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Migranti morti nella traversata: giurisdizione italiana? (Cass. 31652/21)

13 agosto 2021, Cassazione penale

Costituisce valido criterio di collegamento per l'operare incondizionato della giurisdizione penale italiana (rectius: per l'applicazione universale della legge penale italiana) il traffico organizzato di migranti commesso fuori dal territorio nazionale, ma che fin dalla sua programmazione è destinato ad avere effetti sul territorio nazionale per mezzo dell'approdo sulle coste italiane, eventualmente conseguito tramite il salvataggio da parte delle autorità preposte.

Va applicata della legge penale italiana al delitto di omicidio doloso plurimo commesso in "alto mare" per il principio di tendenziale universalità della legge penale italiana di cui all'art. 3 c.p., comma 2, secondo il quale la legge penale italiana trova applicazione nei "casi stabiliti (...) dal diritto internazionale" come si verifica quando l'autorità militare o di polizia, in adempimento dei doveri e nell'esercizio dei poteri attribuiti dal diritto internazionale, interviene ed accerta "in alto mare", cioè al di fuori del territorio di un altro Stato, la commissione di reati a bordo di una nave priva di bandiera; in maniera analoga, nell'art. 7 c.p., comma 1, n. 5, e negli artt. 2, 3 e 15, par. 2, lett. c, i), della Convenzione di Palermo, senza, cioè, che sia necessario fare richiamo alla estensione della giurisdizione ex art. 15, par 4, trattandosi di un reato grave, con effetti sostanziali sul territorio italiano, posto in essere da un gruppo criminale organizzato nell'ambito di una complessiva condotta posta in essere allo scopo di commettere i reati nominativamente previsti dalla Convenzione e dai Protocolli Addizionali, tra cui rientra il traffico di migranti verso l'Italia.

 

Cassazione penale

sez. I, ud) 2 luglio 2021 (dep. 13 agosto 2021), n. 31652
Presidente Zaza – Relatore Aprile

Ritenuto in fatto

1. Con il provvedimento impugnato, la Corte di Assise d'appello di Catania confermava la sentenza pronunciata dalla Corte di Assise di Catania in data 5 dicembre 2017 con la quale J.L.T. , A.A. F. H. (alias A.A.F. ), B.I. (alias B.H. ), A.A.M.A.A. ) A.M. (alias K.M. ) sono stati giudicati colpevoli (in concorso con C.M. , A.M. e S.M. , giudicati separatamente) del delitto di cui all'art. 110 c.p., D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 3, lett. a) e b), commi 3 bis e 3 ter, (capo A) e del delitto di cui agli artt. 110,81 e 575 c.p., (capo B) e condannati, riconosciuta la continuazione e applicate le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti contestate al capo A), alla pena di anni trenta di reclusione ciascuno.

1.1. Con concorde valutazione di entrambi i giudici di merito i fatti venivano così ricostruiti: - in data 15 agosto 2015, verso le ore 4:30, partiva una segnalazione al Comando della Squadra Navale della Marina Militare Italiana in servizio di controllo dei flussi migratori nel Mediterraneo e, alle ore 8:20, la nave militare "(omissis) " interveniva a 135 miglia a sud di Lampedusa, in acque internazionali nell'area SAR ("ricerca e soccorso"; termine di lingua inglese Search and Rescue) di competenza dell'autorità marittima libica, in salvataggio di un barcone di legno lungo mt. 13, privo di bandiera e dotazioni di sicurezza, che imbarcava acqua ed era sovraffollato da oltre trecento persone che venivano poste in salvo e trasbordate sull'unità navale della Marina Militare Italiana; - nella stiva del barcone veniva constatata la presenza di quarantanove corpi senza vita, ammassati l'uno sull'altro; - il natante, soccorso dai militari italiani, imbarcava acqua e, lasciato alla deriva, affondava poco dopo il soccorso; - una volta effettuato lo sbarco dei migranti sulla terraferma italiana, l'attività investigativa proseguiva con la escussione in data 17 e 18 agosto 2015, con le garanzie di legge quali persone indagate in procedimento connesso, di alcuni dei migranti i quali, dopo avere descritto le vicende personali che li avevano costretti ad abbandonare i rispettivi Paesi di origine per intraprendere la traversata verso l'Italia nonché le vicende che si erano svolte in territorio libico, descrivevano i fatti che avevano immediatamente preceduto l'imbarco, le cifre pagate e quanto era poi accaduto a bordo del natante; - sulla base delle attività di polizia e delle dichiarazioni dei migranti, poi ribadite nel corso dell'incidente probatorio, venivano acquisiti elementi tali da determinare il fermo degli otto originari imputati; - sul barcone erano stati fatti salire trecento-sessantadue passeggeri di diverse provenienze geografiche ((omissis) ), i quali si erano rivolti ad una organizzazione libica che effettuava viaggi verso l'Italia; - nella notte tra il 15 e il 16 agosto 2015 i migranti, prelevati con dei minibus nei pressi della città di (…) da numerosi libici armati, venivano condotti in spiaggia dove, a gruppi di trenta, erano trasportati con un gommone sulla barca ormeggiata a poca distanza dalla costa in attesa di prendere il largo verso l'Italia; - il gruppo di trafficanti libici armati ordinava ai migranti di carnagione scura di salire per primi sul barcone e li collocava a forza nella stiva dove, secondo le testimonianze, ne erano stati stipati circa un centinaio; - il locale in questione era areato da tre piccoli boccaporti, che non consentivano neppure il passaggio di un uomo, risultati insufficienti a fare passare l'aria e la luce necessarie alla sopravvivenza; - il vano stiva, alto soltanto mt. 1,20 era allocato accanto al vano motore e, quindi, era invaso dai fumi di combustione e dai miasmi del carburante; - i membri dell'equipaggio erano già a bordo all'arrivo degli altri migranti; - i tentativi dei migranti posti nella stiva di risalire per ossigenarsi sulla coperta e sul ponte dell'imbarcazione venivano stroncati da alcuni degli odierni imputati, posti a guardia delle aperture, che intervenivano colpendoli con una cintura di metallo, con calci, pugni e colpi in testa con bottiglie di plastica, rimandandoli indietro; - alcuni "arabi", che non erano passeggeri, ma membri dell'equipaggio, si muovevano liberamente, parlavano tra di loro e davano disposizioni su dove sistemarsi e, per la mancanza di spazio, si spostavano camminando sulle spalle dei passeggeri ammassati sul barcone.

1.2. Quanto alla condotta tenuta dagli odierni imputati, i giudici di merito hanno affermato che gli stessi hanno contribuito a condurre il natante dalle coste libiche verso quelle italiane, mantenendo l'ordine durante la traversata, impedendo che i passeggeri ammassati nella stiva potessero risalire sul ponte e che gli altri si muovessero dai posti loro assegnati alla partenza. È stato, invece, escluso che gli imputati siano stati preventivamente reclutati dall'organizzazione criminale, risultando maggiormente plausibile, secondo la concorde ricostruzione dei giudici di merito, che i medesimi siano stati coinvolti dai trafficanti di esseri umani libici nel trasporto dei migranti nella imminenza della partenza (i primi, armati e vestiti con giacche militari, effettuavano il trasferimento di tutti i migranti dalla spiaggia alla imbarcazione con dei gommoni). Sono state, dunque, giudicate veritiere le motivazioni che avevano spinto ciascuno degli imputati a partire per lasciare la (…) sconvolta dalla guerra civile, nonché l'avvenuto pagamento del viaggio per raggiungere l'Italia. Secondo i giudici di merito gli imputati, con dette condotte realizzate tutte a bordo del natante, in concorso con i membri della organizzazione criminale libica che aveva preparato il viaggio e che aveva curato il trasporto dei migranti in spiaggia e il successivo trasferimento a bordo del barcone, hanno perciò compiuto atti diretti a procurare l'ingresso di cittadini stranieri in territorio italiano, integrando in tal modo la fattispecie di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, con le contestate circostanze aggravanti. Con riferimento al delitto di omicidio plurimo, nella condotta degli odierni imputati è stata ravvisata la sussistenza del dolo eventuale: coloro che operavano il trasbordo dei migranti con il gommone avevano deciso di collocare nella stiva gli uomini di "pelle nera" provenienti dall'Africa subsahariana e avevano costretto cento persone circa ad ammassarsi nella stiva, luogo senza luce nè aria e trasformato in una camera a gas dai fumi del motore già acceso due ore prima della partenza; al momento dell'arrivo dei restanti migranti, essi avevano impedito con la violenza ai primi di uscire nonostante le urla, le proteste e le invocazioni di aiuto, colpendoli con cinture, calci e pedate, pur consapevoli delle sofferenze e del malessere in cui versavano, spiegando agli altri migranti che se essi fossero risaliti sul ponte il barcone si sarebbe certamente capovolto. Risulta accertato che i decessi sono avvenuti per asfissia da confinamento, determinatasi a seguito di protratta permanenza in uno spazio ristretto e sovraffollato senza adeguato ricambio di aria, tale da risultare insufficiente a garantire il necessario apporto di ossigeno e, quindi, la sopravvivenza. I giudici di merito hanno ravvisato una volontà omicida da parte degli odierni imputati i quali, ponendo in essere le anzidette condotte, avevano previsto ed accettato, come possibile conseguenza della loro condotta, la morte dei trasportati costretti, anche con la violenza, a permanere in un locale infernale durante tutta la traversata. La previsione della morte per asfissia, in un luogo con esalazione di gas, senza areazione e con l'impossibilità di uscire dalla stiva, ove venivano ricacciati a botte, rientra, secondo i giudici di merito, in un dato di comune esperienza per il quale non sono necessarie particolari conoscenze tecniche o scientifiche; anche perché i poveri sfortunati avevano iniziato a lamentarsi poco dopo la partenza, urlando e cercando di forzare i boccaporti per salire. Le condizioni estreme dei soggetti che erano nella stiva, percepite da tutti i passeggeri, erano note anche agli imputati, quali membri dell'improvvisato equipaggio, che hanno invece posto in essere condotte violente (colpi di bottiglie in testa, colpi con cinture, calci e pugni) per impedire che essi salissero di sopra.

2. Ricorrono gli imputati J.L.T. , A.A. F. H. (alias A.A.F. ), B.I. , A.A.M.A.A. , J.M. (alias K.M. ), con distinti atti a firma dei rispettivi difensori.

3. J.L.T. denuncia:

3.1. il difetto di giurisdizione con riferimento al capo B); l'improcedibilità dell'azione penale per violazione dell'art. 20 c.p.p., e l'omessa valutazione della questione relativa al difetto di giurisdizione, pur eccepita nei motivi aggiunti all'atto di appello del co-imputato A. , che la Corte di secondo grado ha erroneamente ritenuto inammissibile perché posta con motivi nuovi privi di collegamento con i motivi dedotti in via principale: si tratta, però, di una questione rilevabile di ufficio. Del resto, affinché possa validamente precedersi per il delitto di omicidio volontario commesso in territorio estero è necessario che ricorrano le condizioni di cui all'art. 10 c.p., comma 2, che sono tuttavia mancanti nel caso di specie; Sez. 5, n. 48250 del 12/09/2019, P., Rv. 277245 ha chiarito che "In tema di giurisdizione su reati commessi all'estero, in assenza di un fondamento normativo, anche di diritto internazionale, idoneo a derogare al principio di territorialità, non sussiste la giurisdizione del giudice italiano su reati commessi dallo straniero in danno di straniero e interamente consumati nel territorio di uno Stato estero, seppure connessi con reati commessi in Italia. In applicazione del principio, la Corte ha escluso la giurisdizionale nazionale sui reati di sequestro di persona a scopo di estorsione, tortura e violenza sessuale commessi in territorio libico nei confronti di immigrati poi trasportati illegalmente in Italia, anche se ritenuti connessi con quelli di associazione per delinquere e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, invece rientranti nella giurisdizione italiana" (primo motivo).

