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Negato il diritto all'udienza pubblica: revisione europea? (Cass. 16226/22)

27 aprile 2022, Cassazione penale

La celebrazione in camera di consiglio invece che in pubblica udienza del procedimento di prevenzione costituisce pacifica violazione del diritto ad un giusto processo sub specie udienzapubblica (art. 6 CEDU): se non emergono violazioni dei parametri sostanziali correlati alla tutela del diritto di proprietà, la violazion ex se non è sufficiente a dar corso alla celebrazione di nuovo giudizio in applicazione dei dettami contenuti nella sentenza n. 131/2011 della Corte Costituzionale.

Per consentire al Giudice della revisione di individuare i vizi processuali generati dalla violazione, il ricorrente deve specificamente rappresentare - onde rendere concreto l'interesse all'azione giudiziaria - le ragioni per cui l'avvenuta celebrazione, nel contraddittorio delle parti, pur se in camera di consiglio, abbia compromesso l'esito della decisione in termini a sé sfavorevoli, che, invece, la pubblicità della udienza avrebbe evitato.

Nell'ambito della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il diritto all'udienza pubblica si colloca nell'alveo delle garanzie che realizzano l'"equo processo", sancite, appunto, dall'art. 6 Cedu., che, nella prima parte del par. 1, riconosce il diritto di ogni persona "a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente...(....)" ". Nella interpretazione dei giudici di Strasburgo, la pubblicità dell'udienza costituisce un elemento essenziale per l'attuazione del "fair trial", in quanto assicura trasparenza all'operato e alla decisione finale del giudice, impedendo "una giustizia segreta, sottratta al controllo del pubblico", ed e', altresì, uno degli strumenti mediante i quali si realizza e preserva "la fiducia nelle corti e nei tribunali da parte della collettività, rassicurata sul fatto che lo sforzo di stabilire la verità sarà massimo"

L'ottenimento di pronuncia favorevole da parte della Corte doi Strasburgo non costituisce automatico accesso all'istituto della revisione europea, sempre che non sia la stessa Corte EDU ad indicare nella propria pronuncia i rimedi, di natura processuale, da applicarsi concretamente al caso sottoposto al proprio esame.

 

Corte di Cassazione

sez. V penale, ud. 4 febbraio 2022 (dep. 27 aprile 2022), n. 16226
Presidente Sabeone – Relatore Belmonte

Ritenuto in fatto

1. Con il decreto impugnato, la Corte di appello di Catanzaro ha dichiarato inammissibile il ricorso, proposto il 07 maggio 2019, ai sensi del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 28 nell'interesse di F.A., per la revisione "Europea" del decreto n. 100/2006 del 16.7.2004, con il quale la Corte d'Appello di Reggio Calabria ha confermato la confisca di beni disposta nel procedimento n. 101/2000 RGMP.

1.1. Il ricorrente - destinatario di una misura di prevenzione patrimoniale, definitiva dal 26 settembre del 2006 - aveva chiesto "il rifacimento del giudizio con l'osservanza delle forme dell'udienza pubblica", richiamando i principi espressi da Corte Costituzionale n. 113 del 2011 in tema di revisione Europea e lamentando la illegittimità del procedimento di prevenzione per la violazione dell'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, in ragione del mancato rispetto del principio dell'oralità nel corso del giudizio di merito, svoltosi in udienza camerale.

1.2. Adita la Corte di Strasburgo, questa, con decisione del 13 maggio 2014, aveva recepito la Dichiarazione Unilaterale del Governo italiano, di riconoscimento della violazione dell'art. 6, p.1 CEDU, per il carattere "non equo" del giudizio di prevenzione, non essendo stata assicurata, dall'ordinamento interno, la possibilità di chiedere la trattazione del procedimento in pubblica udienza, preso atto del rifiuto opposto dalla parte ricorrente anche in presenza della ulteriore dichiarazione di accollo delle spese del giudizio convenzionale, aveva disposto - ai sensi dell'art. 37 CEDU - la cancellazione della causa dal ruolo della parte di ricorso relativa alla mancata trattazione in pubblica udienza, non ravviando ragioni per proseguire nel giudizio. La restante parte del ricorso, relativa alla violazione del diritto di proprietà, era stata ritenuta irricevibile, in quanto la Corte Edu "non rileva alcuna apparenza di violazione dei diritti e delle libertà sanciti dalla Convenzione o dai suoi Protocolli".

1.3. Il Tribunale di Reggio Calabria - in sede di misure di prevenzione - adito con le forme dell'incidente di esecuzione, ai sensi dell'art. 670 c.p.p., per la declaratoria di non esecutività della confisca definitiva, si era determinata per il rigetto dell'istanza, (confermato dalla Corte di Appello di Reggio Calabria che respingeva l'appello con provvedimento del 27 ottobre 2017) ritenendo che nessun effetto ulteriore possa derivare dalla decisione emessa dalla Corte Edu il 13 maggio 2014 nei confronti del F., giacché la stessa Corte Edu ha limitato l'effetto favorevole all'avvenuto accertamento della violazione (riconosciuta dal Governo italiano), da ritenersi riparazione equa e sufficiente a compensare il danno morale. La Corte di appello di Reggio Calabria aveva, altresì, evidenziato che l'Italia si è adeguata alla necessità di prevedere la facoltà di udienza pubblica in primo grado, nei procedimenti di prevenzione, con l'adozione del D.Lgs. n. 159 del 2011, in tal modo eliminando il vizio sistemico dell'ordinamento interno, e, pertanto, aveva ritenuto intangibile il giudicato di prevenzione, pure in presenza di un accertamento di violazione, peraltro, limitata ad un particolare aspetto del rito, non potendo farsi discendere dalla previsione di adeguamento contenuta nell'art. 46 Conv. Edu un obbligo di rimozione degli effetti del giudicato interno, specie lì dove la riapertura del giudizio non sia stata sollecitata, come strumento di riparazione, dalla stessa Corte Edu.

1.4. Avverso la decisione della Corte di Appello di Reggio Calabria proponeva ricorso per cassazione F., denunciando erronea applicazione di legge e correlato vizio della motivazione, per non essere stata disposta dai giudici di merito, appositamente aditi, la restitutio in integrum, pure a fronte di accertamento della violazione dell'art. 6 Conv. Edu.

1.4.1. La Corte di cassazione, con sentenza n. 50919 del 13/07/2018 (dep. 08/11/2018), ha rigettato il ricorso avverso la predetta decisione, ritenendo che il ricorso avanzato con le forme dell'incidente di esecuzione, secondo il modello di cui all'art. 670 c.p.p. - domandando, non già la riapertura del procedimento definitivo, quanto la dichiarazione di inesigibilità del provvedimento di confisca con immediata restitutio in integrum - non fosse idoneo a dare sfogo alla doglianza attinente al vizio originario di formazione del titolo, detto rimedio afferendo, piuttosto, ad eventi sopravvenuti che ne travolgano la validità, e individuava, quale strumento adeguato, invece, il mezzo revocativo, sub specie del contenitore procedimentale di cui alla L. n. 1426 del 1953, art. 7 (revoca anche ex tunc), (disposizione ora collocata nel testo del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 11, comma 2 e nell'art. 28 del medesimo D.Lgs. quanto alle misure patrimoniali), con il quale dare ingresso a una revisione Europea.

1.5. A seguito di tale pronuncia, F. avanzava istanza di "revisione Europea" alla Corte di appello di Catanzaro (ex artt. 11 e 630 c.p.p.), depositata il 7 maggio 2019, domandando il "rifacimento del giudizio con l'osservanza delle forme dell'udienza pubblica"; l'istanza è stata dichiarata inammissibile con il provvedimento impugnato.

1.5.1. La Corte di appello di Catanzaro, richiamando il contenuto della statuizione della citata sentenza della Corte di cassazione, ha ritenuto che il ricorso volto a dare ingresso ad una fattispecie di revisione Europea "deve essere calato, in forza della normativa transitoria stabilita dal D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 117 in una richiesta di revoca ai sensi della L. n. 1423 del 1956, art. 7 tutte le volte che si sottopone ad attenzione la violazione di regole procedurali nella formazione di un titolo idoneo ad assumere valore di giudicato sorto sotto il vigore della disciplina previgente al D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, e nella forma della revisione ex art. 28 disciplina antimafia, ove la proposta di applicazione della misura di prevenzione sia successiva". La Corte di appello ha, quindi, dichiarato la tardività della domanda di parte, in relazione alla decisione della Corte di Strasburgo risalente al 2014. Nel merito della domanda di parte, ha, in ogni caso, rilevato che "la Corte EDU sia chiara nello stabilire sufficiente riparazione il riconoscimento della violazione, una volta constatato l'impegno del governo italiano e della legislazione interna, per come rimodellata dalla Corte costituzionale, di evitare in futuro violazioni di tal genere(..), anche in considerazione del rifiuto della proposta risarcitoria, disponendo la cancellazione della causa dal ruolo". Il che equivale a una dichiarazione di cessazione della materia del contendere e non all'espresso riconoscimento del diritto fatto valere in giudizio, come sostenuto dalla Difesa ricorrente. Da qui l'ulteriore inammissibilità dell'istanza, affermata, altresì, per la mancata indicazione della "rilevanza in termini di sopravvenienza degli elementi di prova nuova".

