geppetto sono diminutivi di Giuseppe ossia Joset nome ebraico molto usato per il primogenito; Geppetto potrebbe essere il diminutivo di Giona (Yonah) vissuto nel ventre della balena; Lucignolo è il diminutivo di Lucifero, Lucipher; il gatto e la volpe sono in realtà Mau e Anubi derivanti dalla non amata cultura egizia; Mangiafuoco riprende la figura di Baulum, personaggio citato in antichi testi ebraici che mangia bambini arrostiti salvandone ogni tanto qualcuno quando si impietosisce".

2.2. - la violazione di legge, in riferimento all'art. 43 c.p., e il vizio della motivazione con riguardo all'elemento soggettivo.

Il ricorso, sottoscritto dal difensore, afferma, tra l'altro, che: "In atti non vi è prova, se non la presunzione operata dalla Corte di Appello, che l'imputato, nel suo momento rappresentativo, abbia avuto la volontà di diffondere un'idea che negasse l'Olocausto e non quella di criticare la ricostruzione storica ufficiale. E' di tutta evidenza che, anche ove la condotta fosse chiaramente e materialmente "negazionista", non si potrebbe addivenire alla condanna del soggetto che, pur ponendola in essere, sia convinto di veicolare a terzi una richiesta di revisione critica dello sterminio (per modalità, origini ed effetti) senza volerne negare l'esistenza. Nel poderoso fascicolo a disposizione della Corte si possono trovare tutti documenti del NSABC e ciò consente di verificare, oltre ogni ragionevole dubbio, che il C. sia interiormente convinto della bontà degli elementi che segnala come necessari per la revisione storica della Shoah e per ristabilire la verità".

Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile.

1.1. La L. 13 ottobre 1975, n. 654, art. 3 (cd. Legge Mancino), portante "Ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966", prevedeva, nel testo vigente all'epoca del fatto (dal 13 marzo 2016 al 11 dicembre 2017), che: "1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, anche ai fini dell'attuazione della disposizione dell'art. 4 della convenzione, è punito: a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 Euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. 2. (comma soppresso dalla L. 25 giugno 1993, n. 205 che ha convertito il D.L. 26 aprile 1993, n. 122). 3. E' vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell'assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni. 3-bis. Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l'istigazione e l'incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l'umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli artt. 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, ratificato ai sensi della L. 12 luglio 1999, n. 232".

La disposizione, emendata dopo la commissione del fatto per cui si procede dalla L. n. 167 del 2016 (in vigore dal 12 dicembre 2017) che ha esteso le condotte punibili anche alla "minimizzazione in modo grave o sull'apologia della Shoah", è ora trasfusa nell'art. 604-bis c.p., in forza del D.Lgs. 1 marzo 2018, n. 21.

2. Il ricorso non sviluppa alcuna specifica critica sulla ritenuta idoneità delle pubblicazioni sequestrate a propagandare idee basate sulla discriminazione o odio razziale e sulla negazione della Shoah, così non confrontandosi con l'ampia motivazione fornita da entrambi i giudici di merito in proposito.

La specifica idoneità della condotta a costituire propaganda di idee discriminatorie e di negazione della Shoah è stata ampiamente illustrata dai giudici di merito, con riferimento: al contenuto aberrante dei volantini che il ricorrente contribuiva a distribuire ed affiggere nelle vie cittadine; alla stretta interrelazione tra il fatto e il Giorno della Memoria (istituito con L. 20 luglio 2000, n. 211); all'accertata (e non contestata) adesione del ricorrente alle idee discriminatorie (superiorità e difesa della razza ariana) e negazioniste dell'Olocausto ebraico, proprie del movimento Nazional Socialista sotto la cui egida si è svolta l'azione (i volantini riportano il logo del (OMISSIS)).

2.1. Il ricorso si propone, piuttosto, di fornire una, già giudicata tardiva e infondata da entrambi i giudici di merito, ricostruzione della natura e del senso delle frasi che è però incentrata sul "revisionismo" dell'Olocausto ebraico.

