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Inutilizzabilità mai a sfavore della difesa (Cass. 17694/18)

19 aprile 2018, Cassazione penale

L'inutilizzabilità, come sanzione di carattere generale, presuppone la presenza di una prova "vietata" per la sua intrinseca illegittimità oggettiva, ovvero per effetto del procedimento acquisitivo la cui manifesta illegittimità lo pone completamente al di fuori del sistema processuale.

L'istituto della "inutilizzabilità", disciplinato dall'art. 191 c.p.p., è essenzialmente posto a garanzia delle posizioni difensive e colpisce le prove illegittimamente acquisite contro divieti di legge, quindi in danno del giudicabile, ovvero come prove a carico.

Ne consegue che l'istituto non può essere applicato per ignorare elementi di giudizio astrattamente favorevoli alla difesa che, invece, pur quando l'atto che li contenga risulti affetto da inutilizzabilità, devono essere considerati e, quindi, "utilizzati", secondo i canoni logico razionali propri della funzione giurisdizionale

Chi riceva od acquisti un assegno bancario al di fuori delle regole che ne disciplinano la circolazione è necessariamente consapevole della sua provenienza illecita.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Sez. II, Sent., (ud. 17/01/2018) 19-04-2018, n. 17694

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIOTALLEVI Giovanni - Presidente -

Dott. MESSINI D'AGOSTINI Pietro - Consigliere -

Dott. BORSELLINO Maria D. - Consigliere -

Dott. FILIPPINI Stefano - Consigliere -

Dott. BELTRANI S. - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Z.G. NATO IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 3555/2011 CORTE APPELLO di TORINO;

del 15/12/2016;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 17/01/2018 la relazione fatta dal Consigliere Dott. BELTRANI SERGIO;

Udito il Procuratore Generale in persona del dott. CARDIA Delia, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso;

preso atto che nessuno e presente per il ricorrente, e rilevante la regolarità degli avvisi di rito.

Svolgimento del processo

Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Torino ha confermato, limitatamente all'affermazione di responsabilità, la sentenza emessa in data 8 ottobre 2010 dal Tribunale della stessa città, che aveva dichiarato l'imputato Z.G., in atti generalizzato, colpevole della ricettazione di moduli di assegni di provenienza delittuosa, accertata nel febbraio 2008, condannandolo alla pena ritenuta di giustizia, che la Corte d'appello ha ridotto per effetto dell'esclusione della in precedenza configurata continuazione c.d. "interna".

Contro tale provvedimento, l'imputato (con l'ausilio di un difensore iscritto nell'albo speciale della Corte di cassazione) ha proposto ricorso per cassazione, deducendo i seguenti motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1:

1 - inosservanza di norme processuali, quanto alla ritenuta inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall'imputato in data 13.5.2008;

2/3 - inosservanza dell'art. 648 c.p., per quanto concerne la ritenuta sussistenza dell'elemento soggettivo del reato contestato, con carenza e contraddittorietà della motivazione per quanto concerne la conclusiva affermazione di responsabilità;

4 - violazione dell'art. 62 c.p., comma 1, n. 4.

All'odierna udienza pubblica, è stata verificata la regolarità degli avvisi di rito; all'esito, la parte presente ha concluso come da epigrafe, ed il collegio, riunito in camera di consiglio, ha deciso come da dispositivo in atti, pubblicato mediante lettura in udienza.

Motivi della decisione

Il ricorso è, nel suo complesso, infondato.

1. I primi tre motivi, riguardanti - sotto profili diversi - la conclusiva affermazione di responsabilità, sono, nel complesso, infondati.

1.1. La Corte d'appello (f. 6 della sentenza impugnata), preso atto che la tesi difensiva dell'asserita buona fede dell'imputato quanto alla provenienza delittuosa degli assegni che si assumevano ricetti si fondava sul contenuto delle sommarie informazioni dallo stesso rese alla P.G. in data 13.5.2008 in qualità di persona informata sui fatti, ha osservato che le predette dichiarazioni erano affette da inutilizzabilità c.d. patologica, poichè rese da soggetto che avrebbe dovuto essere sentito come persona indagata, con le relative garanzie difensive) quindi, come già ritenuto dal primo giudice, esse non erano valutabili, neppure - in ipotesi in favore dell'imputato.

1.2. Tale affermazione, pur ineccepibile quanto allo status del dichiarante, è tuttavia errata quanto alle conseguenze che da quest'ultimo si è inteso trarre, trascurando di considerare la funzione della sanzione dell'inutilizzabilità.

