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Intervista diffamatoria: quando l'interesse pubblico prevale sulla reputazione? (Cass.6911/16)

22 febbraio 2016, Cassazione penale

Non può essere ritenuto responsabile di diffamazione il giornalista che sia rimasto vittima di un involontario infortunio per aver pubblicato dichiarazioni che, pur avendo resistito a tutte le più serie verifiche di attendibilità, siano risultate false.

Giornalista e autore delle dichiarazioni diffamatorie ripdono penalmente quando le dichiarazioni riportate consistono in insulti ovvero di quelle espressioni che la giurisprudenza definisce "gratuite", nel senso di non necessarie all'esercizio del diritto critica, in quanto inutilmente volgari o umilianti o dileggianti: peraltro, questa regola di massima subisce una eccezione quando il fatto "in sè" dell'intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto dell'intervista presenti profili di interesse pubblico all'informazione, tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo.

E' domunque necessario che il giornalista abbia assunto una posizione imparziale, limitandosi a riportare alla lettera le dichiarazioni del soggetto intervistato.

Alla scriminante del diritto di cronaca non può attribuirsi una natura statica ed immutabile, dovendosi riconoscere ad essa una struttura dinamica e flessibile, adattabile di volta in volta a realtà diverse.

In materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l'offensività delle frasi che si assumono lesive della altrui reputazione, perchè è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

(ud. 06/10/2015) 22-02-2016, n. 6911

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPPI Aniello - Presidente -

Dott. ZAZA Carlo - Consigliere -

Dott. PEZZULLO Rosa - Consigliere -

Dott. MICCOLI Grazia - rel. Consigliere -

Dott. AMATORE Roberto - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI VARESE nei confronti di:

C.M. N. IL (OMISSIS);

T.L. N. IL (OMISSIS);

inoltre:

R.P.;

avverso la sentenza n. 2403/2013 GIUDICE UDIENZA PRELIMINARE di VARESE, del 21/11/2014;

sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. GRAZIA MICCOLI;

Il Procuratore Generale della Corte di Cassazione, Dott. D'AMBROSIO Vito, ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza con rinvio.

Il difensore della parte civile, avv. SCHEMBRI Fabio, ha chiesto l'accoglimento del ricorso.

Il difensore dell'imputato c.m., avv. TONIOLO Stefano, ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Il difensore dell'imputato T.L., avv. PINO Salvatore, sostituito dall'avv. FRIONI Ivan, ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
1. Con l'impugnata sentenza, pronunziata ai sensi dell'art. 425 cod. proc. pen., il giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Varese ha dichiarato il non luogo a procedere, con la formula "perchè il fatto non costituisce reato", nei confronti di C. M. e T.L..

Era stata esercitata l'azione penale, in ordine al reato di cui all'art. 110 c.p., art. 595 c.p., commi 2 e 3 ed alla L. n. 47 del 2008, art. 13, nei confronti di: a) C.M., nella "qualità di realizzatore dell'intervista e dichiarante in proprio" trasmessa in data 19 ottobre 2011, nell'ambito del programma denominato " (OMISSIS)", dall'emittente televisiva (OMISSIS); b) nei confronti di T.L., quale direttore dell'emittente televisiva indicata. I fatti venivano contestati anche a U.L., nella qualità di soggetto dichiarante, protagonista dell'intervista; gli atti relativi alla posizione di tale imputata erano stati stralciati, avendo ella rinunciato all'udienza preliminare.

Si riporta qui di seguito l'imputazione: "....perchè in concorso tra loro, U. quale dichiarante, C. quale realizzatore dell'intervista e dichiarante in proprio e T. quale direttore dell'emittente televisiva, offendevano gravemente la reputazione di R.P., d.B.S., Ru.G., E.L., Co.Pi., F. B.F., B.B. e Ca.Vi., tutti appartenenti alle Forze di Polizia (Carabinieri e Polizia di Stato), ai quali attribuivano la commissione di gravi reati e gesti disonorevoli; con le aggravanti dell'attribuzione di un fatto determinato e di aver usato per offendere la diffusione televisiva;

in particolare in relazione al loro intervento nei confronti di U. G. ed al suo accompagnamento in Caserma nella notte del (OMISSIS), U.L. rilasciava un'intervista a C.M. che la trasmetteva con il consenso del direttore T. nel corso della puntata del (OMISSIS) del programma non giornalistico "(OMISSIS)", emittente (OMISSIS), nel corso della quale con più affermazioni della dichiarante, sottolineate con enfasi acriticamente dall'intervistatore che: - dalla perizia collegiale depositata nel corso del dibattimento a carico di un medico incolpato per la morte di U.G., sarebbe emerso che lo stesso aveva patito lesioni ad opera dei Carabinieri e dei Poliziotti, cosa non vera; - dalla perizia collegiale suddetta emergeva che sui pantaloni di U.G. vi erano tracce di sperma umano, cosa non vera. A sottolineare la valenza diffamatoria di dette affermazioni, U.L., riferendosi indistintamente alle suddette parti lese in modo inequivoco esclamava: "Me lo hanno inculato, cazzo". A rafforzare ancor più l'infamante accusa aggiungeva più considerazioni su cosa doveva aver subito il fratello per quell'affronto sessuale e come per lui fosse stato traumatico e disonorevole subire una violenza sessuale. In tal modo U.L. affermava quali avvenuti fatti altamente disonorevoli, che sapeva non veri, C. e T. sostenevano, nei rispettivi ruoli, e rafforzavano le sue gravi diffamazioni sia con commenti sia con scelte di riprese e di montaggio funzionali in tal senso....".

