Home
Lo studio
Risorse
Contatti
Lo studio

Decisioni

Difesa dell'imputato è di interesse pubblico (Corte costituzionale, 97/70)

16 giugno 1970, Corte Costituzionale

La difesa dell'imputato, con o senza retribuzione, è di interesse pubblico, in quanto attiene alla validità del giudizio che, alla sua volta, è di azione e di interesse pubblici.

L'art. 24 della Costituzione al secondo comma sancisce che la difesa è diritto inviolabile del cittadino in ogni stato e grado di procedimento. L'esercizio di tale diritto e, poi, praticamente imposto dalla normativa vigente in materia processuale. 

Agli effetti della legge penale, gli avvocati sono considerati persone esercenti un servizio di pubblica necessità (art. 359, n. 1, c.p.).


 Corte Costituzionale

udienza 04/06/1970 - sentenza 16-06-1970, n. 97

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nei giudizi riuniti di legittimità costituzionale dell'art. 18 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3282, primo e secondo comma, contenente la legge sul gratuito patrocinio, degli artt. 128 e 130 del codice di procedura penale e degli artt. 4 e 5 delle relative disposizioni di attuazione, promossi con le seguenti ordinanze:

1) ordinanza emessa il 17 aprile 1968 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Zangrilli Giuseppe, iscritta al n. l76 del registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 248 del 28 settembre 1968;

2) ordinanza emessa il 12 agosto 1968 dal giudice istruttore del Tribunale di Vercelli nel procedimento penale a carico di Burgio Vittorio, iscritta al n. 224 del registro ordinanze 1968 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 305 del 30 novembre 1968;

3) ordinanza emessa il 10 dicembre 1968 dal pretore di Roma nel procedimento penale a carico di Carrus Anna, iscritta al n. 55 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 78 del 26 marzo 1969;

4) ordinanza emessa il 12 aprile 1969 dal giudice istruttore del Tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di Fiaschini Angelo e Sanna Giuseppe, iscritta al n. 354 del registro ordinanze 1969 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 269 del 22 ottobre 1969.

Visti gli atti di costituzione dell'avv. MC e d'intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nell'udienza pubblica del 5 maggio 1970 il Giudice relatore Angelo De Marco;

uditi l'avv. Maurizio Catti ed il sostituto avvocato generale dello Stato Franco Casamassima, per il Presidente del Consiglio dei Ministri.

Svolgimento del processo - Motivi della decisione


l. I giudizi come sopra promossi vanno riuniti per essere decisi con unica sentenza, dato che hanno per oggetto la stessa questione di legittimità costituzionale degli istituti della difesa d'ufficio e del gratuito patrocinio, anche se prospettata sotto profili in parte diversi.

2. È opportuno premettere che la questione di legittimità costituzionale degli artt. 128, comma secondo, e 131 del codice di procedura penale (in connessione col gratuito patrocinio), in riferimento agli artt. 24, comma terzo, e 35, comma primo, della Costituzione, è già stata esaminata e dichiarata non fondata da questa Corte con sentenza n. 114 del 1964.

È necessario poi richiamare i principi di massima affermati con tale sentenza.

Da tutte le ordinanze di rinvio in esame, infatti, risulta chiaramente che i giudici, che le hanno estese, di quella sentenza avevano piena conoscenza ed ora prospettano la questione sotto profili che solo apparentemente sono diversi.

In primo luogo la Corte, per negare il contrasto delle norme impugnate con l'art. 24 della Costituzione, ha affermato che l'istituto del gratuito patrocinio, anche nell'attuale disciplina, ed il complesso delle norme vigenti, comunque dirette ad assicurare la difesa dei non abbienti, debbono considerarsi compresi nell'espressione "appositi istituti" adoperata dal Costituente nell'articolo suddetto.

Ha, poi, negato il contrasto con l'art. 35 della Costituzione, affermando che la tutela del lavoro in tutte le sue forme, enunciata in detto articolo, non esclude che, in forza dell'art. 23 della Costituzione stessa, possano, con legge, essere imposte ai liberi professionisti prestazioni gratuite, purché non siano tali da trasformare lo status del libero professionista nello status di soggetto prevalentemente tenuto alla prestazione di un servizio obbligatorio non remunerato o comunque da impedire che l'esercizio della libera professione possa essere sufficiente ad assicurare la soddisfazione delle esigenze economiche e morali del professionista.

La Corte, infine, ha rilevato che ben diversa questione è quella della completa adeguatezza dell'attuale disciplina al fine perseguito dalla Costituzione, ma, al riguardo, ha affermato il principio che la insufficienza o scarsa efficienza di una norma di legge, rispetto agli scopi voluti dalla Costituzione, non può condurre a riconoscerla senz'altro contraria alla Costituzione, col risultato di far venir meno il poco già attuato.

Principio quest'ultimo riaffermato nella sentenza n. 1 del 1969 nei seguenti termini: "Una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale che si fondasse sulla sola parziarietà della disciplina, richiederebbe intanto di condurre ad un regresso della situazione normativa, aprendo un vuoto, che non sarebbe colmabile in sede di interpretazione".