3.2. la violazione di legge, con riferimento agli artt. 187 e 189 c.p.p., e il vizio della motivazione in relazione ai riconoscimenti informali dell'imputato, anche con riferimento all'attendibilità dei risultati dei riconoscimenti fotografici effettuati in sede di indagini preliminari e di incidente probatorio. I dichiaranti, escussi in fase di indagini ex art. 350 c.p.p., al momento dei primi riconoscimenti versavano in condizioni di grande sofferenza psicofisica; il riconoscimento era stato effettuato mediante esibizione di centinaia di immagini in bianco e nero che raffiguravano solamente il volto della persona ritratta. La limitazione del riconoscimento al solo volto e l'impiego di fotocopie in bianco e nero, inidonee a fornire un'immagine realistica dell'espressione del viso o dell'incarnato a cagione della scarsa risoluzione grafica, avevano del tutto compromesso il procedimento di riconoscimento. Il vizio è stato reiterato in occasione dell'incidente probatorio, celebrato a pochi giorni di distanza, allorché, piuttosto che procedere a ricognizione personale ex art. 213 c.p.p., o esibire ai testi assistiti le immagini realistiche degli imputati, che li ritraessero per intero e a colori, ci si era limitati a mostrare le medesime fotocopie in bianco e nero da loro sottoscritte in occasione del primo riconoscimento, affinché riconoscessero la propria firma, anziché, come sarebbe stato necessario, le persone ritratte. La Corte di secondo grado ha ritenuto infondate le censure difensive in tema di inattendibilità delle ricognizioni informali osservando che ognuno degli imputati era raggiunto da plurimi riconoscimenti e che, pertanto, le identificazioni si erano vicendevolmente riscontrate, ma si tratta di un argomento logicamente fallace ed autoreferenziale. I dubbi sull'attendibilità dei riconoscimenti, a cagione del metodo impiegato, trovano conforto nel quadro di assoluta incertezza e contraddittorietà delle dichiarazioni rese dagli indagati di reato connesso a proposito del ricorrente che non è stato riconosciuto da tutti i dichiaranti. La Corte di secondo grado ha ritenuto di validare il proprio giudizio sulla attendibilità delle ricognizioni informali degli imputati mediante le dichiarazioni dell'ispettore M. , il quale ha però riferito di una propria impressione e comunque di una supposizione circa il "gruppo" dei presunti responsabili. Analoghi vizi motivazionali presenta il giudizio sulla attendibilità delle ricognizioni informali effettuate nel corso l'incidente probatorio; in tale occasione lungi dall'adottare tutte le cautele necessarie a garantire l'efficacia dimostrativa del riconoscimento - una descrizione preventiva del reo, con indicazione dell'altezza, del colore della pelle, di eventuali segni particolari - ci si è limitati ad esibire al teste assistito le fotocopie in bianco e nero dallo stesso sottoscritte innanzi alla polizia giudiziaria, chiedendogli in via preliminare se riconoscesse la propria firma a fianco dell'immagine esibita (secondo motivo).

3.3. la violazione della legge processuale, con riferimento all'art. 192 c.p.p., comma 3, in tema di valutazione delle chiamate in correità. Le dichiarazioni assunte durante l'incidente probatorio avrebbero dovuto essere valutate alla stregua di chiamate in correità e come tali sottoposte al vaglio di attendibilità estrinseca, oltre che intrinseca, tanto più se si considera che i soggetti escussi erano portatori dell'interesse a rivestire la qualità di testimoni al fine di ottenere un permesso di soggiorno per motivi di giustizia, risultando non conferente il principio di diritto richiamato (Sez. U, n. 40517 del 28/04/2016, Taysir, Rv. 267627) perché attiene alle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, mentre nel caso in esame si tratta di persone iscritte nel registro degli indagati (terzo motivo).

3.4. violazione di legge, in riferimento all'art. 533 c.p.p., e vizio della motivazione con riferimento al reclutamento dell'imputato e alla sua appartenenza all'equipaggio e all'affermazione della penale responsabilità oltre ogni ragionevole dubbio. La Corte di secondo grado non ha reperito nel compendio istruttorio alcuna prova del reclutamento dell'imputato da parte dell'organizzazione criminale o dei benefici da questi ottenuti, tanto che la circostanza viene presuntivamente desunta da non meglio precisate dichiarazioni dei migranti e dubitativamente collocata nel tempo (quarto motivo).

3.5. la violazione di legge, in relazione all'art. 575 c.p., e il vizio della motivazione con riferimento alla sussistenza del dolo eventuale per il capo B). L'intero ragionamento del giudice di secondo grado muove dalla premessa, del tutto insondata in giudizio e non motivata sotto il profilo probatorio, che l'imputato, dapprima semplice passeggero, avesse aderito al disegno criminoso dei trafficanti libici. al momento della partenza, accettando di essere reclutato quale membro dell'equipaggio per la traversata dalla Libia. Altrettanto apodittica, oltre che errata nella prospettiva di diritto considerata, è la premessa secondo la quale gli imputati fossero pienamente consapevoli del rischio morte che correvano i passeggeri allocati in stiva, che lungi dall'essere articolata a mezzo di prove, viene piuttosto deduttivamente tratta dalla loro asserita appartenenza all'equipaggio. Risulta viceversa accertato che l'imbarco e la sistemazione dei passeggeri tra ponte e stiva è stata gestita esclusivamente dai libici armati rimasti a terra e che l'imputato fosse salito a bordo del natante quale semplice passeggero, in condizioni identiche a quelle di tutti gli altri passeggeri. Del resto, dal ponte - ove erano allocati gli imputati unitamente agli altri passeggeri - non era possibile avvedersi di quanto stesse accadendo nella parte inferiore del natante a causa del rumore del motore e della struttura del mezzo. Perché sussista il dolo eventuale non è sufficiente la semplice accettazione della possibilità del verificarsi dell'evento, ma è necessaria l'adesione del soggetto cosciente e razionale all'evento lesivo; trovarsi in una situazione di rischio, avere consapevolezza di tale contingenza e pur tuttavia regolarsi in modo malaccorto, trascurato, irrazionale, senza cautelare il pericolo, è tipico della colpa che è malgoverno di una situazione di rischio e perciò costituisce un distinto atteggiamento colpevole, rimproverabile; la iussistenza del dolo, al contrario, implica che il reo abbia piena e lucida consapevolezza della possibile verificazione dell'evento, quale effetto collaterale della propria condotta, e si determini comunque ad agire. Manca nella ricostruzione della sentenza qualsivoglia individuazione di indici soggettivi, riferiti all'imputato, atti a desumere una sua effettiva e consapevole adesione all'evento lesivo. La circostanza dell'appartenenza all'equipaggio è, sotto tale profilo, neutra essendo in sé compatibile con le fattispecie criminose alternative di cui agli artt. 589 e 586 c.p.. Del resto, le ragioni a sostegno del giudizio di colpevolezza vengono articolate in forma collettiva per tutti gli imputati, senza che si precisino, in ossequio al principio di personalità della responsabilità penale, le specifiche azioni per mezzo delle quali il ricorrente avrebbe individualmente contribuito a cagionare la morte delle persone in stiva o dato prova di accettarne l'evenienza. Nell'ipotesi di concorso nel reato, il giudice, in adempimento degli obblighi motivazionali, non è esonerato dall'onere di identificare e definire, in via pregiudiziale, il ruolo svolto da ciascun concorrente, i connotati soggettivi della sua azione, lo specifico contributo fornito (nell'ottica dell'accertamento della sussistenza del contributo (con)causale fornito e della natura del contributo) nonché le fonti di prova a sostegno delle conclusioni raggiunte: ciò manca del tutto nella sentenza impugnata. È altrettanto carente la motivazione per quel che concerne l'accertamento del nesso di causalità tra la condotta e l'evento, tema centrale del decidere, che non risulta, tuttavia, preso in esame dalla sentenza, sull'errato rilievo che in caso di concorso di persone la definizione degli apporti individuali sarebbe irrilevante. L'art. 40 c.p., esclude che il giudice possa validamente addivenire a una pronuncia di condanna in assenza di una affidabile indagine sul nesso di causalità tra la condotta e l'evento; di ciò non vi è traccia nella sentenza impugnata (quinto motivo).

3.6. violazione di legge, in relazione all'art. 143 c.p.p., e agli artt. 5 e 6 CEDU, perché la sentenza non è stata tradotta in lingua nota all'imputato (sesto motivo).

4. A.A. F. H. (alias A.A.F. ) sviluppa tredici motivi con i quali denuncia:

4.1. la violazione di legge e il vizio della motivazione, sviluppando censure coincidenti con quelle dedotte dal ricorso di J. nei primi cinque motivi (primo, secondo, terzo, quarto, quinto, sesto e settimo motivo);

4.2. l'erronea applicazione dell'art. 54 c.p., in relazione allo stato di necessità, con riguardo al presupposto dello stato di pericolo non volontariamente causato e inevitabile, in quanto il mantenimento delle condizioni di pericolo iniziali è stato necessitato per evitare il pericolo di naufragio e di morte di tutti i passeggeri, incluso l'imputato (ottavo motivo).

4.3. la mancata applicazione della causa di "esclusione della colpevolezza non codificata" della cd. "inesigibilità". Nell'impossibilità di configurare la causa di giustificazione dello stato di necessità, ricorre la categoria della "inesigibilità"; il giudice doveva valutare il limite della esigibilità del comportamento che si sarebbe omesso, ma osservante della norma penale (fare uscire tutti i passeggeri in stiva), prendendo in considerazione tutti i fattori oggettivi e soggettivi condizionanti. Durante la traversata il rischio di affondamento e ribaltamento del natante si accentuava per ogni movimento e spostamento dei passeggeri, con la conseguente morte di tutti gli immigrati e non solo di quelli chiusi nella stiva: "non era esigibile nessun'altra condotta se non il contenimento al minimo della situazione di rischio per la vita dei passeggeri in stiva e, forse, per ciò si salvarono in 311" (nono motivo).

4.4. la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione ai criteri di imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 3 bis, ed erronea interpretazione dell'art. 59 c.p.. La ricostruzione dei fatti enunciati in entrambe le sentenze di merito è contraddittoria perché tradisce il dato fattuale della non conoscenza della pericolosità delle condizioni di viaggio, nè della loro riconoscibilità ex ante ma ex post, a imbarco avvenuto, quando l'unica alternativa al gettarsi in mare aperto sarebbe stata abbandonare la barca e fare ritorno alle condizioni di sofferenza e di guerra dalle quali gli imputati erano voluti scappare (decimo motivo).

4.5. la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione dell'attenuante di cui all'art. 114 c.p., comma 3, e art. 112 c.p., comma 1, n. 3 (undicesimo motivo).

4.6. il vizio della motivazione per la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche (dodicesimo motivo).

4.7. il vizio della motivazione con riguardo al trattamento sanzionatorio (tredicesimo motivo).

5. B.I. sviluppa cinque motivi con i quali denuncia:

5.1. la violazione di legge e il vizio della motivazione, sviluppando censure coincidenti con quelle dedotte dal ricorso di J. e A. sul riconoscimento, la valutazione dei testi, lo stato di necessità, le circostanze attenuanti generiche e il trattamento sanzionatorio (primo, terzo, quarto e quinto motivo);

5.2. la mancata assunzione di una prova decisiva in merito alla perizia psichiatrica che era stata sollecitata con l'atto d'appello per accertare la capacità di intendere e volere del ricorrente (secondo motivo);

5.3. il vizio della motivazione sulle attenuanti generiche, concesse in primo grado e negate dal giudice di appello con illegittima reformatio in peius, e conseguente illegittimità del trattamento sanzionatorio (quinto motivo).

6. A.A.M.A.A. sviluppa undici motivi con i quali denuncia:

6.1. la violazione di legge e il vizio della motivazione, sviluppando censure coincidenti con quelle dedotte dal ricorso di J. al primo, quarto e quinto motivo e dal ricorso di A. al primo, quarto, quinto, sesto, settimo, ottavo, nono e decimo motivo (primo, secondo, terzo, quarto, quinto, settimo, ottavo, nono, decimo e undicesimo motivo);

6.2. il vizio della motivazione con riferimento all'aggravante del profitto di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 3, (sesto motivo).

7. J.M. sviluppa sei motivi con i quali denuncia:

7.1. la violazione di legge e il vizio della motivazione, sviluppando censure coincidenti con quelle dedotte dal ricorso di J. al primo, secondo e quarto motivo e dal ricorso di A. al secondo, quarto, quinto, sesto (richiedendo anche la riqualificazione ex artt. 586 e 589 c.p.), settimo, ottavo e decimo motivo (primo, secondo, terzo, quarto, quinto, settimo, ottavo, nono, decimo e undicesimo motivo).

Considerato in diritto

1. I ricorsi, che presentano tratti di inammissibilità, sono nel complesso infondati.

2. Come hanno fondatamente denunciato alcuni ricorrenti, la questione di giurisdizione per il delitto di omicidio di cui al capo B) è rilevabile d'ufficio ex art. 20 c.p.p., sicché risulta erronea la declaratoria d'inammissibilità in proposito pronunciata dal giudice di secondo grado in relazione alla correlativa deduzione contenuta nei motivi nuovi di un appellante. Spetta, quindi, a questa Corte regolatrice verificare la sussistenza della giurisdizione dello Stato italiano in relazione al delitto di omicidio commesso in "alto mare" ovvero in acque internazionali, cioè non all'interno del territorio di un altro Stato. Del resto, tenuto conto che si tratta di una questione di diritto che opererebbe, ove fondata, in senso negativo in merito alla possibilità di procedere, compete alla Corte di legittimità di esaminare direttamente e preliminarmente la questione, eventualmente correggendo la motivazione del giudice di merito là dove errata. È bene precisare che la questione di giurisdizione è posta esclusivamente con riguardo al delitto di omicidio volontario ex art. 575 c.p. di cui al capo B) e non anche per il delitto di immigrazione clandestina di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, comma 3 e segg., di cui al capo A).

