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Mitgegangen, mitgefangen: medico in equipe responsabile per errore altrui (Cass. 22007/18)

22 maggio 2018, Cassazione penale

In forza del fine unitario che caratterizza gli apporti professionali che si susseguono nel procedimento terapeutico, l’equipe medica, sia essa operante sincronicamente o diacronicamente, è da considerare come una entità unica e compatta e non come una collettività di professionisti in cui ciascuno è tenuto a svolgere il proprio ruolo, salvo intervenire se percepisca l’errore altrui. Ad ogni membro dell’equipe è pertanto imposto un dovere ulteriore: la verifica che il proprio apporto professionale e l’apporto altrui, sia esso precedente o contestuale, si armonizzino in vista dell’obiettivo comune.

La responsabilità per l’errore altrui, cui non si è posto rimedio o non si è cercato di porre rimedio, presuppone sempre un addebito a titolo di colpa, in quanto l’evento era prevedibile ed evitabile.

L’errore altrui, per poter essere correttamente addebitato al sanitario, o deve rientrare nel bagaglio di conoscenze di qualsivoglia sanitario medio o deve rientrare nello specifico settore in cui anche egli è specializzato.: soltanto se ricorrono queste condizioni la mancata percezione dell’errore e/o il mancato intervento potranno addebitarsi a titolo di colpa al sanitario.

E' inaccettabile ogni forma di responsabilità oggettiva, basata solo sulla posizione soggettiva del sanitario e sul fatto che questi ha comunque partecipato all’intervento e/o alla prestazione sanitaria, in violazione dei principio costituzionale della personalità della responsabilità penale.

Proprio in virtù della posizione di garanzia che il sanitario assume nei confronti del paziente, ciascun medico dell’equipe, oltre al rispetto delle leges artis del settore di competenza, è, pertanto, tenuto al rispetto di una regola cautelare più ampia, avente ad oggetto un onere particolare di cautela e di controllo sulle modalità di effettuazione dell’intervento, anche relativamente all’attività precedente e/o coeva svolta da altro collega, pur quando questa non rientra nella sua diretta competenza, salvo il caso di un errore commesso da altro operatore in un settore estremamente specialistico.

L’obbligo giuridico protettivo (posizione di garanzia) può nascere dalla legge, da un  contratto, da una precedente attività svolta (esercizio di fatto di responsabilità gestoria) o da altra fonte obbligante:  fine di individuare lo specifico contenuto dell’obbligo come scaturente dalla determinata fonte di cui si tratta - occorre valutare sia le finalità protettive fondanti la posizione di garanzia sia la natura dei beni di cui è titolare il soggetto garantito, che costituiscono l’obiettivo della tutela rafforzata, alla cui effettività mira la clausola di equivalenza di cui all’art. 40, comma 2, cod. penale.

In tema di responsabilità di equipe, è il caso di evidenziare che, oltre alla cooperazione sincronica fra medici e medici e/o ausiliari che agiscono contestualmente per la cura di un paziente, in cui i contributi si integrano a vicenda ed in un unico contesto temporale in vista del conseguimento del risultato sperato, la cooperazione terapeutica può dipanarsi anche in forma diacronica, cioè attraverso atti medici successivi, affidati anche a sanitari dotati della medesima o di differenti specializzazioni: in questo secondo caso l’unitario percorso diagnostico o terapeutico si sviluppa attraverso una serie di attività tecnico-scientifiche di competenza di sanitari diversi, funzionalmente o temporalmente successive.

In tema di responsabilità di eque, opera il principio di affidamento quale limite in concreto all’obbligo di diligenza gravante su ogni titolare della posizione di garanzia: ogni compartecipe deve infatti avere la possibilità di concentrarsi sui compiti affidatigli, confidando sulla professionalità degli altri, della cui condotta colposa, poi, non può essere chiamato, almeno di norma, a rispondere.

Non potrà però invocare il principio di affidamento, per violazione del dovere di controllo, il sanitario, quando la condotta colposa del collega si concretizzi nella inosservanza delle leges artis, che costituiscono il bagaglio professionale di ciascun medico (e, a fortiori, qualora l’inosservanza riguardi proprio le leges artis del settore specialistico in cui anche l’agente è specializzato), con la conseguente prevedibilità e rilevabilità dell’errore altrui anche da parte di un medico non specialista nel settore, in condizione, per tale motivo, di controllare la correttezza.

Per verificare la (con)responsabilità dei medici in caso di cooperazione diacronica, si osserva che il problema della delimitazione delle diverse sfere di competenza e responsabilità dei vari operatori sanitari che si trovano ad interagire si pone anche nel caso in cui il procedimento si svolga in modo diacronico: in questo caso i diversi apporti professionali si susseguono nel tempo secondo fasi separate, pur avendo di mira il fine della salute del paziente (ad esempio, turnazione tra medici nella cura del medesimo caso clinico oppure nel caso in cui il procedimento terapeutico si strutturi ex se in modo diacronico), essendovi una successione nella posizione di garanzia in cui due o più garanti, appunto, si succedono in tempi e modi diversi nella protezione o nel controllo di un determinato bene giuridico.

Al fine di evitare vuoti di tutela nella delicata fase dell’avvicendamento di un garante con un altro, si impone un passaggio delle consegne efficiente ed informato ed il garante successivo deve essere posto in condizione di intervenire. Solo quando questo obbligo di informazione sia stato assolto correttamente, il garante originario potrà invocare, in caso di evento infausto, il principio di affidamento, avendo dismesso correttamente i propri doveri.