1.2.1. A coronamento di un lungo e travagliato percorso culturale e normativo, scaturito in epoca risalente da una sentenza della Corte costituzionale (sentenza 6 aprile 1973, n. 34), che per prima aveva ammonito in ordine al rischio che i principi costituzionali di riferimento potessero risultare gravemente compromessi, se "a carico dell'interessato potevano valere, come indizi o prove, attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino", il nuovo codice di procedura penale, attraverso la previsione, nell'art. 191, della sanzione della "inutilizzabilità" delle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge, ha inteso attuare una più efficace tutela giurisdizionale della prova nel processo penale, a tal fine predisponendo un'articolata disciplina normativa che quell'ambita finalità consentisse di realizzare.

La Relazione al progetto preliminare del nuovo codice espressamente precisa, in argomento, che la sanzione dell'inutilizzabilità colmava una "lacuna del precedente ordinamento processuale", in relazione a tutti i "divieti probatori" che, se fossero stati ancora affidati soltanto alla tutela sanzionatoria assicurata dalle nullità, avrebbero continuato a fruire delle possibili sanatorie, con la conseguenza che il giudice poteva assumere e motivare la sua decisione utilizzando "prove vietate", sia pure soltanto nei casi in cui nessuna tempestiva ed appropriata iniziativa processuale fosse stata assunta dalle parti ai fini dell'accertamento e della declaratoria di nullità della prova, illegittimamente formata, acquisita ed utilizzata.

Pur operando entrambe nell'area della patologia della prova, le categorie della nullità e della inutilizzabilità risultano, infatti, distinte ed autonome, perchè correlate a diversi presupposti (Sez. U, sentenza n. 5021 del 27/03/1996, Sala, Rv. 204644):

- la nullità attiene sempre e soltanto all'inosservanza di alcune formalità di assunzione della prova, vizio che non pone il procedimento formativo o acquisitivo completamente al di fuori del parametro normativo di riferimento, ma questo non rispetta in alcuni dei suoi peculiari presupposti;

- ('inutilizzabilità, come sanzione di carattere generale, presuppone la presenza di una prova "vietata" per la sua intrinseca illegittimità oggettiva, ovvero per effetto del procedimento acquisitivo la cui manifesta illegittimità lo pone completamente al di fuori del sistema processuale.

Come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, l'istituto della "inutilizzabilità", disciplinato dall'art. 191 c.p.p., è essenzialmente posto a garanzia delle posizioni difensive e colpisce le prove illegittimamente acquisite contro divieti di legge, quindi in danno del giudicabile, ovvero come prove a carico.

Ne consegue che l'istituto non può essere applicato per ignorare elementi di giudizio astrattamente favorevoli alla difesa che, invece, pur quando l'atto che li contenga risulti affetto da inutilizzabilità, devono essere considerati e, quindi, "utilizzati", secondo i canoni logico razionali propri della funzione giurisdizionale (Sez. I, sentenza n. 11027 del 26 novembre 1996, Usai, Rv. 207332: applicazione relativa all'ipotesi di inutilizzabilità prevista dall'art. 195 c.p.p., comma 1; Sez. V, sentenza n. 32465 del 25 giugno 2001, Graziano, Rv. 219705: applicazione relativa a dichiarazioni del curatore fallimentare riguardanti fatti appresi dall'imputato, acquisite in asserita - e peraltro insussistente violazione del divieto di cui all'art. 62 c.p.p.; Sez. III, sentenza n. 19496 del 24 settembre 2015, dep. 2016, Carambia ed altri, Rv. 266782: applicazione relativa all'acquisizione di corrispondenza epistolare intrattenuta dal detenuto, ritenuta oggettivamente inutilizzabile perchè intercettata, a sua insaputa, ai sensi degli artt. 266 e ss. c.p.p.).

1.2.2. L'assunto dei giudici del merito è, pertanto, in diritto errato, e va emendato.

1.3. L'errore non ha, peraltro, decisivamente condizionato la decisione impugnata, poichè la Corte d'appello, sia pur con motivazione dichiaratamente aggiunta ad abundantiam, ma comunque, in concreto, prendendo atto delle censure difensive, ha di fatto esaminato le dichiarazioni delle quali si discuteva, ritenendone, con argomentazioni esaurienti, logiche, e come tali incensurabili in questa sede, l'assoluta inverosimiglianza (l'imputato ha sostenuto di aver costituito una società di fatto con un soggetto - dal quale avrebbe ricevuto gli assegni in contestazione - del quale, tranne il nome - M. - non conosceva praticamente nulla, e non è stato in grado di fornire valide indicazioni, utili ad individuarlo, avendo asserito che i contatti con il proprio socio avvenivano in strada), e concludendo, altrettanto incensurabilmente, nel senso che lo Z. non aveva in alcun modo giustificato l'accertata disponibilità degli assegni di provenienza delittuosa de quibus.

