Home
Lo studio
Risorse
Contatti
Lo studio

Decisioni

Maltrattamenti in famiglia anche se coabitazione breve (Cass. 56673/18)

17 dicembre 2018, Cassazione penale

Il reato di maltrattamenti in famiglia presuppone un carattere stabile del rapporto di convivenza tra l'imputato e vittima: rileva non tanto la concreta durata della coabitazione, che può essere anche breve, ma la progettualità di una vita in comune basata sulla reciproca assistenza e solidarietà.

Non sussiste il reato di maltrattamenti in famiglia in caso di vessazioni fisiche e morali episodiche: ma l'intervallarsi di condotte improntate a registri di normalità durante il lasso temporale considerato tra una serie e l'altra di episodi lesivi non fanno perciò venir meno l'esistenza dell'illecito.


CORTE DI CASSAZIONE

SEZ. III PENALE - SENTENZA 17 dicembre 2018, n.56673 - Pres. Cervadoro – est. Macrì

Ritenuto in fatto

Con sentenza in data 11.1.2018 la Corte di Appello di Milano ha confermato la penale responsabilità di Ma. Ar. per i reati di maltrattamenti, lesioni guaribili in 10 giorni e ripetute violenze sessuali commessi ai danni della propria convivente, già affermata dal Tribunale della stessa città, ma ha ridotto la pena a tre anni di reclusione.

Avverso il suddetto provvedimento l'imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione, articolando tre motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. cod. proc. pen..

2.1. Con il primo motivo contesta, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all'art. 572 cod. pen., la configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia che presuppone che la condotta illecita si consumi all'interno di una comunità consolidata nella quale si realizza un affidamento di natura precettiva o di accadimento con carattere di tendenziale stabilità. Sostiene che la relazione intercorrente tra l'imputato e la vittima non era nulla di più di un legame sentimentale privo tuttavia del carattere di progettualità, solidarietà ed assistenza che caratterizza la convivenza more uxorio, nel cui ambito l'assistenza ospedaliera prestata dall'uomo in occasione dell'intervento chirurgico della vittima e l'ospitalità fornitale nei giorni successivi riveste carattere meramente occasionale.

2.2. Con il secondo motivo deduce, in relazione al vizio motivazionale, che la stabilità del rapporto sentimentale tra l'imputato e la vittima era contraddetto dagli eventi descritti nella stessa sentenza, ovverosia dalla circostanza che la donna era venuta a Milano per sottoporsi ad un intervento chirurgico e non già per andare a convivere con l'imputato tanto da essere stata ivi accompagnata per l'eventuale assistenza, a dimostrazione del carattere meramente embrionale e clandestino della relazione, dalla madre e dalla figlia, la cui presenza non avrebbe avuto ragion d'essere ove avesse saputo di poter contare sull'uomo. Sostiene che, ben diversamente da quanto affermato dalla sentenza, i familiari venuti per assistere la donna avevano fatto ritorno a Palermo una volta appreso della di lei relazione clandestina con un'altra persona in costanza del rapporto matrimoniale, cui avevano così manifestato la propria contrarietà, e che l'imputato si era trovato nella contingente necessità di aiutare la donna venutasi a trovare in condizioni di abbandono morale e materiale.

2.3 Con il terzo motivo deduce, in relazione al vizio motivazionale, la mancanza di prova dell'abitualità della condotta richiesta dall'art. 572 cod. pen., ovverosia della sequenza degli atti che avrebbero causato le sofferenze fisiche e morali della vittima, alla luce del referto del 23.4.2012, unica documentazione medica acquisita che peraltro esclude la presenza di lesioni traumatiche, nonché delle dichiarazioni contenute nella stessa querela secondo cui i rapporti vaginali ed orali intrattenuti con l'imputato nell'arco della brevissima convivenza intercorsa per soli 29 giorni erano consenzienti

Considerato in diritto

1.1 primi due motivi di ricorso devono essere esaminati congiuntamente attesa l'intrinseca connessione contenendo entrambi doglianze configuranti, al di là del nomen juris della rubrica del primo motivo, doglianze di natura esclusivamente motivazionale sulla qualificazione della relazione intercorrente tra la vittima e l'imputato. Nel sostenere il carattere meramente contingente ed occasionale del suddetto rapporto, tale da escludere la configurabilità di una stabile convivenza di fatto e perciò il presupposto applicativo della fattispecie criminosa di cui all'art. 572 cod. pen., la difesa sovrappone la propria lettura alla valutazione effettuata dalla Corte distrettuale introducendo censure che, lungi dall'evidenziare incongruenze logiche o fratture motivazionali nel percorso argomentativo seguito dalla sentenza impugnata, incorrono nella sanzione di inammissibilità.