 

 La circostanza dello 'scioglimento dell’equipe operatoria', che abbia a verificarsi quando ancora l’intervento deve essere completato da adempimenti di particolare semplicità, esclude l’elemento della colpa per negligenza in capo al medico che ha abbandonato anticipatamente l’equipe, sempre che non si tratti di intervento operatorio ad alto rischio e l’allontanamento sia giustificato da pressanti ed urgenti necessità professionali.

In tema di responsabilità professionale medica, se l’intervento operatorio, inteso in senso stretto, può ritenersi concluso con l’uscita del paziente dalla sala operatoria, sul sanitario grava comunque un obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato anche nella fase post-operatoria.

 

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE - SENTENZA 18 maggio 2018, n.22007 - Pres. Piccialli – est. Cenci

Ritenuto in fatto

Il Procuratore generale della Corte di appello di Caltanissetta ricorre per la cassazione della sentenza con la quale la Corte territoriale il 26 gennaio 2017 ha confermato l’assoluzione, pronunziata dal G.u.p. del Tribunale di Enna il 15 dicembre 2014 all’esito del giudizio abbreviato, di M.A.A. e di V.G. dall’accusa di omicidio colposo, fatto dell’(omissis).

2.Appare opportuno premettere che a più sanitari (tre ginecologi: V.G., C.S. e F.P.; un chirurgo: M.A.A.; e due anestesisti-rianimatori: P.M. e G.M.) che l’11 marzo 2011 erano in servizio presso l’ospedale di (omissis) è stato contestato dal Pubblico Ministero l’avere, in cooperazione colposa tra di loro, causato la morte di Ga.Ma.Ga., sottoposta a taglio cesareo e successiva isterectomia, in particolare per avere omesso, pur in presenza di shock emorragico conseguente a parto cesareo con placenta accreta, cioè patologicamente aderente all’utero, di trasfondere plasma fresco per correggere il difetto di caoagulazione e per avere ritardato il ricovero della donna in ospedale dotato di reparto di rianimazione, l’11 marzo 2011, con decesso della donna avvenuto presso l’ospedale di Palermo il giorno seguente.

Le posizioni dei soli V.G., M.A.A. (odierni ricorrenti) e di G.M. sono state giudicate in primo grado con giudizio abbreviato, all’esito del quale il 15 dicembre 2014 il G.u.p. del Tribunale di Enna ha condannato (l’anestesista) G.M., assolvendo gli altri due imputati (il chirurgo M. e il ginecologo V.), con la formula 'per non avere commesso il fatto'. Nei confronti degli altri sanitari si è invece proceduto con il giudizio ordinario; non risulta l’esito di tale processo.

Proposto appello da parte del dr. G.M., delle parti civili, del Procuratore della Repubblica di Enna, limitatamente all’assoluzione di M.A.A., e del Procuratore generale territoriale, sia per M. che per V., la Corte di Caltanissetta ha confermato la sentenza impugnata.

In sostanza, hanno conformemente ritenuto i Giudici di merito accertato quanto segue.

Subito dopo l’esecuzione del parte cesareo di Ga.Ma.Ga. e la nascita di un bambino, iniziò un’emorragia massiva, che si manifestò al momento dell’effettuazione del taglio cesareo, dovuta sia ad una lesione vescicale, sia alle manovre meccaniche poste in essere per il necessario distacco della placenta, evenienze entrambe valutate dai periti possibili nel contesto dato.

Tale emorragia in concreto fu inarrestabile, a nulla valendo né la sutura della lesione vescicale né la isterectomia parziale né la trasfusione con l’unica sacca di plasma che era disponibile nella struttura sanitaria.

In una situazione emergenziale, che in entrambi i gradi di merito viene descritta come confusa, e con la situazione della paziente che stava degenerando, pur essendo già presente in sala operatoria un’equipe completa composta - anche da - ginecologo (la ginecologia è disciplina chirurgica) e da anestesista, vennero chiamati in ausilio dai colleghi, tramite le infermiere, e reperiti siccome presenti in ospedale, i due odierni ricorrenti, appunto, il ginecologo V.G. ed il chirurgo M.A.A., i quali, essendosi resi disponibili, collaborarono con i colleghi già presenti in sala operatoria (M. e V. hanno entrambi collaborato nell’isterectomia; M. anche nella sutura della lesione vescicale) in una situazione imprevista, nella quale erano stati coinvolti all’ultimo momento e senza avere svolto nessuna attività in precedenza: né diagnosi né proposizione del trattamento. Erano stati chiamati, all’improvviso, in soccorso tecnico dei colleghi, per portare a termine un intervento chirurgico delicato e complesso, l’isterectomia, già concretamente iniziato, non per scelta dei due ricorrenti, siccome l’intervento era stato valutato dai colleghi ginecologi che già erano in sala operatoria e che avevano in carico la donna indispensabile per salvarle la vita, peraltro senza assumere - né M. né V. - funzione di direzione dell’intervento.

Ciò posto, i Giudici di merito hanno attribuito rilevanza causale nel processo che ha condotto a morte la donna al ritardo ed alla cattiva gestione della fase emergenziale dell’emorragia da parte dell’anestesista dr. G.M., incardinato nell’equipe sin dall’inizio dell’intervento (così come i ginecologi C.S. e F.P., nei cui confronti si è proceduto con il rito ordinario), specialista nei cui confronti l’affermazione di penale responsabilità è passata in giudicato il 10 giugno 2017; in particolare, hanno riconosciuto il dott. G. responsabile di avere omesso di assumere tempestivamente la decisione, di sua competenza, in quanto anestesista, di far trasferire immediatamente la paziente in una struttura provvista di rianimazione e di farle somministrare il plasma, richiesto all’ospedale di (omissis) in ritardo, cioè dopo due ore dall’insorgenza dell’emorragia.