2. Nella sentenza impugnata il G.U.P. ha ritenuto di poter prosciogliere entrambi gli imputati sulla base degli elementi emersi durante le indagini preliminari, non suscettibili di diversa ed ulteriore valutazione in sede dibattimentale.

2.1. Dopo aver rappresentato il contesto storico nel quale sono avvenuti i fatti e gli esiti della perizia collegiale alla quale si fa riferimento nell'imputazione, il G.U.P. ha dato atto delle affermazioni dell'intervistata U.L. e di quelle dell'intervistatore C., escludendo, con riferimento specifico alla posizione di quest'ultimo, che abbia detto cose diverse da quelle dei periti e che abbia pronunziato parole diffamatorie nei confronti delle persone offese. Con riferimento alle dichiarazioni della U., poi, il G.U.P., dando atto che nel servizio andato in onda sono stati riportati anche stralci della perizia, ha ritenuto che non si possa affermare la responsabilità del C. "quantomeno sotto il profilo soggettivo".

Comunque il giudice ha rappresentato elementi di interesse pubblico all'informazione, richiamando in proposito principi enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte.

2.2. Il G.U.P. ha, inoltre, ritenuto superfluo il dibattimento anche nei confronti del T., al quale il reato è stato ascritto in concorso con il C..

3. Ha proposto ricorso per cassazione il Pubblico Ministero della Procura presso il Tribunale di Varese, denunziando sia la violazione di legge che vizi di motivazione, in termini di travisamento del fatto.

3.1 Secondo il P.M. ricorrente le risultanze della perizia sarebbero state travisate dal G.U.P. e, in tal senso, ha indicato elementi per fornire una lettura "esatta" degli accertamenti tecnici.

3.2 Il P.M. ha contestato poi l'assunto del G.U.P. che ha ritenuto che il C. non avesse alcun "potere censorio" sulle dichiarazioni del soggetto intervistato e, di conseguenza, ha evidenziato quali sarebbero state le "omissioni" dell'imputato finalizzate a controllare la veridicità di quanto dichiarato da U. L..

3.3. Infine, il ricorrente ha censurato la motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui, travalicando i limiti del giudizio consentito ex art. 425 cod. proc. pen., ha espresso valutazioni di merito.

4. Con atto sottoscritto dal difensore, ha proposto ricorso in Cassazione R.P., ovvero una delle persone offese, che risulta costituita quale parte civile.

4.1. Con il primo motivo si censura la sentenza per violazione di legge, perchè il G.U.P. avrebbe travalicato i limiti di cui all'art. 425 cod. proc. pen..

4.2. Con l'altro motivo proposto si denunzia la violazione di legge con riferimento agli artt. 110 - 595 cod. pen..

Il ricorrente, dopo aver percorso l'iter motivazionale della sentenza, contesta quanto affermato dal G.U.P. in ordine alla differenziazione delle posizioni di C. e T. rispetto a quella di U.L..

Evidenzia in particolare, poi, che sarebbe stato dovere del C. e del T., nelle loro rispettive qualità, quello di controllare la veridicità delle affermazioni della U., veridicità che viene quindi contestata, facendo specifico riferimento alle risultanze peritali cui si è fatto riferimento nel servizio televisivo.

5. In data 30 settembre 2015 è stata depositata una memoria a firma del difensore dell'imputato C., con la quale in primo luogo si deduce l'inammissibilità dei ricorsi, giacchè vertono sul merito della valutazione degli elementi probatori e non ne indicano ulteriori, che avrebbero potuto essere acquisiti in dibattimento; il deducente, peraltro, afferma che gli elementi di prova valutati dal G.U.P. non sarebbero suscettibili di integrazione. In replica alle argomentazioni di merito dei ricorsi viene poi rappresentata una serie di elementi a sostegno della richiesta di rigetto, sostenendo conclusivamente che l'informazione fornita dalla trasmissione, che è per sua natura finalizzata a sollevare "interrogativi", può dirsi corretta nella rappresentazione dei fatti.

Motivi della decisione


Entrambi ricorsi sono privi di fondamento e, perciò, vanno disattesi.

1. In primo luogo, va rilevato che la sentenza impugnata è stata emessa nel rispetto dei criteri previsti dall'art. 425 cod. proc. pen. e, in proposito, giova già in premessa precisare che il controllo di legittimità sulla motivazione della sentenza di non luogo a procedere include necessariamente la valutazione del travalicamento dei limiti cognitivi propri dell'udienza preliminare (tra le più recenti, Sez. 3, n. 41373 del 17/07/2014, P.M in proc. Pasteris e altri, Rv. 260968).

Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, "il giudice dell'udienza preliminare nel pronunciare sentenza di non luogo a procedere, a norma dell'art. 425 c.p.p., comma 3, deve valutare, sotto il solo profilo processuale, se gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio, non potendo procedere a valutazioni di merito del materiale probatorio ed esprimere, quindi, un giudizio di colpevolezza dell'imputato ed essendogli inibito il proscioglimento in tutti i casi in cui le fonti di prova si prestino a soluzioni alternative e aperte o, comunque, ad essere diversamente rivalutate." (Sez. 2, n. 48831 del 14/11/2013, Pg in proc. Maida, Rv.257645; si vedano anche, tra le tante, Sez. 3, n. 39401 del 21/03/2013, P.M. e P.C. in proc. Narducci e altri, Rv. 256848; Sez. 6, n. 5049 del 27/11/2012, P.M. in proc. Cappello e altri, Rv.254241; Sez. 5 15.5.2009 n. 22864, P.G. in proc. Giacomin, Rv.244202; Sez. 4 18.4.2007 n. 264100, Giganti ed altri, Rv. 236800).