2. Ricorre per cassazione F.A., con il ministero dei difensori di fiducia, avvocati Gianfranco Giunta e Francesco Calabrese, i quali deducono violazione dell'art. 630 c.p.p. (giusta sentenza additiva della Corte Costituzionale n. 113/2011) in relazione alla L. n. 1423 del 1956, art. 7 - D.Lgs. n. 159 del 2011, artt. 11 e 28 - artt. 6 e 46 C.E.D.U., art. 117 Cost..

Sostiene la Difesa del ricorrente che la Corte di appello:

- Ha propugnato una erronea interpretazione del contenuto decisorio della sentenza della Corte di cassazione n. 50919 del 2018, laddove ha ritenuto che la stessa avesse inteso riferirsi alla possibilità di attivare il procedimento di revoca L. n. 1423 del 1956, ex art. 7 così censurando come fallace la scelta difensiva di attivare il procedimento di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 28 dichiarandone la tardività.

- Del pari erronea la argomentazione secondo cui la Corte Europea non avrebbe in alcun modo legittimato la proposizione di un nuovo giudizio revisionale, avendo ritenuto che il semplice riconoscimento della violazione dovesse rappresentare già adeguata soddisfazione.

Il provvedimento impugnato è altresì viziato in punto di competenza, contestandosi la affermazione con la quale la Corte di appello si è ritenuta immotivatamente incompetente; in ogni caso, avrebbe dovuto trasmettere gli atti al giudice ritenuto competente, invece di pronunciarsi nel merito quale giudice ritenutosi incompetente.

2.1. Quanto al primo profilo, sostiene il ricorrente che la atipicità dell'istituto della revisione Europea - riconosciuta anche dalla pronuncia della Corte di cassazione, che, infatti, non fa alcun cenno alla disciplina transitoria di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 117 - non consente una traslazione tout court delle regole che governano la revisione ordinaria. D'altro canto, l'art. 117 cit. individua quale elemento descrittivo - ai fini della individuazione della normativa applicabile ratione temporis - la "formulata proposta di applicazione di misure di prevenzione". Nel caso di specie, non v'è alcuna proposta a cui fare riferimento, quanto una iniziativa di parte finalizzata ad ottenere la conformazione del procedimento a seguito della pronuncia di non conformità di carattere convenzionale. Sostiene la Difesa che lo strumento processuale è quello del tipo di revoca operante al momento della proposizione della domanda (e non all'atto della formulazione della proposta di misura di prevenzione).

2.1.1. In ordine alla dichiarata tardività del ricorso, il ricorrente evoca la sentenza della Corte costituzionale n. 113/2011, che ha fatto espresso riferimento all'istituto di cui all'art. 630 c.p.p., quale sedes dell'intervento additivo, quando la riapertura del processo risulti necessaria ai sensi dell'art. 46, par. 1 della CEDU, per conformarsi a una sentenza definitiva della CEDU, affermando che il giudice di merito dovrà ritenere l'inapplicabilità delle singole disposizioni relative al giudizio di revisione inconciliabili, sul piano logico - giuridico, con l'obiettivo di porre l'interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della violazione accertare, venendo in rilievo, nella revisione Europea, la necessità di rimediare a un vizio di rito e non un errore di giudizio da parte del giudice, risultante da elementi esterni al giudicato. Pertanto, il ripristino dello status quo non può essere subordinato ad alcuna condizione procedimentale, neppure a quella, declinata dall'art. 28 cit., contenente la previsione del termine decadenziale di sei mesi dalla proposta.

2.2. Quanto al secondo profilo, con cui si contesta la affermazione che la Corte Edu non avrebbe individuato alcun obbligo in capo alla giurisdizione italiana, si sostiene che, invece, l'accertamento della violazione è fonte di un obbligo ulteriore, quello di eliminare gli effetti pregiudizievoli del procedimento unfair che ancora perdurano, secondo reiterate prese di posizioni della Corte di Strasburgo. Il fatto che la Corte Costituzionale prima ed il legislatore poi abbiano eliminato il vizio sistemico è confermativo, in tale prospettiva, della gravità del vizio medesimo e della correlata necessità di rimozione del giudicato. Tale intervento di rimozione degli effetti era dunque necessitato e trova fonte nella previsione dell'art. 46 Conv. Edu, così come tale disposizione è stata più volte interpretata dalla stessa Corte Edu e dalla giurisprudenza interna.

Considerato in diritto

1. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, per l'assorbente ragione che, nell'introdurre il giudizio di revisione Europea, il ricorrente ha completamente omesso di rappresentare il proprio interesse concreto all'impugnazione, non risultando indicato in quali termini la riapertura del processo e la garanzia della pubblicità avrebbero consentito di ripristinare prerogative processuali asseritamente violate (come il diritto al contraddittorio o alla prova), e permesso al ricorrente di conseguire un esito a lui più favorevole.

2. Esigenze di ordine logico impongono di affrontare, preliminarmente, la questione, controversa nel presente giudizio, relativa alla interpretazione del contenuto della decisione adottata dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo nella causa F. c/Italia.

2.1. Come si è premesso, il ricorrente aveva adito la Corte Europea per i diritti dell'Uomo deducendo la violazione dell'art. 6 della Convenzione, per avere subito un procedimento conclusosi con la applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale senza potere beneficiare di una pubblica udienza, non prevista dalla disciplina del tempo (L. n. 1423 del 1956).

2.2. Nell'ambito della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, il diritto all'udienza pubblica si colloca nell'alveo delle garanzie che realizzano l'"equo processo", sancite, appunto, dall'art. 6 Cedu., che, nella prima parte del par. 1, riconosce il diritto di ogni persona "a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente...(....)" ". Nella interpretazione dei giudici di Strasburgo, la pubblicità dell'udienza costituisce un elemento essenziale per l'attuazione del "fair trial", in quanto assicura trasparenza all'operato e alla decisione finale del giudice, impedendo "una giustizia segreta, sottratta al controllo del pubblico", ed e', altresì, uno degli strumenti mediante i quali si realizza e preserva "la fiducia nelle corti e nei tribunali da parte della collettività, rassicurata sul fatto che lo sforzo di stabilire la verità sarà massimo" (per tali principi si veda Riepan v. Austria, 14/11/2000, p. 27; Tierce e altri c. San Marino, 25 luglio 2000, p. 92; Serre c. Francia, 29 settembre 1999; Szucs c. Austria, 24 novembre 1997; Acsen c. Germania, 8 dicembre 1983).

2.3. Con specifico riguardo alla materia penale, in linea di principio, è fondamentale che almeno l'udienza di primo grado sia tenuta rispettando tutti i canoni dell'art. 6 Cedu, tra cui la pubblicità (in tal senso, Cassazione: Sez. 1, n. 8163 del 10/02/2015, Rv. 26259401; Sez. 5, n. 14863 del 21/12/2020 (dep. 2021) Rv. 28113803; Sez. 5 n. 19367 del 08/06/2020, Rv. 279108).

2.4. Sono questi i principi ispiratori di alcune pronunce della Corte EDU che, proprio nella materia delle misure di prevenzione, hanno portato alla dichiarazione di violazione dell'art. 6, p.1 Cedu da parte dello Stato Italiano. La prima di tali pronunce - la sentenza Bocellari e Rizza c. Italia n. 399/02, del 13 novembre 2007 - ha investito, specificamente, il procedimento di applicazione delle misure di prevenzione reali, in quanto tenutosi in camera di consiglio, nella versione disciplinata dalla L. del 1956: la Corte Europea ha ritenuto violato l'art. 6, p.1 Cedu, non essendo prevista, da quella normativa, neppure la possibilità, per il prevenuto, di richiedere lo svolgimento di un'udienza pubblica. La Corte, infatti, pur riconoscendo l'esigenza di tutelare interessi superiori, nonché il carattere tecnico del tipo di procedimento, ha sottolineato come non possa ignorarsi che le misure di prevenzione sono destinate a incidere sulla situazione patrimoniale del giustiziabile: "davanti a tale posta in gioco, non si può affermare che il controllo del pubblico non sia una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell'interessato". Il principio è stato confermato anche in successive pronunce con le quali i giudici di Strasburgo hanno messo in luce un vero e proprio deficit interno di tutela rispetto alla fair hearing convenzionale (cfr. Corte Edu, Perre e altri c. Italia, 8 luglio 2008; Bongiorno c. Italia, 5 gennaio 2010; Leone c. Italia, 2 febbraio 2010; Capitani e Campanella c. Italia, 17 maggio 2011, e recentemente, è stato esteso anche al procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione personali: Corte Edu, De Tommaso c. Italia, 23 febbraio 2017.