Le condotte dei due odierni ricorrenti, invece, sono state stimate dai Giudici di merito, con doppia valutazione conforme, non rimproverabili, in concreto irrilevanti rispetto al decorso causale, in quanto si è ritenuto che non produsse conseguenze sul decorso causale l’allontanamento - considerato legittimo - dei due al termine dell’intervento di isterectomia, quando l’emorragia sembrava arrestata; si è altresì affermato che sarebbero stati necessari successivi trattamenti altamente specialistici, non rientranti nella competenza chirurgica né ginecologica, di tipo trasfusionale, da parte degli anestesisti, oltre che il celere trasferimento in un ospedale più attrezzato. Donde la pronunzia assolutoria.

Ricorre per la cassazione della sentenza il P.G. della Corte di appello di Caltanissetta, che denunzia promiscuamente difetto motivazionale e violazione di legge (artt. 187 e 192 cod. proc. pen. e 113 e 589 cod. pen.).

Il requirente, ripercorsa la vicenda fattuale e le precedenti decisioni, sostiene che la decisione sarebbe viziata da non corretta applicazione dei canoni interpretativi di cui agli artt. 187 e 192 cod. proc. pen. in relazione agli artt. 113 e 589 cod. pen. e da omessa motivazione circa la mancata osservanza da parte dei due sanitari delle linee guida in materia di emorragia post-partum (indicate dai consulenti del P.M.) e da illogicità e contraddittorietà.

Avendo, infatti, i due imputati preso significativa parte all’intervento, ciò li poneva - ad avviso del ricorrente - in una posizione di garanzia per cui avrebbero dovuto controllare le condotte degli altri sanitari, in base al principio della responsabilità dell’equipe, alla stregua delle puntualizzazioni svolte al riguardo della S.C. di cassazione, che si richiamano.

Proprio il fatto - incontestabilmente emerso - di avere i sanitari M. e V., sia pure chiamati d’urgenza, in ragione della loro maggiore competenza professionale, collaborato concretamente nell’isterectomia, peraltro V. riuscendo a bloccare (anche se solo temporaneamente) l’emorragia che era in corso, e M. anche nella sutura della lesione vescicale, dimostra, ad avviso del ricorrente, che i due non si sono limitati a dispensare semplici consigli ma hanno, in realtà, preso in mano le redini della situazione, in pratica sostituendosi ai colleghi ginecologi-chirurghi che non erano in grado di gestirla.

In ragione dell’onere di collaborazione, in giurisprudenza più volte affermato, e di controllo dell’operato degli interventi dell’equipe, fino all’intervento correttivo su errori evidenti e non settoriali, quale sarebbe, secondo il ricorrente, la gestione dell’emorragia post-partum, alla stregua delle linee-guida richiamate dai consulenti del P.M., linee-guida che M. e V. a causa delle rispettive specializzazioni non solo dovevano conoscere ma anche 'avevano l’obbligo di seguir(e...), a prescindere dalle decisioni terapeutiche e trattamentali adottate dagli altri sanitari, proprio in virtù della surriferita posizione di garanzia assunta nei confronti della paziente' (così alla p. 10 del ricorso), si domanda, dunque, l’annullamento della sentenza impugnata.

Con memorie pervenute, rispettivamente, il 19 dicembre 2017 ed il 5 gennaio 2018 i difensori dei dottori V.G. e M.A.A. hanno chiesto dichiararsi l’inammissibilità o, in subordine, rigettarsi il ricorso.

Considerato in diritto

Il ricorso del Procuratore generale è fondato e deve essere accolto, per le ragioni chi si passa ad illustrare.

I richiami alla giurisprudenza della S.C. in tema di responsabilità di equipe operati dal Requirente nell’impugnazione sono corretti.

I Giudici di merito, infatti, pur nel comprensibile sforzo di tenere distinte le posizioni di chi, sin dall’inizio, era responsabile del trattamento sanitario, quale l’anestesista dott. G.M., irrevocabilmente condannato, e di chi, invece, fu chiamato in soccorso di colleghi ginecologi e chirurghi, evidentemente non in grado di gestire la situazione, e, risposto affermativamente all’appello, prestò la propria opera professionale al fine di porre rimedio alla complessa situazione, pur non causata né previamente conosciuta, hanno trascurato alcuni principi fondamentali in tema di responsabilità dei sanitari a proposito:

  1. dell’assunzione della posizione di garanzia;
  2. della responsabilità di equipe, con particolare riferimento al peculiare settore dell’intervento sanitario diacronico;
  3. dello scioglimento della equipe.

2.1. Quanto al primo dei tre profili richiamati, è noto che la fonte da cui scaturisce l’obbligo giuridico protettivo può essere la legge, il contratto, la precedente attività svolta (esercizio di fatto di responsabilità gestoria) o altra fonte obbligante e che al fine di individuare lo specifico contenuto dell’obbligo come scaturente dalla determinata fonte di cui si tratta - occorre valutare sia le finalità protettive fondanti la posizione di garanzia sia la natura dei beni di cui è titolare il soggetto garantito, che costituiscono l’obiettivo della tutela rafforzata, alla cui effettività mira la clausola di equivalenza di cui all’art. 40, comma 2, cod. pen. (Sez. U, n. 38343 del 24/02/2014, Espenhahn e altri, non mass. sul punto, pp. 101 e 106-17 della motivazione; tra le Sezioni semplici successive, v. ad es., Cass., Sez. 4, n. 9855 del 27/01/2015, Chiappa, Rv. 262440).