A tale proposito è utile chiarire che è indubitabile che esiste un legame di continuità tra la politica nazista di occultamento delle prove del genocidio, come accertata dalle truppe alleate alla fine della Seconda Guerra Mondiale, e le attività di alcuni autori (che si definiscono storici) che tentano di convincere il mondo che la Shoah sia la "grande impostura del ventesimo secolo"; secondo costoro, Auschwitz e le camere a gas naziste non sarebbero altro che un'invenzione della propaganda alleata, di matrice sionista, ovvero i morti sarebbero molti di meno.

Il ricorso si riferisce a tali autori con l'etichetta di "revisionisti" (appellativo con cui essi stessi, in effetti, amano autodefinirsi), ma la storiografia ufficiale preferisce chiamarli "negazionisti".

Il motivo di tale netta scelta di campo è semplice: mentre ogni storico che si rispetti è revisionista, nel senso che è disposto a rimettere costantemente in gioco le proprie conoscenze qualora l'evidenza documentaria lo induca a rivedere le sue posizioni, il negazionista è colui che nega l'evidenza storica stessa, come accade in questo caso per l'Olocausto ebraico.

2.2. E' bene considerare che l'espresso riferimento al negazionismo è stato inserito nella fattispecie incriminatrice dalla L. 16 giugno 2016, n. 115 in adempimento di precise indicazioni del Consiglio d'Europa.

Del resto, la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo ha individuato alcune questioni centrali nell'ambito della riflessione sul reato di negazionismo, come ipotesi in cui si ammette una limitazione della libertà di espressione tutelata dall'art. 10 della Convenzione.

Vi sono, infatti, numerosi e autorevoli precedenti giurisprudenziali che hanno ritenuto non in contrasto con l'art. 10 della CEDU la sanzione imposta dagli ordinamenti degli Stati membri del Consiglio d'Europa all'espressione di opinioni offensive della memoria e dell'identità dei sopravvissuti dell'Olocausto.

2.2.1. Si consideri, per esempio, la sentenza sul caso Peta Deutschland contro Germania dell'8 novembre 2012, in cui la Corte EDU ha ritenuto che una campagna d'opinione - lanciata da un'associazione per la tutela dei diritti degli animali, nella quale si equiparava la tortura e la strage di animali a quella di persone umane e nella quale entrambe venivano definite "olocausto" - non fosse tutelata dall'art. 10 della CEDU. 2.2.2. Con riferimento diretto alla questione del negazionismo, è di particolare rilievo la sentenza Garaudy contro Francia del 1998, in cui la Corte ha dichiarato irricevibile la richiesta presentata dal ricorrente (autore di un libro in cui propugnava tesi negazioniste), ritenendo possibile per gli Stati, in presenza di certe condizioni, una limitazione della libera manifestazione del pensiero.

La Corte, nella sentenza Garaudy, di fronte alle affermazioni rispetto alle quali i ricorrenti lamentavano, in particolare, una violazione della libera manifestazione del pensiero, ha effettuato una distinzione che merita di essere ricordata perchè citata come precedente in altre sentenze sul negazionismo.

I giudici di Strasburgo hanno individuato una categoria di "fatti storici chiaramente stabiliti" - come l'Olocausto - e una categoria di fatti rispetto ai quali "è tuttora in corso un dibattito tra gli storici circa come sono avvenuti e come possono essere interpretati".

La Corte EDU affronta la questione dei limiti al dibattito storico sugli avvenimenti della Seconda Guerra Mondiale e, pur considerando necessario per qualsiasi paese il dibattito aperto e sereno sulla propria storia, afferma l'esclusione della garanzia dell'art. 10 CEDU per il discorso revisionista o negazionista sull'esistenza dell'Olocausto.

Secondo tale interpretazione spetta alla Corte, a partire dall'obiettivo perseguito, dal metodo utilizzato e dal contenuto delle affermazioni, valutare se vengono o meno rimessi in discussione dei "fatti storici".

Ed è in base a tale ragionamento che la Corte EDU ha dichiarato irricevibile la richiesta del ricorrente, ritenendo che il libro pubblicato da Garaudy avesse come obiettivo di rimettere in discussione l'Olocausto, visto che propugnava tesi negazioniste.