2.5. Tutti i casi citati hanno riguardato vicende sovrapponibili, quanto al profilo di violazione denunciato, a quella del F., nei confronti del quale la Corte Edu ha adottato il seguente dispositivo: "La Corte all'unanimità prende atto dei termini della dichiarazione del governo convenuto riguardante la mancanza di pubblicità del dibattimento (art. 6, p. 1 della Convenzione) e delle modalità previste per garantire il rispetto degli impegni presi; Decide di cancellare questa parte del ricorso dal ruolo in applicazione dell'art. 37, p. 1 c) della Convenzione; Dichiara il resto del ricorso irricevibile".

3. Va, qui, ricordato che, in entrambi i giudizi di merito, le Corti territoriali hanno ritenuto intangibile il giudicato di prevenzione, considerando che non possa farsi discendere, dalla previsione di adeguamento contenuta nell'art. 46 Conv. Edu., un obbligo di rimozione degli effetti del giudicato interno, specie lì dove la riapertura del giudizio non sia stata sollecitata, come strumento di riparazione, dalla stessa Corte Edu (così la sentenza della Corte di appello di Reggio Calabria). Si afferma, infatti, come "la decisione fondante emessa dalla corte EDU sia chiara nello stabilire sufficiente riparazione il riconoscimento della violazione, una volta constatato l'impegno del governo italiano e della legislazione interna, per come rimodellata dalla Corte costituzionale, di evitare in futuro violazioni di tal genere (...) anche in considerazione del rifiuto della proposta risarcitoria, disponendo la cancellazione della causa dal ruolo" (Così la Corte di appello di Catanzaro). Nella sentenza impugnata si giunge ad escludere che, in presenza di una dichiarazione di cessazione della materia del contendere, possa venire in rilievo un espresso riconoscimento del diritto fatto valere in giudizio.

3.1. Le richiamate affermazioni impongono di affrontare il tema della incidenza sul diritto interno della decisione assunta dalla Corte EDU che recepisca, secondo le modalità procedimentali disciplinate dall'art. 37 Cedu, la dichiarazione unilaterale governativa; di valutare, cioè, le ricadute, nell'ordinamento processuale interno, della procedura di "componimento" della causa di cui all'art. 37 C.E.D.U., anche in rapporto alla previsione di adeguamento di cui all'art. 46 CEDU.

3.2. Per quanto emerge dal dettato convenzionale e dalle previsioni regolamentari della Corte Edu, il Giudice di Strasburgo - oltre ad affrontare il merito della questione, pervenendo a una decisione destinata ad assumere il crisma della definitività (artt. 42 e 44 p. 2 CEDU), sulla cui necessaria ottemperanza (ex art. 46 CEDU) da parte degli Stati vigila il Comitato dei Ministri - può decidere il caso al suo esame anche con le modalità "conciliative" di cui agli artt. 37 e 39 CEDU: si tratta di decisioni assunte in seguito al riconoscimento unilaterale della violazione da parte dello Stato (art. 37), oppure, mediante composizione amichevole (art. 39).

3.3. E' opportuno riportare il testo dell'art. 37 Cedu:

p.1. In ogni momento della procedura, la Corte può decidere di cancellare un ricorso dal ruolo quando le circostanze permettono di concludere: (a) che il ricorrente non intende più mantenerlo; oppure (b) che la controversia è stata risolta; oppure (c) che per ogni altro motivo di cui la Corte accerta l'esistenza, la prosecuzione dell'esame del ricorso non sia più giustificata.

Tuttavia la Corte prosegue l'esame del ricorso qualora il rispetto dei diritti dell'uomo garantiti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli lo imponga.

p.2. La Corte può decidere una nuova iscrizione a ruolo di un ricorso se ritiene che le circostanze lo giustifichino.

La cancellazione della causa dal ruolo può verificarsi in qualsiasi fase della procedura in presenza di specifiche circostanze enucleate dal comma 1. Sulla base della lett. a) al ricorrente è data facoltà di rinunciare al ricorso; l'atto di rinuncia è manifestazione di volontà e può essere espressa o per facta concludentia, ma è essenziale che non sia equivoco. La lett. b) stigmatizza ipotesi oggettive in cui viene meno l'interesse ad agire, in quanto la risoluzione della controversia rende ingiustificata la prosecuzione della causa. L'ultima lettera del primo paragrafo dà invece ampi margini di discrezionalità alla Corte Edu nel disporre la cancellazione laddove accerti la sussistenza di motivi che non giustifichino più la prosecuzione. Il par. 2 di chiusura mette in evidenza la differenza che intercorre con i ricorsi colpiti da una dichiarazione di irricevibilità: i ricorsi cancellati possono essere nuovamente iscritti a ruoli. Quella assunta ai sensi dell'art. 37 e', dunque, una decisione pregiudiziale all'esame del merito, ad opera di un Comitato, la Camera, la Grande Camera, un giudice unico; tuttavia, laddove la Corte si sia già pronunciata sulla ricevibilità dello stesso, la cancellazione è disposta con sentenza.

3.4. Con riguardo al concreto esplicarsi del meccanismo - disciplinato dall'art. 62A del nuovo regolamento della Corte, approvato il 02 aprile 2012 - che conduce alla definizione del caso secondo le modalità conciliative di cui all'art. 37 - è previsto che:

a) Nel caso in cui il ricorrente rifiuti i termini di una proposta di composizione amichevole (art. 39 Cedu) fatta in virtù dell'art. 62 del regolamento, la Parte contraente interessata può presentare alla Corte una richiesta di cancellazione dal ruolo ai sensi dell'art. 37, p. 1 della Convenzione; che, una volta falliti i tentativi di regolamento amichevole, il Governo possa presentare una dichiarazione unilaterale di riconoscimento della violazione della norma convenzionale, in relazione alla quale il ricorrente può formulare le proprie osservazioni.

b) La richiesta è accompagnata da una dichiarazione che riconosce chiaramente che vi è stata violazione della Convenzione nei confronti del ricorrente e dall'impegno della Parte contraente interessata a fornire una riparazione adeguata e, eventualmente, a adottare le necessarie misure correttive.

c) La dichiarazione unilaterale deve essere fatta nell'ambito di una procedura pubblica e in contraddittorio (art. 62A, comma 1, lett. c).

In sintesi, nel caso di consenso del ricorrente sul contenuto delle dichiarazioni unilaterali, è concluso un regolamento amichevole (art. 39); laddove manchi l'accordo della vittima sulla posizione del Governo, spetta alla Corte valutare se accogliere la dichiarazione dello Stato che, tra l'altro, dovrà necessariamente prevedere la corresponsione di un equo indennizzo alla parte lesa secondo i parametri della Corte, dando luogo alla declaratoria di cessazione della materia del contendere ai sensi della lett. c), oppure determinarsi, nonostante la dichiarazione, nel senso di proseguire, dinanzi a sé, il giudizio, passando alla trattazione, nel merito, della causa.

3.5. Con riguardo alla fase esecutiva, con l'entrata in vigore (il 1 giugno 2010) del Protocollo n. 14, il Comitato dei ministri è divenuto competente a supervisionare anche l'esecuzione delle decisioni della Corte Edu che hanno disposto la cancellazione della causa dal ruolo a seguito dell'accettazione, da parte del ricorrente e del governo convenuto, di una proposta di regolamento amichevole formulata dalla Corte stessa (art. 39 Cedu). Tale procedura implica che il ricorrente accetti di rinunciare a ogni pretesa nei confronti dello Stato convenuto in merito ai fatti all'origine del ricorso, e che il governo riconosca l'avvenuta violazione della Convenzione e si impegni a corrispondere una somma a titolo di equa soddisfazione e/o ad adottare delle misure specifiche. Il Comitato dei ministri non segue, invece, di regola, l'esecuzione delle dichiarazioni unilaterali di riconoscimento della violazione della Convenzione (art. 37, p.1, lett. (b), Cedu), in cui il Governo indica anche le misure che intende adottare per porvi rimedio. La differenza principale, quindi, tra regolamenti amichevoli e dichiarazioni unilaterali in fase esecutiva riguarda le conseguenze dell'eventuale mancata esecuzione. Mentre, infatti, nel caso dei regolamenti amichevoli, spetta al Comitato dei ministri adottare le misure necessarie per assicurare che lo Stato ne rispetti i termini, in caso di mancata esecuzione di una dichiarazione unilaterale, la causa potrà essere rimessa direttamente sul ruolo dalla Corte, su richiesta del ricorrente, ai sensi dell'art. 2 dell'art. 37. Secondo l'espresso dato normativo, infatti, nonostante l'accettazione di una dichiarazione unilaterale governativa e la cancellazione della causa dal ruolo in tutto o in parte, la Corte EDU si riserva il diritto di reiscriverla (in tutto o in parte ai sensi dell'art. 37, p. 2) una volta verificata la mancata attuazione degli impegni presi dal Governo e l'esistenza di "circostanze eccezionali" (le stesse richiamate dall'art. 43, p. 5 del Regolamento della Corte) che giustifichino la reiscrizione della richiesta (cfr. Corte EDU, Alexentseva e altri c. Russia, 23 marzo 2006).