2.2. Quanto alla responsabilità di equipe, è il caso di evidenziare che, oltre alla cooperazione sincronica fra medici e medici e/o ausiliari che agiscono contestualmente per la cura di un paziente, in cui i contributi si integrano a vicenda ed in un unico contesto temporale in vista del conseguimento del risultato sperato, la cooperazione terapeutica può dipanarsi anche in forma diacronica, cioè attraverso atti medici successivi, affidati anche a sanitari dotati della medesima o di differenti specializzazioni: in questo secondo caso l’unitario percorso diagnostico o terapeutico si sviluppa attraverso una serie di attività tecnico-scientifiche di competenza di sanitari diversi, funzionalmente o temporalmente successive.

2.2.1. In entrambi i casi opera, comunque, il principio di affidamento quale limite in concreto all’obbligo di diligenza gravante su ogni titolare della posizione di garanzia, essendo opportuno che ogni compartecipe abbia la possibilità di concentrarsi sui compiti affidatigli, confidando sulla professionalità degli altri, della cui condotta colposa, poi, non può essere chiamato, almeno di norma, a rispondere.

Sia nel caso di cooperazione diacronica che sincronica, peraltro, in base ai tradizionali principi in tema di posizione di garanzia e di colpa, non potrà invocare il principio di affidamento, per violazione del dovere di controllo, il sanitario, quando la condotta colposa del collega si concretizzi nella inosservanza delle leges artis, che costituiscono il bagaglio professionale di ciascun medico (e, a fortiori, qualora l’inosservanza riguardi proprio le leges artis del settore specialistico in cui anche l’agente è specializzato), con la conseguente prevedibilità e rilevabilità dell’errore altrui anche da parte di un medico non specialista nel settore, in condizione, per tale motivo, di controllare la correttezza.

In tal senso, infatti, si richiama il principio puntualizzato dalla sentenza della S.C., Sez. 4, n. 19637 del 02/04/2010, ric. Fasulo, non mass., resa in un caso in cui nel corso di un intervento di mastoplastica additiva, una paziente era stata mal posizionata sul lettino operatorio ed era stata mantenuta in tale incongrua posizione per tutta la durata dell’intervento con una conseguente lesione del nervo del plesso branchiale. Il processo era giunto alla Corte di cassazione dopo due sentenze conformi di condanna a carico sia del medico chirurgo che dell’anestesista. Una delle questioni affrontate nella sentenza in questione è stata proprio quella dell’esistenza di un obbligo in capo al chirurgo attinente il posizionamento e la movimentazione della paziente sul lettino, che, secondo la tesi difensiva, spettava solo all’anestesista.

Ed è stato allora affermato il principio che, in ipotesi di cooperazione multidisciplinare nell’attività medico-chirurgica, ogni sanitario è tenuto ad osservare, oltre che il rispetto delle regole di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, gli obblighi ad ognuno derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine unico e comune. Il sanitario, quindi, non può esimersi dal conoscere e valutare (nei limiti in cui sia da lui conoscibile e valutabile) l’attività precedente e contestuale di altro collega e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errore altrui. Non era quindi illogica - si è ritenuto da parte della S.C. - la motivazione secondo cui il posizionamento della paziente sul lettino, pur essendo materialmente predisposto dall’anestesista, non poteva definirsi del tutto sottratta al controllo del medico chirurgo.

2.2.2. Nel caso di specie, come si è visto (nel 'ritenuto in fatto' sub n. 3), pur potendosi distinguere concettualmente una fase sincronica (intervento chirurgico in sala operatoria) da una diacronica (dal termine dell’intervento in poi), il momento realmente critico della vicenda è stato individuato dai Giudici di merito nella gestione post-operatoria della paziente, in quanto, sia pure grazie al generoso intervento dei due imputati in soccorso dei colleghi già impegnati in sala operatoria, la fase prettamente chirurgica era in quel momento esaurita e la donna appariva momentaneamente stabilizzata (p. 9 della sentenza impugnata); né sono state riconosciuti addebiti penalmente rilevanti attinenti alla fase della materiale esecuzione dell’intervento chirurgico (alla p. 22 della sentenza del Tribunale si legge che i dottori V. e M. 'hanno prestato la loro opera nel completamento dell’intervento d’isterectomia, ritenuto dai periti eseguito correttamente e con successo, atteso che, al suo termine, l’emorragia risultava certamente arrestata').

La Corte di appello ed il Tribunale, con argomentazioni non del tutto sovrapponibili, come si è visto (punto n. 3 del 'ritenuto in fatto'), hanno considerato non rimproverabile l’allontanamento dei due ricorrenti al termine dell’intervento di isterectomia, quando l’emorragia sembrava arrestata, ed in concreto irrilevante rispetto al decorso causale, ritenendo che sarebbero stati necessari successivi trattamenti altamente specialistici di tipo trasfusionale, trattamenti non rientranti nella competenza chirurgica né ginecologica, da parte degli anestesisti, oltre che il celere trasferimento in un ospedale più attrezzato, ed hanno riconosciuto l’anestesista dott. G. responsabile di avere omesso di assumere tempestivamente la decisione, di sua competenza, di far trasferire immediatamente la paziente in una struttura provvista di rianimazione e di farle somministrare il plasma, richiesto all’ospedale di (OMISSIS) in ritardo, cioè dopo due ore dall’insorgenza dell’emorragia.