Lo scopo - secondo la Corte - non sarebbe dunque la ricerca della verità, ma piuttosto quello (inaccettabile) di riabilitare il regime nazionalsocialista e, di conseguenza, accusare di falsificazione storica le stesse vittime di questo regime.

Affermazioni di questo genere, secondo la Corte, "mettono in discussione i valori che fondano la lotta contro il razzismo e l'antisemitismo e sono tali da turbare gravemente l'ordine pubblico. Offendendo i diritti altrui, questi comportamenti sono incompatibili con la democrazia e con i diritti umani e i loro autori perseguono obiettivi, quali quelli vietati dall'art. 17 CEDU".

Se ne deve concludere, perciò, che queste affermazioni negazioniste non rientrano nella tutela dell'art. 10 CEDU e contrastano con i valori fondamentali della Convenzione di giustizia e pace che sono espressi nel Preambolo.

2.2.3. Del pari rilevante è la vicenda che ha formato oggetto della più recente sentenza della CEDU nel caso Peringek c. Svizzera del 17 dicembre 2013: il ricorrente Dob Peringek era stato condannato dal Tribunale federale svizzero per le sue affermazioni a proposito dei crimini commessi nel 1915 dall'Impero ottomano contro il popolo armeno (il ricorrente non aveva negato tali crimini, ma aveva sostenuto che non si trattasse di genocidio e che si trattasse di uno sterminio giustificato da ragioni belliche).

Il codice penale svizzero prevede espressamente come reato (art. 261-bis, 4 alinea) la condotta di chiunque, pubblicamente, mediante parole, scritti, immagini, gesti, vie di fatto o in modo comunque lesivo della dignità umana, discredita o discrimina una persona o un gruppo di persone per la loro razza, etnia o religione o, per le medesime ragioni, disconosce, minimizza grossolanamente o cerca di giustificare il genocidio o altri crimini contro l'umanità.

La Corte EDU ha, in questo caso, adottato una decisione favorevole al ricorrente, sostenendo che la condanna subita dal Peringek per contestazione di crimini di genocidio o contro l'umanità è in contrasto con la libertà di espressione.

Sul caso si è poi pronunciata, il 15 ottobre 2016, la Grande Chambre che ha confermato la violazione della libertà di espressione, di cui all'art. 10 CEDU, sul presupposto, che rileva nel caso in esame, secondo il quale l'Olocausto ebraico è storicamente accertato e non discutibile.

2.3. Per concludere: la prospettiva del revisionismo dell'Olocausto ebraico, che viene propugnata dal ricorso a sostegno della liceità del fatto compiuto dall'imputato in quanto espressione della libera manifestazione del pensiero posta in essere per mezzo della critica storica di fatti incerti, oltre a non essere mai stata neppure affacciata dall'imputato e di certo non desumibile dalle icastiche e violente frasi che lo stesso ha contribuito a diffondere, si basa su semplici asserzioni e sulla pedissequa riproposizione di argomentazioni ampiamente smentite da documenti ufficiali della Comunità Internazionale e delle autorità giudiziarie internazionali, a cominciare, per citare solo la questione della "soluzione finale", dai risultati del processo di Norimberga.

Il ricorso sollecita, in proposito, direttamente la Corte di legittimità a valutare il merito del giudizio, proponendo quelle questioni, già esaminate nei gradi di merito, a fronte delle quali sono state fornite ampie e logiche risposte che il ricorso omette di considerare, ostinatamente riproponendo argomentazioni espressive di ideologie che già la storia ha giudicato e che nulla hanno a che vedere con la critica e l'analisi storica di un fenomeno che, lungi dall'essere oggetto di controversie storiografiche, deve piuttosto considerarsi storicamente avvenuto e addebitabile ai regimi nazisti e fascisti che hanno governato l'Europa tra la terza e la quinta decade dello scorso secolo.