2.1. Per il reato d'immigrazione clandestina, in effetti, non può dubitarsi in alcun modo della giurisdizione italiana sotto vari aspetti giuridici dei quali, in ogni caso, è opportuno fare cenno, trattandosi di una questione, come si è detto, rilevabile d'ufficio ex art. 20 c.p.p.. La costante giurisprudenza di legittimità ha chiarito che "In tema di immigrazione clandestina, la giurisdizione nazionale è configurabile anche nel caso in cui il trasporto dei migranti, avvenuto in violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12, a bordo di una imbarcazione (nella specie, un gommone con oltre cento persone a bordo) priva di bandiera e, quindi, non appartenente ad alcuno Stato, secondo la previsione dell'art. 110 della Convenzione di Montego Bay delle Nazioni Unite sul diritto del mare, sia stato accertato in acque extraterritoriali ma, successivamente, nelle acque interne e sul territorio nazionale si siano verificati quale evento del reato l'ingresso e lo sbarco dei cittadini extracomunitari per l'intervento dei soccorritori, quale esito previsto e voluto a causa delle condizioni del natante, dell'eccessivo carico e delle condizioni del mare" (Sez. 1, n. 18354 del 11/03/2014, P.M. in proc. H. a, Rv. 262542; Sez. 1, n. 11165 del 22/12/2015 - dep. 2016, Almagasbi, Rv. 266430).

2.1.1. Ad avviso del Collegio il criterio di collegamento che rende incondizionatamente punibile la condotta commessa in "alto mare", quando sia anticipatamente individuata dagli scafisti la sperata località di approdo nel territorio italiano, ma essa sia poi occasionalmente individuata dal soccorso prestato in ambito SAR, va ravvisato nella previsione dell'art. 7 c.p., comma 1, n. 5. La testuale disposizione di rinvio, di carattere aperto e mobile, alla punibilità, secondo la legge italiana, del cittadino o dello straniero che commette in territorio estero "ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l'applicabilità della legge italiana" trova specifica applicazione nel caso del traffico di migranti a norma del III Protocollo Addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata, firmata a Palermo in data 15 novembre 2000. L'art. 6 prevede espressamente l'obbligo di incriminazione penale degli atti intenzionali, commessi al fine di ottenere un vantaggio, di "traffico di migranti", come definito all'art. 3, nonché "quando l'atto è commesso al fine di permettere il traffico di migranti". Del resto, con una previsione dotata d'immediata forza precettiva alla luce della disposta ratifica ed esecuzione della C:onvenzione e degli annessi Protocolli (L. 16 marzo 2006, n. 146), l'art. 4 stabilisce che il Protocollo si applica "alla prevenzione, alle attività di indagine ed al perseguimento dei reati previsti dall'art. 6 del presente Protocollo, nei caso in cui tali reati sono di natura transnazionale e coinvolgono un gruppo criminale organizzato". Lo Stato italiano ha, quindi, assunto l'obbligo convenzionale di perseguire determinati reati e ne ha, poi, dato applicazione nel diritto interno, sia mediante la previsione di specifiche fattispecie delittuose o circostanze aggravanti (L. 16 marzo 2006, n. 146; D.Lgs. n. 25 luglio 1986, n. 286), alle quali si riferisce la clausola generale di applicazione extraterritoriale della legge penale di cui all'art. 7 c.p., comma 1, n. 5, notoriamente ritenuta espressiva del principio di universalità temperata della giurisdizione penale italiana. Si consideri, inoltre, che l'art. 1, par. 3, del Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transazionale organizzata per combattere il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria, espressamente stabilisce che "i reati previsti conformemente all'art. 6 del presente Protocollo sono considerati come reati previsti ai sensi della Convenzione", così, per un verso, integrando il catalogo dei reati contenuto negli artt. 5, 6, 8 e 23 della Convenzione di Palermo, e, per altro verso, specificamente indicando le condotte che lo Stato parte è tenuto a punire come reato transnazionale che vede coinvolto un gruppo criminale organizzato, se "è commesso in uno Stato ma ha effetti sostanziali in un altro Stato" (art. 3, par. 2, lett. d), Convenzione di Palermo). Ebbene, il concomitante operare, da un lato, delle disposizioni incriminatrici della legge speciale (D.Lgs. n. 286 del 1998) - che descrivono una specifica condotta che, qualora abbia natura transazionale e veda coinvolto un gruppo criminale organizzato, come definito dall'art. 1, lett. a), della Convenzione di Palermo, con riflessi sul territorio dello Stato - e del principio di universalità delle legge penale italiana di cui all'art. 7 c.p., comma 1, n. 5, rendono incondizionatamente punibili secondo la legge italiana le suddette condotte commesse all'estero in quanto previste dalla Convenzione. Non è, infatti, contestato dalle parti ricorrenti e, del resto, risulta pacifico sulla base della non criticata ricostruzione operata dai giudici di merito, che i trafficanti di esseri umani operanti in Libia abbiano intenzionalmente agito, per fine di profitto e mediante una radicata e collaudata organizzazione criminale armata, al fine di fare entrare nel territorio italiano oltre trecentosessanta cittadini extracomunitari privi dei necessari requisiti. Costituisce perciò valido criterio di collegamento per l'operare incondizionato della giurisdizione penale italiana (rectius: per l'applicazione universale della legge penale italiana) il traffico organizzato di migranti commesso fuori dal territorio nazionale, ma che fin dalla sua programmazione è destinato ad avere effetti sul territorio nazionale per mezzo dell'approdo sulle coste italiane, eventualmente conseguito tramite il salvataggio da parte delle autorità preposte.

2.2. Prima di analizzare la questione della giurisdizione italiana (rectius: dell'applicabilità della legge penale italiana) al delitto di omicidio di cui al capo B), che risulta commesso in "alto mare" o, altrimenti, in "acque internazionali", è opportuno chiarire che, a livello generale e con particolare riferimento alla repressione della tratta di essere umani e ai fenomeni di immigrazione clandestina, le vigenti disposizioni di carattere internazionale, pienamente recepite nell'ordinamento italiano e dunque ampiamente vincolanti, oltre a prevedere degli obblighi di soccorso e tutela dei migranti, espressamente prevedono in capo all'autorità italiana, al pari di quella degli altri Stati, l'esercizio di poteri coercitivi particolarmente penetranti proprio nel caso in cui la nave si trovi in "alto mare" e sia priva di una bandiera (così, lucidamente, Sez. 1, n. 26052 del 23/05/2014, Arabi, Rv. 260040, recentemente seguita da Sez. 1, n. 13741, Torki, n. m.).

2.2.1. L'abbordaggio e l'intervento in "alto mare" delle forze di militari e di polizia italiane e i provvedimenti, anche coercitivi, da costoro assunti traggono giustificazione e legittimazione: - nell'obbligo previsto dall'art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, firmata a Montego Bay il 10 dicembre 1982, di prestare assistenza alle persone in pericolo o in emergenza in alto mare; - nel disposto dell'art. 100, par. 1, comma d), della citata Convenzione di Montego Bay, in combinato con l'art. 91 della stessa Convenzione, che autorizza l'abbordaggio di navi che non battono alcuna bandiera, come quella che nel caso in esame trasportava i migranti illegali attraverso il Mediterraneo; - nell'art. 8, par. 2 e 7, del III Protocollo contro il traffico illecito di migranti via terra, via mare e via aria, addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, fatta a Palermo il 15 novembre 2000, che - sviluppando e dando forma normativa alla analogia esistente tra il traffico di schiavi e la tratta degli esseri umani oggetto di immigrazioni irregolari, e quindi espressamente estendendo il disposto dell'art. 100, par. 1, comma b), della Convenzione di Montego Bay a proposito della facoltà di abbordaggio in caso di sospetto di traffico di schiavi, al traffico di migranti - autorizza gli Stati a intercettare e a prendere misure appropriate contro le navi che possono essere ragionevolmente sospettate di essere dedite al traffico illecito di migranti, che battano o no una bandiera di altro Paese.

Le disposizioni prima richiamate espressamente riconoscono, dunque, un diritto d'intervento alle forze militari e di polizia e, conseguentemente, dell'autorità giudiziaria di uno Stato Parte, che s'imbattano, anche in "alto mare", in una nave priva di bandiera e che abbiano ragionevoli motivi per sospettare che la stessa sia coinvolta nel traffico di migranti, espressamente prevedendo che possono, in tal caso, fermare e ispezionare la nave, e, se il sospetto è, come nel caso in esame, confermato da prove, prendere misure opportune, "conformemente al relativo diritto interno ed internazionale" (art. 8, par. 7, III Protocollo addizionale sul traffico rnigranti).

La previsione riportata è, in effetti, particolarmente chiara.

Si tratta di una norma dall'ampia portata che richiede quale uniche condizioni degli interventi autoritativi e repressivi adottabili la loro conformità al diritto interno e al diritto internazionale. E nel caso in esame non è dubitabile che entrambe le condizioni sussistano, giacché i poteri coercitivi sono stati esercitati secondo le norme interne e, come detto, rispondono alle previsioni del diritto internazionale che espressamente attribuisce allo Stato della nave militare o di polizia intervenuta l'adozione dei provvedimenti di polizia, come previsti dai singoli ordinamenti interni purché non confliggenti con principi fondamentali universalmente riconosciuti.

Come si vedrà, del resto, il legittimo (rectius: doveroso) esercizio dei poteri di polizia "in alto mare" da parte della nave militare o di polizia dello Stato Parte della Convenzione comporta, come logica e necessaria conseguenza, la soggezione dei prevenuti alla giurisdizione dello Stato perché i poteri autoritativi esercitati nell'occasione discendono dell'autorità statuale che, ove esercitata alle condizioni previste dalle convenzioni internazionali, racchiude in sé l'esercizio della giurisdizione, quale principale e più evidente estrinsecazione del potere autoritativo dello Stato, non venendo in gioco, in difetto di uno "Stato della bandiera", l'autorità di un altro Stato e trattandosi di una condotta compiuta in "alto mare", cioè al di fuori del territorio di altro Stato.

2.3. Ciò premesso in merito ai poteri riconosciuti allo Stato per la prevenzione e repressione, anche in "alto mare", del traffico di migranti, va chiarito che non sussiste affatto un generale principio della libertà dell'"alto mare" che impedisca l'esercizio di poteri coercitivi e, per conseguenza, della giurisdizione che ne costituisce una diretta emanazione. Come ricorda la Corte giustizia delle comunità Europee, Grande Sezione, Sent. del 03/06/2008, causa n. 308/06, la Convenzione di Montego Bay stabilisce i regimi giuridici del mare territoriale (artt. 2 - 33), delle acque degli stretti usati per la navigazione internazionale (artt. 34 - 45), delle acque arcipelagiche (artt. 46 - 54), della zona economica esclusiva (artt. 55 - 75), della piattaforma continentale (artt. 76 - 85) e dell'alto mare (artt. 86 - 120). Per tutti tali spazi marittimi, la Convenzione mira a stabilire un giusto equilibrio tra gli interessi teoricamente contrapposti degli Stati nella loro qualità di Stati rivieraschi e gli interessi degli Stati nella loro qualità di Stati di bandiera; a questo fine le Parti contraenti hanno concordato di fissare limiti materiali e territoriali dei loro rispettivi diritti sovrani (cfr. in particolare artt. 2 e 33, art. 34, n. 2, artt. 56 e 89).

I singoli non godono invece, in linea di principio, di diritti e di libertà autonome in forza della Convenzione.

Essi possono fruire della libertà di navigazione solamente in quanto stabiliscano tra la loro nave e uno Stato che attribuisce a questa la sua nazionalità, divenendo così il suo Stato di bandiera, uno stretto rapporto giuridico e di fatto: un rapporto cioè rigorosamente costituito ai sensi del diritto interno dello Stato di bandiera (l'art. 91 della Convenzione di Montego Bay precisa che ogni Stato stabilisce le condizioni che regolamentano la concessione alle navi della sua nazionalità, l'immatricolazione delle navi nel suo territorio e il diritto di battere la sua bandiera) e un legame effettivo (ulteriori regole al proposito sono dettate dagli artt. 91 e 92).

Sicché, quando una nave non è riconducibile ad uno Stato, tale nave e le persone che si trovano a bordo non godono affatto della libertà di navigazione.