In particolare, il Tribunale ha espressamente ritenuto che 'l’intervento degli imputati M. e V. fu di mero supporto ai ginecologi, che avevano in carico la paziente e dai quali furono richiesti di intervenire per lo svolgimento dell’atto operatorio, senza che ciò abbia comportato l’assunzione in capo ad essi della posizione di garanzia sulla paziente, che, di fatto, rimase affidata alle cure dei primi sanitari' (così alle pp. 23-24 della sentenza di primo grado).

La Corte di appello ha, testualmente, affermato che 'né l’uno né l’altro degli imputati, in quella concitazione e confusione descritta da tutte le fonti, aveva assunto funzioni di direzione dell’intervento né aveva previamente partecipato alla formulazione della diagnosi e alla proposizione delle scelte trattamentali da ritenersi più opportune al caso. Non vi sono le condizioni per ravvisare i presupposti di una responsabilità di equipe dinanzi a quell’assembramento estemporaneo di medici specialisti chiamati fortunosamente e di urgenza' (pp. 7-8 della sentenza impugnata) e che 'Dopo la conclusione dell’isterectomia e la verifica dello stabilizzarsi delle condizioni, sarebbero stati necessari i trattamenti da parte degli anestesisti, le più opportune trasfusioni, che mancarono e un più celere trasferimento in altro nosocomio (...) In ogni caso l’allontanamento dei due sanitari non produsse alcuna conseguenza sul decorso causale. La Ga. restò affidata a medici anestesisti e rianimatori, che erano in condizione di attuare gli stessi trattamenti e assumere le stesse decisioni, che si sarebbero potuti richiedere a V. e M.. A maggior ragione ai ginecologi, agli anestesisti e ai rianimatori potevano in modo più appropriato essere richiesti tali interventi rispetto ai due medici giunti per caso sul posto in presenza di una necessità rappresentata loro in modo concitato. Le carenze inerenti la trasfusione, per l’indisponibilità delle sacche di sangue, e l’ulteriore ritardo nel trasferimento non può considerarsi derivante dall’assenza di V. e M.. Per queste ragion l’assoluzione dei due suddetti imputati deve essere confermata. (...Invece) Non può essere accolto l’appello dell’imputato G. ' (pp. 9-10 della sentenza impugnata).

In estrema sintesi, nel caso di specie i Giudici di merito hanno ritenuto che la criticità causativa del decesso sia da attribuire (scilicet: esclusivamente) all’area disciplinare di competenza dell’anestesista (v. infatti le pp. 23-24 della sentenza di primo grado e pp. 9-12 di quella impugnata).

Il ragionamento svolto dai Giudici di merito e che si è riferito non è corretto, sotto vari aspetti.

3.1. Quanto alla esclusione della posizione di garanzia in capo ai dottori M. e V., nei termini in cui affermata dai Giudici di merito, non vi è dubbio alcuno che l’intervenire attivamente da parte di specialisti in chirurgia ed in ginecologia in sala operatoria nel corso di un’isterectomia, quand’anche la chiamata da parte dei colleghi già impegnati nell’intervento chirurgico sia, in ipotesi, effettuata al di là della previsione delle turnazioni dal punto di vista amministrativo della struttura ospedaliera ed intuitu personae, in ragione della particolare fiducia riposta nei chiamati, attesi i valori tutelati (vita ed incolumità del paziente), comporti la piena assunzione di posizione di garanzia di equipe.

Sotto tale profilo, risultano decisamente erronee le considerazioni del Tribunale, che ha negato la sussistenza della qualifica in capo ai dottori V. e M. di gestori del rischio (p. 24), e della Corte di appello, secondo cui si sarebbe trattato di un mero 'assembramento estemporaneo di medici specialisti chiamati fortunosamente e di urgenza' (così alla p. 8 della sentenza impugnata).

3.2. Quanto alla responsabilità dei medici in caso di cooperazione diacronica, si osserva che il problema della delimitazione delle diverse sfere di competenza e responsabilità dei vari operatori sanitari che si trovano ad interagire si pone anche nel caso in cui il procedimento si svolga in modo diacronico: in questo caso i diversi apporti professionali si susseguono nel tempo secondo fasi separate, pur avendo di mira il fine della salute del paziente (ad esempio, turnazione tra medici nella cura del medesimo caso clinico oppure nel caso in cui il procedimento terapeutico si strutturi ex se in modo diacronico), essendovi una successione nella posizione di garanzia in cui due o più garanti, appunto, si succedono in tempi e modi diversi nella protezione o nel controllo di un determinato bene giuridico.

Al fine di evitare vuoti di tutela nella delicata fase dell’avvicendamento di un garante con un altro, si impone un passaggio delle consegne efficiente ed informato ed il garante successivo deve essere posto in condizione di intervenire. Solo quando questo obbligo di informazione sia stato assolto correttamente, il garante originario potrà invocare, in caso di evento infausto, il principio di affidamento, avendo dismesso correttamente i propri doveri.

3.2.1. Emblematico al riguardo il caso affrontato dalla S.C., Sez. 4, n. 119 del 12/11/2010, dep. 2011, ric. Salemi ed altri, in cui era stato contestato a tre medici in servizio presso il reparto di anestesia e rianimazione di un policlinico di aver trattato in modo imperito una grave emorragia post partum che aveva colpito la persona offesa dopo un intervento chirurgico per parto cesareo e, in particolare, di non avere seguito i protocolli previsti per la cura di tali emorragie.