Questi richiami bastano a respingere molte argomentazioni delle ordinanze di rinvio e tutte quelle avanzate dal pretore di Roma con l'ordinanza del 17 aprile 1968 e dal pretore di Milano con l'ordinanza 19 aprile 1969.

3. Il giudice istruttore presso il Tribunale di Vercelli, con ordinanza 18 agosto 1968, affermato che la difesa d'ufficio si risolve in una mera formalità priva di contenuto concreto, con la quale non può ritenersi assicurata neppure una parvenza di vera e propria difesa, invoca l'art. 18 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3282 (che approva la legge sul gratuito patrocinio), in forza del quale per ottenere l'ammissione al gratuito patrocinio (da parte delle apposite commissioni) occorre far domanda in carta bollata, con la quale bisogna dimostrare anche il cosiddetto "fumus boni iuris".

Di qui, secondo il giudice "a quo", la necessità anche per il non abbiente, prima ancora di essere ammesso a quel beneficio, di procurarsi il danaro necessario per la carta bollata e per retribuire un legale che estenda la domanda nei dovuti termini, con la conseguente violazione del principio di eguaglianza non solo tra abbienti e non abbienti, ma anche fra chi riesca e chi invece non riesca a procurarsi neppure quel poco danaro, il quale perciò non può esercitare il diritto di difesa garantito dall'art. 24 della Costituzione; tanto più che, senza ammissione al gratuito patrocinio, anche il difensore d'ufficio deve essere retribuito (art. 4 disp. att. c.p.p.).

Giunge, cosi, a denunziare, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la illegittimità dell'art. 18 del R.D. 30 dicembre 1923, n. 3282, primo e secondo comma, ed, in conseguenza, dell'art. 128 del codice di procedura penale, primo e secondo comma, e dell'art. 4 del R.D. 28 maggio 1931, n. 602.

Per quanto attiene alla efficienza della difesa d'ufficio basta ricordare che anche questa Corte con la più volte richiamata sentenza n. 114 del 1964 non ha mancato di auspicare una opportuna riforma legislativa, aggiungendo, come si è posto sopra in rilievo, che questo auspicio non significa che la normativa esistente, per quanto inadeguata, si debba, per ciò solo, dichiarare costituzionalmente illegittima.

Per quanto attiene, poi, al merito della questione, come è stata prospettata a questa Corte, si rileva:

Come esattamente eccepisce l'Avvocatura generale dello Stato, a differenza di quanto afferma il giudice "a quo", a norma dell'art. 15, ultimo comma, del R.D. n. 3282 del 1923, in materia penale per essere ammessi al gratuito patrocinio basta provare lo stato di povertà (a norma del terzo comma dello stesso articolo i relativi certificati debbono essere rilasciati in carta libera) e l'ammissione è fatta dal presidente della magistratura innanzi alla quale deve trattarsi la causa o dal presidente della Corte d'Assise.

Cadono, cosi, tutte le argomentazioni che, partendo dal falso presupposto dell'applicabilità alla specie dell'art. 18 dello stesso R.D., il giudice "a quo" trae dall'obbligo della presentazione di domanda in carta bollata e della conseguente necessità di assistenza di un legale per la compilazione della domanda stessa.

Risultano, pertanto, insussistenti le violazioni dei principi sanciti dagli artt. 3 e 24 della Costituzione, comma secondo e terzo, che, sulla base di quelle argomentazioni, il giudice "a quo" ha ritenuto di dover denunziare a questa Corte.

4. Il pretore di Roma, con l'ordinanza 10 dicembre 1968, prende le mosse proprio dalla sentenza n. 114 del 1964 di questa Corte. Infatti, egli premette che questa Corte, con tale sentenza, "dichiarando infondata l'analoga questione relativa al gratuito patrocinio, riconduceva questo alle prestazioni obbligatorie previste dall'art. 23 della Costituzione, avvertendo, peraltro, che in caso di prestazioni imposte ai liberi professionisti la presenza di vari presupposti valeva a legittimarla" e fra questi indicava in particolare:

"a) ragioni di interesse generale,

b) condizioni di imposizioni tali, che la prestazione del servizio non trasformasse la libera professione in modo da annullare le soddisfazioni delle esigenze economiche e morali del soggetto".

Dopodiché il pretore rileva che:

a) mentre la Costituzione garantisce la difesa gratuita dei non abbienti, nulla dice per gli abbienti, cosicché non sembra legittimo, proprio in relazione all'art. 23 della Costituzione ed alle finalità di pubblico interesse che esso presuppone, imporre all'avvocato di assumere il rischio patrimoniale di non essere retribuito, che giova soltanto al prevenuto;

b) la difesa d'ufficio si e, in concreto, trasformata in una finzione tale da abbattere moralmente lo stesso avvocato che, per i suoi impegni, non può materialmente svolgere con la debita serietà il compito affidatogli senza vedersi ridurre e, quindi, annullare quelle soddisfazioni economiche che l'incarico di fiducia, al contrario, gli conferisce.