3.6. E' quanto si è verificato in un recente caso (Willems e Gorjon C/ Belgique del 21 settembre 2021), in cui la Corte di Strasburgo, interpretando l'art. 6 CEDU e ripercorrendo la propria giurisprudenza in materia di fair trial e diritto di accesso ad un tribunale, ha affrontato la questione relativa agli effetti della Dichiarazione unilaterale del governo convenuto, con cui venga riconosciuta la violazione della norma convenzionale denunciata, e della successiva decisione della Corte EDU che ne prenda atto, rispetto alla prosecuzione della trattazione del ricorso dinanzi a sé, cancellando la causa dal ruolo secondo il meccanismo collegabile all'art. 37, p. 1, lett. c) CEDU. E', poi, accaduto, che, a seguito della instaurazione del giudizio dinanzi alla autorità giudiziaria belga, il giudice superiore interno, in virtù del principio di separazione dei poteri, non abbia ritenuto di doversi adeguare alla interpretazione della Convenzione fornita dall'esecutivo nella Dichiarazione Unilaterale ed abbia rigettato l'istanza di riapertura del procedimento, già in precedenza dichiarato inammissibile. I ricorrenti, a quel punto, si sono rivolti nuovamente a Strasburgo, ottenendo dalla Corte EDU la riassunzione dei ricorsi originari ai sensi dell'art. 37 p. 2 CEDU, avendo ravvisato quella eccezionalità delle circostanze, a cui l'art. 43, p. 5 del Regolamento della Corte subordina tale possibilità di riassunzione della causa, per il sostanziale aggiramento degli impegni assunti dal Governo con le parti e con la stessa Corte EDU, derivato dal rigetto, da parte del Giudice nazionale, dell'istanza di riapertura del procedimento già dichiarato inammissibile; all'esito del giudizio di merito, la Corte ha dichiarato la violazione e condannato lo Stato Belga. Il caso Willelm c/ Belgique - in cui, come si è visto, la Corte EDU, una volta constatata la posizione della Corte di cassazione belga, ne ha tratto le dovute conseguenze, in punto di mancata attuazione di quegli impegni governativi, pure avallati dalla stessa Corte di Strasburgo, sui quali i ricorrenti avevano riposto aspettative di buona fede, ha sfruttato la riespansione, consentita dall'art. 37, p.2 CEDU, dei propri poteri, e provveduto alla reiscrizione a ruolo della causa, con l'esame nel merito della questione, culminato con il riconoscimento della violazione della norma convenzionale - costituisce una plastica rappresentazione della piena attuazione dell'iter procedimentale di cui all'art. 37 Cedu, e del suo, piuttosto scontato, esito.

3.7. E' anche opportuno ricordare che, dopo il primo caso in cui la Cedu ha recepito la dichiarazione unilaterale di uno Stato, nel caso Akman v Turkey del 26 giugno 2001, accogliendo la richiesta della Turchia, con cancellazione della causa dal ruolo, successivamente, in un ulteriore giudizio instaurato nei confronti dello Stato turco - il caso Tashin Acar v Turkey del 06 maggio 2003 - la Corte Edu ha fornito un elenco, non esaustivo, di fattori per valutare la possibilità di chiudere un caso in conformità con i diritti umani facendo riferimento alla natura del reclamo, alla circostanza che si tratti di questioni paragonabili ad altre già esaminate; alla natura e alla portata delle misure adottate dallo Stato e all'impatto sul caso in esame, alla esistenza di una controversia sul fatto.

3.8. L'art. 62A del Regolamento della Corte (Rules of Court) ha recepito due dei suddetti indicatori, trasformandoli in altrettanti requisiti essenziali per la approvazione di una Dichiarazione Unilaterale: il chiaro riconoscimento della violazione della CEDU e l'impegno a fornire un adeguato risarcimento e ad adottare misure correttive adeguate (art. 62A, p. b: La richiesta è accompagnata da una dichiarazione che riconosce chiaramente che vi è stata violazione della Convenzione nei confronti del ricorrente e dall'impegno della Parte contraente interessata a fornire una riparazione adeguata e, eventualmente, a adottare le necessarie misure correttive).

4. Anche la sentenza resa nel caso F. c/ Italia fuoriesce dal perimetro "classico" delle decisioni, in ragione del contenuto non formalmente decisorio, essendo anch'essa espressione dall'applicazione dell'art. 37 CEDU, e del confronto con la Dichiarazione unilaterale del Governo, ritenuta idonea a fondare la cancellazione dal ruolo del ricorso a Strasburgo. Nel caso di specie, la Corte Edu, nel prendere atto, ai sensi dell'art. 37, del riconoscimento della violazione dell'art. 6 della CEDU da parte del Governo italiano, ha considerato - coerentemente con le previsioni e la giurisprudenza convenzionali:

- l'esistenza di un consolidato orientamento, a partire dalla decisione nel caso Bocellari e Rizza c/ Italia, ricognitivo della violazione dell'art. 6 da parte della normativa interna in materia di prevenzione;

- l'avvenuta introduzione, medio tempore, della nuova Legge (n. 159 del 2011), con la quale lo Stato italiano si è adeguato al dictum della giurisprudenza convenzionale, prevedendo, all'art. 7, la possibilità per la parte di richiedere la pubblicità dell'udienza.

E' sulla base di tali oggettivi elementi che la Corte Edu, ritenendo scongiurato il pericolo di future violazioni, ha avallato la dichiarazione del Governo ed accolto la richiesta dello Stato italiano di dichiarare cessata la materia del contendere con riguardo alla denunciata violazione dell'art. 6 p.1 Cedu, pur in presenza del rifiuto opposto dal F. alla offerta risarcitoria proveniente dal Governo italiano.

4.1. Si è visto che la procedura con la quale la Corte provvede alla cancellazione del ricorso è circoscritta da precisi parametri valutativi, come emerge dalla enucleazione dei casi prospettati dalla stessa norma (art. 37, p. 1, lett. a) e b), a cui si accompagna una previsione di chiusura, affidata alla discrezionalità di giudizio della Cedu, emergente dal comma 1, lett. c e dalla possibilità di riaprire il caso disciplinata dal comma 2, e in particolare dagli incisi "per ogni altro motivo in cui la Corte accerti l'esistenza" e " qualora ciò sia richiesto dal rispetto dei diritti dell'uomo garantiti dalla Convenzione". E' chiaramente evincibile da tali previsioni l'attività di giudizio propedeutica alla decisione, rispettivamente nei due casi enunciati, di radiare un ricorso o di farlo proseguire.

4.2. Ritiene, quindi, il Collegio che, nel caso riguardante F.A., per quanto si tratti di una definizione del procedimento correlata a una valutazione pregiudiziale del ricorso, non possa, tuttavia, disconoscersi la oggettiva valenza ricognitiva della violazione della norma convenzionale contenuta nella decisione della Corte Edu, che l'ha affermata a chiare lettere laddove, senza muovere rilievi di sorta, ha accolto la dichiarazione in tal senso proveniente dallo Stato convenuto. Alla luce delle caratteristiche del meccanismo definitorio di cui all'art. 37, come delineato anche dall'art. 62A del Regolamento, e interpretato dalla giurisprudenza convenzionale, non sembra razionale, anche alla luce dei valori costituzionali espressi dall'art. 3 Cost., attribuire alcun altro significato alla preso d'atto, una volta falliti i tentativi di definizione amichevole della controversia, della "dichiarazione unilaterale dello Stato italiano di riconoscimento della violazione dell'art. 6, p.1 della Convenzione secondo la giurisprudenza consolidata della Corte (sentenze Bocellari e Rizza c. Italia n. 399/02, del 13 novembre 2007; Perre e altri c. Italia, n. 1905/05, dell'8 luglio 2008; e Bongiorno c. Italia, n. 4514/07, del 5 gennaio 2010)", e dell'offerta riparativa.

La conclusione si fonda sulla dirimente considerazione che non viene in rilievo il mero recepimento di una dichiarazione di parte, quanto, piuttosto, una ponderata valutazione di siffatta dichiarazione, giacché la Corte ha esaminato "attentamente la dichiarazione tenendo conto dei principi sanciti dalla sua giurisprudenza (Tahsin Acar c. Turchia (questione preliminare) (GC), n. 26307/95, p.p. 75-77, CEDU 2003 VI; WAZA Spelka z o.o. c. Polonia (dec.) n. 11602/02, 26 giugno 2007), onde valutare la possibilità di acquisire la dichiarazione unilaterale, e, a tal fine, ha richiamato "un certo numero di cause presentate contro l'Italia" in cui è stata affermata la natura e la portata dell'obbligo, per lo Stato convenuto, di riconoscere alle persone sottoposte a giudizio il diritto di vedersi riconosciuta la possibilità di chiedere un'udienza pubblica nell'ambito delle procedure finalizzate all'applicazione delle misure di prevenzione (tra altre, Bocellari e Rizza c. Italia, sopra citata; Perre e altri c. Italia, n. 1905/05, 8 luglio 2008; Bongiorno e altri c. Italia, n. 4514/07, 5 gennaio 2010; Leone c. Italia, n. 30506/07, 2 febbraio 2010; Capitani e Campanella c. Italia, n. 24920/07, 17 maggio 2011).