Tanto è vero che, proprio in ragione di tale situazione giuridica, la citata Convenzione prevede, in particolare, al suo art. 110, n. 1, che una nave da guerra che incrocia una nave straniera in "alto mare" può legittimamente abbordarla se vi siano fondati motivi per sospettare che la nave sia priva di nazionalità. Si badi, del resto, che la rivendicazione del principio di libertà dell'"alto mare" ad opera dei singoli che hanno un legame con le navi, come i loro proprietari o il loro equipaggio, neppure discende dal tenore letterale di talune disposizioni della Convenzione di Montego Bay che sembrano attribuire taluni diritti alle navi, poiché lo status giuridico internazionale della nave, e la libertà di navigazione in "alto mare" che ne discende, dipende esclusivamente dallo Stato di bandiera e dall'adesione dello stesso all'accordo di reciproco riconoscimento e limitazione delle rispettive sovranità, non dall'appartenenza della nave a talune persone fisiche o giuridiche.

2.4. È, perciò, chiaro che i poteri coercitivi, riconosciuti dalle citate Convenzioni di Montego Bay e di Palermo, sono stati correttamente esercitati in un luogo e su persone che, in astratto non soggetti alla giurisdizione dello Stato italiano, sono ad essa sottoposti, indipendentemente dalla procedura di estradizione che si applica unicamente a coloro che si trovano in un altro Stato -evenienza che non ricorre nel caso di specie, perché previsti dall'esercizio di poteri coercitivi e di polizia attribuiti allo Stato italiano.

Alla sovranità, tradizionalmente legata alla concezione di Stato avente aspirazione universalistica, ma di fatto territorialmente delimitato, accede anzitutto l'esercizio della giurisdizione quale potestà di ciascuno Stato di applicare le proprie leggi tendenzialmente nei confronti di chiunque, ma quantomeno nell'ambito del territorio oggetto della sua sovranità. Anche la giurisdizione italiana tende all'universalità, ma per reciproco riconoscimento e autolimitazione dei diversi Stati sovrani, è di norma legata alle condizioni di non extraterritorialità della condotta e dell'agente, salve le eccezioni espressamente previste, tra cui appunto quelle enumerate dall'art. 7 c.p., che, a loro volta, richiamano le ricordate Convenzioni in materia di possibilità di abbordaggio e di interventi in "alto mare".

D'altra parte, l'estradizione, che costituisce il tipico strumento della cooperazione internazionale per la repressione dei crimini ("la persuasione di non trovare un lembo di terra che perdona ai rei i delitti sarebbe un mezzo efficacissimo a prevenirli"), rappresenta il portato di quella concezione dualista della sovranità che trova radice nei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale, con conseguente attribuzione agli strumenti bilaterali o multilaterali di cooperazione tra gli Stati del compito di evitare che venga effettivamente raggiunto quel temuto lembo di terra che assicura l'impunità.

Ne consegue che l'estradizione, quale condizione e limite per l'esercizio della giurisdizione, presuppone che il reo materialmente si trovi in ambito territoriale soggetto alla sovranità di altro Stato.

Va esclusa, invece, la possibilità di evocare una sorta di libertà, o di esclusione, da qualsivoglia potere sovrano sul presupposto che la libertà dell'"alto mare" stia a significare che le acque extraterritoriali sono "terra di nessuno", da nessuna autorità raggiungibile, idonee ad assicurare l'impunità a chiunque, sol che navighi su nave non battente alcuna bandiera. Come si è già osservato, la libertà dell'"alto mare" attiene al mutuo riconoscimento tra Stati di pari potestà e facoltà e alla connessa reciproca autolimitazione dei poteri e diritti sovrani: costituisce, in altri termini, criterio di regolazione collegato al principio par in parem non habet imperium, sicché l'assenza di un rapporto, tramite la nave, tra il navigante in "alto mare" e un altro Stato, non consente al singolo in quanto tale di rivendicare alcuna generalizzata esclusione da ogni esercizio di tali diritti e poteri nei suoi confronti e rende, al contrario, costui soggetto senza flmiti esterni alla potestà coercitiva e punitiva di qualsiasi Stato le cui leggi abbia violato e alla giurisdizione del quale è assoggettato in base all'ordinamento interno e in conformità alle norme convenzionali (Sez. 1 Arbi, cit.).

2.5. Orbene, venendo ad esaminare la questione di giurisdizione in merito all'omicidio commesso in "alto mare" a bordo della nave carica di migranti diretta verso le coste italiane per espressa previsione del gruppo criminale organizzato operante in Libia, non può dimenticarsi che la Convenzione di Palermo, oltre ad essere stata emendata quanto al catalogo dei reati dai Protocolli addizionali contestualmente sottoscritti - tra cui quelli concernenti il traffico di migranti -, all'art. 3, sotto la rubrica "ambito di applicazione", stabilisce che, laddove i reati sono di natura transazionale e vedono coinvolto un gruppo criminale organizzato, essa "si applica... all'esercizio dell'azione penale per:... b) i reati gravi, come da art. 2 della presente Convenzione". La definizione convenzionale di "reato grave", contenuta all'art. 2 della Convenzione, indica: "la condotta che costituisce reato sanzionabile con una pena privativa della libertà personale di almeno quattro anni nel massimo o con una pena più elevata", ipotesi in cui rientra certamente l'omicidio volontario ex art. 575 c.p..

2.5.1. Non risulta, del resto, dissonante con l'affermato principio di immediata applicabilità della clausola di estensione della giurisdizione italiana ex art. 7 c.p., in relazione ai reati gravi previsti dall'art. 2, della Convenzione di Palermo, quando il reato ha conseguenze in Italia, la recente decisione di questa Corte secondo la quale "non sussiste la giurisdizione dello Stato italiano, ai sensi dell'art. 7 c.p., comma 1, n. 5, e della Convenzione ONU di Palermo sul contrasto alla criminalità organizzata transnazionale, ratificata con L. 16 marzo 2006, n. 146, allorché si proceda per un reato transnazionale (nella specie, importazione, esportazione e transito di materiali di armamento) commesso dallo straniero integralmente all'estero, non correlato a condotte da commettersi sul territorio italiano, in quanto la disposizione relativa alla giurisdizione, di cui all'art. 15, par. 4, della Convenzione, pur in presenza della sua ratifica, non è di immediata applicazione nell'ordinamento dello Stato parte" (Sez. 1, n. 19762 del 17/06/2020, Tartoussi, Rv. 279210). Il principio di diritto dianzi richiamato si riferisce alla diversa ipotesi in cui il reato, commesso dallo straniero all'interno del territorio di uno Stato estero, non ha alcuna conseguenza sul territorio italiano, mentre la fattispecie oggetto del presente giudizio è stata realizzata in un luogo (imbarcazione senza bandiera intercettata in "alto mare") che non è sottoposto alla giurisdizione di un altro Stato e che ha avuto, come si preciserà fra poco, gravi e dirette conseguenze in Italia, venendo accertata da una nave militare italiana operante in adempimento e nell'esercizio dei poteri autoritativi riconosciuti allo Stato dalle convenzioni internazionali applicabili.

In disparte la questione dell'immediata applicazione dell'art. 15, par. 4, della Convenzione di Palermo, questione sulla quale si tornerà, è bene evidenziare che la sentenza Sez. 1, Tartoussi, ha anzitutto escluso che il reato oggetto del procedimento abbia avuto effetti sostanziali in Italia, sicché esprime il condiviso principio che la clausola di estensione della giurisdizione non può prescindere dalla puntuale verifica degli effetti sostanziali nello Stato, evenienza che costituisce il criterio di collegamento normatwamente previsto dalla Convenzione di Palermo per il "reato grave" di omicidio, sicché risultano irrilevanti nel caso in esame i requisiti previsti dal citato art. 15, par. 4 (la presenza del reo e la mancata estradizione) per l'ulteriore estensione della giurisdizione italiana in forza dell'art. 7 c.p., comma 1, n. 5, espressione del principio di tendenziale universalità della legge penale italiana. Resta, del resto, parimenti condiviso il principio di diritto, del pari richiamato dalla sentenza citata, secondo il quale "in tema di giurisdizione su reati commessi all'estero, in assenza di un fondamento normativo, anche di diritto internazionale, idoneo a derogare al principio di territorialità, non sussiste la giurisdizione del giudice italiano su reati commessi dallo straniero in danno di straniero e interamente consumati nel territorio di uno Stato estero, seppure connessi con reati commessi in Italia.

In applicazione del principio, la Corte ha escluso la giurisdizionale nazionale sui reati di sequestro di persona a scopo di estorsione, tortura e violenza sessuale commessi in territorio libico nei confronti di immigrati poi trasportati illegalmente in Italia, anche se ritenuti connessi con quelli di associazione per delinquere e favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, invece rientranti nella giurisdizione italiana" (Sez. 5, n. 48250 del 12/09/2019, P., Rv. 277245) poiché, anche in quel caso, il reato era commesso all'estero ed era privo di effetti sostanziali in Italia, a nulla rilevando la connessione di esso con il reato di immigrazione clandestina, invece procedibile per le ragioni dianzi illustrate (non è, piuttosto, condivisibile il principio della "giurisdizione per connessione" sinteticamente affermato da Sez. 1, n. 25613 del 17/03/2016, Almabasbi, n. m.; nonché incidentalmente richiamato da Sez. 1 n. 3345/2015 del 10/12/2014).

2.6. La disposizione di cui all'art. 7 c.p., enumera i reati commessi all'estero che sono incondizionatamente punibili in ragione della scelta politica compiuta dal legislatore. Si tratta di un elenco aperto in ragione della clausola di chiusura di cui al n. 5 che estende il catalogo dei reati politici a quelli di volta in volta individuati dalla legge o dalle convenzioni internazionali. 2.6.1. Secondo la dottrina il n. 5 dell'art. 7 sarebbe espressione del principio di universalità per i delicta juris gentium,, quali quelli di sfruttamento della prostituzione (Convenzione 2 dicembre 1949, resa esecutiva con L. 23 novembre 1966, n. 1137), di riduzione in schiavitù (Convenzione di Ginevra 17 settembre 1956, resa esecutiva con L. 20 dicembre 1957, n. 1304), di genocidio (Convenzione 9 dicembre 1948, resa esecutiva con L. 9 ottobre 1967, n. 962), di discriminazione razziale (Convenzione 4 dicembre 1969, resa esecutiva con L. 13 ottobre 1975, n. 654), di dirottamento aereo (Convenzione di Tokyo 14 settembre 1963, L. 10 maggio 1976, n. 342) e di traffico di stupefacenti (Convenzione 30 marzo 1961, L. 22 dicembre 1975, n. 685), ovvero consentirebbe l'applicazione della norma penale italiana ad altri fatti in ossequio a ragioni di opportunità, come avviene, ad esempio, per l'art. 22, comma 1, del Trattato del Laterano 11 febbraio 1929, in base al quale lo Stato, su richiesta della Santa Sede, provvederà a punire nel proprio territorio i delitti commessi nella Città del Vaticano. Secondo la prevalente dottrina l'art. 7, n. 5, sarebbe apparentemente privo di forza precettiva autonoma e, dunque, superfluo sul terreno dell'individuazione delle norme penali italiane applicabili. Il richiamo alle "speciali disposizioni di legge" potrebbe apparire superfluo in quanto, a ben vedere, esse dispongono autonomamente della propria applicabilità: l'art. 501, comma 4, e l'art. 574 bis c.p., (Sez. 6, n. 7777 del 14/12/2017, R., Rv. 272722, ha precisato che in tema di sottrazione e trattenimento di minore all'estero, l'art. 574-bis c.p. prevede espressamente la punibilità della condotta realizzata interamente all'estero, in quanto l'elemento di collegamento con la giurisdizione italiana è rappresentato dal verificarsi, all'interno del territorio dello Stato, dell'evento del reato consistente nell'impedimento dell'esercizio delle prerogative genitoriali per effetto della condotta illecita) e l'art. 591 c.p., comma 2, prevedono espressamente la punibilità del fatto commesso all'estero.