Come rilevato anche dalla dottrina, la struttura fondamentale dell'istituto dell'udienza preliminare è sostanzialmente rimasto immutato dopo le riforme (L. n. 105 del 1993; L. n. 479 del 1999) succedute al codice Vassalli del 1989: l'udienza preliminare ha la specifica funzione di filtro, per evitare inutili passaggi alla fase dibattimentale e, quindi, nei casi in cui il giudizio di proscioglimento sia ritenuto non superabile in dibattimento è possibile l'epilogo decisorio previsto dall'art. 425 cod. proc. pen..

Le Sezioni unite di questa Corte hanno affermato che, nonostante l'obiettivo arricchimento, qualitativo e quantitativo, dell'orizzonte prospettico del giudice rispetto all'epilogo decisionale, apportato dalla L. n. 479 del 1999 all'art. 425 c.p.p., non per questo è attribuito allo stesso "il potere di giudicare in termini di anticipata verifica della innocenza-colpevolezza dell'imputato, poichè la valutazione critica di sufficienza, non contraddittorietà e comunque di idoneità degli elementi probatori, secondo il dato letterale dell'art. 425, novellato comma 3, è sempre e comunque diretta a determinare, all'esito di una delibazione di tipo prognostico, divenuta oggi più stabile per la tendenziale completezza delle indagini, la sostenibilità dell'accusa in giudizio e, con essa, l'effettiva, potenziale, utilità del dibattimento in ordine alla regiudicanda".

Quindi, il radicale incremento dei poteri di cognizione e di decisione del giudice dell'udienza preliminare, pur legittimando quest'ultimo a muoversi implicitamente anche nella prospettiva della probabilità di colpevolezza dell'imputato, non lo ha tuttavia disancorato dalla fondamentale regola di giudizio per la valutazione prognostica (Sez. U., n. 39915 del 30 ottobre 2002, Vottari, Rv.222602; nonchè Sez. U., n. 25695 del 29/05/2008, D'Eramo, non massimata sul punto).

Anche successivamente questa Corte ha ribadito che il giudice dell'udienza preliminare ha il potere di pronunziare la sentenza di non luogo a procedere non quando effettui un giudizio prognostico in esito al quale pervenga ad una valutazione di innocenza dell'imputato, bensì in tutti quei casi nei quali non esista una prevedibile possibilità che il dibattimento possa pervenire ad una diversa soluzione (Sez. 4, n. 43843 del 06/10/2009, P.C. in proc. Pontessilli e altri, Rv. 245464; Sez. 5, n. 22864 del 1505/2009, P.G. in proc. Giacomin, Rv. 244202). E tale ricostruzione non è smentita neppure dal nuovo testo dell'art. 425 c.p.p., comma 3, secondo cui il giudice "pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio", giacchè una tale disposizione conferma che il parametro di giudizio non è l'innocenza ma l'impossibilità di sostenere l'accusa in giudizio: l'insufficienza e la contraddittorietà degli elementi devono quindi avere caratteristiche tali da non poter essere ragionevolmente considerate superabili nel giudizio (tra le altre, Sez. 6, n. 10849 del 12/01/2012, P.M. in proc. Petramala, Rv. 252280; Sez. 6, n. 33921 del 17/07/2012, P.C. in proc. Rolla, Rv. 253127).

Anche la Corte Costituzionale ha avuto modo di evidenziare che "l'apprezzamento del merito che il giudice è chiamato a compiere all'esito della udienza preliminare non si sviluppa ... secondo un canone, sia pur prognostico, di colpevolezza o di innocenza, ma si incentra sulla ben diversa prospettiva di delibare se, nel caso di specie, risulti o meno necessario dare ingresso alla successiva fase del dibattimento" (sentenza 15 marzo 1996 n. 71).

Come si è già visto, sulla stessa linea si è da tempo assestata la giurisprudenza di questa Corte subito dopo la riforma del 1999 (Sez. 6, 16.11. 2001 n. 42275, Acampora, Rv. 221303; la citata Sez. Un. 30.10.2002 n. 39915, Vottari, Rv. 222602).

In linea con l'interpretazione giurisprudenziale sopra evidenziata, va anche rilevato che il controllo in sede di legittimità sulla motivazione della sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 deve mirare solo a verificare l'osservanza del criterio prognostico adottato dal G.U.P. nell'escludere la sostenibilità dell'accusa in giudizio e nell'ambito della competenza propria della fase dell'udienza preliminare ovvero quella di procedere ad una valutazione sommaria delle fonti di prova offerte dal P.M. e dalle parti (tra le tante, Sez. 5 18.3.2010 n. 15364, Caradonna e altri, Rv. 246874; Sez. 6 17.7.2012 n. 33921, P.C. in proc. Rolla, Rv.253127 e, più di recente, Sez. 2, n. 5669 del 28/01/2014 - dep. 05/02/2014, P.M. in proc. Schiaffino e altri, Rv. 258211).