I Giudici di Strasburgo hanno, inoltre, "Tenuto conto della riforma delle disposizioni legislative pertinenti (...) che rende poco probabile che si ripresentino casi simili, e soprattutto dell'esistenza di una giurisprudenza chiara e copiosa sulla questione relativa alla Convenzione che si pone nella presente causa, la Corte ritiene che il rispetto dei diritti dell'uomo sanciti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli non richieda la prosecuzione dell'esame di questa parte del ricorso (art. 37, p. 1 in fine)".

Dunque, la decisione della Corte Edu giunge all'esito della verifica di sussistenza dei due presupposti individuati dal regolatore convenzionale che - nell'ottica della tutela dei diritti umani - rendono rassicurante la dichiarazione unilaterale dello Stato italiano. E' stata, cioè, considerata la consolidata giurisprudenza convenzionale sulla questione posta dal ricorrente, ed è stata posta in correlazione la dichiarazione unilaterale del Governo italiano con la declaratoria di incostituzionalità della L. n. 1423 del 1956 (a cui ha fatto seguito la introduzione di una nuova disciplina) già intervenuta con riguardo alla mancata previsione della possibilità di chiedere la pubblicità del dibattimento nell'ambito dei procedimenti per l'applicazione delle misure di prevenzione.

Sono le intrinseche connotazioni dell'iter delineato dalla disciplina convenzionale che portano ad affermare - in ottima razionale di sistema - che la decisione assunta con le formalità di cui all'art. 37 CEDU ha condotto alla declaratoria di cessazione della materia sul presupposto del chiaro riconoscimento della violazione da parte dello Stato, che, lungi dal costituire un mero recepimento "acritico" da parte del giudice convenzionale della Dichiarazione del Governo, giunge, piuttosto, all'esito di uno scrutinio a discrezionalità (art. 37, p.1, lett. c) vincolata (art. 62A, comma 1, lett. b), che ha saggiato la coerenza di quella dichiarazione, da un lato, con la propria consolidata giurisprudenza, e, dall'altro, con il comportamento già assunto dallo Stato attraverso la rimozione della disciplina legislativa contrastante, sostituita con una che offre garanzie in ordine a future possibili violazioni della stessa specie, che la Corte Edu ha ragionevolmente escluso. Solo all'esito di un siffatto vaglio, il Giudice convenzionale ha ritenuto non più sussistente - nell'ottica della tutela dei diritti umani - alcuna valida ragione per scrutinare nel merito la questione posta dal ricorrente, affidandosi alla corretta esecuzione degli impegni assunti dallo Stato.

4.3. E' opportuno, al fine di supportare le affermazioni appena fatte, porre mente a due recenti pronunce della CEDU, in cui la Corte, pur in presenza di una dichiarazione unilaterale dello Stato, non ha ritenuto di accogliere la richiesta di cancellazione della causa dal ruolo, dando luogo, in ogni caso, al giudizio di merito. Si tratta di decisioni che dimostrano plasticamente come la decisione presa ai sensi dell'art. 37 presupponga una valutazione da parte della Corte Edu sulla "affidabilità", in relazione al rispetto dei diritti umani, della dichiarazione unilaterale, rifuggendo da ogni automatismo di adeguamento alla posizione dello Stato, che potrebbe avere interesse a chiudere sbrigativamente la questione.

Il riferimento è ai casi "Romic and others v. Croatia "del 14 maggio 2020, in cui la Cedu ha ravvisato la mancanza di giurisprudenza sulla questione posta dal ricorrente, e "Keskin v. Netherlands" del 19 gennaio 2021, in cui la Corte ha dato atto che lo scopo dichiarato del ricorrente fosse la riapertura del procedimento penale a suo carico - stante la ritenuta violazione dell'art. 6 Cedu - e ha escluso che il diritto interno fornisse adeguate garanzie circa la possibilità di riapertura del processo nel caso di definizione del caso con la procedura di cui all'art. 37 Cedu.

4.4. Insomma, è pur vero che il riconoscimento della violazione non è l'esito di un giudizio nel merito, tuttavia, sembra del pari incontrovertibile il contenuto ricognitivo della violazione che tale esito decisorio presuppone. Può, quindi, osservarsi che, nelle decisioni assunte ai sensi dell'art. 37 - secondo il delineato meccanismo procedimentale - non manca il riconoscimento della violazione - giacché la Corte fa propria la declaratoria dello Stato rinunciando a un ulteriore e defatigante giudizio - quanto piuttosto la statuizione di condanna, che resta assorbita dal riconoscimento unilaterale dello Stato.

E che si tratti di un esito decisorio accreditato nella giurisprudenza della CEDU, quale modalità di definizione ordinaria delle questioni, lo si desume dalle numerosissime (oltre un migliaio) decisioni di tal genere emergenti dalle statistiche convenzionali, a riprova dell'intento di deflazionare il ruolo della Corte, alleggerendone il carico di lavoro con modalità definitorie più snelle per risolvere in modo rapido i casi ripetitivi, senza sacrificare il rispetto dei diritti umani. Modalità definitoria che, con una recente decisione, è stata adottata, per la prima volta, anche dalla Grande Camera, nel caso De Tommaso contro Italia del 23 febbraio 2017, in cui la Corte ha esteso i principi affermati in tema di violazione dell'art. 6, p.1 per le misure di prevenzione reali anche al procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione personali. 4.5. Dovendo considerarsi precluso ogni arretramento sul rispetto dei diritti umani, il meccanismo di cui all'art. 37 CEDU - nel sistema ora delineato dall'art. 62A del regolamento, che mira a rafforzarne l'utilizzo per risolvere in modo rapido i casi ripetitivi e alleggerire il carico di lavoro, senza sacrificare il rispetto dei diritti umani - è evidentemente destinato ai casi in cui vi sia una consolidata prassi della Corte sulle questioni in discussione, così da consentire la chiusura del procedimento senza l'esame del ricorso, laddove la Corte non lo ritenga più giustificato. In tal senso orienta il chiaro contenuto del citato art. 62A.

4.6. Sul piano degli effetti nell'ordinamento interno, come si è già premesso, le decisioni assunte ai sensi dell'art. 37, p.1 non vengono affidate per la vigilanza sulla loro esecuzione al Comitato dei ministri. La soluzione individuata dal sistema convenzionale nel caso di inottemperanza da parte dello Stato agli obblighi assunti con la dichiarazione unilaterale è quella della reiscrizione della causa sul ruolo per l'accertamento, nel merito, della violazione dedotta. E il già richiamato caso, che ha coinvolto il governo Belga, costituisce una eloquente cartina di tornasole del ruolo di tale ulteriore procedimento convenzionale: la Corte Edu, infatti, è pervenuta, attraverso un successivo scrutinio di merito della questione posta al suo esame, all'accertamento giurisdizionale di una violazione che era già in pectore contenuta nella declaratoria precedente, superando, con tale decisione (questa sì) vincolante (ai sensi dell'art. 46 Cedu), la obiezione, pur legittima della Corte Suprema di quello Stato, che si era appellata al principio di separazione dei poteri e a quelli che declinano l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, ritenendosi non vincolata dal riconoscimento della violazione operato dalla Autorità amministrativa interna. La decisione con la quale la CEDU è pervenuta, con sentenza definitiva ex art. 44 Cedu, al riconoscimento della violazione, all'esito di un pieno giudizio di merito, vincola, infatti, lo Stato interno ad adeguarvisi, ai sensi dell'art. 46 CEDU.

4.7. E' chiaro, allora, che la definizione del caso secondo il meccanismo dell'art. 37 costituisce, innanzitutto, applicazione delle regole convenzionali che governano il procedimento dinanzi alla Corte di Strasburgo. Inoltre, la decisione così assunta - pur se non (ancora) dotata della forza cogente della decisione definitiva (art. 44 CEDU), ostandovi il rifiuto (ingiustificato, perché se la Corte lo ritenesse giustificato, ricuserebbe la Dichiarazione dello Stato) della controparte, che impedisce di considerare definitivamente chiuso il caso - rappresenta pur sempre il risultato di una valutazione attinente alla sussistenza dei presupposti per la affermazione della violazione, peraltro, espressamente riconosciuta dallo Stato.

