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L'invasione arbitraria di immobile e l'attenuante del particolare valore sociale

26 marzo 2012, Nicola Canestrini

La sentenza in commento offre numerosi spunti di riflessione: il giurista potrà apprezzarne i passi relativi al ruolo del Giudice penale nell'accertamento della verità processuale (il noto problema dei limiti dell'applicazione dell'articolo 507 c.p.p. in un sistema “accusatorio”), sull’elemento oggettivo della fattispecie prevista e punita dall’art. 633 c.p., sul principio di offensività ed il suo rapporto con la cd. tenuità del fatto ex art. 34 D.lgs. 274/200, nonché sull’attenuante di cui all’art. 62, n. 1 c.p.

Innanzitutto i fatti accertati in sentenza: nel primo pomeriggio di sabato 15 giugno 2002 uno stabile di proprietà privata, inutilizzato da molti anni, veniva occupato da un numero non meglio identificato di soggetti mediante la forzatura di lucchetti e di lamiere anti-intrusione con uso di mole a disco; nel prosieguo, detto stabile è stato gestito ed utilizzato fino alla data dello sgombero quale spazio di incontro giovanile e di confronto politico aperto alla cittadinanza da parte dei "Disobbedienti", che previa riqualificazione dello stabile (che venne ritinteggiato, ripulito, arredato) promuovevano numerosi iniziative pubbliche (concerti, convegni, dibattiti, ecc.). Dei 28 imputati 27 venivano assolti "per non aver commesso il fatto", uno - il loro presunto portavoce durante l’occupazione - assolto dal reato di cui all’art. 635 c.p. per tenuità del fatto ex art. 34 d.lgs. 274/2000, ma condannato ad € 400 di multa per il solo reato di cui all’art. 633 c.p., previo riconoscimento in prevalenza rispetto alla contestata aggravate, delle attenuanti di cui all’art. 62bis e 62, n. 1  c.p. 

  1. 633 c.p.: reato permanente o reato istantaneo ad effetti permanenti? Punibilità della mera condotta di ?occupazione? 

Il nucleo centrale della sentenza è certamente costituito dalla qualificazione del reato di "invasione di terreni o edifici", che punisce la condotta di £chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto" (art. 633 c.p.). 

A fronte della impostazione che vedeva detto reato quale reato di natura permanente, rendendo così rilevante e dunque punibile la condotta di occupazione anche successiva a quella dell’invasione, si opponeva la qualificazione di reato istantaneo ad effetti permanenti, escludendo dunque la rilevanza penale delle condotte successive all’invasione quale postfacta non punibili. 

Infatti, nel quadro della disposizione dell'art. 12/1 delle preleggi, che valorizza il criterio esegetico delle significazione dell'espressione normativa alla stregua della sua portata semantica e secondo l'uso linguistico generale, la locuzione "invasione" deve innanzitutto essere distinta, sul piano linguistico, da quello dell’"occupazione": chi invade non necessariamente occupa (condotta solamente eventuale che infatti concreta il dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice). 

Al di là di tale argomentazione linguistica (di per sè assai stringente, pare), sul piano sistematico - giuridico, detta invasione è assimilabile (come sostenuto da molti) alla successiva occupazione? 

Anche in questo caso, ed in aderenza a quanto sostenuto da parte della giurisprudenza di legittimità (Cassazione penale, 22 febbraio 2000 n. 1044 Sez. II), la risposta negativa si impone, dato che l’equiparazione dell’ "ingresso arbitrario" con quello di "permanenza non consentita" sarebbe in contrasto anche con la voluntas legis: il legislatore ha voluto tenere distinte le due condotte, e quando ha voluto caratterizzare come fatto penalmente rilevante la permanenza arbitraria all'interno di un luogo, lo ha fatto con una previsione espressa (cfr. art. 614, 2 cpv. c.p.; ubi lex vouit); ma anche perchè, diversamente ragionando, si finirebbe con il violare il principio di determinatezza delle fattispecie, recependo il meccanismo della vietata analogia in malam partem e trasgredendo, di conseguenza, il principio di stretta legalità cui è notoriamente soggetta la interpretazione della legge penale. 