Nella concreta vicenda, la paziente era stata ricevuta da uno dei tre medici con un quadro clinico che evidenziava già la gravità della situazione e che, secondo i giudici di merito, soltanto una isterectomia avrebbe potuto risolvere. I medici della rianimazione, intervenuti pochi minuti dopo l’accettazione ma quando il primo sanitario, siccome aveva terminato il proprio turno, era andato via, si sono concentrati sui problemi respiratori e non su quelli ginecologici, intervenendo solo quando era troppo tardi. I giudici di merito avevano - con valutazione stimata corretta dalla S.C. - disatteso la tesi difensiva del primo medico fondata sulla circostanza che egli si trovava alla fine del suo turno di lavoro. In una situazione di emergenza, che peraltro è normale in un reparto di rianimazione, infatti, è obbligatorio per il medico che sia stato investito del caso di attivarsi per la soluzione dei problemi che pongono a rischio la vita del paziente o che siano, comunque, idonei a creare gravi rischi per la salute; obbligo che non può certamente venire meno per il completamento dell’orario di lavoro ma solo con l’adozione delle corrette pratiche terapeutiche. In ogni caso, dunque, il sanitario era in colpa: perché o non si era reso conto della gravissima situazione in cui si trovava la paziente oppure, se era cosciente dei rischi della patologia, non aveva preso le necessarie iniziative anche segnalandone la gravità ai colleghi che a lui succedevano.

Si tratta - come è evidente - di un tipico caso di successione di posizioni di garanzia nella quale, ove l’affidante ponga in essere una condotta causalmente rilevante, la condotta colposa dell’affidato, anch’essa con efficacia causale nella determinazione dell’evento, non vale ad escludere la responsabilità del primo in base al principio dell’equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l’efficacia esclusiva della causa sopravvenuta che deve escludersi nel caso di comportamento colposo che abbia creato i presupposti per il verificarsi dell’evento dannoso e sul quale non siano intervenute modifiche rilevanti per eliminare le situazioni di pericolo che questo comportamento aveva creato o esaltato.

3.2.2. Per generalizzare, può dirsi che, in forza del fine unitario che caratterizza gli apporti professionali che si susseguono nel procedimento terapeutico (cfr., sul fine unico dell’attività sanitaria, ex plurimis, Sez. 4, n. 46824 del 26/10/2011, Castellani, Rv. 252140), l’equipe medica, sia essa operante sincronicamente o diacronicamente, è da considerare come una entità unica e compatta e non come una collettività di professionisti in cui ciascuno è tenuto a svolgere il proprio ruolo, salvo intervenire se percepisca l’errore altrui. Ad ogni membro dell’equipe è pertanto imposto un dovere ulteriore: la verifica che il proprio apporto professionale e l’apporto altrui, sia esso precedente o contestuale, si armonizzino in vista dell’obiettivo comune.

La responsabilità per l’errore altrui, cui non si è posto rimedio o non si è cercato di porre rimedio, presuppone sempre un addebito a titolo di colpa, in quanto l’evento era prevedibile ed evitabile.

In questa prospettiva, la giurisprudenza di legittimità ha ormai chiarito che l’errore altrui, per poter essere correttamente addebitato al sanitario, o deve rientrare nel bagaglio di conoscenze di qualsivoglia sanitario medio o deve rientrare nello specifico settore in cui anche egli è specializzato.

Soltanto se ricorrono queste condizioni la mancata percezione dell’errore e/o il mancato intervento potranno addebitarsi a titolo di colpa al sanitario.

Diversamente opinando, del resto, si finirebbe con l’ammettere una sorta di inaccettabile responsabilità oggettiva, basata solo sulla posizione soggettiva del sanitario e sul fatto che questi ha comunque partecipato all’intervento e/o alla prestazione sanitaria, in violazione dei principio costituzionale della personalità della responsabilità penale.

Proprio in virtù della posizione di garanzia che il sanitario assume nei confronti del paziente, ciascun medico dell’equipe, oltre al rispetto delle leges artis del settore di competenza, è, pertanto, tenuto al rispetto di una regola cautelare più ampia, avente ad oggetto un onere particolare di cautela e di controllo sulle modalità di effettuazione dell’intervento, anche relativamente all’attività precedente e/o coeva svolta da altro collega, pur quando questa non rientra nella sua diretta competenza.

A diversa conclusione deve giungersi, almeno in linea di massima, nel caso di un errore commesso da altro operatore in un settore estremamente specialistico: in tale caso, a ben vedere, alla base del non intervento non sembra possibile articolare un addebito di colpa, vuoi generica, vuoi, a fortiori, specifica, in ragione del mancato intervento da parte di chi, privo di specifica competenza professionale in uno specifico settore, non sia intervenuto a fronte di un errore altrui di cui ragionevolmente può non essersi accorto, avendo piuttosto agito facendo legittimo affidamento, appunto, sull’altrui capacità professionale.

3.3. Quanto, poi, al tema dello scioglimento dell’equipe, si osserva che la questione deriva dalla risposta da offrirsi alla - più generale - domanda circa la durata della posizione di garanzia.

Un aspetto particolare della responsabilità del sanitario concerne l’individuazione della regola di condotta del sanitario dopo l’effettuazione della prestazione sanitaria.