Se, dunque, non viene immediatamente in rilievo, dal corpo delle norme convenzionali, un diretto obbligo conformativo dello Stato interno rispetto alle decisioni assunte ai sensi dell'art. 37, tuttavia, non può obliterarsi, che, secondo le indicazioni provenienti dalla stessa Corte di Strasburgo, la Convenzione va applicata così come resa viva nelle affermazioni di principio estrapolate dalle Sentenze della Corte Edu; questo comporta anche la necessità di assicurare uniformi livelli di tutela (art. 3 Cost.) dei diritti riconosciuti dalla Carta Europea dei Diritti dell'Uomo, attribuendo allo Stato - e per esso alla Autorità Giudiziaria domestica - un margine di apprezzamento - salvo il limite della arbitrarietà -tale da consentire l'adeguamento interno anche a decisioni, pur astrattamente non vincolanti, che, tuttavia, rappresentino l'espressione di principi riconosciuti nella giurisprudenza convenzionale.

4.8. Tirando le fila del ragionamento, si può dire che:

- il meccanismo individuato dall'art. 37 (e disciplinato dall'art. 62A del Regolamento Cedu) ha la chiara finalità di individuare una modalità deflattiva per la decisione di casi simili a quelli già scrutinati dalla Cedu;

- la definizione del caso con le modalità di cui all'art. 37 non costituisce un esito obbligato per la Cedu, a fronte della dichiarazione unilaterale, potendo essa decidere di rifiutare la proposta dello Stato e accedere alla valutazione nel merito della questione;

- la decisione della CEDU di accedere alle modalità definitorie di cui all'art. 37 non può risolversi, comunque, nel mero recepimento della Dichiarazione unilaterale dello Stato, in quanto ad essa la Corte può addivenire solo all'esito di una valutazione approfondita della propria consolidata giurisprudenza e delle concrete, effettive, possibilità a parte dello Stato di dare ottemperanza agli impegni dello Stato;

- la decisione assunta ai sensi dell'art. 37 Cedu contiene il riconoscimento della violazione, sebbene non pervenga all'esito di una condanna nei confronti dello Stato, sol perché quest'ultimo, oltre a riconoscere la violazione, si è preventivamente assunto l'onere risarcitorio e di adeguamento, ove necessario;

- l'esecuzione della decisione assunta ai sensi dell'art. 37 non vede il coinvolgimento del Comitato dei ministri, ma la mancata ottemperanza da parte dello Stato consente alla Corte di riaprire il caso e decidere nel merito per valutare la sussistenza della denunciata violazione.

- la decisione assunta nel successivo giudizio ai sensi dell'art. 37 p.2 è adottata ai sensi dell'art. 44 ed è vincolante per lo Stato ai sensi dell'art. 46 Cedu..

4.9. Alla luce di tali considerazioni, ritiene il Collegio che, anche nel caso in scrutinio, possa ravvisarsi, nella decisione della Corte Edu, il riconoscimento della violazione della norma convenzionale; disconoscere un siffatto contenuto equivarrebbe a infrangersi contro un meccanismo decisorio contemplato dalla Carta convenzionale quale modalità di risoluzione delle controversie, ampiamente utilizzato dalla giurisprudenza sovranazionale in presenza dei già descritti presupposti, una volta costatata la superfluità di un ulteriore processo dinanzi ai Giudici di Strasburgo.

D'altro canto, cogliendo siffatta logica di sistema, già nella sentenza n. 50919 dl 2018 della I Sezione di questa Corte, l'approdo di sintesi è nel senso che la violazione dell'art. 6 Conv. "e' da ritenersi accertata anche nel caso del F., avendo la Corte Edu ritenuto di non muovere rilievi alla dichiarazione unilaterale del Governo, cancellando la causa dal ruolo" (pg. 6).

5. Una volta riconosciuto che F.A. ha ottenuto una pronuncia favorevole dalla CEDU, nel senso del riconoscimento della denunciata violazione convenzionale, viene in rilievo la necessità di individuare lo strumento che consenta l'adeguamento alla pronuncia della CEDU.

5.1. A partire dalla sentenza della Corte EDU Scozzari e Giunta contro Italia del 13 luglio 2000, si è affermato il principio - ormai consolidato - in forza del quale, "quando la Corte constata una violazione, lo Stato convenuto ha l'obbligo giuridico non solo di versare agli interessati le somme attribuite a titolo dell'equa soddisfazione previste dall'art. 41, ma anche di adottare le misure generali e/o, se del caso, individuali necessarie" (Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; Corte EDU, Grande Camera, 1 marzo 2006, Sejdovic contro Italia; Corte EDU, Grande Camera, 8 aprile 2004, Assanidze contro Georgia). Ciò in quanto, in base all'art. 41 della CEDU, le somme assegnate a titolo di equo indennizzo mirano unicamente ad accordare un risarcimento per i danni subiti dagli interessati nella misura in cui questi costituiscano una conseguenza della violazione che non può in ogni caso essere cancellata (Corte EDU, Grande Camera, 13 luglio 2000, Scozzari e Giunta contro Italia). La finalità delle misure individuali che lo Stato convenuto è chiamato ad adottare viene puntualmente individuata dalla Corte di Strasburgo nella restitutio in integrum della situazione della vittima, costituita "da un nuovo processo o dalla riapertura del procedimento, su domanda dell'interessato". Queste misure devono porre, cioè, "il ricorrente, per quanto possibile, in una situazione equivalente a quella in cui si troverebbe se non vi fosse stata una inosservanza delle esigenze della Convenzione", giacché "una sentenza che constata una violazione comporta per lo Stato convenuto l'obbligo giuridico ai sensi dell'art. 46 della Convenzione di porre fine alla violazione e di eliminarne le conseguenze in modo da ristabilire per quanto possibile la situazione anteriore a quest'ultima" (ex plurimis, Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; Corte EDU, 8 febbraio 2007, Kollcaku contro Italia; Corte EDU, 10 novembre 2004, Sejdovic contro Italia; Corte EDU, 18 maggio 2004, Somogyi contro Italia; Corte EDU, Grande Camera, 8 aprile 2004, Assanidze contro Georgia). In una prospettiva più ampia, lo Stato convenuto è tenuto anche a rimuovere gli impedimenti che, nella legislazione nazionale, si frappongono al conseguimento dell'obiettivo: "ratificando la Convenzione gli Stati contraenti si impegnano", infatti, "a far sì che il loro diritto interno sia compatibile con quest'ultima", sicché "e' lo Stato convenuto a dover eliminare, nel proprio ordinamento giuridico interno, ogni eventuale ostacolo a un adeguato ripristino della situazione del ricorrente" (Corte EDU, Grande Camera, 17 settembre 2009, Scoppola contro Italia; Corte EDU, Grande Camera, 8 aprile 2004, Assanidze contro Georgia).

5.2. E' altresì noto che, con la sentenza n. 113/2011, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'art. 630 c.p.p. costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non contempla un "diverso" caso di revisione, rispetto a quelli ora regolati, della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, intesa, quest'ultima, come concetto di genere, funzionale anche alla rinnovazione di attività già espletate, e, se del caso, di quella integrale del giudizio - quando ciò sia necessario, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte Europea dei diritti dell'uomo, "segnatamente nei casi di accertata violazione delle garanzie stabilite dall'art. 6 della Convenzione". Ha, quindi, considerato che " Nel caso di accertamento, da parte della Corte di Strasburgo, della violazione dell'art. 6 della CEDU, la prospettiva è affatto diversa" rispetto a quella tradizionale dell'istituto della revisione, configurato quale "strumento volto a comporre il dissidio tra la "verità processuale", consacrata in tal caso, dal giudicato, e la "verità storica", risultante da elementi fattuali "esterni" al giudicato stesso, trattandosi, piuttosto, "di porre rimedio, oltre i limiti del giudicato (considerati tradizionalmente comunque insuperabili con riguardo agli errores in procedendo), a un "vizio" interno al processo, tramite una riapertura del medesimo che ponga l'interessato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato in assenza della lesione".

5.3. Quindi, la Consulta - considerando che la revisione, "quale mezzo straordinario di impugnazione a carattere generale, la riapertura del processo, che implica una ripresa delle attività processuali in sede di cognizione, estesa anche all'assunzione delle prove - costituisce l'istituto, fra quelli attualmente esistenti nel sistema processuale penale, che presenta profili di maggiore assonanza con quello la cui introduzione appare necessaria al fine di garantire la conformità dell'ordinamento nazionale al parametro evocato" - ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 630, nei termini già enunciati, sottolineando come "La necessità della riapertura andrà apprezzata - oltre che in rapporto alla natura oggettiva della violazione accertata (e' di tutta evidenza, così, ad esempio, che non darà comunque luogo a riapertura l'inosservanza del principio di ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6, paragrafo 1, CEDU, dato che la ripresa delle attività processuali approfondirebbe l'offesa) - tenendo naturalmente conto delle indicazioni contenute nella sentenza della cui esecuzione si tratta".

