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MAE processuale condizionato alla esecuzione della pena in Italia solo se .. (Cass. 39974/21)

5 novembre 2021, Cassazione penale

Il destinatario di mandato di arresto processuale, ossia finalizzato all'esercizio della azione penale, non può invocare la garanzia, correlata al proprio radicamento sul territorio italiano, della subordinazione della consegna alla specifica condizione del rinvio del soggetto nello Stato Italiano per l'esecuzione della pena o della misura di sicurezza privativa della libertà personale, se ha la residenza da meno di 5 anni.

La legge prevede come categorie a favore delle quali va subordinata la consegna per l'espiazione della eventuale pena solo per il  «cittadino italiano» ovvero pper il «cittadino di altro Stato membro dell'Unione europea legittimamente ed effettivamente residente nel territorio italiano da almeno cinque anni».

La novellata disposizione attuale risulta più restrittiva rispetto al passato, postulando un requisito oggettivo di residenza legittima ed effettiva almeno quinquennale nel territorio italiano; è infondata una eventuale questione di legittimità costituzionale, sollevata con riferimento all'art. 18-bis, comma 2, legge 22 aprile 2005, n. 69, come modificato dall'art. 15 d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, per violazione degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., nella parte in cui esclude dal beneficio del rifiuto facoltativo della consegna i cittadini di altro Stato membro dell'Unione Europea che non abbiano maturato una permanenza sul territorio italiano di almeno cinque anni, essendosi valutato che la scelta non contrasta né con il parametro della ragionevolezza, né con il principio di eguaglianza, e neppure con la finalità di reinserimento sociale del condannato.

Anche dopo la novella del 2021, le condizioni di detenzione inumane o degradanti nello stato emittente costituiscono motivo di rifiuto del MAE, dato che vi è piena continuità normativa tra l'art. 18, comma 1, lett. h), della legge 22 aprile 2005, n. 69, abrogato dall'art. 12 del d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, ed il novellato art. 2 della predetta legge, relativamente al rifiuto della consegna, ove sussista il rischio di sottoposizione del consegnando a trattamenti inumani o degradanti.
 
 
 


Corte di Cassazione

Sent. Sez. 6 penale Num. 39974 Anno 2021
Presidente: PETRUZZELLIS ANNA
Relatore: RICCIO STEFANIA
Data Udienza: 04/11/2021 - dep. 5/11/2021


SENTENZA
Sul ricorso proposto da
MM  nata in Georgia il **(1981
avverso la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Bari il 14/09/2021 visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere Stefania Riccio;
letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Ciro Angelillis, che ha chiesto dichiararsi la inammissibilità del ricorso;

RITENUTO IN FATTO


1. Con la sentenza in premessa indicata la Corte di appello di Bari
disponeva la consegna di MM, in quanto destinataria di MAE processuale emesso dall'Autorità Giudiziaria tedesca (Tribunale Distrettuale di Reutlingen) in data 6 giugno 2021, in relazione ai reati di rapina a mano armata e lesioni, previsti dal codice tedesco.

L'arresto della ricorrente, avvenuto in pari data, era stato convalidato dal Presidente della Corte di merito, che aveva applicato nei suoi confronti la misura cautelare della custodia in carcere, tuttora in esecuzione.

2. Avverso la sentenza ricorre MM, a mezzo del difensore avv. AGV, deducendo i motivi di seguito sintetizzati.

2.1. Violazione di legge in relazione all'art. 125 cod. proc. pen. e all'art. 16 legge 22 aprile 2005, n. 69.

Il Ministro della Giustizia non ha dato seguito alla richiesta della Corte di appello barese avente ad oggetto la trasmissione di decisioni internazionali che abbiano eventualmente sanzionato lo Stato richiedente per le condizioni del trattamento penitenziario, nonché ogni ulteriore informazione relativa a tale trattamento ed alla esistenza di meccanismi di controllo sulle condizioni di detenzione. La Corte territoriale non ha potuto dunque svolgere un "opportuno controllo" sulle condizioni di trattamento penitenziario che saranno assicurate alla persona nello stato emittente; ciò in violazione della pronuncia della Corte di giustizia n. 128 del 2019.

2.2. Violazione di legge in relazione all'art. 125 cod. proc. pen. e all'art. 19, legge n. 69 del 2015.

La ricorrente invoca l'applicazione della garanzia di cui all'art. 19 della legge n. 69 del 2005, la quale subordina la consegna, nei casi di M.a.e processuale, cioè finalizzato all'azione penale, alla condizione del rinvio in Italia per l'esecuzione della pena che dovesse essere erogata.  Assume che, risiedendo ella in Italia, ed essendo titolare di contratto di lavoro (in data 22 ottobre 2021), in atti versato, è inserita "nel tessuto sociale italiano" e può considerarsi "ad ogni effetto cittadina italiana".

3. Il ricorso è stato trattato in forma cartolare, ai sensi dell'art. 23, comma dl. n. 137 del 2020, senza la comparizione delle parti.