A ciò, tuttavia, va aggiunto che la valutazione del giudice dell'udienza preliminare non può prescindere da quella della rilevanza penale dei fatti come ascritti; come ha più volte precisato questa Corte, va dichiarato immediatamente il proscioglimento (per inesistenza del fatto, per irrilevanza penale, per non averlo l'imputato commesso, per la sussistenza di una causa di non punibilità ovvero di una scriminante) se ne risultano i presupposti dagli atti in modo incontrovertibile, tanto da non richiedere alcuna ulteriore dimostrazione in considerazione della chiarezza della situazione processuale.

E' necessario quindi che la prova dell'innocenza o della non punibilità dell'imputato ovvero della irrilevanza penale del fatto emerga "positivamente" dagli atti, senza necessità di ulteriori accertamenti (tra le tante Sez. 6, n. 5438/2012, Rv. 252407, Tucci;Sez. Un., n. 17179/2002, Rv. 221403, Conti; Sez. Un, n. 35490/2009, Tettamanti, Rv. 244273).

Consegue a quanto detto che, laddove la sentenza di non luogo a procedere venga impugnata, è necessariamente devoluto alla Corte di legittimità il compito di verificare se i limiti cognitivi, strettamente connaturati al rito nel quale la sentenza è adottata, siano o meno stati rispettati.

3. Fatte le suesposte precisazioni sistematiche, si rileva che nel caso in esame correttamente il G.U.P. ha ritenuto l'inutilità del dibattimento, essendo evidente, anche solo sulla base della valutazione dell'imputazione, che la condotta ascritta agli imputati è scriminata in forza dell'esercizio del diritto di cronaca, giacchè i fatti oggetto dell'intervista a U.L., tenuto conto della qualità dei soggetti coinvolti, della materia in discussione e del più generale contesto della vicenda giudiziaria nel quale è maturata la stessa intervista, presentano indubbiamente profili di interesse pubblico all'informazione, tali da prevalere sulla posizione soggettiva dei singoli.

Correttamente, quindi, il G.U.P. ha emesso sentenza di non doversi procedere con la formula "perchè il fatto non costituisce reato", riservata ai casi in cui venga accertata l'esistenza di una causa di giustificazione (Sez. 5, n. 22598 del 25/02/2010, Siggia, Rv.247352), sebbene in relazione al percorso motivazionale di cui da conto la sentenza debbano essere fatte precisazioni in diritto nei termini qui di seguito indicati.

4. Va subito evidenziato che, in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l'offensività delle frasi che si assumono lesive della altrui reputazione, perchè è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie (Sez. 5, n. 48698 del 19/09/2014, P.G., P.C. in proc. Demofonti, Rv.261284; Sez. 5, n. 41869 del 14/02/2013, Fabrizio e altro, Rv.256706; Sez. 5, n. 832 del 21/06/2005, Travaglio, Rv. 233749).

Orbene, nel caso in esame, per quanto si dirà meglio in seguito, non vi sono dubbi sulla portata "offensiva" di alcune affermazioni fatte nel servizio televisivo, che peraltro costituisce presupposto anche per l'operatività della scriminante di cui all'art. 51 cod. pen..

5. Come si è visto, nel lungo ed articolato capo di imputazione è stato ritenuto dalla pubblica accusa diffamatorio il servizio trasmesso nella puntata del (OMISSIS) del programma " (OMISSIS)" (emittente (OMISSIS)), nel quale era stata intervistata dal C.L.U. in ordine agli ulteriori sviluppi processuali del giudizio in corso per la morte di U.G., deceduto (in data (OMISSIS)) in ospedale, dove era stato ricoverato dopo essere stato trattenuto presso la Caserma dei Carabinieri di Varese.

Nella contestazione del reato aggravato di diffamazione è stata prospettata la sussistenza di una condotta di grave offesa della reputazione di alcuni appartenenti alle forze di polizia (carabinieri e polizia di Stato), perchè U.L. aveva riferito che dalla perizia collegiale, depositata nei corso del dibattimento a carico di un medico incolpato per la morte di U.G., era emerso che questi aveva patito lesioni ad opera dei carabinieri e dei poliziotti e che sui pantaloni della vittima vi erano tracce di sperma umano.

E' stata poi sottolineata la valenza diffamatoria di dette affermazioni, perchè U.L., riferendosi indistintamente ai carabinieri e poliziotti che avevano trattenuto il fratello in caserma, aveva ipotizzato che questi aveva subito anche violenza sessuale.

6. Il G.U.P., dopo aver ricostruito tutti i termini della vicenda e, in particolare, rappresentato gli esiti della perizia collegiale alla quale si fa riferimento nell'imputazione, ha dato atto delle affermazioni della intervistata U.L. e di quelle dell'intervistatore C., escludendo, con riferimento specifico alla posizione di quest'ultimo, che abbia detto cose diverse da quelle dei periti e che abbia pronunziato parole diffamatorie nei confronti delle persone offese. Con riferimento alle dichiarazioni della U., poi, il G.U.P., dando atto che nel servizio andato in onda sono stati riportati anche stralci della perizia, ha ritenuto che non si possa affermare la responsabilità del C. "quantomeno sotto il profilo soggettivo".

In entrambi i ricorsi in esame in questa sede vendono dedotte contestazioni in ordine al merito dell'apprezzamento del G.U.P., anche in termini di travisamento dei fatti.

Gli stessi ricorsi, però, non consentono di censurare la sentenza impugnata nè per vizio di motivazione nè per violazione di legge, non essendo stati predisposti nel rispetto del principio di autosufficienza ovvero non essendo stati ad essi allegati gli atti cui fanno riferimento per contestare la correttezza delle valutazioni probatorie fatte dal G.U.P..