La Corte di cassazione nella sentenza resa da Sez. 4, n. 22579 del 06/04/2005, Malinconico, e altro, Rv. 231783, ha affrontato la peculiare tematica dello 'scioglimento anticipato' dell’equipe chirurgica, precisando che tale anticipato scioglimento (ergo: l’allontanamento di uno dei componenti della stessa), se per cause giustificate o dalla semplicità delle residue attività da compiere o dalla impellente necessità del componente allontanatosi di prestare la propria opera professionale per la cura indilazionabile di altro o di altri pazienti, o, a maggior ragione, dal concorso di entrambe le cause, ben può esonerare da responsabilità colposa il medico allontanatosi, che, quindi, non sia presente nel momento in cui o è stata omessa la dovuta prestazione professionale o è stato eseguito un maldestro intervento, che ha causato conseguenze dannose per il paziente (la massima ufficiale delle richiamata decisione recita: 'La circostanza dello 'scioglimento dell’equipe operatoria', che abbia a verificarsi quando ancora l’intervento deve essere completato da adempimenti di particolare semplicità, esclude l’elemento della colpa per negligenza in capo al medico che ha abbandonato anticipatamente l’equipe, sempre che non si tratti di intervento operatorio ad alto rischio e l’allontanamento sia giustificato da pressanti ed urgenti necessità professionali').

Consegue, in questa prospettiva, che il Giudice non può esimersi dal valutare le circostanze del caso concreto che hanno motivato l’allontanamento del sanitario, che potrebbero anche non incidere sull’esclusione della colpa e del nesso di causalità qualora questo sia avvenuto, ad esempio, in un intervento ad alto rischio, in assenza di adeguate giustificazioni e, quindi, facendo venire meno quel contributo di conoscenze professionali che possono salvaguardare l’incolumità del paziente (anche e soprattutto) in presenza di errore altrui.

Per converso, diverso discorso dovrebbe farsi in presenza di un allontanamento del sanitario in una fase in cui l’intervento possa ritenersi, se non concluso, solo da definire con adempimenti della massima semplicità (ad es., la conta delle garze e dei ferri da rimuovere o già rimossi; la sutura della ferita, a conclusione di un’operazione chirurgica che sia perfettamente riuscita etc.), qualora il sanitario giustifichi il proprio allontanamento in ragione di altre e più pressanti ed urgenti attività mediche: in tale evenienza non sembra dubitabile che possano escludersi profili di colpa e, a fortiori, il contributo causale rispetto ad un evento lesivo, verificatosi per colpa esclusiva di altri.

Va ricordato poi che in tema di responsabilità professionale medica, se l’intervento operatorio, inteso in senso stretto, può ritenersi concluso con l’uscita del paziente dalla sala operatoria, sul sanitario grava comunque un obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato anche nella fase post-operatoria (cfr. al riguardo Sez. 4, n. 12275 del 08/02/2005, Zuccarello, Rv. 231321, secondo cui 'La posizione di garanzia dell’equipe chirurgica nei confronti del paziente non si esaurisce con l’intervento, ma riguarda anche la fase postoperatoria, gravando sui sanitari un obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato; ne consegue che dalla violazione di tale obbligo, fondato anche sul contratto d’opera professionale, può discendere la responsabilità penale dei medici qualora l’evento dannoso sia causalmente connesso ad un comportamento omissivo ex art. 40 comma secondo cod. pen. (Fattispecie in cui è stata riconosciuta la responsabilità per il reato di cui all’art. 589 cod. pen. dei componenti l’equipe chirurgica, colpevoli di aver fatto rientrare il paziente nel reparto dopo l’intervento, anziché sottoporlo a terapia intensiva, sottovalutando elementi significativi, quali l’incremento progressivo della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, che rendevano prevedibile un’insufficienza respiratoria)').

Ne consegue che, dopo l’intervento, il sanitario non può tout-court disinteressarsi del paziente, ma deve sempre controllare il decorso operatorio, quanto meno affidando il paziente ad altri sanitari, debitamente edotti, in grado di affrontare eventuali complicanze, più o meno prevedibili (v., per l’applicazione di tale principio alla posizione di capo dell’equipe operatoria, Sez. 4, n. 17222 del 06/03/2012, Arena, Rv. 252375; Sez. 4, n. 9739 del 01/12/2004, dep. 2005, Dilonardo e altri, Rv. 230820).

Per l’effetto, è entro questi limiti che deve essere inteso il principio dello 'scioglimento' dell’equipe: nel senso cioè che questo non può comportare, almeno per il sanitario che ha eseguito l’intervento, una sorta di automatica legittimazione a disinteressarsi del paziente. È vero invece il contrario ossia che, in tal caso, anche a fronte del materiale scioglimento dell’equipe, persiste l’obbligo di garanzia, che impone, quanto meno, l’affidamento legittimo, consapevole ed informato del paziente ad altri sanitari che siano in grado di seguire il decorso post-operatorio (in questi termini, cfr. infatti, Sez. 4, n. 939 del 01/12/2004, dep. 2005, Dilonardo ed altri, cit., ove è stata ravvisato la colpa nella condotta del sanitario a capo di una equipe operatoria, il quale, contravvenendo agli obblighi conseguenti alla posizione di garanzia assunta nei confronti del paziente, dopo l’effettuazione di un delicato intervento chirurgico, nel trasferire la sua posizione di garanzia all’unico medico di guardia che aveva sotto il proprio controllo il reparto di terapia intensiva ove il paziente veniva ricoverato, non aveva curato di fornire le necessarie indicazioni terapeutiche e dei controlli dei parametri vitali del paziente appena operato, e non si era, del resto, neppure preoccupato di seguire direttamente - anche per interposta persona - il decorso post-operatorio; e, analogamente, Sez. 4, n. 24036 del 02/03/2004, Sarteanesi, Rv. 228577, ove uno degli addebiti di colpa formalizzati a carico del chirurgo, per il decesso del paziente avvenuto dopo l’intervento, era stato ravvisato nella trascuratezza con cui questi lo aveva affidato ai medici di guardia, senza disporne l’osservazione e senza avvisare detti sanitari del pericolo di peritonite, poi in realtà verificatasi).