La sentenza in commento, che accoglie la interpretazione difensiva testè esposta, così motiva: 

"Quanto all’invasione - da non interpretarsi secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità nel suo significato etimologico di forza soverchiante bensì solo come accesso/penetrazione arbitraria nell’edificio o nel terreno altrui ai fini indicati nella medesima norma purché non risoltasi in una permanenza del tutto momentanea - non vi è dubbio che essa si sia pienamente integrata con l’introduzione dei giovani nell’edificio altrui, che richiese l’impiego di strumenti di effrazione e si protrasse significativamente nel tempo (?)

Premesso quanto sopra, appare evidente come questo Tribunale debba verificare il solo punto relativo all’accertamento della partecipazione degli attuali imputati alla prima fase della condotta accertata dagli UPG e consistita nell’invasione arbitraria dell’edificio finalizzata ad occuparlo o a trarne altrimenti profitto. Detta sola condotta - connessa a quella di danneggiamento ad essa strumentale - è infatti tale da integrare il reato di cui all’art. 633 CP. La fase successiva dell’occupazione infatti, facente parte dell’elemento soggettivo del reato ed in particolare del dolo specifico che lo caratterizza, pur costituendo condotta censurabile in sede civile (ed anche in astratto in sede penale ai sensi dell’art. 614 C.P. per la permanenza "invito domino", non integrata tuttavia nel caso di specie non trattandosi di immobile all’epoca adibito a fini abitativi) non rileva ai fini dell’integrazione dell’elemento oggettivo del medesimo reato sub art. 633 CP, che va riferita al momento dell’arbitraria invasione finalizzata all’occupazione/ al profitto.

Il reato pertanto non ricorre laddove si sia in presenza di una mera occupazione da parte di chi sia acceduto allo stabile senza porre in essere né dare alcun apporto concausale alla propedeutica azione invasiva: con la conseguenza che nessuna rilevanza penale ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 633 CP può rivestire la condotta di coloro che solo successivamente siano stati sorpresi ad occupare/utilizzare l’edificio già in precedenza invaso non potendo da detta occupazione/utilizzazione dedursi ? se non in modo flebilmente indiziario e ben lungi dal rivestire quei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 192, 2° co. CPP per la formazione della prova in sede penale ? la partecipazione al fatto/reato antecedentemente commesso.

Se è vero che il reato ?de quo? è da qualificarsi a carattere istantaneo allorché l’attività criminosa si esaurisca in un unico contesto senza protrarsi nel tempo in forma di effettiva occupazione, assumendo i caratteri di permanenza allorché la situazione illecita realizzata volontariamente perduri fino all’abbandono dell’immobile (Cass. Pen. 30 ? 6 ? 1987; Cass. Pen. 1988, 1858) è comunque indubitabile che anche nel secondo caso ai fini dell’integrazione della fattispecie criminosa tipica a carico di un determinato soggetto occorre pur sempre l’acquisizione di prova certa della sua partecipazione alla prima fase della condotta contrassegnata dall’arbitraria invasione accompagnata dal dolo specifico richiesto dalla legge. Sul punto la giurisprudenza della SC, che qui pienamente si condivide in quanto aderente al dato normativo, è assolutamente consolidata (cfr. ex plurimis Cass. Sez. II 22 febbraio 2000 n. 1044 che rimarca come il legislatore abbia voluto mantenere distinte le due condotte dell’invasione e della successiva permanenza ?arbitraria?, quest?ultima tra l’altro prevista dalla specifica ed ulteriore previsione normativa di cui all’art. 614 CP).? 

Ne discende, nell’iter argomentativo del Giudice, che pure ritiene provata la commissione del reato, la non punibilità degli occupanti - rei confessi - avendo declinato per solidarietà le loro generalità alla locale D.I.G.O.S. - per i quali non sia anche stata raggiunta la prova di partecipazione alla (precedente) invasione. 

  1. Necessaria offensività delle condotte: art. 49 c.p. e art. 34 d.lgs. 274/2000

Uno degli argomenti difensivi verteva sulla circostanza che l’immobile occupato fosse da molti anni inutilizzato ed in avanzato stato di degrado, facendo venir meno lo stesso interesse giuridicamente protetto dei proprietari.