2.6.2. Diversa è, invece, la rilevanza delle "convenzioni internazionali" che prevedono necessariamente un meccanismo di adattamento al diritto interno, vuoi in base al generico exequatur, vuoi mediante l'inserimento di una specifica norma penale interna. La portata innovativa dell'art. 7 c.p., nella parte in cui si riferisce alle "convenzioni internazionali" si concretizza, secondo la prevalente dottrina, nella espressa esclusione, per le norme richiamate, di ogni altro eventuale elemento che ne condizioni la applicabilità al fatto reato in esse previsto. La giurisprudenza ha fatto ricorso alla disposizione dell'art. 7 c.p., comma 1, n. 5, per affermare la giurisdizione italiana in relazione alla commissione in territorio estero di gravi fatti ai danni di cittadini o beni italiani, facendo proprio riferimento alle indicazioni promananti dalle convenzioni internazionali che impegnano l'Italia a combattere e reprimere i delicta juris gentium (Sez. 1, n. 43696 del 14/09/2015, Dobrivoje, CED 264749 ha riconosciuto la giurisdizione italiana ex art. 7 c.p., n. 5, per i crimini di guerra integrati da quei comportamenti posti in essere nell'ambito di un conflitto armato che, pur risultando privi dei connotati di estensione e di sistematicità propri dei crimini contro l'umanità, si caratterizzano per la lesione dei valori universali di rispetto della dignità umana che trascendono gli interessi delle singole comunità statali impegnate nel contesto bellico - ravvisabili nell'omicidio plurimo eseguito nei confronti di militari italiani appartenenti ad una missione di monitoraggio internazionale; Sez. 1, n. 24975 del 9/05/2018, Prijic, Ced 273286, ha riconosciuto la giurisdizione italiana ex art. 7 c.p., n. 5, all'esecuzione di tre volontari italiani della Croce Rossa in missione umanitaria in Bosnia-Erzegovina, catturati, depredati ed uccisi in un'azione di guerra da un reparto dell'esercito bosniaco, perché, pur non possedendo connotati di estensione e sistematicità tali da farla assurgere a crimine contro l'umanità, si caratterizza per una così spiccata gravità della condotta da determinare una lesione dei diritti fondamentali della persona e, pertanto, anche del cittadino, la cui tutela è sancita da norme inderogabili sia dell'ordinamento internazionale che di quello interno).

Il principio di punibilità incondizionata ex art. 7, n. 5, è stato affermato in caso di pirateria (artt. 1135 e 1136 c.n.) ai danni di nave italiana in acque internazionali (Sez. 2, n. 26825 del 4/02/2013, A., Rv. 256646; recentemente Sez. 5, n. 15977 del 27/02/2015, Abdi, Rv. 263707, ha precisato, in una analoga fattispecie di assalto a motonave italiana in acque internazionali, che i reati sono stati commessi sul territorio italiano ai sensi dell'art. 4, e sono perciò punibili incondizionatamente in forza dell'art. 7, n. 5). È stata invece esclusa l'applicabilità dell'art. 7, n. 5, sotto il profilo della punibilità per ogni altro reato per cui "speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l'applicabilità della legge italiana", pur in presenza di una specifica Convenzione che fa riferimento alla corruzione internazionale (art. 5 della Convenzione OCSE del 17 novembre 1997, ratificata con la L. 29 settembre 2000, n. 300), perché nel testo convenzionale non sono rinvenibili estensioni alla giurisdizione, ma unicamente riferimenti secondo i quali le indagini e l'azione penale per corruzione di pubblico ufficiale sono soggette alle norme e ai principi applicabili di ciascuna Parte (Sez. F, n. 32779 del 13/08/2012, n. 32779, Lavitola, Rv. 253488).

Le condizioni per l'applicazione della legge penale italiana sono, dunque, previste dalla clausola generale, che il legislatore attribuisce all'art. 7 c.p., e della chiara individuazione dei criteri di collegamento introdotti per estendere il potere giurisdizionale dello Stato italiano da parte delle convenzioni internazionali cui lo Stato ha aderito.

2.6.3. Tale evenienza si verifica proprio con riguardo alla Convenzione di Palermo là dove richiede, così specificando i criteri di collegamento che determinano l'applicabilità della legge italiana, che si tratti di un "reato grave", che ha avuto effetti sostanziali in Italia, commesso da un gruppo criminale organizzato. Tali puntuali indicazioni normative internazionali non richiedono, infatti, l'adozione di uno strumento attuativo di diritto interno, essendo esse sufficientemente chiare e direttamente applicabili in presenza della clausola di cui all'art. 7 c.p.. Non diverse condizioni di applicabilità della legge italiana potevano, del resto, essere introdotte dal legislatore ordinario che ha, quindi, legittimamente dato corso alla procedura di exequatur nella piena consapevolezza del tessuto normativo in cui andava a calarsi la disposizione convenzionale, ritenuta immediatamente applicabile perché dotata di tutti gli elementi necessari a descrivere le condizioni di estensione della giurisdizione dello Stato il quale disponeva già di una norma cornice in grado di fornire piena copertura normativa alla previsione convenzionale che, a sua volta, esplicita in modo chiaro e univoco i criteri di collegamento che determinano la giurisdizione dello Stato Parte.

2.6.4. Va, perciò, affermato che l'applicazione della legge penale italiana al delitto di omicidio doloso plurimo commesso in "alto mare" contestato al capo B) trova fondamento: - nel principio di tendenziale universalità della legge penale italiana di cui all'art. 3 c.p., comma 2, secondo il quale la legge penale italiana trova applicazione nei "casi stabiliti (...) dal diritto internazionale" come si verifica quando l'autorità militare o di polizia, in adempimento dei doveri e nell'esercizio dei poteri attribuiti dal diritto internazionale, interviene ed accerta "in alto mare", cioè al di fuori del territorio di un altro Stato, la commissione di reati a bordo di una nave priva di bandiera; - nell'art. 7 c.p., comma 1, n. 5, e negli artt. 2, 3 e 15, par. 2, lett. c, i), della Convenzione di Palermo, senza, cioè, che sia necessario fare richiamo alla estensione della giurisdizione ex art. 15, par 4, trattandosi di un reato grave, con effetti sostanziali sul territorio italiano, posto in essere da un gruppo criminale organizzato nell'ambito di una complessiva condotta posta in essere allo scopo di commettere i reati nominativamente previsti dalla Convenzione e dai Protocolli Addizionali, tra cui rientra il traffico di migranti verso l'Italia.

2.6.5. Venendo alla questione, positivamente risolta da Sez. 1, Tartoussi, se l'art. 15, par. 4, della Convenzione di Palermo richieda una disposizione di applicazione di diritto interno, deve essere anzitutto evidenziato che l'affermazione contenuta nella sentenza è di fatto estranea al caso in essa esaminato in relazione al quale esisteva, come precisa la sentenza, la condizione di procedibilità di cui all'art. 10 c.p., costituita dalla richiesta di procedimento avanzata dal Ministro della giustizia, tant'è che il motivo di ricorso sulla questione di giurisdizione è stato respinto sotto tale profilo. Il principio di diritto, così espresso da Sez. 1 Tartoussi ed oggetto di massimazione, costituisce, in realtà, un obiter dictum perciò non vincolante per l'interprete (Sez. 4, n. 8825 del 27/05/1993, P.M. in proc. Rech, Rv. 196426), nella parte in cui assume la mancanza di forza auto-applicativa nel diritto interno italiano dell'art. 15, par. 4 della Convenzione di Palermo. La giurisprudenza di legittimità (Sez. F, n. 32779 del 13/08/2012, n. 32779, Lavitola, Rv. 253488) aveva posto bene in luce la specifica portata precettiva dell'art. 15, par. 4 della Convenzione di Palermo, all'epoca non ancora entrata in vigore, precisando che esso introduce proprio una estensione della giurisdizione a favore dello Stato Parte quando, nel diritto interno, siano soddisfatte tutte le condizioni per la applicazione della legge penale.

2.6.5.1. Deve essere ribadito che la possibilità, prevista dall'art. 15, par. 4, della Convenzione di Palermo, di estendere la giurisdizione dello Stato "in relazione ai reati di cui alla presente Convenzione quando il presunto autore si trova sul suo territorio e non lo estrada" introduce una clausola di estensione della giurisdizione italiana che risulta immediatamente applicabile, alle condizioni date dal testo convenzionale. Ad avviso del Collegio, il catalogo dei reati originariamente previsti dalla Convenzione di Palermo agli artt. 5, 6, 8 e 23, catalogo che si è arricchito in forza dei Protocolli addizionali, è ulteriormente ampliato dalla previsione dell'art. 15, par. 4 della Convenzione, quando, oltre al rispetto delle due specifiche condizioni ivi previste, il diritto interno già preveda l'applicazione della legge italiana ai reati commessi all'estero punibili secondo una convenzione internazionale.

2.6.5.2. Infatti, in disparte l'utilizzo dell'espressione "può" - che esprime soltanto l'assenza di un obbligo convenzionale di incriminazione e punizione dei reati previsti dal suddetto art. 15, par. 4, obbligo invece previsto a carico dello Stato Parte per i reati convenzionali e per quelli previsti dai Protocolli addizionali - la disposizione prevede la specifica possibilità, attribuita alla incondizionata potestà dello Stato Parte, di determinare (estendere) la propria giurisdizione anche in relazione agli altri reati previsti dalla Convenzione, tra i quali, come si è detto, rientrano i "reati gravi" di cui all'art. 2. La specifica previsione della possibilità attribuita allo Stato Parte di adottare le "misure necessarie" per estendere la propria giurisdizione, opzione che la Convenzione rimette alla potestà incondizionata dello Stato, non comporta necessariamente l'adozione di uno specifico intervento attuativo, per così dire, postumo, cioè successivo alla ratifica della Convenzione. La facoltà in questione, anzitutto, riguarda la scelta politica di estendere la giurisdizione dello Stato, opzione che, in effetti, non è configurata come obbligo convenzionale (da qui l'espressione "può") a differenza di altre previsioni dell'accordo che impongono allo Stato, pena la violazione degli accordi internazionali sottoscritti, di incriminare e punire determinate condotte puntualmente descritte dalla Convenzione di Palermo. Piuttosto, il riferimento alla possibilità riconosciuta allo Stato Parte di "adottare misure necessarie per determinare la sua giurisdizione" non è nulla più che un ovvio richiamo alla possibilità, del pari riconosciuta allo Stato Parte, di adeguare, ove ne ravvisi la necessità, il proprio ordinamento interno per rendere concretamente possibile l'estensione dell'esercizio della giurisdizione agli ulteriori reati previsti dalla Convenzione, sotto la condizione, questa invece positivamente prevista dalla Convenzione come limite al potere dello Stato, che l'autore si trovi nel suo territorio e non sia estradato per detti reati. L'intervento di adattamento del diritto interno sarà verosimilmente necessario là dove la legislazione dello Stato non contenga delle disposizioni che regolano l'applicazione della legge penale italiana ai reati commessi all'estero, magari perché l'ordinamento è improntato, come spesso accade, unicamente sul principio di territorialità; ciò che la Convenzione non ostacola, rimettendola alla potestà dello Stato Parte, è la valutazione della necessità di adottare le "misure" per dare attuazione nel diritto interno alla previsione convenzionale, sicché quando le disposizioni interne già esistono esse sono immediatamente applicabili, fermi restando gli ulteriori requisiti convenzionali relativi alla presenza dell'autore e della mancata estradizione (art. 15, par. 4).

2.6.5.3. Ebbene, tali condizioni sono soddisfatte nel caso in esame poiché l'art. 7 c.p., comma 1, n. 5, già prevede la giurisdizione italiana per i reati commessi all'estero quando "specifiche disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l'applicabilità della legge penale italiana". Nel caso di specie, infatti, alle condizioni di applicabilità previste dalla legge nazionale si aggiungono, secondo la previsione della Convenzione di Palermo, la commissione di un reato grave con effetti in Italia, la presenza del reo e la mancata estradizione. Va, anzitutto, evidenziato che le due ultime condizioni di procedibilità non pongono particolari problematiche di accertamento, essendo essenzialmente situazioni di fatto che il giudice deve accertare nel singolo caso, sicché si conferma la natura auto-applicativa della previsione convenzionale che si innesta in un tessuto normativo di diritto interno che già prevede la generale applicazione della legge penale italiana per i reati previsti dalle convenzioni internazionali. Orbene, in disparte la presenza dell'autore del fatto sul territorio italiano, condizione obiettivamente sussistente nel caso di specie, in merito alla questione dell'estradizione, quale ulteriore condizione di procedibilità, è solo il caso di ricordare che la giurisprudenza di legittimità è costantemente orientata ad affermare che ai fini della procedibilità del reato comune commesso all'estero non occorre che sia stata esperita con esito negativo la procedura di estradizione, essendo sufficiente che a quest'ultima non si sia fatto luogo (Sez. 1, n. 2957 del 12/06/1987 - 1988, Ceravolo, Rv. 177812), sicché anche sotto tale profilo può immediatamente applicarsi la legge penale italiana ex art. 7 c.p., e art. 15 Convenzione, non essendo stata avviata alcuna procedura di estradizione nei confronti degli imputati.