In proposito, deve ricordarsi che il ricorso per cassazione che deduca il vizio di manifesta illogicità della motivazione ovvero di travisamento delle prove ex art. 606 c.p.p., lett. e, se a tal fine richiama -come nel caso in esame- atti specificamente indicati, deve contenere la loro integrale trascrizione o allegazione, così da rendere lo stesso autosufficiente con riferimento alle relative doglianze (Sez. 2, n. 26725 del 01/03/2013, Natale e altri, Rv.256723; precedenti conformi: n. 20344 del 2006 Rv. 234115, n. 37368 del 2007 Rv. 237302, n. 16706 del 2008 Rv. 240123, n. 37982 del 2008 Rv. 241023, n. 6112 del 2009 Rv. 243225, n. 11910 del 2010 Rv.246552, n. 29263 del 2010 Rv. 248192, n. 45036 del 2010 Rv. 249035).

Il Pubblico Ministero e la parte civile hanno segnalato elementi probatori che il G.U.P. non avrebbe adeguatamente considerato ovvero travisato e che, invece, avrebbero potuto consentire una diversa prospettazione nel giudizio di responsabilità degli imputati.

Non possono, però, essere apprezzate le censure di travisamento come prospettate, perchè non emergono in maniera evidente dalla motivazione della sentenza, che invece sembra congrua ed improntata a criteri di logicità e coerenza.

Questa Corte, infatti, non può trarre valutazioni autonome dalle prove o dalle fonti di prova, neppure se riprodotte nel provvedimento impugnato. Solo l'argomentazione critica che si fonda sugli elementi di prova e sulle fonti indiziarie contenuta nel provvedimento impugnato può essere sottoposto al controllo del giudice di legittimità, al quale spetta di verificarne la rispondenza alle regole della logica, oltre che del diritto, e all'esigenza della completezza espositiva (Sez. 6, n. 40609/2008, Rv. 241214; in senso conforme n. 30257 del 2002, Rv. 222750; n. 15733 del 2003, Rv.225440).

7. Vanno ancora svolte ulteriori considerazioni in ordine all'infondatezza delle censure mosse dai ricorrenti.

Come si è detto, il servizio televisivo ritenuto diffamatorio ha riferito degli esiti di accertamenti peritali, in contraddizione con gli elementi a sostegno della pubblica accusa nel processo in corso a carico di un medico, imputato dell'omicidio colposo di U. G., secondo lo stile proprio della programma di intrattenimento e informazione "(OMISSIS)", che -come è noto- da anni va in onda sulla emittente "(OMISSIS)", occupandosi di approfondimento dell'attualità italiana e internazionale, ed è realizzato attraverso reportage provocatori e anche satirici. Tenuto conto di tali caratteristiche del programma televisivo in questione e della vicenda di cui si è occupato il servizio curato dal C., va analizzato il tema della sussistenza nel caso in esame dei presupposti di operatività dell'art. 51 cod. pen..

8. In tema di esimenti del diritto di critica e di cronaca, la giurisprudenza di questa Corte si esprime ormai in termini consolidati nell'individuare i requisiti "caratterizzanti" nell'interesse sociale, nella continenza del linguaggio e nella verità del fatto narrato; in tale ottica è stato evocato anche il parametro della "attualità della notizia".

Si è chiarito, quindi, che una delle ragioni fondanti l'esclusione della antigiuridicità della condotta lesiva della altrui reputazione è vista nell'interesse generale alla conoscenza del fatto ossia nell'attitudine della notizia a contribuire alla formazione della pubblica opinione, in modo che ognuno possa fare liberamente le proprie scelte, nel campo della formazione culturale e scientifica.

Peraltro, da tempo questa Corte ha condivisibilmente affermato sulla questione della punibilità del giornalista il quale, in un'intervista o, comunque, in un qualsiasi resoconto, riporti dichiarazioni altrui, che "il problema si pone solo quando le dichiarazioni riportate dal giornalista integrino gli estremi della diffamazione. Non si pone, infatti, l'esigenza di distinguere la responsabilità del giornalista da quella del dichiarante, se le dichiarazioni riferite, benchè offensive, non siano punibili perchè rilasciate nel corretto esercizio del diritto di critica, che compete qualsiasi cittadino. Il problema si pone quando il giornalista diffonda dichiarazioni altrui che integrano gli estremi di un reato e che di per sè non sarebbero idonee alla consumazione dell'illecito penale senza quella diffusione che proprio all'opera del giornalista è imputabile. In questa prospettiva, dunque, non pare possa dubitarsi che, in applicazione dell'art. 110 c.p., sia configurabile il concorso nel delitto di diffamazione a carico del giornalista, che contribuisce in misura determinante alla consumazione del delitto.

Cionondimeno è possibile distinguere, sia sotto il profilo soggettivo sia sotto il profilo oggettivo, la posizione del giornalista da quella dell'autore delle dichiarazioni diffamatorie da lui riferite.

Può innanzitutto accadere che le dichiarazioni riferite siano punibili a titolo di diffamazione in quanto false, in quanto non corrispondenti ai fatti.

E in questo caso non potrà certamente essere ritenuto responsabile di diffamazione il giornalista che sia rimasto vittima di un involontario infortunio per aver pubblicato dichiarazioni che, pur avendo resistito a tutte le più serie verifiche di attendibilità, siano risultate false. Si verserà, infatti, in un caso di errore sul fatto costituente reato determinato dall'altrui inganno; un errore che, a norma dell'art. 48 c.p., esclude la punibilità della persona ingannata.