Infatti, a fondamento del nostro sistema penale si pone una concezione dell’illecito penale che contrappone una antigiuridicità formale, risultante dal rapporto tra il fatto concreto e lo schema normativo astratto, ad una antigiuridicità materiale, secondo cui si rende necessario che il fatto conforme al tipo descrittivo sia altresì idoneo a ledere l’interesse a tutela del quale è stata posta la norma incriminatrice (cd. princpio di offensività o di necessaria lesività). 
Il dato normativo che consentirebbe di dare rilievo penale a questa differenza è rappresentato dall’art. 49, co.2, c.p., il quale esclude la punibilità del c.d. reato impossibile, che si ha quando ?per la inidoneità dell’azione ?.. è impossibile l’evento dannoso o pericoloso?. 

Secondo una diffusa giurisprudenza, la previsione della fattispecie in parola svolge l’autonoma funzione di codificare il principio di offensività, anche se soltanto come canone ermeneutico (Grasso, Mantovani, Vannini, Gallo, Siniscalco, Fiorella, Neppi Modena, Bricola, Vassalli; per la giurisprudenza: Cass. Pen. 28/10/77, 15/05/89). 

Non si può escludere infatti la rilevanza di possibili disfunzioni tra atto conforme al tipo e offesa all’interesse tutelato. L’ipotesi di illecito codificata, infatti, non può essere in grado di scontare tutte le varianti del caso concreto, le quali possono rendere i singoli elementi nel contesto della fattispecie concretamente inoffensivi. Cosicché perché si realizzi la fattispecie di reato è necessario, non solo che la condotta dell’agente sia conforme al comportamento tipizzato dalla norma penale, e quindi antigiuridica, ma deve necessariamente realizzarsi anche l’effettiva lesione del bene protetto. Nel caso in cui il fatto non sia capace di offendere il bene tutelato dalla norma, esso dovrà considerarsi solo in apparenza conforme al tipo di reato: in realtà tale conformità manca (Pagliaro e Fiore). 

Nei delitti contro il patrimonio, necessariamente ancorati ad un?offesa patrimoniale dotata di un minimo di significatività, le offese senza valore o di valore minimale non possono essere considerate rilevanti sul terreno della lesione del bene protetto. Ne consegue che, nel caso esaminato, in cui gli imputati avrebbero invaso un edificio da lungo tempo inutilizzato, non sarebbe possibile sostenere l’esistenza della lesione del bene giuridico del patrimonio protetto dall’art. 633 c.p.. 

Del resto, secondo la Relazione sul progetto del vigente codice penale, il delitto previsto dall'art. 633 aveva tratto la sua origine dalla previsione dettata dall'art. 9 del d.l. 22 aprile 1920, n. 515, la quale stabiliva: "Chiunque, anche senza violenza, o senza rimuovere o alterare i termini e per trarne profitto sia pure temporaneo, si immette arbitrariamente nel possesso di terreni e di fabbricati rustici di altrui proprietà, pubblica o privata, ovvero, essendone in tal modo entrato in possesso, rifiuta di abbandonare gli immobili stessi, è punito con la pena stabilita nella prima parte dell'art. 422" del codice penale del 1889, il quale prevedeva per il delitto di rimozione o alterazione di termini la pena della reclusione sino a trenta mesi e quella della multa. Tale figura criminosa - sottolineava la Relazione - non era stata presa in considerazione dal codice del 1889, "sembrando che non potesse rivestire quel carattere di gravità, che segna il criterio di distinzione fra la tutela penale e la tutela civile, in materia di attentati alla proprietà immobiliare?. ?Senonché - soggiungeva la Relazione - dopo la prima guerra mondiale, il fenomeno della occupazione delle terre e degli edifici, conseguenza della crisi sociale sopravvenuta, con riverberi notevoli anche nel campo agricolo ed edilizio, assunse tale importanza e gravità da suggerire al legislatore di punire l'invasione di terreni o di edifici con la legge speciale sopra citata?. ?Dato il carattere della disposizione - puntualizzò ancora la Relazione - che, in sostanza, colpisce una forma di usurpazione non violenta, è ovvio - si disse - che essa debba essere stralciata dalla legge speciale ed inserita nel codice penale" (v. Relazione ministeriale sul progetto del codice penale, II, p. 454).