2.7. Per concludere, dunque, non può dubitarsi che l'omicidio commesso in "alto mare" sia oggetto della giurisdizione italiana perché accertato dalle autorità del Paese nei confronti di una imbarcazione priva di bandiera e perciò non sottoposta alla giurisdizione di altro Stato, sicché non deve farsi applicazione del principio di diritto internazionale par in parem non habet imperium, nonché che tale delitto costituisca, secondo la previsione convenzionale degli artt. 2 e 3 della Convenzione di Palermo, un "reato grave" che ha avuto effetti sostanziali in Italia, sia perché accertato dalla nave militare italiana che operava nell'ambito dei doveri e dei poteri attribuiti dalle vigenti Convenzioni internazionali sul diritto del mare, sia perché i cadaveri sono stati portati sul territorio dello Stato unitamente alle persone danneggiate dal medesimo reato, mentre, nel rispetto delle ulteriori condizioni richieste dall'art. 15, comma 4, della Convenzione di Palermo, i responsabili sono stati presi in custodia dall'Autorità italiana e ivi trattenuti senza che nessuna richiesta di estradizione sia mai stata avanzata o promossa. In sostanza, la clausola di universalità della legge penale italiana di cui all'art. 7 c.p.assicura, mediante il recettizio richiamo alle disposizioni convenzionali applicabili (artt. 2, 3 e 15 della Convenzione di Palermo), il necessario adeguamento del diritto interno agli obblighi internazionali di volta in volta assunti dall'Italia per la repressione dei crimini, allorquando, come nel caso di specie, gli ulteriori criteri di collegamento che radicano la giurisdizione siano già puntualmente descritti dal testo convenzionale cui è stata data esecuzione con legge ordinaria, senza la necessità, cioè, che le disposizioni convenzionali sull'estensione della giurisdizione debbano ricevere una ulteriore e pleonastica trasposizione nel diritto interno. 3. Sono manifestamente infondati i motivi relativi ai riconoscimenti informali, anche con riferimento all'attendibilità dei risultati dei riconoscimenti fotografici effettuati in sede di indagini preliminari e di incidente probatorio.

3.1. In ordine ai riconoscimenti fotografici, la sentenza di appello ha rilevato che essi erano stati compiuti nel corso delle indagini preliminari e che, in sede di incidente probatorio, ciascun testimone aveva confermato il riconoscimento già effettuato. La difesa, già con l'atto di appello, aveva sostenuto che, trattandosi di riconoscimenti fotografici costituenti atti di indagini, ma compiuti senza il rispetto delle norme che disciplinano i mezzi di prova, non potevano essere utilizzati nel giudizio. Già il secondo giudice ha rilevato che l'utilizzabilità degli atti di indagini, non solo ai fini del promovimento dell'azione penale, ma anche nel giudizio, discende dalla circostanza che i migranti - sentiti per eccesso di zelo con l'assistenza del difensore (si tratta di un episodio che è avvenuto nell'incertezza giurisprudenziale, concernente la posizione del migrante, poi superata da Sez. U., n. 40517 del 28/04/2016, Taysir, Rv. 267627 - 02) - non erano affatto indagabili D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 10 bis, sicché le loro dichiarazioni, indipendentemente dalla circostanza che siano state rese spontaneamente oppure, come nel caso di specie, con una modalità ancor più garantita dall'assistenza del difensore, costituiscono atto pienamente utilizzabile. Del resto, i migranti sono stati sentiti durante l'incidente probatorio nel pieno contraddittorio con le difese, sicché non si comprende in cosa consista l'eccezione di inutilizzabilità.

3.2. Sono inammissibili, perché confutative e versate in fatto, le censure sulle modalità e sull'attendibilità dei riconoscimenti fotografici in sede di incidente probatorio, sia perché l'interrogato avrebbe "riconosciuto" soltanto la propria firma apposta sull'album precedentemente utilizzato in fase di indagini, sia perché non sarebbero state tenute in considerazione le condizioni di prostrazione in cui i migranti si trovavano e in ragione delle quali il riconoscimento non sarebbe attendibile. Il giudice di secondo grado, che non ha ricevuto specifica censura sul punto, ha chiarito che il riconoscimento fotografico degli imputati da parte dei migranti è stato effettuato nella immediatezza dei fatti, una volta giunti nel porto di Catania dopo l'avvenuto soccorso, a corredo delle dichiarazioni rese in ordine ai soggetti responsabili dei delitti oggetto di indagine e con specifica indicazione del ruolo da ciascuno di essi svolto. Si è, correttamente, fatto notare che si tratta di un mezzo di individuazione dell'autore del reato che, sebbene non dotato della medesima efficacia rappresentativa della ricognizione personale di cui all'art. 213 c.p.p., risulta tuttavia idoneo a consentire un rapido e consono accertamento dell'identità personale del soggetto al quale il dichiarante ha fatto riferimento nel corso delle sue dichiarazioni e vale dunque a completare queste ultime in modo individualizzante. Del resto, come già si è fatto notare, il riconoscimento è stato nuovamente effettuato nel contraddittorio delle parti nel corso dell'incidente probatorio senza che alcuna eccezione sia stata tempestivamente sollevata dai difensori. In ogni caso, il giudice di appello ha specificamente rilevato che dalla lettura delle dichiarazioni rese dai migranti in incidente probatorio risulta che i soggetti sentiti non si sono limitati al semplice riconoscimento delle loro firme, come viene ostinatamente affermato dalla difesa, ma che, guardando le effigi delle persone ritratte, hanno altresì indicato specificamente il ruolo avuto da ciascuna di esse nel corso della traversata in mare, di tal che la conferma dell'operato riconoscimento fotografico davanti alla polizia giudiziaria è passata attraverso l'elaborazione mnemonica della condotta tenuta dal soggetto riconosciuto, venendo in tal modo corroborata la sua attendibilità. Si è conclusivamente fatto notare che i riconoscimenti effettuati risultano reciprocamente confortati dalla pluralità di individuazioni nei confronti del medesimo imputato, dalla assoluta prossimità temporale tra le individuazioni fotografiche e il salvataggio, dalle indicazioni provenienti dalla polizia giudiziaria (l'Ispettore M. ha riferito che un gruppo di persone, tra cui gli odierni imputati, all'atto dei controlli aveva tentato di confondersi con gli altri passeggeri, i quali li avevano respinti platealmente, tanto che gli stessi erano rimasti isolati), e che alcuni imputati hanno reso parziali ammissioni, dichiarando di avere fornito indicazioni ai migranti circa la condotta da tenere, così confortando l'assunto accusatorio. Le doglianze in proposito sviluppate dai ricorsi sono, del resto, di merito e generiche.

3.3. Priva di pregio, per le ragioni dianzi esposte in merito alla qualità processuale dei migranti, è la questione della mancanza di riscontri alle loro dichiarazioni poiché, anche a voler ritenere necessario un tale canone probatorio, già si è detto in merito alla reciproca convergenza del narrato, alla specifica descrizione del comportamento tenuto dagli imputati operata dall'Isp. M. e alle parziali ammissioni di alcuni imputati. Del tutto priva di capacità critica è l'asserzione difensiva che addebita ai migranti un interesse ad accusare ingiustamente gli imputati per ottenere il permesso di soggiorno. Se, per un verso, l'intento calunniatorio è stato motivatamente escluso con giudizio di fatto rispetto al quale il ricorso non si confronta, resta unicamente da sottolineare che la protezione internazionale è stata doverosamente offerta ai migranti proprio perché portati sul suolo italiano dagli imputati e non certo per le accuse dai medesimi mosse a loro carico.

3.4. Del tutto ipotetiche sono, infine, le censure sulla valutazione delle dichiarazioni dell'Isp. M. al quale viene genericamente addebitata una "impressione" degli accadimenti, mentre, come ha chiarito il giudice di secondo grado, lo stesso ha riferito di avere assistito, tra i primi soccorritori, alle condotte degli imputati (che tentavano di mischiarsi alla folla) e alla reazione dei restanti migranti (che li respingevano).

4. I ricorsi denunciano la violazione di legge, sotto l'erroneo profilo del ragionevole dubbio che è però una regola di giudizio, sicché non ridonda nel vizio denunciato (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267492), e il difetto di motivazione in relazione alla valutazione delle prove dichiarative e, comunque, in merito al contributo concorsuale del singolo imputato. Il motivo ha contenuto di merito ed è perciò inammissibile. Le sentenze di merito hanno dato conto del contenuto delle testimonianze rese da nove migranti e hanno giustificato la positiva valutazione di credibilità soggettiva ed attendibilità oggettiva rilevando che erano state rese anche nelle forme dell'incidente probatorio, risultavano coerenti, ed erano state assunte in tempi assai ristretti dalla commissione dei fatti (l'incidente probatorio si era tenuto a distanza di dieci giorni dal fatto). Il secondo giudice ha aggiunto che le eventuali parziali incongruenze nei racconti dei diversi testi erano giustificabili dalla diversa posizione assunta nella barca da ciascuno e dalle condizioni personali di estremo disagio nella quale i testi si erano trovati. I ricorsi, però, tentano di introdurre una non consentita rilettura del compendio probatorio, già svolta, e in termini in parte sovrapponibili, nell'atto di appello, ma senza alcuna critica diretta alla motivazione della sentenza di secondo grado nei limiti del sindacato sulla motivazione consentito nel giudizio di legittimità. La sentenza di appello, alle pagg. 56 e seguenti, indica partitamente per ciascun imputato gli elementi di prova a carico; i ricorsi non si confrontano e non criticano tali specifici elementi logicamente ritenuti dimostrativi della responsabilità, ma si limitano a segnalare che non tutti i migranti hanno riconosciuti tutti gli imputati, circostanza priva di alcun contenuto critico rispetto alla solidità e congruenza della motivazione alla luce del già indicato differente e variabile posizionamento dei migranti nell'imbarcazione.

5. Sono manifestamente infondati i motivi con i quali è denunciata la violazione dell'art. 54 c.p., in relazione al mancato riconoscimento che gli imputati avessero agito in stato di necessità ovvero versassero in una condizione di "non esigibilità".

5.1. I ricorsi ripropongono, in termini largamente sovrapponibili, i relativi motivi di appello con i quali si era sostenuto che, data l'estrema precarietà delle condizioni di viaggio, tutti i migranti, e anche gli imputati, si erano trovati nella necessità di collaborare per la conduzione della imbarcazione. La sentenza di appello ha esaminato il punto, osservando, come già aveva fatto il primo giudice, che la menzionata causa di giustificazione non era invocabile dagli imputati i quali, facendo parte dell'equipaggio, avevano condiviso l'organizzazione del trasporto e quindi anche la creazione di quelle condizioni di estrema precarietà del viaggio per mare che viene infondatamente invocata a giustificazione della propria condotta. Dunque, si sostiene che gli imputati non avevano causato il pericolo, dato che essi si erano limitati a svolgere mansioni di equipaggio viaggiante e non avevano dato alcun contributo alla collocazione dei migranti nella stiva e comunque alla definizione delle modalità di viaggio. Si tratta quindi di motivi, in parte, articolati genericamente e, in parte, con contenuto di merito. Il punto relativo alla causazione della condizione di necessità è una questione di fatto, relativa ad un requisito della fattispecie esimente. A fronte del conforme accertamento compiuto da entrambe le sentenze di merito, viene proposto un argomento contrario, che valorizza il ruolo accessorio dell'equipaggio rispetto ai concorrenti che avevano organizzato il trasporto via mare. Si tratta di una prospettazione di merito non consentita in sede di legittimità. Si deve aggiungere che le sentenze di merito hanno adeguatamente motivato che gli imputati avevano consapevolmente aderito alla organizzazione di un trasporto di migranti che, non solo era finalizzato alla immigrazione clandestina, ma anche avveniva in condizioni che, sin dalla partenza, apparivano incompatibili con una traversata con requisiti di sufficiente sicurezza. Dunque, le sentenze hanno dato conto della adesione data dagli imputati al trasporto di migranti in condizioni di estrema precarietà e pericolo e della relativa consapevolezza sin dall'inizio del viaggio. Il che ha giustificato l'accertamento compiuto, secondo il quale anche gli imputati hanno concorso volontariamente a causare la situazione di pericolo invocata come giustificazione.

5.2. Intrinsecamente contraddittoria e comunque a contenuto scarsamente intellegibile è la questione della "inesigibilità" o "non esigibilità" della condotta che costituirebbe una autonoma causa di giustificazione ovvero di esclusione della colpevolezza. La giurisprudenza di legittimità è da sempre orientata ad affermare che "il principio della non esigibilità di una condotta diversa - sia che lo si voglia ricollegare alla ratio della colpevolezza riferendolo ai casi in cui l'agente operi in condizioni soggettive tali da non potersi da lui "umanamente" pretendere un comportamento diverso, sia che lo si voglia ricollegare alla ratio dell'antigiuridicità riferendolo a situazioni in cui non sembri coerente ravvisare un dovere giuridico dell'agente di uniformare la condotta al precetto penale - non può trovare collocazione e spazio al di fuori delle cause di giustificazione e delle cause di esclusione della colpevolezza espressamente codificate, in quanto le condizioni e i limiti di applicazione delle norme penali sono posti dalle norme stesse senza che sia consentito al giudice di ricercare cause ultra-legali di esclusione della punibilità attraverso l'analogia juris" (Sez. 3, n. 38593 del 23/01/2018, Del Stabile, Rv. 273833). Non si comprende, del resto, in cosa consista la "non esigibilità" del comportamento di non concorrere all'uccisione di un uomo.