Tuttavia è evidente che questa prospettiva di non punibilità non è percorribile quando il giornalista riferisca dichiarazioni la cui punibilità per diffamazione non dipende dal difetto di veridicità, bensì dal difetto del requisito della "continenza".

La posizione del giornalista non potrebbe essere, quindi, distinta da quella dell'autore delle dichiarazioni, quando queste consistano di insulti ovvero di quelle espressioni che la giurisprudenza definisce "gratuite", nel senso di non necessarie all'esercizio del diritto critica, in quanto inutilmente volgari o umilianti o dileggianti (Cass., sez. 5, 16 dicembre 1998, Ferrara e altri).

In linea di massima, quindi, può risultare esente da responsabilità il giornalista che abbia riportato dichiarazioni altrui solo quando la punibilità a titolo di diffamazione di tali dichiarazioni dipenda da una loro ben dissimulata falsità, che abbia resistito alle necessarie verifiche di attendibilità, non quando le dichiarazioni siano diffamatorie in sè, per le espressioni adoperate o per la palese falsità delle accuse (Cass., sez. 5, 5 febbraio 1986, Bonanota, m. 172422).

Può anche accadere, peraltro, che la veridicità delle dichiarazioni diffamatorie riportate dal giornalista e la stessa specifica offensività delle espressioni del dichiarante risultino in qualche misura irrilevanti. E ciò si verifica quando lo stesso fatto che la dichiarazione sia stata resa costituisca un "evento" sia un fatto di cui il pubblico ha interesse e diritto a essere informato.

Le pubbliche dichiarazioni di chi ricopra importanti incarichi istituzionali, ad esempio, vanno di regola riferite quale che ne sia il contenuto, perchè la notizia di cronaca consiste proprio nel riferire la dichiarazione in sè, non nel riferire i fatti in essa rappresentati.

Tuttavia la possibilità di distinguere in questi casi la responsabilità del giornalista da quella dell'autore della dichiarazione riferita va verificata in concreto.

Non si possono indicare criteri astratti che valgano a scindere sempre e comunque le due responsabilità.

Occorre tener conto dell'effettivo grado di rilevanza pubblica dell'evento dichiarazione.

E, per verificare se davvero il giornalista si sia limitato a riferire l'evento piuttosto che divenire strumento della diffamazione, occorre considerare in quale contesto valutativo e descrittivo siano riportate le dichiarazioni altrui, quale sia la plausibilità e l'occasione di tali dichiarazioni, quali le ragioni e la credibilità del dichiarante.

Nè è irrilevante il contesto comunicativo della stessa dichiarazione riferita, che può risultare accettabile in un determinato ambito istituzionale, come quello parlamentare (art. 68 Cost.) o quello giudiziario (art. 598 c.p.), ma può diventare strumento di un'autonoma diffamazione punibile se diffuso sulla stampa senza le necessarie cautele espressive.

In definitiva, per distinguere il lecito dall'illecito, occorre accertare se il giornalista abbia assunto la prospettiva del terzo osservatore dei fatti, agendo per conto del pubblico dei suoi lettori, ovvero sia solo un dissimulato coautore della dichiarazione diffamatoria, che agisce contro il diffamato." (così in motivazione, Sez. 5, n. 5192 del 15/03/1999, P.M. in proc. Simeoni ed altri, Rv.213175).

Sono state le Sezioni unite di questa Corte a delineare in materia un importante arresto giurisprudenziale (Sez. U, n. 37140 del 30/05/2001, Gallerò, Rv. 219651), con il quale è stato abbandonato l'indirizzo giurisprudenziale piuttosto rigoroso, fino a quel momento prevalente, secondo il quale la pubblicazione di un'intervista, dal contenuto diffamatorio, rilasciato da un terzo al giornalista, non solleva quest'ultimo dalla responsabilità per il delitto di diffamazione quando non siano stati rispettati i requisiti della verità, dell'interesse sociale della notizia e della continenza; si è infatti osservato che la casistica offre esempi eclatanti in cui uno dei tre requisiti suddetti, e cioè l'interesse sociale della notizia, può acquistare un'importanza tale da importare anche la prevalenza - nel controllo della sussistenza della scriminante del diritto di cronaca - sugli altri due.

Ciò può verificarsi - hanno osservato le Sezioni Unite - quando un soggetto, che occupa una posizione qualificata nell'ambito della vita politica, sociale, economica, scientifica, culturale, rilasci dichiarazioni, pure in sè diffamatorie, nei confronti di altro soggetto, la cui posizione sia altrettanto rilevante negli ambiti sopra indicati.

In tal caso è la dichiarazione rilasciata dal soggetto intervistato che crea di per sè la notizia, indipendentemente dalla veridicità di quanto affermato e dalla continenza formale delle parole usate.

Notizia che, se anche lesiva della reputazione altrui, merita di essere pubblicata perchè soddisfa quell'interesse della collettività all'informazione che deve ritenersi indirettamente protetto dall'art. 21 Cost..