Come osservato anche da attenta giurisprudenza di legittimità (Cassazione, 24 gennaio 2003 n. 6492 Sez. II, di seguito riportata quasi testualmente), l'immissione arbitraria in possesso, menzionata dal d.l. n. 515 del 1920, e l'usurpazione, evocata nella Relazione sul progetto del codice vigente (non a caso, d'altra parte, l'art. 422 del codice del 1889, richiamato quoad poenam, dall'art. 9 del citato decreto, era inserito nel Capo VI del Titolo X del Libro II, intitolato, appunto, "Della usurpazione"), appaiono, dunque, i limiti "contenutistici" che, secondo la "tradizione" della fattispecie, debbono qualificare la condotta invasiva, essendo del tutto evidente, anche alla luce della disposizione finitima e residuale, dettata dall'art. 634 cod. pen., che non ogni turbativa del possesso può integrare il concetto di invasione, ma soltanto quella che realizzi un apprezzabile depauperamento delle facoltà di godimento del terreno o dell'edificio da parte del titolare dello ius excludendi, secondo quella che è la destinazione economico sociale del bene o quella specifica ad essa impressa dal dominus. Se da un lato, quindi, e ad onta della segnalata occasio storica che diede origine alla previsione, è senz'altro vero - come la giurisprudenza ha da sempre affermato - che l'espressione "invasione" non è termine assunto nel senso etimologico e comune, che richiama il concetto di violenza fisica o di forza soverchiante per numero di persone, ma nel senso tecnico di accesso o penetrazione arbitraria nel fondo altrui per immettersi in possesso o trarne un qualunque profitto (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. II, 11 maggio 1976, Oliva), non può peraltro negarsi come la qualificazione normativa della condotta in termini così "pregnanti", necessariamente evochi un quid pluris rispetto al semplice ingresso arbitrario, denotando una turbativa riconducibile ad una sorta di "spoglio funzionale", idoneo a comprimere, in tutto o in parte, le facoltà di godimento o la destinazione del bene. 
Insomma: integrerebbe il reato di invasione di terreni soltanto la turbativa del possesso che realizzi un apprezzabile depauperamento della facoltà di godimento del terreno o dell'edificio da parte del titolare dello "ius excludendi", secondo quella che è la destinazione economico-sociale del bene o quella specifica ad essa impressa dal "dominus". 

Infatti, se la norma mira ad impedire condotte "usurpative" che abbiano ad oggetto terreni o edifici, la tipologia della condotta, per essere sussumibile nella fattispecie, dovrà necessariamente presentare connotazioni di rimarchevole lesività, restando altrimenti al di fuori dell'area descritta dal fatto normativamente tipizzato. Solo in tale prospettiva, d'altra parte, potrà ritenersi assunto, nel quadro normativo di riferimento, un oggetto giuridico suscettibile di tutela penale, alla stregua dei valori costituzionalmente preservati, e nell'alveo di un ponderato bilanciamento tra gli stessi. La giurisprudenza costituzionale è infatti costante nell'affermare il principio secondo il quale l'offensività in astratto deve essere intesa come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore in materia diprevisione delle fattispecie penalmente rilevanti, e che l'art. 25 Cost. postula un ininterrotto operare del principio di offensività, dal momento della astratta predisposizione della norma incriminatrice a quello della sua applicazione concreta da parte del giudice, cui soltanto compete di impedire, attraverso un prudente apprezzamento della lesività in concreto, una arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale (v, fra le tante, Corte cost. sentenze n. 360 del 1995, n. 247 del 1997, n. 263 del 2000; a proposito della verifica sulla lesività in concreto, v., da ultimo, le sentenze nn. 519 e 531 del 2000). 

La sentenza qui in commento disattende invero la prospettazione difensiva, statuendo come 