6. Sono infondati i motivi sulla responsabilità per l'omicidio ex art. 575 c.p..

6.1. Va premesso che la sentenza di primo grado ha dato conto della causa di morte accertata dalle indagini medico-legali ("asfissia con compromissione polmonare e cardiaca progressivamente ingravescente, fino all'exitus ascrivibile al meccanismo patogenetico del confinamento"), ha descritto le condizioni nelle quali i migranti erano stati costretti a rimanere (circa cento uomini in un vano di metri 4 x 6, con altezza di m. 1,20), concludendo nel senso che la morte dei quarantanove migranti era stata causata dalla collocazione, durante il trasporto via mare, nel vano stiva della imbarcazione.

6.2. Quanto all'elemento soggettivo del reato in capo alle persone costituenti l'equipaggio della imbarcazione, si è ritenuto che sin dall'inizio del viaggio fossero tutti consapevoli del rischio per la vita dei migranti derivante dalle particolari condizioni di coloro che venivano collocati nella stiva: ambiente di dimensioni estremamente ridotte, tanto più rispetto al numero delle persone che vi si trovavano, con temperature interne assai elevate, privo di adeguato ricambio d'aria, ricettacolo delle esalazioni di gas del vicino locale motore. È stato precisato che i componenti dell'equipaggio erano consapevoli dell'altissimo rischio-morte ed avevano deciso di intraprendere il trasporto via mare anche a costo della morte di alcuni di essi e, quindi, con adesione rispetto al verificarsi della morte dei migranti: ciò era desumibile dal fatto che nella stiva erano stati collocati migranti di provenienza ben precisa (Africa sub sahariana e Bangladesh) e diversa da quella degli organizzatori del trasporto (di origine araba e magrebina), e dalle successive c:ondotte, tenute da diversi soggetti dell'equipaggio, finalizzate ad impedire l'uscita dei migranti dalla stiva.

6.3. Con riferimento specifico agli imputati, che non sono stati indicati come soggetti che hanno direttamente collocato i migranti nella stiva, si è precisato che essi, facendo parte dell'equipaggio, erano consapevoli delle oggettive condizioni di viaggio per i migranti e, in particolare, per quelli costretti nella stiva, e quindi avevano condiviso l'accettazione dell'evento morte di migranti come conseguenza della condotta collettiva cui davano concorso. Tutto l'equipaggio, dunque, e quindi anche gli imputati, avevano aderito ad una condotta criminosa collettiva con la piena consapevolezza dell'altissima probabilità di morte per i migranti collocati nella stiva ed accettazione del verificarsi di essa in quanto "costo" connesso alla condotta voluta di trasporto di migranti via mare, in quelle terrificanti condizioni. Il secondo giudice ha verificato anche la sussistenza degli indicatori del dolo, quali la lontananza della condotta tenuta rispetto a quella doverosa, il fine della condotta e la compatibilità con il verificarsi della morte dei migranti, la probabilità della morte, il contesto illecito della condotta, il fatto che gli imputati, anche se certi del verificarsi della morte, avrebbero tenuto la condotta illecita causa della morte. La collocazione in stiva era stata consapevolmente e volontariamente riservata a soggetti di "etnia" diversa da quella degli organizzatori del viaggio e degli imputati, ossia a migranti dalla "pelle scura" (per ragioni razziali o perché incomprensibilmente ritenuti maggiormente resistenti alle suddette condizioni estreme) circostanza non illogicamente ritenuta dimostrativa del fatto che sin dall'inizio del trasporto era ben nota la particolare condizione della stiva nonché confermata, durante la traversata, dai disperati tentativi dei migranti di uscire dalla stiva che venivano repressi con l'uso della violenza proprio dall'equipaggio di cui facevano parte gli imputati. Si è logicamente concluso che si è trattato di una scelta volontariamente operata e mantenuta nei suoi effetti durante il viaggio ad opera dei ricorrenti che si sono complessivamente adoperati attivamente in tal senso. 6.4. Del resto, la giustificazione offerta dagli imputati circa la collocazione dei migranti in stiva (che sarebbe stata effettuata dai "libici") e non già dagli imputati, i quali si sarebbero trovati in una situazione necessitata che li avrebbe costretti, al fine di evitare il capovolgimento dell'imbarcazione, a porre in essere condotte volte al mantenimento dell'ordine a bordo, anche con il respingimento dei migranti che dalla stiva tentavano di salire sopra attraverso i boccaporti, non fa che confermare la solidità delle conclusioni cui è giunto il giudice di secondo grado. Si è, infine, logicamente evidenziato che gli imputati, non soltanto non hanno in alcun modo favorito la possibilità per i migranti in stiva di respirare (eventualmente anche a turno o magari a fronte dei casi più disperati), ma, anzi, con percosse e violenze riferite dai testimoni oculari hanno impedito di salire sul ponte e di sfuggire al loro triste destino. Non può, cioè, applicarsi, come inconfessabilmente vorrebbe la difesa, il brocardo mors tua vita mea, perché estraneo a una moderna società di diritto basata sul rispetto della persona umana e, comunque, contrastante con le previsioni in tema di legittima difesa e stato di necessità che richiedono la non volontaria causazione dello stato di pericolo, dell'origine del quale già si è detto. È evidente, infatti, che non può dedursi a giustificazione del comportamento doloso che ha portato all'omicidio la circostanza che gli imputati, se si fossero rifiutati di condurre il barcone, non avrebbero potuto raggiungere le coste italiane per allontanarsi dal teatro della guerra civile in atto o che, sotto altro angolo visuale, la prosecuzione del viaggio, nelle evidenti condizioni di pericolo dagli stessi mantenute e protratte per tutta la traversata, costituiva una condizione necessaria per salvare loro stessi. È dovere di ogni individuo, nel rispetto della vita umana altrui, arrestare le proprie condotte egoiste quando, in mancanza di una specifica causa di giustificazione, esse determinano una lesione grave e la concreta messa in pericolo della esistenza altrui, sicché era preciso dovere degli imputati, avvedutisi fin dall'imbarco della esistenza di condizioni di concreto pericolo per la vita umana degli uomini e delle donne affidati alla loro responsabilità quale gruppo di comando del natante, rifiutarsi di condurre l'imbarcazione ovvero adottare tutte le necessarie misure per salvaguardare la vita dei trasportati. Non è possibile, infatti, nascondersi dietro una presunta "impossibilità di agire altrimenti" solo perché tale opzione ha dei costi per l'autore, quando, invece, la sua condotta è finalizzata a ledere la vita di un altro uomo. Neppure nel diritto bellico è prevista la possibilità indiscriminata di uccidere un altro uomo, pur essendo funzionale e co-essenziale alla guerra l'uccisione dell'avversario, in quanto l'omicidio deve trovare attuazione da parte di legittime forze belligeranti e nel rispetto delle convenzioni internazionali in materia (quattro Convenzioni di Ginevra del 1949; due Protocolli addizionali del 1977), sicché, come già si è detto, risulta irrilevante la deduzione difensiva che attiene alla presunta "non esigibilità" del comportamento.

6.5. Non rileva, del resto, la individuazione degli esatti termini in cui si è estrinsecato il concorso dei singoli imputati negli atti di violenza e negli omicidi perché, ai fini della responsabilità per gli omicidi a titolo di dolo eventuale, non occorre che ciascun componente dell'equipaggio abbia commesso, in prima persona, atti di violenza nei confronti dei migranti collocati nella stiva o abbia materialmente ostacolato la risalita del singolo; infatti, in conformità ai principi che regolano il concorso di persone nel reato, ciascuno dei componenti dell'equipaggio, aderendo al progetto criminoso che prevedeva l'inumano trasporto del maggior numero di migranti stipabili nell'imbarcazione anche a costo di provocarne la morte per le condizioni oggettive in cui avvenivano il confinamento e la traversata, risponde delle condotte poste in essere dai complici che hanno materialmente dapprima destinato e poi mantenuto con la violenza i migranti nella stiva. È perciò pienamente logica e coerente l'affermazione dei giudici di merito secondo la quale gli imputati, pienamente consapevoli del rischio morte, hanno personalmente aderito al verificarsi dell'evento concretamente prefigurato, accettato e dunque voluto, gestendo, ciascuno con distinte ma concorrenti condotte, il viaggio del barcone effettuato in condizioni infernali che venivano mantenute da tutti i membri dell'equipaggio, anche mediante il ricorso sistematico alla violenza. Non è, infatti, necessario, come correttamente affermato dai giudici di merito, che sia individuato il concreto contributo causale fornito dal singolo concorrente materiale all'evento morte, quando esso, come risulta nel caso in esame, è stato individuato in una serie coordinata e concatenata di condotte plurisoggettive, alle quali ciascuno degli imputati ha preso parte fornendo il proprio essenziale contributo - apporto che i ricorsi non contestano -, che ha determinato la morte di quarantanove migranti. Ciò è, del resto, pienamente aderente ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità la quale ha chiarito che "l'affermazione della responsabilità a titolo di concorso nel delitto di omicidio, può fondarsi su plurimi e convergenti indizi in ordine al pieno coinvolgimento degli imputati nella realizzazione dell'azione criminosa - posta in essere con modalità tali da richiedere la compartecipazione degli stessi con esclusione di possibili interventi di terzi - ancorché non sia stato possibile individuare l'autore materiale dell'azione tipica" (Sez. 1, n. 12309 del 18/02/2020, Mazzara, Rv. 278628).

6.6. I motivi di ricorso sul punto hanno contenuto reiterativo e di merito e comunque risultano infondati. Infatti, vengono riproposti i rilievi, concernenti il fatto, che riguardano la ignoranza, sino all'arrivo dei soccorritori, del verificarsi dei decessi, la presenza di boccaporti che consentivano il ricambio d'aria nella stiva, la mera prevedibilità ovvero, al più, la effettiva previsione del rischio morte, ma non anche la adesione personale al verificarsi della morte di migranti. Dunque, i motivi, da una parte, reiterano argomenti di merito già proposti e già esaminati dal secondo giudice, e non rappresentano alcuna censura in ordine alla motivazione in fatto nei limiti del sindacato consentito nel giudizio di legittimità e, dall'altra, ripropongono la censura inerente alla violazione dell'art. 43 c.p., essendo stato ravvisato il dolo, nella forma del così detto dolo eventuale, in una situazione nella quale non era ravvisabile la volontà della morte dei migranti, ma, semmai, solo la previsione del rischio che si verificasse.

6.7. Anche sotto questo ulteriore profilo i motivi sono infondati. La giurisprudenza è giunta a un importante chiarimento in tema di elemento soggettivo doloso. Sez. U. Nocera (Sez. U, n. 12433 del 26/11/2009 - dep. 2010, Nocera, Rv. 246323) ha chiarito che alla volontà del fatto antigiuridico è equiparabile, nel caso in cui la componente rappresentativa sia in termini di dubbio (non certezza), la accettazione del verificarsi del fatto, cosicché ricorre il dolo eventuale "quando chi agisce si rappresenta come seriamente possibile (non come certa) l'esistenza di presupposti della condotta ovvero il verificarsi dell'evento come conseguenza dell'azione e, pur di non rinunciare all'azione e ai vantaggi che se ne ripromette, accetta che il fatto possa verificarsi: il soggetto decide di agire "costi quel che costi", mettendo cioè in conto la realizzazione del fatto". Seguendo la medesima linea interpretativa, è stato poi affermato (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261105) che l'elemento caratteristico del dolo - concetto normativo che, nel definire la relazione soggettiva tra autore e fatto, richiede la compresenza di consapevolezza e volontà - va individuato nella volontà del fatto, che consiste nella personale ed effettiva adesione del soggetto al verificarsi dell'evento. Si è pure precisato che nei casi in cui il soggetto abbia agito per un fine diverso dalla realizzazione dell'evento, in realtà verificatosi ed elemento costitutivo della fattispecie dolosa, per aversi dolo non è sufficiente la previsione dell'evento, che si esaurisca nell'accettazione della situazione di rischio, bensì è necessario che il soggetto abbia agito "accettando l'evento stesso", e dunque dandovi adesione. Ogni qual volta il giudice deve confrontarsi con una fattispecie dolosa di condotta ed evento non può esaurire l'accertamento della volontà solo con riferimento alla condotta posta in essere, ma deve verificare se anche l'evento sia stato, non solo previsto, ma anche effettivamente voluto, pur non rappresentando il fine primario dell'azione. La categoria del dolo eventuale, quindi, da una parte, si riferisce ad una rappresentazione, vuoi dei presupposti vuoi delle conseguenze della condotta, in termini di dubbio e si distingue dal dolo diretto, dove invece il momento rappresentativo è in termini di certezza, e dall'altra, esprime una direzione della volontà diretta a un diverso fine primario, e, da questo punto di vista, si distingue dal dolo intenzionale. Elemento essenziale del dolo, e quindi comune nelle categorie del dolo intenzionale, diretto ed eventuale, è la adesione del soggetto al verificarsi dell'evento, componente soggettiva che fonda la distinzione con le altre forme dell'elemento soggettivo, la colpa e la preterintenzione.