In base a questi rilievi il pretore ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 128 del codice di procedura penalee degli artt. 4 e 5 delle relative norme di attuazione, in riferimento agli artt. 23 e 36 della Costituzione.

Precisati così i termini della questione, si rileva:

L'art. 24 della Costituzione al secondo comma sancisce che la difesa è diritto inviolabile del cittadino in ogni stato e grado di procedimento. L'esercizio di tale diritto e, poi, praticamente imposto dalla normativa vigente in materia processuale. Nel giudizio penale l'imputato deve, a pena di nullità, essere assistito dal difensore (art. 125 c.p.p.) e in base alla più recente giurisprudenza di questa Corte tale obbligo deve essere esteso anche al periodo istruttorio. In materia civile davanti al pretore le parti, di regola, non possono stare in giudizio se non con il ministero di un difensore; salvo i casi in cui la legge dispone altrimenti, davanti ai tribunali e alle Corti d'appello le parti debbono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente e davanti la Corte di Cassazione col Ministero di un avvocato iscritto in apposito albo (art. 82 c.p.p.).

Davanti a questa Corte e davanti al Consiglio di Stato ed alla Corte dei Conti è pure obbligatorio il patrocinio di un avvocato iscritto nell'apposito albo delle magistrature superiori. Ecco perché gli esercenti le professioni forensi, in quanto dell'opera di essi il pubblico sia per legge obbligato a valersi, agli effetti della legge penale, sono considerati persone esercenti un servizio di pubblica necessità (art. 359, n. 1, c.p.).

E, poi, molto significativo in relazione alla questione in esame che il secondo comma dello stesso art. 359 del codice penale considera persone esercenti un servizio di pubblica necessità anche i privati che, non esercitando una pubblica funzione né prestando un pubblico servizio, adempiono un servizio dichiarato di pubblica necessità mediante un atto della pubblica Amministrazione, essendo evidente il riferimento alla materia ora soggetta all'osservanza del precetto di cui all'art. 23 della Costituzione.

Ma in materia penale vi è di più: poiché l'imputato deve essere assistito dal difensore a pena di nullità del giudizio, interessa tutta la collettività che quella nullità non si verifichi e perciò il difensore d'ufficio deve essere nominato anche all'imputato abbiente che per qualsiasi ragione ne sia rimasto privo o, addirittura, non intenda nominarne uno di fiducia.

Appunto in considerazione di quanto precede, questa Corte non solo con la più volte citata decisione del 1964, n. 114, argomentando dall'art. 23 della Costituzione, ha escluso l'illegittimità dell'imposizione agli avvocati dell'obbligo di difesa gratuita dei non abbienti; ma, con la decisione n. 23 del 1968, per il carattere di pubblico interesse, data la funzione di essenziale collaborazione con gli organi della giurisdizione riconosciuto alla professione forense, ha ritenuto legittima la corresponsione obbligatoria di predeterminati contributi alla Cassa nazionale di previdenza e di assistenza degli avvocati e procuratori, anche da parte di soggetti diversi dagli esercenti tali professioni ed indipendentemente da tale qualità.

Ciò posto, il sostenere che l'imposizione dell'obbligo della difesa d'ufficio nel giudizio penale anche di persone eventualmente abbienti (che, quindi, in base all'art. 4 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale sono tenute a corrispondere l'onorario al difensore) esuli dalla previsione dell'art. 23 della Costituzione perché "impone all'avvocato di assumere il rischio patrimoniale di non essere retribuito" è veramente eccessivo: infatti, come sopra si è posto in rilievo, la difesa dell'imputato, con o senza retribuzione, è di interesse pubblico, in quanto attiene alla validità del giudizio che, alla sua volta, è di azione e di interesse pubblici; perciò la si può imporre.

Sul punto, poi, che una seria ed effettiva difesa di ufficio impegnerebbe talmente da annullare la possibilità dell'esercizio della professione libera, si è pronunciata questa Corte - sempre con la sentenza n. 114 del 1964 - osservando: "Ma nel caso in esame non v'è dubbio che la previsione, contenuta nella legge, di una saltuaria prestazione obbligatoria, eventualmente gratuita, non contrasta con l'indicata norma costituzionale (art. 23) né col sistema di principi che da essa si ricava".

Né l'ordinanza di rinvio contiene argomenti tali da potere indurre questa Corte a mutare opinione.

Dimostrato, cosi, che non può ravvisarsi alcuna violazione dell'art . 23 della Costituzione , in base ai principi sopra richiamati, viene meno anche la prospettata violazione dell'art. 36.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 128 e 130 del codice di procedura penale, degli artt. 4 e 5 del R.D. 28 maggio 1931, n. 602, contenente "Disposizioni per l'attuazione del codice di procedura penale", e dell'art. 18 del RD. 30 dicembre 1923, n. 3282: "Approvazione del testo di legge sul gratuito patrocinio", sollevata con le ordinanze in epigrafe in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 23, 24, 35 e 36 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 giugno l970.