"non rileva a tali fini il fatto che l’edificio all’epoca dei fatti fosse di-sabitato ed inutilizzato: si trattava infatti comunque di bene di rilevante valore economico (B. G. ne riferisce in Euro 600/700.000,00 Euro il valore di esproprio!) e che, in quanto occupato dai manifestanti, non avrebbe evidentemente avuto sul mercato la stessa valutazione in caso di vendita né avrebbe potuto essere ceduto a terzi in locazione, facoltà queste ultime di pertinenza esclusiva dei proprietari;? e ?La tesi difensiva secondo la quale, trattandosi di immobile inutilizzato, non ne sussisterebbe addirittura l’arbitrarietà dell’invasione non può pertanto essere qui accolta in considerazione del rilevante valore di esso ed il suo stato di non ? abbandono, reso manifesto dalle protezioni avverso le intrusioni di terzi estranei consistite nell’apposizione di lucchetti e lamiere installativi dai proprietari che del resto nemmeno oggi hanno inteso rimettere la querela per la lesione sofferta dei loro diritti ribadendo di avere installato detti presidi proprio al fine di evitare che l’immobile fosse utilizzato da estranei: non può quindi certamente assimilarsi tale situazione a quella, relativa a casistica del tutto diversa, invocata dalle difese e rilevabile dalla giurisprudenza da queste prodotta (es le ?casermette abbandonate? sulla spiaggia di proprietà della Marina Militare cita-te nella prodotta sentenza della Pretura di La Spezia 22 marzo 1996, Foro It. 1997, II, 572; o l’ ?occupazione? di un fondo contestata in riferimento all’avere lasciato in situ un escavatore; correttamente esclusa per totale assenza di offensività da Cass. Sez. II n. 6650 del 5 maggio 1999).

Per contro, lo stesso Giudice riconosce che per l’altro reato contestato, il danneggiamento aggravato ex art. 635 c.p., per l’unico imputato condannato sia esclusa la procedibilità con conseguente statuizione di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 34 d.lgs. 274/2000, cioè una di quelle norme che considerano penalmente rilevante solo quei fatti tipici capaci di ledere in concreto il bene giuridico protetto (cfr. anche art. 27 D.P.R. 448/88 per il processo penale a carico di imputati minorenni). 

Nello stesso ragionamento concernente la antigiuridicità materiale trova spazio - seppure ai fini di una attenuazione della responsabilità ? anche l’attenuante di cui all’art. 62, n1 c.p. 

Segue: sull’attenuante di cui all'art. 62, n.1 c.p.

Senza pretesa di completezza, la dottrina ritiene che la circostanza de quo necessiti, ai fini di una compiuta integrazione, di due elementi, uno di carattere soggettivo e l’altro di carattere oggettivo. 

Il primo, di carattere soggettivo, consiste nell’intenzione dell’agente di rimuovere col suo comportamento una situazione di fatto ritenuta immorale o antisociale (Padovani, codice penale, sub art. 62, Giuffrè, Milano, 1998, p. 340; Cassazione penale, sezione I 5 ottobre 1990,in Cass. Pen., 1992, 617; cfr. anche Caringella-Garofali, Studi diritto penale, II, Giuffrè, 2003, 887 ss.). Il secondo elemento, di carattere oggettivo, richiede invece che il motivo sia riconosciuto dalla generalità dei consociati come conforme ai costumi morali e sociali di quel determinato periodo (Caringella, ibidem). 

La denominazione generica dell’attenuante in parola abbraccia il valore morale del motivo, cioè quello che sarebbe meritevole di particolare approvazione secondo la coscienza etica umana (l’amore per il prossimo, l’amore materno, il pacifismo?.) ed il valore sociale, cioè quel motivo che sia apprezzato positivamente dalla comunità di riferimento nel momento storico corrente (movimenti ecologici, antinucleari etc.). 

Superando la predominanza restrittiva fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità, che richiede che l’azione del reo deve corrispondere a finalità che ricevono ?l’incondizionata approvazione della società in cui chi agisce tiene la condotta criminosa? (Cass. Pen. 22 gennaio 1991, Seghetti) tale da essere sostanzialmente abrogatrice, nel riconoscimento della attenuante del particolare valore morale e sociale che ha determinato la commissione dell’illecito, il giudice riconosce detta attenuante in capo al condannato: 

?D.B. [l’unico condannato; n.d.r.] agì infatti ? come risulta dall’intera istruttoria svolta e dalle spontanee dichiarazioni rese da B.S. e T.P. appartenenti al suo stesso movimento politico ? ispirato da finalità di particolare valore sociale in quanto trascendenti i bisogni egoistici del singolo, quali quelle di sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni trentine circa la necessità di destinare spazi adeguati al dibattito culturale e politico ed all’esperienza autogestionale dei giovani; avendo adottato peraltro, a tali fini, modalità tali da produrre il minimo danno/i minimi disordini possibili sia in ambito pubblico che privato (ciò in relazione: allo stato di mancato utilizzo dello stabile prescelto; al minimale danno apportato alle strutture per entrarvi; al mantenimento dell’ordine sia durante l’invasione ? e qui si ritorna all’apporto personale e specifico dell’imputato ex art. 110 CP ? sia durante la successiva e pacifica occupazione autogestita dell’immobile).? 