In particolare, mentre nell'omicidio volontario è richiesta (in positivo) la volontà di cagionare la morte, negli omicidi colposo e preterintenzionale, nelle diverse ipotesi di cui agli artt. 584 e 586 c.p., è richiesta (in negativo) la assenza della volontà di cagionare la morte. Le fattispecie di omicidio colposo e preterintenzionale si differenziano tra loro per il fatto che, nel primo, l'evento morte è causato dalla violazione di norme cautelari che il soggetto era tenuto ad osservare, mentre, nel secondo, la morte è causata da condotta (voluta) che integra altra ipotesi di reato (art. 584: percosse e lesioni; art. 586: altro delitto doloso). Nell'omicidio volontario l'elemento soggettivo si configura nella relazione (positiva) tra il soggetto e l'evento morte, nell'omicidio colposo l'elemento soggettivo ha un contenuto psicologico negativo (non volontà dell'evento) e normativo (la violazione del dovere cautelare imposto), nell'omicidio preterintenzionale l'elemento soggettivo ha un contenuto positivo (volontà di percuotere o ledere) ed uno negativo (non volontà di uccidere). Dunque, mentre l'omicidio volontario si differenzia dalle altre fattispecie di omicidio (artt. 589 e 584 - 586 c.p.) per la sussistenza della volontà - anche solo alternativa o eventuale - di uccidere, le fattispecie colposa e preterintenzionale si differenziano tra loro perché nella seconda vi è una specifica condotta volontaria di autonomo rilievo penale (lesioni volontarie, percosse), mentre nella prima vi è una condotta in violazione di doveri cautelari, anche a prescindere dalla autonoma rilevanza penale della condotta medesima.

6.8. Le sentenze di merito hanno dato corretta applicazione dei principi di diritto ricordati. La condotta di favoreggiamento della immigrazione clandestina non solo è avvenuta, in ragione delle condizioni di navigazione di una imbarcazione in legno lunga metri 13 sulla quale si trovavano oltre trecento persone, con esposizione dei migranti trasportati a pericolo per la vita, ma ha realizzato una ulteriore condizione di esposizione a maggior pericolo per i cento migranti collocati nella stiva in condizioni che hanno determinato la situazione di così detto confinamento che ha portato alla morte per asfissia della metà dei migranti che vi erano stati rinchiusi contro la loro volontà, per reiterata e ferma decisione dell'equipaggio. Le sentenze di merito hanno specificato i dati oggettivi significativi della prevedibilità e previsione in concreto del rischio morte da parte dei soggetti che, facendo parte dell'equipaggio, avevano concorso nella condotta criminosa, mentre sul punto nessun rilievo critico hanno proposto le difese. I giudici hanno poi indicato gli ulteriori elementi che, in una considerazione complessiva, avevano fondato il giudizio secondo il quale gli imputati, consapevoli del rischio morte, avevano personalmente aderito al verificarsi della morte dei migranti, come evento previsto, accettato e dunque voluto. Sono state evidenziate le caratteristiche della condotta, posta in essere in un contesto palesemente illecito di immigrazione clandestina, che si segnala come particolare aggravamento del rischio, già elevato, connesso alla navigazione in mare aperto con una imbarcazione certamente inidonea al trasporto di oltre trecento persone: le dimensioni della stiva, la costrizione di cento uomini necessariamente seduti o sdraiati, la mancanza di ricambio d'aria adeguato, il calore, le esalazioni dal vicino vano motore: condizioni che hanno determinato in una notte la morte della metà delle persone che ivi erano ristrette. Si tratta dunque di un contesto illecito, con un livello di esposizione a pericolo aggravato rispetto a quello sussistente in tutti i trasporti via mare con mezzi inadeguati. Inoltre, vi è una particolare disparità tra chi organizza il trasporto e chi si avvale di esso, essendo i secondi persone totalmente prive di tutela, destinate; in caso di morte, all'oblio completo. Già tali elementi valgono ad evidenziare come l'equipaggio fosse consapevole del rischio morte per i migranti e come l'altamente probabile verificarsi della morte dei migranti fosse stato serenamente accettato. Le sentenze di merito hanno quindi evidenziato ulteriori dati, ancora nel senso della personale adesione al verificarsi dell'evento morte: la collocazione in stiva era stata riservata a soggetti di etnia diversa da quella degli organizzatori del trasporto e dei membri dell'equipaggio ("arabi e magrebini") e il fatto che i tentativi di uscire dalla stiva fossero stati repressi con la violenza proprio da parte del personale dell'equipaggio. Si tratta di circostanze che comprovano direttamente come sin dall'inizio del trasporto fosse nota la particolare condizione della stiva, circostanza poi confermata, durante il viaggio, dai tentativi dei migranti di uscire all'aria aperta, venendo anzi violentemente respinti dagli imputati all'interno dell'infernale locale. Le sentenze di merito hanno quindi evidenziato una pluralità di dati fattuali, convergenti nel fondare il giudizio circa I;a piena accettazione, da parte del personale dell'equipaggio della imbarcazione, del verificarsi della morte per più migranti.

7. È inammissibile, perché versato in fatto, il motivo che riguarda la sussistenza e l'imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 12,commi 3, 3 bis e 3 ter.

7.1. La complessiva ricostruzione delle condotte, tra cui la sussistenza delle indicate ipotesi aggravate, è stata ampiamente motivata, come già si è detto sopra. La piena partecipazione e consapevolezza degli imputati all'operazione di immigrazione clandestina, per la quale i medesimi avevano pure corrisposto un prezzo risulta, quindi, logicamente affermata dai giudici di merito, mentre il ricorso si limita a negarla in palese contrasto con i dati fattuali sopra descritti. In ordine al profitto, poi, i giudici di merito hanno non illogicamente evidenziato i benefici ottenuti dagli imputati derivanti dall'avere assunto il ruolo di equipaggio del barcone destinato al naufragio, mentre i ricorsi si limitano a contestare tale coerente conclusione indicativa di un concreto beneficio ottenuto dagli imputati. La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di precisare che "in tema di delitto di favoreggiamento della immigrazione clandestina, per "profitto indiretto" deve intendersi un'aspettativa di arricchimento, anche non di natura economica, ma, comunque, identificabile in un vantaggio apprezzabile, non necessariamente connesso all'ingresso "contra ius" dello straniero favorito" (Sez. 1, n. 35848 del 16/05/2019, Samara Hatem,) Rv. 276715), sicché risulta pienamente aderente al citato principio l'interpretazione offerta dai giudici di merito che hanno valorizzato l'esistenza di un concreto ed effettivo vantaggio personale ricevuto dagli imputati.

7.2. Sono generiche le doglianze sull'attenuante ex art. 144 c.p. poiché il rilievo del ruolo svolto dagli imputati è stato ampiamente illustrato, mentre i ricorsi si limitano a contestarlo senza confrontarsi con la motivazione che ha posto in luce il totale difetto di costrizione o induzione a commettere il reato al quale i ricorrenti hanno liberamente aderito per porsi, verosimilmente, in una posizione privilegiata rispetto agli altri migranti.

7.3. Sono generici e manifestamente infondati i motivi sulle circostanze attenuanti generiche che, del resto, sono state concesse dal primo giudice in violazione delle limitazioni al giudizio di bilanciamento previste per le indicate aggravanti in tema di immigrazione dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 12 quater; errore al quale, in mancanza di ricorso del pubblico ministero, non può porsi rimedio perché si tratterebbe di un intervento in malam partem. I giudici di secondo grado hanno comunque fornito una ampia e logica motivazione a sostegno del rigetto della richiesta di concessione delle attenuanti generiche per l'omicidio plurimo, mentre i ricorsi si limitano a invocarne la concessione.

7.4. Generiche sono, infine, le doglianze sul trattamento sanzionatorio che è stato fissato, per il più grave delitto di omicidio, in prossimità del minimo edittale; sul quale sono stati operati gli aumenti per la continuazione interna ed esterna in misura giustificata dagli indicati parametri di cui all'art. 133 c.p., avuto riguardo alla gravità dei fatti e alle modalità della condotta. 8. È manifestamente infondato il motivo sull'omessa traduzione della sentenza d'appello. La giurisprudenza di legittimità è costantemente orientata ad affermare che "la mancata traduzione della sentenza nella lingua nota all'imputato alloglotta non integra un'ipotesi di nullità ma, se vi è stata specifica richiesta di traduzione ovvero questa è stata disposta dal giudice, i termini per impugnare decorrono dal momento in cui la motivazione della decisione sia stata messa a disposizione dell'imputato nella lingua a lui comprensibile e, pertanto, il motivo di impugnazione dedotto sul punto ha l'unico effetto di consentire la regolarizzazione dell'eventuale omissione e rimettere l'imputato in termini" (Sez. 2, n. 45408 del 17/10/2019, Kartivadze Avtandilovich, Rv. 277775). Nel caso di specie il ricorso è stato sottoscritto dal sostituto processuale (cassazionista) del difensore di fiducia dell'imputato, sicché risulta evidente la piena conoscenza della sentenza impugnata da parte dell'imputato che si è affidato al proprio patrocinatore per criticare la decisione di cui infondatamente contesta la conoscenza.

9. È infondato il motivo sulla mancata rinnovazione dell'istruttoria in appello per procedere a perizia sulla capacità di B.I. . Nel giudizio di appello, in disparte la questione dell'ammissibilità dei motivi nuovi depositati dall'avv. Di Fede, la difesa ha chiesto di rinnovare l'istruttoria dibattimentale ex art. 220 c.p.p., per sottoporre B.H. , alias B.I. , a perizia psichiatrica allo scopo di accertare la sua capacità di intendere e di volere o eventuali menomazioni dello stato cognitivo e volitivo, sia al momento del fatto che successivamente, evidenziando che lo stesso, a causa delle sue "pessime condizioni psico fisiche" a seguito della condanna riportata in primo grado, è stato ristretto per le cure del caso presso l'O.P.G. di (omissis) e dopo alcuni mesi è stato nuovamente trasferito presso il carcere di (…). Premesso che "in tema di giudizio d'appello, l'allegazione dell'imputato in ordine alla sussistenza di un vizio totale di mente può essere legittimamente effettuata anche soltanto mediante una memoria difensiva, senza necessità che già sia stata dedotta con i motivi d'impugnazione o con i motivi nuovi, dal momento che incombe sul giudice di merito il dovere di dichiarare anche d'ufficio la mancanza di condizioni di imputabilità, in caso di evidenza della prova della totale infermità di mente" (Sez. 1, n. 11.774 del 17/02/2021, Aparo, Rv. 280863), sicché risulta errata la declaratoria di inammissibilità della richiesta avanzata con i motivi nuovi giudicati inammissibili perché estranei ai motivi principali, la Corte di merito si è comunque fatta carico di esaminare nel merito la richiesta, escludendone la fondatezza; conclusioni rispetto alle quali il ricorso è generico. La Corte di Assise d'appello non ha reputato necessario disporre perizia poiché "dalla documentazione sanitaria prodotta dalla difesa (relazione del 18.1.2018 e diario clinico) si evince che trattasi di disturbi e anomalie comportamentali manifestati dall'imputato durante il periodo di detenzione in carcere (negli anni 2017 e 2018) e; quindi, in epoca successiva alla commissione dei fatti di causa (17 agosto 2015) e che i medesimi non appaiono espressione di patologie di carattere psichico influenti sulla capacità di intendere e di volere del soggetto, ma hanno piuttosto valenza, come evidenziato dai sanitari delle strutture carcerarie, di gesti palesemente dimostrativi (gli atti autolesionistici) al fine di ottenere l'esaudimento delle proprie richieste (ad esempio, parlare con la propria famiglia) e di protesta in ragione dell'insofferenza alla restrizione della libertà per i fatti di causa". Si tratta di una motivata valutazione di merito che non è specificatamente contestata dal ricorso. 10. Al rigetto dei ricorsi consegue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.