6. La I Sezione di questa Corte ha già posto in luce - proprio con riferimento al caso F. - come la disciplina regolatrice vada individuata, anche quando venga in rilievo la violazione affermata nella materia della prevenzione, nella ipotesi di revisione aggiuntiva introdotta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 113 del 2011. Quanto alla estensione della c.d. revisione Europea anche al settore delle misure di prevenzione, giova richiamare Sez. 1, n. 20156 del 22/04/2021, Ascione, Rv. 281367, laddove ha rilevato: "Che la indicazione dei casi tipici di revocazione di cui all'art. 28, comma 1 non esaurisca le esigenze di rivedibilità del provvedimento definitivo emesso in sede di prevenzione è un dato acquisito in giurisprudenza, stante la necessità di considerare l'ipotesi aggiuntiva di revisione cd. Europea (sent. n. 113 del 2011 C.Cost.) anche nel settore in parola (v. Sez. I n. 50919 del 13.7.2018, rv 274878; Sez. V n. 4463 del 15.11.2011). Nella giurisprudenza di legittimità si e', infatti, affermata - per effetto di una interpretazione costituzionalmente orientata - l'estensione della portata additiva della decisione n. 113 del 2011 della Corte Costituzionale al procedimento di prevenzione, ovvero, l'estensione dell'effetto abrogante all'istituto della revoca della misura di prevenzione previsto dalla L. n. 1423 del 1956, art. 7, in ragione della assimilazione di tale istituto agli strumenti revocatori (Sez. 1, n. 10343 del 05/11/2020 (dep. 2021) Rv. 280856; Sez. 5, n. 44682 del 08/10/2021, Rv. 282249) e, quindi, della medesima ratio che connota gli istituti della revisione di cui all'art. 630 c.p.p. con riferimento al procedimento di cognizione e quello della revoca di cui al citato art. 7 con riferimento al procedimento di prevenzione (Sez. 5 n. 4463 del 15/11/2011, Labita). In altre parole, nel sistema delle misure di prevenzione "e' pacificamente riconosciuta come esistente la particolare "ipotesi di revisione" introdotta dalla Corte Costituzionale con la sentenza additiva n. 113 del 2011 correlata alla necessità di "conformazione" dell'ordinamento interno ai contenuti delle sentenze definitive emesse dalla Corte di Strasburgo. Il contenitore procedimentale è quello della L. n. 1423 del 1956, art. 7 (revoca anche ex tunc, in virtù delle estensioni interpretative giurisprudenziali), disposizione ora collocata nel testo del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 11, comma 2 (per le misure personali, posto che per quelle patrimoniali è applicabile l'art. 28 medesimo D.Lgs.), ma la fattispecie processuale è direttamente quella introdotta dalla Corte Costituzionale, con la decisione più volte citata "(...)(Sez. I n. 50919/2018 cit.)

6.1. Il giudice di legittimità, nell'affermare la tipicità vincolante della revisione, quale strumento attraverso il quale introdurre il procedimento di verifica delle condizioni per l'adeguamento ai contenuti di una decisione della Corte Edu, ne ha sottolineato la vocazione generalista che consente di coniugare, nella stessa prospettiva indicata dal Giudice delle Leggi (sent. 113/2011), più esigenze meritevoli di tutela. Da un lato, dare la possibilità a un soggetto che abbia ottenuto una pronuncia favorevole dalla Corte Edu successiva al giudicato interno in termini di restitutio in integrum dovendo lo Stato destinatario della pronuncia attivarsi allo scopo di eliminare o quantomeno ridurre gli effetti della violazione della Convenzione accertata nel giudizio sovranazionale (cfr. caso Lorefice v. Italia del 23 giugno 2017). "Dall'altro, quella non già della tutela formale del giudicato, quanto l'esigenza di "perimetrare gli effetti della violazione" ed apprezzare l'effettiva "incidenza" della violazione accertata (al di là della possibile ridiscussione del suo fondamento) in un contesto giurisdizionale aperto", ribadendo che la violazione accertata "attiene al rito e si pone, pertanto, quale logico antecedente causale di una rinnovazione dell'atto (tramite la revisione) e non di una eliminazione necessaria dei suoi effetti." (pg. 7 sentenza n. 50919/2018). Cosicché, "A fronte di decisione emessa dalla Corte Edu che: a) accerta, sia pure in via indiretta, l'esistenza della violazione correlata alla mancata celebrazione della udienza pubblica; b) esclude, al contempo, la violazione dei parametri sostanziali correlati alla tutela del diritto di proprietà, l'opzione del ricorrente inquadra rigidamente - ma illogicamente - l'unica possibile risposta interna (..) è individuabile nella revisione che consente "la riapertura del procedimento (con celebrazione della pubblica udienza) ma, al contempo, il doveroso esercizio dei poteri cognitivi e valutativi del Tribunale della prevenzione, con soluzione aperta."

7. Giova, ancora, ricordare che le Sez. Unite Fiorentino hanno preliminarmente (par. 1.1.) avallato l'indirizzo formatosi nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla norma transitoria di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 17 - in tema di applicabilità del nuovo istituto della revocazione D.Lgs. n. 159 del 2011, ex art. 28 ovvero della revoca ai sensi della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 7 - nel senso che "l'applicazione della nuova disciplina non possa avvenire in tutti i casi in cui la "proposta applicativa" da cui è sorto il procedimento "in quanto tale" sia stata formulata prima del 13 ottobre 2011 e ciò anche nelle ipotesi in cui il procedimento sia nel frattempo definito e si discuta della revoca del provvedimento emesso" (Sez. 1, n. 2945 del 17/10/2013, dep. 2014, Pipitone, Rv. 258599; conf., ex plurimis, Sez. 1, n. 33782 del 08/04/2013, Arena, Rv. 257116).

8. Calando i principi ora evocati nel caso in scrutinio, osserva il Collegio che la proposta di applicazione della misura di prevenzione nei confronti di F.A. risale agli anni ‘90, mentre la procedura che ha dato luogo al giudizio in esame è quella conseguente alla istanza di revoca del decreto n. 100/2006 emesso dalla Corte di appello di Reggio Calabria il 16 luglio 2004, dep. il 4 luglio 2006. Cosicché, come correttamente osservato dalla Corte di appello di Catanzaro, l'atto introduttivo del giudizio avrebbe dovuto essere formulato quale istanza di revoca ex tunc della confisca di prevenzione, ai sensi della L. n. 1423 del 1956, art. 7 e indirizzata al Tribunale di prima istanza, secondo la espressa previsione legale. Torna, invero, in rilievo il principio affermato nella già citata sentenza n. 50919/2018, laddove ha individuato il "contenitore procedimentale" in quello delineato dalla L. n. 1423 del 1956, art. 7 che consente la revoca ex tunc della confisca, mentre la "fattispecie processuale" da far valere è direttamente quella introdotta dalla Corte costituzionale, ovvero la revisione Europea introdotta nell'art. 630 c.p.p. e declinata, quanto alla materia delle misure di prevenzione, dalla L. n. 159 del 2011, art. 28.

9. Non coglie nel segno neppure la deduzione difensiva circa gli oneri di conversione del gravame per la rilevata incompetenza. Va, invero, ricordato che, in tema di ricorso per cassazione, quando sia dedotta l'erroneità di una decisione sul fatto e quando tale decisione sia destinata all'applicazione di una norma sostanziale relativa alla responsabilità penale o civile dell'imputato, il controllo esercitato dalla Corte è limitato alla sola motivazione del provvedimento impugnato; se, viceversa, è censurata la applicazione di una norma processuale, non ha alcuna rilevanza, in sede di legittimità, il fatto che tale scelta sia stata, o non, correttamente motivata dal giudice di merito, atteso che, quando viene sottoposta al giudizio della Corte suprema la correttezza di una decisione in rito, la Corte stessa è giudice dei presupposti della decisione, sulla quale esercita il proprio controllo, quale che sia il ragionamento esibito per giustificarla (Sez. 5, n. 15124 del 19/03/2002 Rv. 221322), e persino nel caso in cui la motivazione sia del tutto assente (Sez. 1 n. 22337 del 23/03/2021, Rv. 281391). Ne consegue che non incorre nel vizio del difetto di motivazione la sentenza di appello che non motivi le ragioni del rigetto di un motivo afferente ad una asserita violazione di norme processuali, se tale violazione sia comunque insussistente (Sez. 5, n. 17979 del 05/03/2013, Rv. 255515). Ciò posto, la decisione della Corte di appello risulta allineata all'indirizzo giurisprudenziale che non ritiene ammissibile la c.d. conversione del gravame, laddove dell'atto si tragga la conclusione che la parte abbia effettivamente voluto ed esattamente denominato il mezzo di gravame non consentito dalla legge, e considera inammissibile l'impugnazione proposta con mezzo di gravame diverso da quello prescritto (da ultimo, Sez. 3, n. 1589 del 14/11/2019 Cc. (dep. 16/01/2020) Rv. 277945), circostanza chiaramente verificatasi nel caso di specie, come emerge anche dalle deduzioni svolte in sede di ricorso per cassazione, in cui il ricorrente continua a sostenere la correttezza della propria scelta processuale.