1.4. Ne consegue che il ricorrente non si confronta adeguatamente con la motivazione della Corte di appello (che ripropone legittimamente le considerazioni del primo giudice, condivise perchè suffragate dagli elementi acquisiti, valorizzando a fondamento dell'affermazione di responsabilità l'accertata, e non convincentemente giustificata, disponibilità dei titoli di provenienza delittuosa in oggetto, all'evidenza acquisita fuori dai canali ordinari e legittimi di circolazione), che si è correttamente conformata - anche quanto alla qualificazione giuridica del fatto accertato - al consolidato orientamento di questa Corte (per tutte, Sez. 2, n. 29198 del 25 maggio 2010, Fontanella, rv. 248265), per il quale, ai fini della configurabilità del reato di ricettazione, la prova dell'elemento soggettivo può essere raggiunta anche sulla base dell'omessa o non attendibile indicazione della provenienza della cosa ricevuta, la quale è sicuramente rivelatrice della volontà di occultamento, logicamente spiegabile con un acquisto in mala fede; d'altro canto, ricorre il dolo di ricettazione nella forma eventuale quando l'agente ha consapevolmente accettato il rischio che la cosa acquistata o ricevuta fosse di illecita provenienza, non limitandosi ad una semplice mancanza di diligenza nel verificare la provenienza della cosa, che invece connota l'ipotesi contravvenzionale dell'acquisto di cose di sospetta provenienza (Sez. 2, n. 45256 del 22 novembre 2007, Lapertosa, rv. 238515).

Non si richiede all'imputato di provare la provenienza del possesso delle cose, ma soltanto di fornire una attendibile spiegazione ò dell'origine del possesso delle cose medesime, assolvendo non ad onere probatorio, bensì ad un onere di allegazione di elementi, che potrebbero costituire l'indicazione di un tema di prova per le parti e per i poteri officiosi del giudice, e che comunque possano essere valutati da parte del giudice di merito secondo i comuni principi del libero convincimento (in tal senso, Cass. pen., Sez. un., sentenza n. 35535 del 12 luglio - 26 settembre 2007, CED Cass. n. 236914).

Peraltro, chi riceva od acquisti un assegno bancario al di fuori delle regole che ne disciplinano la circolazione è necessariamente consapevole della sua provenienza illecita (Sez. II, n. 22120 del 7 febbraio 2013, Mercuri, rv. 255929): nel caso di specie, i titoli de quibus, dati in pagamento di un premio assicurativo (di ammontare pari ad euro 1.182,50) e di un acquario (per un ammontare pari ad euro 250), erano di importo certamente non trascurabile, il che non lascia ritenere possibile che essi siano stati accettati e/o negoziati con disinteresse e superficialità.

2. Manifestamente infondato è, infine, il quarto motivo, con il quale il ricorrente si duole del diniego dell'invocata attenuante comune, secondo la Corte di appello preclusa dall'essere già stata valorizzata la presunta tenuità del danno arrecato alle pp.oo. a fondamento della qualificazione dei fatti ex art. 648 c.p., comma 2, che tuttavia, secondo il ricorrente, poteva essere ritenuta anche valorizzando gli ulteriori elementi acquisiti, il che avrebbe consentito di ritenere l'attenuante di cui all'art. 62 c.p., comma 1, n. 4, in considerazione della presunta tenuità del danno arrecato alle pp.oo., senza l'opposta duplicazione di giudizio.

2.1. Si è già chiarito (Sez. 6, sentenza n. 7554 del 2 - 25 febbraio 2011) che, in tema di ricettazione, ai fini della configurabilità dell'ipotesi attenuata, non rileva esclusivamente il valore della cosa ricettata, ma devono considerarsi anche tutti gli elementi previsti dall'art. 133 c.p., ivi compresa la capacità a delinquere dell'imputato.

Inoltre, la circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità è compatibile con la forma attenuata del delitto nel solo caso in cui la valutazione del danno patrimoniale sia rimasta estranea al giudizio sulla particolare tenuità del fatto (Sez. 7, ordinanza n. 19744 del 26/01/2016, Rv. 266673)

2.2. Ciò premesso, l'imputato risulta gravato da precedenti specifici, a riprova di una personalità non positivamente valorizzabile ai fini della qualificazione dei fatti ex art. 648 c.p., comma 2, (ed anzi già valutata con estrema benevolenza, poichè di per sè astrattamente idonea tout court a non consentire la qualificazione dei fatti ex art. 648 c.p., comma 2, a prescindere dall'entità del danno cagionato), che la Corte di appello ha, pertanto, avuto necessità di ancorare alla presunta tenuità del danno arrecato alle pp.oo. (invero anch'essa valutata con estrema benevolenza).

Risulta, pertanto, impossibile porre tale ultimo elemento anche a fondamento del riconoscimento della invocata attenuante comune.

3. Il rigetto, nel suo complesso, del ricorso comporta, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, nell'Udienza Pubblica, il 17 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2018