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Omesso versamento IVA, sempre reato (Cass. 7644/19)

20 febbraio 2019, Cassazione penale

L'elemento soggettivo del reato di omesso versamento di IVA, previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, è il dolo generico, configurabile anche nella forma del dolo eventuale, integrato dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, a nulla rilevando i motivi della scelta dell'agente di non versare il tributo e l'inadempimento della obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all'imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico.

Il sostituto d'imposta che incassi l'IVA ha l'obbligo di tenerla accantonata per versarla all'Erario alle scadenze di legge e, in ogni caso, di organizzare le risorse finanziarie della propria impresa per poter adempiere all'obbligazione entro il termine penalmente sanzionato. 

Risponde del reato di omesso versamento di IVA previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, quanto meno a titolo di dolo eventuale, il soggetto che, subentrando ad altri nella carica di amministratore o liquidatore di una società di capitali dopo la presentazione della dichiarazione di imposta e prima della scadenza del versamento, omette di versare all'Erario le somme dovute sulla base della dichiarazione medesima, senza compiere il previo controllo di natura puramente contabile sugli ultimi adempimenti fiscali, in quanto attraverso tale condotta lo stesso si espone volontariamente a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze.

Il sostituto d'imposta che incassi l'IVA ha l'obbligo di tenerla accantonata per versarla all'Erario alle scadenze di legge e, in ogni caso, di organizzare le risorse finanziarie della propria impresa per poter adempiere all'obbligazione entro il termine penalmente sanzionato. Laddove così non faccia, l'imprenditore si rappresenta evidentemente la probabilità che, per il normale rischio connesso all'esercizio dell'impresa, al momento della scadenza non vi siano nelle casse della società somme sufficienti ad onorare il debito fiscale ma, ciò non di meno, ne accetta il rischio, pur di conseguire il proprio obiettivo, che, in sostanza, è il finanziamento dell'attività d'impresa con l'IVA a debito già riscossa, piuttosto che il reperimento di fondi nel circuito bancario con sopportazione dei relativi oneri.

In tema di reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, è legittimo disporre la confisca per equivalente, ancorchè non preceduta dal sequestro preventivo, del profitto del reato - corrispondente all'ammontare delle imposte o delle ritenute non versate al fisco - sul patrimonio dell'amministratore, nei casi in cui nulla risulti acquisito ovvero emergano indicazioni contrarie circa la disponibilità di beni in capo alla persona giuridica

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

(ud. 12/12/2018) 20-02-2019, n. 7644

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ANDREAZZA Gastone - Presidente -

Dott. CERRONI Claudio - Consigliere -

Dott. GENTILI Andrea - Consigliere -

Dott. SEMERARO Luca - Consigliere -

Dott. REYNAUD Gianni F. - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

P.P., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 23/04/2018 della Corte di appello di Milano;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Gianni Reynaud;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Molino Pietro, che ha concluso chiedendo dichiararsi l'inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo


1. Con sentenza del 23 aprile 2018, la Corte d'appello di Milano, decidendo il gravame proposto da P.P., ha confermato la sentenza con cui il medesimo, quale amministratore di una società cooperativa, è stato ritenuto responsabile del reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10-ter per aver omesso il versamento dell'IVA per 275.191,00 Euro in relazione all'anno d'imposta 2013.

2. Avverso la sentenza di appello, ha proposto ricorso il difensore dell'imputato, deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.

3. Con il primo motivo vengono dedotti i vizi di cui all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) per violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter e art. 42 c.p. e inesistenza, insufficienza e manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla mancata esclusione del dolo.

In particolare, si lamenta che le sentenze di merito - quella di primo grado in quanto richiamata da quella d'appello - avrebbero erroneamente considerato, escludendola, soltanto l'esimente oggettiva della forza maggiore, laddove la censura contenuta nel gravame si incentrava invece sull'esclusione dell'elemento soggettivo del reato per inesigibilità della condotta. La difesa aveva allegato la non imputabilità al ricorrente della crisi di liquidità in cui versava la società cooperativa allorquando, il 31 dicembre 2013, egli ne divenne amministratore e l'impossibilità per il medesimo di fronteggiarla altrimenti, tanto che nel mese di maggio 2014, non essendo stato rinnovato dalla committenza il principale contratto, che garantiva l'80% del fatturato, egli fu costretto a mettere la cooperativa in liquidazione. Non essendo praticabile il ricorso al credito e tenendo conto della scarsa liquidità - dovuta anche ad inadempimenti dell'ex committente - il ricorrente utilizzò le risorse disponibili per pagare i debiti tributari maturati nel 2014 e per versare ai soci lavoratori e ai dipendenti lo stipendio ed i relativi contributi. L'affermazione della sentenza impugnata secondo cui tale condotta proverebbe un'impossibilità soltanto relativa, e non assoluta, di adempiere all'obbligazione tributaria sarebbe manifestamente illogica posto che tra le possibili cause di giustificazione dovrebbe considerarsi anche la necessità di salvare l'impresa dal fallimento.

4. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 12-bis e vizio di motivazione per non essere stata revocata la confisca per equivalente del profitto del reato disposta in primo grado sui beni del ricorrente, senza che fosse stata provata l'impossibilità di eseguire la confisca diretta del profitto sul patrimonio della società cooperativa. Non essendo stato disposto alcun sequestro preventivo in corso di procedimento, l'adozione del provvedimento ablativo nei confronti del ricorrente avrebbe richiesto una sia pur minima indagine sulla attuale situazione economica della cooperativa ed una adeguata motivazione circa l'insufficienza del patrimonio che nella specie sono invece mancate.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo ricorso è inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.

Il ricorrente, di fatti, si limita a riproporre le argomentazioni difensive rassegnate dapprima al giudice di primo grado - e da questi ampiamente esaminate e motivatamente disattese - e poi riproposte in sede di gravame, del pari ritenuto infondato dalla Corte d'appello con argomentazioni non illogiche e giuridicamente corrette, che si integrano con quelle rese dalla conforme sentenza del tribunale. La genericità del ricorso, del resto, è causa di inammissibilità che ricorre non solo quando i motivi risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, Sammarco, Rv. 255568).

In particolare, i motivi del ricorso per cassazione - che non possono risolversi nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito - si devono considerare non specifici, ma soltanto apparenti, quando omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e aa., Rv. 243838), sicchè è inammissibile il ricorso per cassazione quando manchi l'indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'atto d'impugnazione, atteso che quest'ultimo non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato (Sez. 2, n. 11951 del 29/01/2014, Lavorato, Rv. 259425).

2. In diritto, va preliminarmente richiamato il consolidato orientamento secondo cui l'elemento soggettivo del reato di omesso versamento di IVA, previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, è il dolo generico (Sez. 3, n. 3098 del 05/11/2015, dep. 2016, Vanni, Rv. 265939), configurabile anche nella forma del dolo eventuale (Sez. 3, n. 34927 del 24/06/2015, Alfieri, Rv. 264882), integrato dalla condotta omissiva posta in essere nella consapevolezza della sua illiceità, a nulla rilevando i motivi della scelta dell'agente di non versare il tributo (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, dep. 2015, Schirosi, Rv. 263127) e l'inadempimento della obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all'imprenditore che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez. 3, n. 8352/2015 del 24/06/2014, Schirosi, Rv. 263128).

Diversamente da quanto rileva il ricorrente, la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione di tali principi e non si è soffermata esclusivamente sull'assenza della causa di non punibilità della forza maggiore, avendo invece motivatamente accertato - come già fatto dal Tribunale - la sussistenza del dolo.

In particolare, il giudice di primo grado - richiamando la motivazione di una pronuncia emessa da questa Corte nella sua più autorevole composizione (S.U., n. 37424 del 28/03/2013, Romano) - ha correttamente affermato che il sostituto d'imposta che incassi l'IVA ha l'obbligo di tenerla accantonata per versarla all'Erario alle scadenze di legge e, in ogni caso, di organizzare le risorse finanziarie della propria impresa per poter adempiere all'obbligazione entro il termine penalmente sanzionato. Laddove così non faccia, l'imprenditore si rappresenta evidentemente la probabilità che, per il normale rischio connesso all'esercizio dell'impresa, al momento della scadenza non vi siano nelle casse della società somme sufficienti ad onorare il debito fiscale ma, ciò non di meno, ne accetta il rischio, pur di conseguire il proprio obiettivo, che, in sostanza, è il finanziamento dell'attività d'impresa con l'IVA a debito già riscossa, piuttosto che il reperimento di fondi nel circuito bancario con sopportazione dei relativi oneri.

Dal canto suo, la Corte territoriale ha esattamente richiamato il principio secondo cui risponde del reato di omesso versamento di IVA previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, quanto meno a titolo di dolo eventuale, il soggetto che, subentrando ad altri nella carica di amministratore o liquidatore di una società di capitali dopo la presentazione della dichiarazione di imposta e prima della scadenza del versamento, omette di versare all'Erario le somme dovute sulla base della dichiarazione medesima, senza compiere il previo controllo di natura puramente contabile sugli ultimi adempimenti fiscali, in quanto attraverso tale condotta lo stesso si espone volontariamente a tutte le conseguenze che possono derivare da pregresse inadempienze (Sez. 3, n. 34927 del 24/06/2015, Alfieri, Rv. 264882; Sez. 3, n. 38687 del 04/06/2014, Decataldo, Rv. 260390). Questo principio vale anche nel caso in cui - come nella specie - il subentro nella carica gestoria avvenga prima della presentazione della dichiarazione annuale d'imposta, se la situazione degli inadempimenti fiscali era comunque agevolmente verificabile, circostanza indiscutibile posto che quando l'imputato divenne amministratore, il 31 dicembre 2013, il debito erariale maturato nell'anno (in larga parte non versato alle scadenze previste) era completamente maturato.