10. Cosicché, alla luce delle coordinate ermeneutiche provenienti dagli approdi della richiamata giurisprudenza di legittimità, può affermarsi che:

la Corte di appello di Catanzaro ha correttamente individuato, in virtù della norma transitoria di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 117 il contenitore procedimentale azionabile nel caso di specie, ratione temporis, in quello delineato dalla L. n. 1423 del 1956, art. 7;

legittimamente, non ha preso in considerazione il criterio conservativo dell'impugnazione di cui all'art. 568 c.p.p., comma 5, dichiarando inammissibile l'impugnazione in quanto proposta con un mezzo diverso da quello prescritto, peraltro, ritenendolo tardivamente attivato.

11. Come si è premesso, la Corte di Catanzaro ha anche rilevato - quale ulteriore ragione di inammissibilità della richiesta di revisione Europea - la manifesta infondatezza del ricorso sotto il profilo della genericità dei motivi, per mancata rappresentazione della rilevanza della violazione convenzionale rispetto all'esito del giudizio di prevenzione, conclusosi con la confisca.

11.1. Anche tale valutazione è condivisibile. Si è già ricordato che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 113/2011, ha sottolineato come "La necessità della riapertura andrà apprezzata - oltre che in rapporto alla natura oggettiva della violazione accertata (e' di tutta evidenza, così, ad esempio, che non darà comunque luogo a riapertura l'inosservanza del principio di ragionevole durata del processo, di cui all'art. 6, paragrafo 1, CEDU, dato che la ripresa delle attività processuali approfondirebbe l'offesa) - tenendo naturalmente conto delle indicazioni contenute nella sentenza della cui esecuzione si tratta"(par. 8).

11.2. La Corte di appello di Catanzaro ha rilevato che l'atto difensivo si è sottratto all'onere di "indicare la rilevanza in termini di sopravvenienza degli elementi di prova nuova" (pg. 5). L'osservazione chiama in causa l'interesse ad agire, che costituisce il presupposto di ogni impugnazione (art. 568 c.p.p., comma 4), e deve sempre essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare, il quale sussiste solo se il mezzo di impugnazione proposto sia idoneo a costituire, attraverso l'eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l'impugnante rispetto a quella esistente (Sez. Un. 6624 del 27/09/2011, dep. 17/02/2012, Marinaj, Rv. 251693). La peculiarità della violazione accertata dalla Corte Edu - ovvero la assenza di pubblicità dell'udienza - porta, invero, a ritenere che la parte, nel richiedere, attraverso lo strumento della revisione, la riapertura del processo (restitutio in integrum), ovvero, nel caso di specie, la celebrazione ex novo, dell'udienza dinanzi alla Corte di appello, avrebbe dovuto dare dimostrazione, quantomeno in termini di allegazione, del risultato utile conseguibile, una volta assicurata la garanzia della pubblicità. Infatti, "Occorre considerare, d'altro canto, che l'ipotesi di revisione in parola comporta, nella sostanza, una deroga - imposta dall'esigenza di rispetto di obblighi internazionali - al ricordato principio per cui i vizi processuali restano coperti dal giudicato. In questa prospettiva, il giudice della revisione valuterà anche come le cause della non equità del processo rilevate dalla Corte Europea si debbano tradurre, appunto, in vizi degli atti processuali alla stregua del diritto interno, adottando nel nuovo giudizio tutti i conseguenti provvedimenti per eliminarli" (Corte Cost. n. 113/2011). Tale rappresentazione e', tuttavia, del tutto mancata nel caso di specie, cosicché, condivisibilmente, la Corte di appello di Catanzaro ha ritenuto inammissibile l'istanza di revisione, afflitta da evidente genericità. E' solo la concretizzazione, da parte dell'istante, dell'interesse perseguito, rectius, del risultato processuale effettivamente ricollegabile alla invocata riapertura del processo, che consente al giudice della revisione di valutare il perimetro di incidenza delle cause di non equità del processo sulle prerogative processuali della parte.

11.3. Per consentire al Giudice della revisione di individuare i vizi processuali generati dalla violazione, il ricorrente avrebbe dovuto specificamente rappresentare - onde rendere concreto l'interesse all'azione giudiziaria - le ragioni per cui l'avvenuta celebrazione, nel contraddittorio delle parti, pur se in camera di consiglio, abbia compromesso l'esito della decisione in termini a sé sfavorevoli, che, invece, la pubblicità della udienza avrebbe evitato.

11.4. E' noto che il giudizio di revisione si sviluppa in due fasi, l'una rescindente e l'altra rescissoria: la prima è costituita dalla valutazione -de plano - dell'ammissibilità della relativa istanza e mira a verificare che essa sia stata proposta nei casi previsti e con l'osservanza delle norme di legge, nonché che non sia manifestamente infondata; la seconda e', invece, costituita dal vero e proprio giudizio di revisione mirante all'accertamento e alla valutazione del "novum" (Sez. U, n. 18 del 10/12/1997, dep. 1998, Pisco, Rv. 210040).

Mutatis mutandis - in considerazione della peculiarità della c.d. revisione Europea (in cui il novum è rappresentato dalla "integrazione di una norma procedurale"(sez. 5 Labita, cit.) quale strumento atipico, secondo la declinazione che si rinviene nella stessa sentenza della Corte Costituzionale n. 113 del 2011 - la richiesta di revisione, onde potere essere considerata ammissibile, avrebbe dovuto risultare, prima facie, idonea, per i suoi contenuti rappresentativi, a disarticolare il giudizio finale di merito circa la sussistenza dei presupposti per l'applicazione della misura della confisca, sulla base di una valutazione preliminare che, pur operando sul piano astratto, riguarda pur sempre la capacità dimostrativa dell'elemento di novità a ribaltare il giudizio che si chiede di revisionare. E poiché si tratta di un giudizio che deve ancorarsi alla realtà del caso concreto non può, quindi, prescindere dal rilievo di evidenti, ovvero riscontrabili ictu oculi, segni di inconferenza dell'elemento di novità dedotto.

11.5. Ne' a dire che muta la prospettiva se si guarda, non allo strumento revocatorio introdotto dal ricorrente, ai sensi del D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 28 ma al giudizio di revoca L. n. 1423 del 1956, ex art. 7 che, come detto, si conforma più specificamente alla fattispecie in esame, in considerazione della assimilazione che, nella elaborazione giurisprudenziale, è stata fatta dei due istituti, dal momento che "tanto la procedura di revoca ex tunc delle misure di prevenzione di cui alla L. n. 1423 del 1956, art. 7 (per come tale disposizione è stata oggetto di interpretazione giurisprudenziale a partire da Sez. Un. 18 del 10.12.1997 dep.1998, Pisco) che la revocazione della confisca di cui al D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 28 (disposizione tesa alla formalizzazione e recepimento della operazione ermeneutica realizzata in riferimento all'art. 7 Legge previgente) rappresentano la "proiezione" nello specifico settore delle misure di prevenzione, dell'istituto della revisione di cui agli artt. 629 c.p.p. e ss., trattandosi di istituti finalizzati a rimediare, in via straordinaria, ad una sostanziale ingiustizia della decisione, nei modi e con le forme previste dalla legge. E' dunque nella conformazione giurisprudenziale dell'istituto "madre" della revisione delle sentenze - in ambito penale - che l'interprete è tenuto a rintracciare le linee ermeneutiche regolatrici dell'applicazione tanto della previsione di legge di cui alla L. n. 1423 del 1956, art. 7 che di quella del D.Lgs. n. 159 del 2001, art. 28 lì dove la disposizione legislativa si presti ad una estrazione di significato non del tutto univoca, come è sul terreno della richiesta "novità" della prova posta a base della domanda di rivalutazione del giudicato (ex art. 630 c.p.p., comma 1, lett. c / D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 28, comma 1, lett. a). Come si è osservato in precedenti arresti di questa Corte (...) è evidente che a fronte della precedente costruzione (solo) giurisprudenziale di una revocabilità ex tunc della misura di prevenzione per suo vizio genetico "sul modello della revisione" (v. per tutte, Sez. I n. 21369 del 14.5.2008, rv 240094), l'esistenza di un modello normativo tipizzato (D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 28) è dato che deve portare l'interprete verso linee il più possibili comuni tra le due figure procedimentali in esame e, soprattutto, conformi ai consolidati orientamenti maturati sul terreno della revisione in ambito penale. Dunque il ragionamento interpretativo va operato in modo analogo, sia che la norma regolatrice sia rappresentata - come nel caso in esame - dalla L. n. 1423 del 1956, art. 7 sia che venga applicato in via diretta il D.Lgs. n. 159 del 2011, art. 28. (Sez. 1 n. 10343 del 05/11/2021 (dep. 2022), Rv. 280856)."

12. All'inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, ma non al versamento di una somma alla Cassa delle Ammende, in quanto la novità e la particolare specificità della questione depone per l'esclusione della colpa del ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost., sent. n. 186 del 2000).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.