CONSIDERATO IN DIRITTO
 
1. Il ricorso è inammissibile.

2. Quanto al primo motivo, va preliminarmente evidenziato che al mandato in scrutinio si applica ratione temporis la disciplina introdotta con d. Igs. 2 febbraio 2021, n. 10 (recante disposizioni per il compiuto adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni della decisione quadro 2002/584/GAI in tema di mandato di arresto europeo e procedure di consegna).
L'intervento di riforma ha novellato la legge 22 aprile 2005, n. 69 e, all'art. 12, ha abrogato la previsione di cui all'art. 18 lett. h), che contemplava il pericolo di trattamenti degradanti quale motivo obbligatorio di rifiuto della consegna.

L'art. 18 cit. è stato difatti interamente riformulato dalla novella e
stabilisce che, fermo quanto previsto dagli articoli 1, commi 3 e 3-ter, 2 e 7, la corte di appello rifiuta la consegna nei soli casi di reato estinto per amnistia ai sensi della legge italiana; di violazione del principio del ne bis in idem; di euromandato nei confronti di soggetto minore di anni quattordici al momento della commissione del reato.

Tuttavia, al riguardo questa Corte di legittimità ha già avuto modo di puntualizzare che, pur a fronte della formale abrogazione, il medesimo motivo di rifiuto è tuttora sussistente e ricade nell'ambito previsionale dell'art. 2, legge n. 69 cit., - cui deve riconoscersi valenza di clausola generale - lì dove stabilisce che «L'esecuzione del mandato di arresto europeo non può, in alcun caso, comportare una violazione dei principi supremi dell'ordine costituzionale dello Stato o dei diritti inalienabili della persona riconosciuti dalla Costituzione, dei diritti fondamentali e dei fondamentali principi giuridici sanciti dall'articolo 6 del trattato sull'Unione europea o dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, e dai Protocolli addizionali alla stessa».

A tali conclusioni questa Corte di legittimità è pervenuta ravvisando relazione di piena continuità normativa tra l'art. 18, comma 1, lett. h), della legge 22 aprile 2005, n. 69, abrogato dall'art. 12 del d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, ed il novellato art. 2 della predetta legge, relativamente al rifiuto della consegna, ove sussista il rischio di sottoposizione del consegnando a trattamenti inumani o degradanti ( in termini Sez. 6, n. 14220 del 14/04/2021, Zlotea Rv. 280878 - 03).

Tanto premesso, perché si attivi la garanzia è tuttavia necessario che il paventato pericolo non sia meramente supposto o ipotetico.

Già l'art. 18, lett. h), richiedeva espressamente che il pericolo di
trattamenti lesivi della dignità umana si connotasse come "serio" e tale opzione interpretativa è stata confermata nel vigore della nuova disciplina, essendosi ritenuto, da questa Corte, che il ricorrente abbia quantomeno un onere di puntuale allegazione, essendo la corte di appello tenuta ad acquisire informazioni in ordine al trattamento che sarà riservato al consegnando qualora questi abbia allegato elementi oggettivi, precisi ed aggiornati in merito alle condizioni di detenzione vigenti nello Stato richiedente (Sez. 6, n. 10822 del 16/03/2021, Istrate, Rv. 280852, con riferimento a fattispecie in cui, a seguito della sentenza della Corte EDU del 25 aprile 2017, ric. Rezmives e dell'adozione, da parte dello Stato emittente, di un piano di azione per la rimozione delle rilevate criticità in tema di condizioni carcerarie, il Comitato dei Ministri aveva esaminato le modifiche poste in essere, dando atto dei consistenti progressi che, tuttavia, non avevano condotto alla risoluzione definitiva dei problemi strutturali; sicché la Corte, avendo ritenuto la sussistenza di un "serio pericolo" di trattamenti inumani o degradanti, aveva affermato la necessità di acquisire informazioni aggiornate ).

Di contro, nulla al proposito è stato indicato in ricorso, non avendo la difesa operato alcuno specifico riferimento alle condizioni degli istituti di pena della Repubblica Federale Tedesca.

La doglianza prospettata riguarda la sola mancata acquisizione di
documenti ufficiali o comunque affidabili tali da consentire alla Corte un opportuno controllo; informazioni che si ritiene dalla difesa sia necessario acquisire per una finalità che appare essere puramente esplorativa.

3. Il secondo motivo è parimenti inammissibile.

La ricorrente, destinataria di mandato di arresto processuale, ossia finalizzato all'esercizio della azione penale, invoca la garanzia, correlata al proprio radicamento sul territorio italiano, della subordinazione della consegna alla specifica condizione del rinvio del soggetto nello Stato Italiano per l'esecuzione della pena o della misura di sicurezza privativa della libertà personale, richiamando la disposizione di cui alla lett. b) del riformulato art. 19 della legge n. 69 del 2005.