Ciò perchè la notizia è costituita dal fatto in sè delle dichiarazioni del soggetto qualificato, risultando l'interesse del pubblico ad apprenderla del tutto indipendente dalla corrispondenza al vero del suo contenuto e dalla continenza del linguaggio adottato: pretendere che il giornalista intervistatore controlli la verità storica del contenuto dell'intervista potrebbe comportare una grave limitazione alla libertà di stampa; pretendere che il pubblicista si astenga dal pubblicare l'intervista perchè contenente espressioni offensive ai danni di altro soggetto noto, significherebbe comprimere il diritto-dovere di informare l'opinione pubblica su tale evento, non potendo, tra l'altro attribuirsi al giornalista il compito di purgare il contenuto dell'intervista dalle espressioni offensive, sia perchè gli verrebbe attribuito un potere di censura che non gli compete, sia perchè la notizia, costituita appunto dal giudizio non lusinghiero, espresso con parole forti da un soggetto noto all'indirizzo di altro soggetto noto, verrebbe ad essere svuotata del suo reale significato.

In casi del genere, allora, il problema che si pone attiene alla qualificazione da dare al soggetto che rilascia l'intervista, al fine di accertare se effettivamente trattasi di personaggio noto e affidabile, le cui dichiarazioni siano comunque meritevoli di essere pubblicate, poichè in caso di posizione di rilievo dell'intervistato vi è l'interesse della collettività ad essere informata del suo pensiero sull'argomento che forma oggetto dell'intervista medesima.

Detta valutazione ovviamente non può essere sganciata dall'effettivo grado di rilevanza pubblica dell'evento "dichiarazione", considerando poi - al fine di verificare se davvero il giornalista si sia limitato a riferire l'evento piuttosto che a divenire strumento della diffamazione - in quale contesto valutativo e descrittivo siano riportate le dichiarazioni altrui, quale sia la plausibilità e l'occasione di tali dichiarazioni.

Si deve, altresì, accertare, attraverso una puntuale interpretazione dell'articolo, se il giornalista abbia assunto una posizione imparziale, limitandosi a riportare alla lettera le dichiarazioni del soggetto intervistato, sempre però che il fatto "in sè" dell'intervista, in relazione alla qualità dei soggetti coinvolti, alla materia in discussione e al più generale contesto dell'intervista presenti profili di interesse pubblico all'informazione, tali da prevalere sulla posizione soggettiva del singolo.

Diversamente, in mancanza di tutte queste condizioni, il giornalista diventa un dissimulato coautore della dichiarazione diffamatoria e trova applicazione la normativa sul concorso delle persone nel reato di cui all'art. 110 cod. pen. (si vedano, in senso conforme, tra le tante, Sez. 5, n. 28502 del 11/04/2013, Fregni e altri, Rv. 256935; Sez. 5, n. 2384 del 26/11/2010, PMT in proc. Napoli e altri, Rv. 249502).

E' del tutto evidente, allora, che le Sezioni Unite abbiano ridisegnato i criteri dettati dalla giurisprudenza in tema di diffamazione a mezzo stampa e di legittimo esercizio del diritto di cronaca, adattandoli alla diversa situazione che si riscontra nel caso della pubblicazione di dichiarazioni di terze persone, ponendo in primo piano l'interesse del pubblico all'informazione rispetto al primato della tutela dell'onore e della reputazione individuale.

9. Tenuto conto dei principi sopra delineati, deve rilevarsi - nel caso in esame- la corretta applicazione dell'art. 51 c.p. da parte del G.U.P., anche se -come si è detto- ciò è stato fatto attraverso un percorso motivazionale non incentrato in maniera puntuale sulla sussistenza della scriminante, sebbene nella sentenza sia stata richiamata la giurisprudenza delle Sezioni Unite cui si è fatto riferimento.

Avuto riguardo al caso giudiziario relativo alla morte di U. G., in relazione alla quale -come si evince dalla sentenza in esame- la sorella L. ha denunziato la necessità di approfondimenti onde accertarne le cause e i responsabili, può ritenersi prevalente l'interesse del pubblico all'informazione rispetto alla tutela dell'onore e della reputazione individuale.

In altri termini, la indiscussa notorietà della vicenda e del coinvolgimento in essa di appartenenti alle forze di polizia, che procedettero all'arresto di U., al pari di quella della dichiarante U.L., impegnata pubblicamente nella richiesta di accertamenti più approfonditi che chiariscano le ragioni della morte del fratello, possono ritenersi fondamento del diritto-dovere di informare l'opinione pubblica sul contenuto dell'intervista di cui al servizio televisivo curato dal C., nell'ottica di un delicato bilanciamento tra interesse della collettività alla conoscenza delle informazioni e il diritto dei soggetti menzionati nell'intervista alla tutela del loro onore e reputazione.

L'intervista è stata fatta ad un soggetto "qualificato", già noto all'opinione pubblica, ed è indubitabile che la "notizia" sia costituita dal fatto in sè della dichiarazioni di tale soggetto ovvero dal suo sfogo emotivo su un accadimento processuale, risultando l'interesse del pubblico ad apprenderla del tutto indipendente dalla corrispondenza al vero del suo contenuto e dalla continenza del linguaggio adottato.

Secondo quanto evidenziato dal G.U.P. nella sentenza in esame, C. si è limitato a costruire il servizio televisivo, secondo una tecnica comunemente utilizzata dalla trasmissione le "(OMISSIS)", alternando le dichiarazioni di U.L. a resoconti degli esiti della perizia collegiale svolti nel processo in corso a carico del medico imputato di omicidio colposo. Nell'ambito della vicenda giudiziaria in corso, già portata all'attenzione dell'opinione pubblica, il C. ha fornito l'informazione relativa, da una parte, allo stato d'animo dell'intervistata U.L. e, dall'altra, degli esiti della perizia, in base ai quali la dichiarante U. ha ritenuto esprimere la propria posizione sul possibile coinvolgimento nella morte del fratello degli appartenenti a forze di polizia.