Devono, infatti, essere richiamati i consolidati e noti orientamenti di questa Corte, secondo cui il controllo sulla motivazione demandato al giudice di legittimità resta circoscritto, in ragione dell'espressa previsione normativa dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), al solo accertamento sulla congruità e coerenza dell'apparato argomentativo, con riferimento a tutti gli elementi acquisiti nel corso del processo, e non può risolversi in una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o dell'autonoma scelta di nuovi e diversi criteri di giudizio in ordine alla ricostruzione e valutazione dei fatti, riservata in via esclusiva al giudice di merito. L'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione essere limitato, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare la esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare la adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali (Cass. S.U. n. 6402/97).

I giudici milanesi evidenziano il carattere stabile del rapporto di convivenza intercorso tra l'imputato e la vittima che al di là della concreta durata della coabitazione nella casa dell'imputato, certamente breve avendo coperto un lasso temporale di appena un mese, era nella prospettiva dei soggetti coinvolti caratterizzato da una progettualità di vita comune basata sulla reciproca assistenza e solidarietà: connotazioni queste che vengono desunte con plausibilità e coerenza di argomentazioni da un duplice dato fattuale costituito dalla denuncia resa all'Ufficio dell'Anagrafe del Comune di residenza del prevenuto e dalla definitiva interruzione da parte della donna dei propri rapporti con il marito, essendosi trasferita da Palermo dove risiedeva insieme a quest'ultimo, nella casa dell'Ar. dove si è recata non appena dimessa dall'ospedale di Milano a seguito di un intervento chirurgico, nel corso della cui degenza era stata costantemente assistita dallo stesso imputato.

Le suddette emergenze processuali, con le quali il ricorso omette ogni confronto, mettono chiaramente in luce l'elemento intenzionale che, riguardato con valutazione ex ante nell'ottica dei soggetti conviventi, si pone alla base del rapporto di convivenza di fatto ritenuto dal legislatore meritevole della particolare tutela apprestata ai suoi componenti in sede penale, essendosi affermato che sono da considerare persone della famiglia, anche i componenti della famiglia di fatto, fondata sulla reciproca volontà di vivere insieme, di prestarsi reciproca assistenza e protezione, di avere beni in comune, di dare vita a un nucleo stabile e duraturo (v. ex plurimis, Sez. 6, 24.01.2007 n. 21239 , Gatto, Rv 236757; idem, 29.01.2008 n. 20647 , Rv 239726). Ed ancorché il dato temporale in termini di 'apprezzabile periodo di tempo' risulti essere stato valorizzato in alcuni arresti di questa Corte ai fini dell'inquadramento della convivenza more uxorio, non è tuttavia insita nella durata la linea di demarcazione con la mera coabitazione, nel cui ambito il ricorrente vorrebbe ricondurre la sua relazione con la vittima, risiedendo per contro il nucleo caratterizzante il rapporto familiare di fatto nella natura e nell'intensità del vincolo, che - secondo il costante e condiviso indirizzo di legittimità - ben può essere desunto, anche in assenza di una stabile convivenza fisica, dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza morale e familiare (Sez. 6, n. 22915 del 7/5/2013, 1, Rv, 255628).

A tali connotazioni elaborate dalla giurisprudenza penale ai fini della stessa configurabilità del delitto di cui all'art. 572 cod. pen. , deve aggiungersi, quale elemento ancor più pregnante, la valenza probatoria che inequivocabilmente riveste nell'attuale ordinamento la dichiarazione resa dalla coppia innanzi all'ufficiale del Comune di Bollate ai sensi della I. 20.5.2016 n.76 (contenente la regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e delle convivenze) che, sebbene costituisca una semplice variazione anagrafica, priva di qualunque formalità, costituisce il presupposto per l'accertamento della stabile convivenza come espressamente disposto dal comma 37 dell'unico articolo di cui si compone la citata novella.