Tale norma recita che «se il mandato di arresto europeo è stato emesso ai fini di un'azione penale nei confronti di cittadino italiano o di cittadino di altro Stato membro dell'Unione europea legittimamente ed effettivamente residente nel territorio italiano da almeno cinque anni, l'esecuzione del mandato è subordinata alla condizione che la persona, dopo essere stata sottoposta al processo, sia rinviata nello Stato italiano per scontarvi la pena o la misura di sicurezza privative della libertà' personale eventualmente applicate nei suoi confronti nello Stato membro di emissione».

Di tale garanzia non sussistono, all'evidenza, i presupposti di applicabilità nel caso al vaglio.

Ed invero, la disciplina introdotta risulta del tutto simmetrica, quanto ai presupposti soggettivi, a quella inserita nell'art. 18-bis, comma 2, con riguardo all'ipotesi del mandato di arresto europeo esecutivo (essendosi posto rimedio ad una disarmonia legislativa, prima esistente, che non aveva ragion d'essere).

L'attuale versione dell'art. 19 cit. individua dunque le categorie soggettive a favore delle quali va subordinata la consegna, indicandole nel «cittadino italiano» ovvero nel «cittadino di altro Stato membro dell'Unione europea legittimamente ed effettivamente residente nel territorio italiano da almeno cinque anni».

Dunque, è solo in presenza di tali presupposti soggettivi ed oggettivi che l'esecuzione del mandato cosiddetto processuale è subordinata, laddove la previgente versione della norma (contenuta nell'art. 19, comma 1, lett. c), legge cit.) si rivolgeva genericamente, in conformità alla corrispondente previsione della decisione quadro 2002/584/GAI, al «cittadino o residente dello Stato italiano».

Pensata nell'ottica di implementare la cooperazione, al tempo stesso scongiurando la possibilità di procedimenti in absentia, la disposizione attuale risulta decisamente più restrittiva rispetto al passato, postulando un requisito oggettivo di residenza legittima ed effettiva almeno quinquennale nel territorio italiano.

Sul punto, questa Corte ha già ritenuto manifestamente infondata la prospettata questione di legittimità costituzionale, sollevata con riferimento all'art. 18-bis, comma 2, legge 22 aprile 2005, n. 69, come modificato dall'art. 15 d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, per violazione degli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., nella parte in cui esclude dal beneficio del rifiuto facoltativo della consegna i cittadini di altro Stato membro dell'Unione Europea che non abbiano maturato una permanenza sul territorio italiano di almeno cinque anni, essendosi valutato che la scelta non contrasta né con il parametro della ragionevolezza, né con il principio di eguaglianza, e neppure con la finalità di reinserimento sociale del condannato (Sez. 6, n. 18124 del 06/05/2021, Hathazi, Rv. 281271).

Ciò sul presupposto che la Corte di giustizia dell'Unione europea (con sentenza 6 ottobre 2009, Wolzenburg, C-123/08 ) ha da tempo ritenuto conforme all'art. 4, n. 6, della decisione quadro l'analoga normativa vigente nell'ordinamento dei Paesi Bassi.

Muovendo dalla premessa che la ratio di tale disposizione sia quella di «accrescere le opportunità di reinserimento sociale della persona ricercata, una volta scontata la pena» e che gli Stati membri devono inoltre rispettare l'art. 12, par. 1, del Trattato CE (ora art. 18 TFUE), che vieta «ogni discriminazione» in base alla nazionalità, secondo la Corte di Lussemburgo è compatibile con tali disposizioni una normativa nazionale sulla cui base l'autorità giudiziaria competente, da un lato, rifiuta di eseguire un m.a.e. in executivis nei riguardi di un suo cittadino, e, dall'altro, subordina il rifiuto, quando si tratta del cittadino di un altro Stato membro titolare di un diritto di soggiorno (art. 18, par. 1, TCE, ora trasposto nell'art. 21 TFUE), alla condizione che quest'ultimo abbia legalmente soggiornato in via continuativa per cinque anni nello Stato membro di esecuzione.

Si è ritenuto in definitiva legittimo che gli Stati nazionali perseguano la finalità del reinserimento sociale soltanto nei confronti delle persone che abbiano dimostrato «un sicuro grado» di inserimento pregresso.

Ora, nella specie, la ricorrente è cittadina Georgiana, dunque appartenente ad un paese terzo rispetto all'Unione; ed assume di risiedere a Bari, ove ha documentato di svolgere attività lavorativa producendo la dichiarazione di rapporto di lavoro domestico, da soli due anni.

Né vi è modo di ritenere, in presenza di requisiti normativi definiti e stringenti, che il collegamento con il territorio italiano che la stessa ha potuto diostrare ne assimili ad ogni effetto la posizione a quella di un cittadino italiano, come argomentato dalla difesa.

4. Alla declaratoria di inammissibilità consegue la condanna della ricorrente al pagamento della somma che si indica nel dispositivo in favore della Cassa delle Ammende.


5. Alla cancelleria sono demandati gli adempimenti di cui all'art. 22, comma 5, legge n. 69 del 2005.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle  spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa della  ammende.

Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 22, comma 5, legge n.
69 del 2005.
Così deciso il 04/11/2021