Trattandosi dell'accettazione del rischio di un evento specifico, non direttamente voluto sebbene rappresentato, e non già di una generica situazione pericolosa in cui l'evento potrebbe essere il possibile risultato della condotta nella previsione che esso non si verificherà, il comportamento dell'imputato che ha preceduto la commissione del reato istantaneo di omesso versamento dell'imposta dovuta alla scadenza è sorretto - come hanno giustamente ritenuto i giudici di merito - da un elemento psicologico riconducibile al dolo, sia pur nella forma c.d. eventuale.

In una situazione come quella descritta dalla sentenza impugnata e da quella di primo grado, e sostanzialmente ammessa dallo stesso ricorrente - vale a dire di crisi economica e finanziaria dell'impresa e di comunicazione del pressochè unico committente, sin dal marzo 2014, che non avrebbe rinnovato il contratto alla scadenza del successivo 31 maggio - situazione che aveva indotto l'imputato a porre la società in liquidazione già nel maggio 2014, non vale invocare l'inesigibilità della condotta sul rilievo per cui "l'imprenditore in crisi si trova nella condizione di dover scegliere se destinare la scarsa liquidità di cui dispone alla retribuzione dei dipendenti ed alla soddisfazione dei fornitori o all'adempimento dei debiti tributari con la consapevolezza che, seguendo la seconda opzione, l'impresa potrebbe essere travolta per sempre dall'insolvenza mentre, nel primo caso, una volta superato il periodo di difficoltà, essa potrebbe riprendere forza e provvedere all'estinzione dei debiti tributari" (foglio 10 del ricorso).

Poichè, in una situazione come quella descritta, la messa in liquidazione di una società oramai priva di commesse avrebbe ragionevolmente portato alla cessazione dell'attività, non è manifestamente illogica l'osservazione dei giudici di merito secondo cui l'imputato, nell'aver scelto di destinare la liquidità incamerata nei primi mesi del 2014 e poi nella fase liquidatoria ad onorare debiti diversi da quelli nei confronti dell'Erario, pagando sempre i dipendenti e riducendo fortemente i debiti verso fornitori e banche (questi ultimi pressochè azzerati, osserva la sentenza impugnata), senza invece ridurre il debito IVA maturato nel 2013 (posto che di esso nulla venne al proposito pagato dopo l'ottobre di quell'anno), ha deliberatamente scelto di indirizzare altrimenti la liquidità disponibile. Il giudice di primo grado aveva peraltro accertato che tutte le fatture per i servizi resi nel 2013 erano state pagate, così come quelle dei primi mesi del 2014, essendo il mancato incasso del principale committente circoscritto al solo mese di aprile 2014, e che la liquidità presente nella casse della società al 31 dicembre 2013 (oltre 52.000 Euro) era ampiamente sufficiente a ridurre il debito IVA di quell'anno quantomeno al di sotto della soglia di punibilità. La consapevole scelta dell'imputato di non versare alcunchè di quel debito IVA è dunque stata correttamente ritenuta dai giudici di primo e secondo grado come espressione di una condotta dolosa piuttosto che colposa e la valutazione è conforme all'orientamento, sia pur espresso in ambito completamente diverso, secondo cui il dolo eventuale ricorre quando l'agente si sia chiaramente rappresentata la significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto e ciò nonostante, dopo aver considerato il fine perseguito e l'eventuale prezzo da pagare, si sia determinato ad agire comunque, anche a costo di causare l'evento lesivo, aderendo ad esso, per il caso in cui si verifichi (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn e aa., Rv. 261104).

3. Anche il secondo motivo è inammissibile per genericità e manifesta infondatezza.

Diversamente da quanto si allega in ricorso, la sentenza impugnata attesta l'impossibilità di rinvenire il profitto diretto del reato fiscale nel patrimonio dell'ente sul logico rilievo che, a seguito della messa in liquidazione della società, dal bilancio del 2014 emergeva una liquidità irrisoria (soli 265 Euro) e che non erano stati dedotti elementi che facessero ritenere ragionevolmente presumibile che nel periodo successivo la cooperativa avesse ritrovato capienza patrimoniale e liquidità.

Su tale ultimo aspetto il ricorrente nulla dice - sicchè il ricorso è sul punto generico - mentre la motivazione è corretta e rispettosa del principio secondo cui, in tema di reati tributari commessi dal legale rappresentante di una persona giuridica, è legittimo disporre la confisca per equivalente, ancorchè non preceduta dal sequestro preventivo, del profitto del reato - corrispondente all'ammontare delle imposte o delle ritenute non versate al fisco - sul patrimonio dell'amministratore, nei casi in cui nulla risulti acquisito ovvero emergano indicazioni contrarie circa la disponibilità di beni in capo alla persona giuridica (Sez. 5, n. 31450 del 20/01/2017, Lanza, Rv. 272111).

4. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, tenuto conto della sentenza Corte cost. 13 giugno 2000, n. 186 e rilevato che nella presente fattispecie non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., oltre all'onere del pagamento delle spese del procedimento anche quello del versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma equitativamente fissata in Euro 2.000,00.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 12 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2019