La legge 76/2016, invero, nel recepire la da tempo auspicata esigenza di tutela delle relazioni di coppia al di fuori dal matrimonio, ha regolamentato da un canto le unioni civili, configurabili solo fra soggetti dello stesso sesso, e dall'altro le 'convivenze di fatto' fondate su uno stabile legame affettivo improntato alla reciproca assistenza morale e materiale tra persone, che indipendentemente dalla differenza di genere - potendosi trattare tanto di coppie etero che omosessuali -, non siano vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, né da un'unione civile o da un rapporto matrimoniale (comma 36). Il meccanismo costitutivo della convivenza quale soggetto giuridicamente rilevante - venendo ai suoi componenti riconosciuti una serie di diritti cui si accompagna l'obbligo alimentare rilevante al momento della sua cessazione - si fonda, secondo quanto disposto dal comma 37, su una dichiarazione rimessa all'iniziativa degli stessi componenti della coppia e scevra da alcun controllo formale sulla sussistenza dei requisiti di cui al comma 36, rilasciata all'Anagrafe del Comune di residenza del soggetto presso il quale si è instaurata la convivenza, che trattandosi di una variazione presuppone la coabitazione tra i due dichiaranti, ancorché non prevista tra i presupposti costitutivi della fattispecie di cui al comma 36: la conseguente certificazione anagrafica è quindi sufficiente a dimostrare, ad ogni effetto di legge, la sussistenza del rapporto di convivenza, per il riconoscimento al convivente dei diritti discendenti dalla stessa L. n. 76/2016.

Ne deriva che la funzione probatoria accordata dal legislatore alla registrazione anagrafica, così come esime da ulteriori accertamenti in ordine alla sussistenza di una convivenza di fatto, si traduce in una presunzione che inverte i poli dell'onere probatorio, spettando all'imputato che contesti la sussistenza del legame fattuale caratterizzato dalla stabilità e dalla mutua solidarietà e perciò tutelato dall'ordinamento fornire la prova contraria.

A fronte di tale risultanza documentale che rende irrilevante qualunque ulteriore indagine sulla natura dei rapporti che leghino vicendevolmente i dichiaranti, perdono automaticamente di consistenza le disquisizioni, peraltro di natura esclusivamente fattuale, svolte dalla difesa sulle ragioni che avrebbero indotto la vittima a farsi accompagnare a Milano dalla madre e dalla figlia in occasione dell'intervento chirurgico cui doveva essere sottoposta, al fine di dimostrare la natura, sin dall'inizio, precaria ed occasionale della relazione intercorrente tra lui e la p.o..

Il terzo motivo risulta generico, traducendosi nella pedissequa riproduzione delle stesse doglianze svolte con riferimento all'abitualità della condotta propria del reato di cui all'art. 572 cod. pen. nei motivi di appello, prive della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato.

La corte lombarda ha fondato infatti sulle dichiarazioni della vittima, sulla cui valutazione di attendibilità nessuna contestazione risulta essere stata spesa neppure con l'atto di appello, le conclusioni raggiunte in punto di sistematicità e reiterazione delle condotte prevaricatrici, manesche, ingiuriose e sprezzanti poste in essere dall'imputato nell'arco della sia pur breve convivenza con la donna tali da aver ingenerato in costei uno stato di profonda prostrazione tanto più in ragione della difficoltà di trovare una diversa sistemazione e di porre pertanto fine alla relazione avendo la stessa troncato i suoi rapporti con il marito, e non già sul certificato medico su cui insiste la difesa comunque attestante lesioni riportate dalla p.o.

Né la circostanza che nell'arco del periodo in contestazione si fossero succeduti rapporti sessuali consenzienti vale a conferire carattere di episodicità alle vessazioni fisiche e morali che, come accertato da entrambe le sentenze di merito, hanno caratterizzato il rapporto di convivenza attesa la natura abituale del reato di cui all'art. 572 cod. pen. che rende irrilevante l'intervallarsi di condotte improntate a registri di normalità durante il lasso temporale considerato tra una serie e l'altra di episodi lesivi, i quali non fanno perciò venir meno l'esistenza dell'illecito (Sez. 6, n. 8396 del 07/06/1996 -dep. 12/09/1996, Rv. 205563; Sez. 6, n. 15147 del 19/03/2014 - dep. 02/04/2014, P, Rv. 261831).

L'elemento rilevante a fini della configurabilità del delitto in esame è infatti il nesso di abitualità che collega tra loro gli atti vessatori, legati dall'intenzione criminosa dell'agente di ledere l'integrità fisica e morale del soggetto passivo, nesso questo che alla luce della reiterazione delle condotte lesive non viene meno per avere la vittima episodicamente intrattenuto rapporti sessuali consenzienti con l'imputato, costituenti un'esplicitazione dello stesso rapporto di convivenza all'interno della quale le azioni violente e denigratorie sono state poste in essere.

Segue all'esito del ricorso la condanna del ricorrente a norma dell'art. 616 c.p.p. al pagamento delle spese processuali e, non sussistendo elementi per ritenere che abbia proposto la presente impugnativa senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma equitativamente liquidata alla Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.