Tutto ciò premesso, i - delicati - temi in relazione ai quali sono state svolte le puntualizzazioni richiamate non sono stati presi in adeguata considerazione dalla sentenza impugnata, che, in particolare, oltre ad escludere - ma erroneamente, come si è detto - che i ricorrenti abbiano assunto la posizione di garanzia, ha trascurato la circostanza fattuale che l’aporia riscontata è consistita essenzialmente nel tardare a disporre il ricovero della paziente in una struttura più attrezzata per le emergenze. In relazione a tale aspetto i Giudici di merito non si sono interrogati se tale attività ben potrebbe pretendersi o meno da qualsiasi medico, anche non specializzato in anestesia e rianimazione.

La decisione, inoltre, non si è misurata con quanto affermato dai consulenti del P.M. (aspetto sottolineato nell’impugnazione del Procuratore generale), secondo i quali, in buona sostanza, l’osservanza da parte dei due sanitari delle linee guida in materia di emorragia post-partum era esigibile da entrambi, siccome chirurgo l’uno e ginecologo l’altro. Rispetto a tali rilievi, infatti, i Giudici di merito non hanno preso seriamente posizione.

Del resto, come recentemente puntualizzato, 'In tema di colpa professionale, in caso di intervento chirurgico in 'equipe', il principio per cui ogni sanitario è tenuto a vigilare sulla correttezza dell’attività altrui, se del caso ponendo rimedio ad errori che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenza scientifiche del professionista medio, non opera in relazione alle fasi dell’intervento in cui i ruoli e i compiti di ciascun operatore sono nettamente distinti, dovendo trovare applicazione il diverso principio dell’affidamento per cui può rispondere dell’errore o dell’omissione solo colui che abbia in quel momento la direzione dell’intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica, non potendosi trasformare l’onere di vigilanza in un obbligo generalizzato di costante raccomandazione al rispetto delle regole cautelari e di invasione negli spazi di competenza altrui' (Sez. 4, n. 27314 del 20/04/2017, Puglisi, Rv. 270189, nella cui motivazione si legge - alle pp. 3-4 del 'considerato in diritto' quanto segue: 'La responsabilità penale di ciascun componente di una equipe medica non può essere affermata sulla base dell’accertamento di un errore diagnostico genericamente attribuito alla equipe nel suo complesso, ma va legata alla valutazione delle concrete mansioni di ciascun componente, nella prospettiva di verifica, in concreto, dei limiti oltre che del suo operato, anche di quello degli altri. Occorre cioè accertare se e a quali condizioni ciascuno dei componenti dell’equipe, oltre ad essere tenuto per la propria parte al rispetto delle regole di cautela e delle leges artis previste con riferimento alle sue specifiche mansioni, debba essere tenuto anche a farsi carico delle manchevolezze dell’altro componente dell’equipe o possa viceversa fare affidamento sulla corretta esecuzione dei compiti altrui: accertamento che deve essere compiuto tenendo conto del principio secondo cui ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l’attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l’ausilio delle comuni conoscenza scientifiche del professionista medio (Sez. 4, n. 18780 del 30/03/2016, Tassis ed altro). Il principio suddetto va apprezzato e coniugato, peraltro, onde non configurare ipotesi di responsabilità oggettiva o di posizione, con l’altro fondamentale principio che è quello 'di affidamento', in base al quale ogni soggetto non dovrà ritenersi obbligato a delineare il proprio comportamento in funzione del rischio di condotte colpose altrui, ma potrà sempre fare affidamento, appunto, sul fatto che gli altri soggetti agiscano nell’osservanza delle regole di diligenza proprie. Per l’effetto, per tutte le fasi dell’intervento chirurgico in cui l’attività di equipe è corale, riguardando quelle fasi dell’intervento chirurgico in cui ognuno esercita e deve esercitare il controllo sul buon andamento dello stesso. Mentre, semmai, diverso discorso dovrebbe farsi solo per quelle fasi in cui, distinti nettamente, nell’ambito di un’operazione chirurgica, i ruoli ed i compiti di ciascun elemento dell’equipe, dell’errore o dell’omissione ne può rispondere solo il singolo operatore che abbia in quel momento la direzione dell’intervento o che abbia commesso un errore riferibile alla sua specifica competenza medica').

In conclusione, discende da tutte le considerazioni svolte l’annullamento della sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di appello, che, muovendo dal presupposto dell’effettiva assunzione di garanzia da parte degli imputati nel caso di specie, approfondirà nuovamente funditus la vicenda, eventualmente riaprendo l’istruttoria, e farà applicazione dei principi di diritto surrichiamati anche a proposito dello scioglimento, se giustificato o meno nel caso di specie, della equipe chirurgica.

Terrà conto, in ogni caso, che 'In tema di responsabilità medica, l’obbligo di diligenza che grava su ciascun componente dell’equipe medica concerne non solo le specifiche mansioni a lui affidate, ma anche il controllo sull’operato e sugli errori altrui che siano evidenti e non settoriali, in quanto tali rilevabili con l’ausilio delle comuni conoscenze del professionista medio' (così Sez. 4, n. 53315 del 18/10/2016, Paita e altri, Rv. 269678; in senso conforme v. Sez. 4, n. 18548 del 24/01/2005, Miranda ed altri, Rv. 231535; Sez. 4 n. 24036 del 02/03/2004, Sarteanesi, Rv. 228577).

La Corte di appello di Caltanissetta provvederà, infine, anche alla liquidazione delle spese tra le parti per il giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Caltanissetta, cui rimette altresì la liquidazione delle spese tra le parti per questo giudizio di legittimità.