3. E', del pari, inammissibile perchè manifestamente infondata e intrinsecamente illogica, la denunciata mancanza di dolo, a tacer del fatto che il ricorso non si confronta, così palesando anche la genericità dell'impugnazione, con l'ampia e specifica motivazione offerta sul punto dai giudici di merito.

3.1. La giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che le condotte di cui al L. n. 654 del 1975, art. 3, comma 1, lett. a), consistenti nel propagandare idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico ovvero nell'istigare a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi configurano ipotesi di reato a dolo generico (Sez. 3, n. 37581 del 07/05/2008, Mereu, Rv. 241074).

I giudici di merito hanno evidenziato la piena consapevolezza e volontà di porre in essere la condotta vietata, non potendosi opporre, per le ragioni dianzi esposte, la dedotta "buonafede" dell'imputato circa la veridicità delle ideologie propagandate e la negazione dell'Olocausto ebraico.

3.2. Premesso che, in questo caso, la presunta buonafede coincide con l'ignoranza del precetto, poichè la legge frappone un ostacolo formale e specifico alla propaganda di ideologie di tal fatta, sicchè essa non rileva ex art. 5 c.p., vi è piuttosto da evidenziare che l'esistenza dell'elemento psicologico si desume anche dalla scelta di compiere le condotte di cui si discute in coincidenza con il Giorno della Memoria e dunque in pieno e sordo contrasto con una specifica previsione normativa che ha istituito tale momento di ricordo.

La L. 20 luglio 2000, n. 211, art. 1, portante "Istituzione del "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti", stabilisce: "La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonchè coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati".

Il successivo art. 2, comma 1, prevede: "In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all'art. 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell'Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinchè simili eventi non possano mai più accadere".

La previsione normativa è cristallina nel precetto, maieutica nel metodo e didattica nei mezzi, sicchè è indubbio, anche in ragione dell'età dell'imputato (cl. 1992) - che alla data di promulgazione della L. n. 211 del 2000 frequentava dunque la scuola primaria di primo grado -, che egli non solo ben conoscesse, al di là della presunzione legale ex art. 5 c.p., il senso e lo scopo del Giorno della Memoria, ma che, anzi, avesse potuto giovarsi dei necessari strumenti di approfondimento scolastico e culturali messi a sua disposizione dallo Stato "affinchè simili eventi non possano mai più accadere".

Egli, di contro, ha preferito rifiutare ostinatamente quanto gli era stato insegnato, deliberatamente disponendosi a negare l'Olocausto ebraico.

3.3. La L. n. 211 del 2000, del resto, si inquadra in una prospettiva mondiale che vede l'intera Comunità Internazionale impegnata a contrastare il negazionismo dell'Olocausto ebraico.

Il Giorno della Memoria è, infatti, una ricorrenza internazionale celebrata il 27 gennaio di ogni anno come giornata per commemorare le vittime dell'Olocausto.

E' stato così designato dalla Risoluzione n. 60/7 dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite del 1 novembre 2005, durante la 42a riunione plenaria.

Non deve essere sottovalutato che la risoluzione fu preceduta da una Sessione speciale tenuta il 24 gennaio 2005 durante la quale l'Assemblea generale delle Nazioni Unite celebrò il sessantesimo Anniversario della Liberazione dei campi di concentramento nazisti e la fine dell'Olocausto.

Non può fare a meno di ricordarsi che si è stabilito di celebrare il Giorno della Memoria ogni 27 gennaio perchè in quel giorno del 1945 le truppe dell'Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz e documentarono, in modo definitivo e perciò incontrovertibile, l'orrore e la follia omicida che erano stati scientificamente e metodicamente attuati in quegli anni per sterminare un popolo e gli oppositori del regime nazista.

Anche sotto questo profilo, dunque, non può aversi alcun dubbio, così come inappuntabilmente affermato dai giudici di merito, della esistenza dell'elemento psicologico del dolo in capo al ricorrente.

4. All'inammissibilità del ricorso consegue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti a escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost., sentenza n. 186 del 2000), anche la condanna al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende nella misura che si stima equo determinare in Euro 3.000,00.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 19 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2022