Il Giudicante nel riconoscere l’attenuante ha dunque ha saputo tenere separate la valutazione del motivo dall’azione (cfr. in dottrina, Fiandaca-Musco), e ciò diversamente dalla quasi totalità dei casi giurisprudenziali noti allo scrivente. I precedenti esaminati sovrappongono infatti sistematicamente movente ed azione, e - dato che si tratta comunque di una azione illecita ? tale sovrapposizione comporta sempre una illiceità del motivo, con esclusione sistematica della attenuante in parola. 

Nel caso in specie, la meritevolezza del motivo ? riconosciuta sussistente ?in quanto trascendenti i bisogni egoistici del singolo? ? attenua, e non esclude la responsabilità: rimane ? ad avviso del Giudice ? sussistente la antigiuridicità dell’azione (id est: l’invasione), la quale potrà essere dichiarata non offensiva solo se non lesiva, in concreto, del bene giuridico protetto dalla norma (e si è argomentato supra come l’inoffensività dell’azione sia stata esclusa dal giudice procedente). 

Anche sotto questo aspetto la sentenza in commento si pone come interessante elaborazione del rapporto fra attenuante in parola ed il principio di offensività, dato anche dalla circostanza che la attenuante costituisce una delle poche aperture del nostro sistema penale verso criteri di valutazione sostanziale dell’antigiuridicità, pur se al limitato fine di attenuazione di responsabilità. 

 

Incidentalmente: sul ruolo del Giudice nel sistema accusatorio

Si è detto come l’assoluzione per 27 imputati dei 28 imputati sia motivata dall’impossibilità di identificare gli autori della invasione dell’immobile. 

Infatti, ?insormontabili difficoltà a parere di questo Tribunale insorgono all’interno del presente giudizio quanto all’identificazione degli autori di essi; difficoltà che nemmeno la citazione d?ufficio avvenuta ai sensi dell’art. 507 CPP della dott. O. della Questura di Trento [dirigente D.I.G.O.S., n.d.r.] ha consentito di superare e verosimilmente sottovalutate dapprima dalle forze dell’ordine e successivamente dalla Procura della Repubblica che ne ha fatti propri gli accertamenti e le conclusioni. (?) né la lacuna può ora essere colmata attraverso i poteri di cui all’art. 507 CPP pena la trasformazione di questo Tribunale in organo inquirente volto alla ricerca ed alla ricostruzione di prove di accusa non formatesi nella fase delle indagini preliminari a ciò specificamente dedicata?. 

Il Giudicante, discostandosi dall’indirizzo dominante riafferma - in ossequio al modello accusatorio recepito dal nuovo codice di procedura penale - il principio secondo il quale iudex iudicare debet secundum probata partium, senza tentazioni inquisitorie che rischierebbero di snaturare il già compromesso sistema adottato nel 1989 (su ciò cfr. diffusamente, "Sostanziale o processuale: quale verità? Così è (se vi pare) l'obiettivo del giudizio. Articolo 507 cpp snodo cruciale nel confronto sul rito accusatorio", in Diritto e Giustizia, 15, 16 aprile 2005, Giuffré, 77ss.).

Conclusioni

La sentenza in commento, che pure offre il fianco a qualche perplessità laddove ad esempio estende ex art. 110 c.p. la responsabilità penale per i reati materialmente commessi da altri al loro portavoce politico (si pensi a tale criterio adottato, ad esempio, ai sindaci della Val di Susa), spicca per il suo apprezzabile sforzo interpretativo, la completezza delle motivazioni, l’equidistanza dai ragionamenti di parte, costituendo il miglio antidoto contro eventuali-  ed oggi assai concrete -tentazioni monopolizzanti da parte del potere politico. 

L’indipendenza della magistratura sarà tanto più difendibile quanto più le sentenze scritte dai magistrati medesimi avranno possibilità di vivere di forza propria, data dalla logica e dal ragionamento giuridico, a scapito dallo "spirito popolare" di facile deriva populista.