Ciò è sufficiente a ritenere che sia stato esercitato il diritto di cronaca.

Così come affermato nella motivazione della sentenza a Sezioni Unite sopra richiamata, "seguire l'orientamento giurisprudenziale che richiede, per la sussistenza della scriminante del diritto di cronaca, che il giornalista, prima di pubblicare un'intervista, controlli in ogni caso la veridicità oggettiva di quanto dichiarato dell'intervistato e si astenga comunque dal pubblicare espressioni offensive, significa voler privilegiare, in presenza di un conflitto di diritti di pari dignità costituzionale, la tutela del diritto all'integrità morale del singolo cittadino a scapito del diritto degli organi di stampa ad informare su fatti di rilevante pubblico interesse la collettività e del diritto di questa ad essere informata.

Pretendere che il giornalista intervistatore controlli in ogni caso la verità storica del contenuto dell'intervista potrebbe comportare una grave limitazione alla libertà di stampa, atteso che le obbiettive difficoltà che costui potrebbe incontrare nel verificare la corrispondenza a verità di quanto dichiarato da un alto personaggio, magari su argomenti riservati, potrebbe indurlo, per prudenza, a rinunciare alla pubblicazione dell'intervista.

Ugualmente, pretendere che il pubblicista si astenga dal pubblicare un'intervista, sempre rilasciata da un personaggio di indubbio rilievo nell'ambito della vita pubblica, perchè contenente espressioni offensive ai danni di altro personaggio noto, significherebbe comprimere il diritto-dovere di informare l'opinione pubblica su tale evento, non potendo, tra l'altro attribuirsi al giornalista il compito di purgare il contenuto dell'intervista dalle espressioni offensive, sia perchè gli verrebbe attribuito un potere di censura che non gli compete, sia perchè la notizia, costituita appunto dal giudizio non lusinghiero, espresso con parole forti da un personaggio noto all'indirizzo di altro personaggio noto, verrebbe ad essere svuotata del suo reale significato".

E le Sezioni unite hanno conclusivamente sottolineato che "alla scriminante del diritto di cronaca non può attribuirsi una natura statica ed immutabile, dovendosi riconoscere ad essa una struttura dinamica e flessibile, adattabile di volta in volta a realtà diverse. Ne consegue che la soluzione, caso per caso, della sussistenza, o meno, della responsabilità del giornalista intervistatore per avere pubblicato dichiarazioni diffamatorie dell'intervistato deve essere necessariamente demandata al giudice del merito, il quale dovrà tener conto, in primo luogo, dell'effettivo grado di rilevanza pubblica dell'evento dichiarazione, considerando poi - al fine di verificare se davvero il giornalista si sia limitato a riferire l'evento piuttosto che a divenire strumento della diffamazione - in quale contesto valutativo e descrittivo siano riportate le dichiarazioni altrui, quale sia la plausibilità e l'occasione di tali dichiarazioni. Quindi, per distinguere l'illecito dall'illecito, occorrerà accertare, attraverso una puntuale interpretazione dell'articolo, se il giornalista abbia assunto la prospettiva del terzo osservatore dei fatti, agendo per conto dei suoi lettori, ovvero sia solo un dissimulato coautore della dichiarazione diffamatoria, che agisce contro il diffamato, essendo evidente che in quest'ultimo caso dovrà trovare applicazione la normativa sul concorso delle persone nel reato di cui all'art. 110 c.p.".

Come si è già detto, tale analisi, con la correlata valutazione conclusiva, è stata fatta dal G.U.P. nella sentenza in esame.

10. Vanno fatte ulteriori precisazioni in ordine alla posizione del T. giacchè dal capo di imputazione si evince che in effetti allo stesso viene solamente contestata una condotta di "omesso controllo" (si parla, infatti, genericamente di "consenso"), così richiamando il delitto di cui all'art. 57 cod. pen..

Va detto, però, che tale norma è dettata esclusivamente per i reati commessi col mezzo della stampa periodica e non può intendersi riferita anche alla trasmissioni radiofoniche e televisive.

Il legislatore poi, con la L. 6 agosto 1990, n. 223 (posteriore alla norma citata contenuta nel codice penale), si è posto certamente il problema della responsabilità omissiva, fuori dei casi di concorso nel reato principale, proprio per il reato di diffamazione con il mezzo televisivo e con l'attribuzione di un fatto determinato (oltre che per le trasmissioni con carattere di oscenità e quelle ex comma 2); il problema, però, è stato risolto individuando specificamente i responsabili nelle seguenti categorie di persone (art. 30, comma 1, richiamato anche dal comma 4): "il concessionario privato o la concessionaria pubblica ovvero la persona da loro delegata al controllo della trasmissione".

La precisa indicazione delle persone a cui deve attribuirsi la responsabilità penale nella normativa sopra richiamata non consente interpretazioni nè analogiche nè estensive, che si risolverebbero in un indebito ampliamento della norma penale (Sez. 5, n. 50987 del 06/10/2014, P.M. in proc. Cappato e altro, Rv. 261907; Sez. 2, n. 34717 del 23/04/2008, Matacena e altro, Rv. 240687).

11. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., si impone la condanna della parte civile ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.


La Corte rigetta i ricorsi e condanna la parte civile al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 6 ottobre 2015.

Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2016