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Intervento della stato richiedente nel procedimento estradizionale passivo (Cass. 14237/17)

23 marzo 2017, Cassazione penale

Quanto all'intervento dello Stato richiedente nel procedimento di estradizione passiva, se è vero che la legge non stabilisce alcun termine al riguardo, la facoltà di intervento non è esercitabile in qualsiasi momento della procedura estradizionale: deve  escludersi qualsiasi possibilità di intervento tardivo attuabile direttamente in sede di impugnazione, sia perchè non consentito, in quanto sono le parti già formalmente costituite o intervenute (la persona interessata, il suo difensore, il Procuratore generale e, per l'appunto, il rappresentante dello Stato richiedente) che possono ritualmente presentarla a norma dell'art. 706 c.p.p.

Quanto alle modalità concrete di tale intervento, dal legislatore disegnato nella prospettiva di una posizione sostanzialmente paritaria rispetto a quella dell'estradando, all'eventuale rappresentante dello Stato richiedente deve essere notificato l'avviso dell'avvenuto deposito sia della requisitoria del Procuratore generale, sia degli atti e delle cose sequestrate, per consentirgli di prenderne visione, estrarre copia, esaminare le cose in sequestro e presentare memorie entro il termine di dieci giorni. Inoltre, scaduto il termine previsto dall'art. 703 c.p.p., comma 5, deve essergli notificato il decreto di fissazione dell'udienza per la decisione, alla quale può partecipare con la possibilità sia di presentare memorie in Cancelleria fino a cinque giorni prima dell'udienza, sia di essere ascoltato - nel contraddittorio camerale con il P.M., il difensore e la persona richiesta in consegna - prima della decisione che la Corte d'appello verrà ad assumere sull'esistenza delle condizioni per l'accoglimento della domanda di estradizione. Infine, pur non potendo impugnare il provvedimento emesso all'esito del procedimento incidentale de libertate, egli è legittimato al ricorso per cassazione contro la sentenza della Corte che decide sull'estradizione.

Pur non avendo il legislatore esplicitamente individuato i termini (sia iniziale che finale) dell'intervento dello Stato richiedente, deve ritenersi che il combinato disposto dell'art. 703 c.p.p., comma 5, e art. 704 c.p.p., comma 1, in relazione all'art. 706 c.p.p., consente una chiara ricostruzione dei limiti temporali dell'intervento: l'intervento dello Stato richiedente è consentito fino a quando non siano compiuti gli adempimenti relativi al controllo della regolare costituzione delle parti nel procedimento camerale dinanzi alla Corte d'appello. 

Lo Stato estero può richiedere l'emissione di una provvisoria misura coercitiva in danno del soggetto nei cui confronti la domanda di estradizione è "in itinere": ma tale facoltà non gli attribuisce alcun potere di impugnazione in ordine alle vicende cautelari dell'estradando, ma rappresenta il mero presupposto di fatto in forza del quale è possibile procedere, su richiesta motivata del Ministro della Giustizia (e in vista della instauranda procedura di estradizione), alla applicazione provvisoria di una misura cautelare.

Anche nelle vicende cautelari del procedimento estradizionale, come in tutti i procedimenti incidentali in materia di libertà riguardanti il cittadino dinanzi al Giudice italiano, gli unici soggetti protagonisti a partecipare attivamente sono l'imputato (o l'indagato) ed il Pubblico ministero, senza alcuna possibilità di partecipazione di altri soggetti (parte offesa, parte civile, ecc.), ai quali non è consentita nè interlocuzione (e quindi contraddittorio) nè impugnazione sul tema della libertà, limitate esclusivamente al diretto interessato (assieme al suo difensore) ed al Pubblico ministero.

Non vi è alcun automatismo di relazioni in tema di successione dei nuovi Stati nei diritti e negli obblighi nascenti da trattati conclusi dai loro predecessori, occorrendo una congrua interlocuzione o, comunque, un comportamento concludente che dia conto della reciproca volontà di vincolarsi mantenendo in vigore l'efficacia del trattato bilaterale a suo tempo stipulato.

In tema di validità di accordi estradizioni, in caso di successione fra Stati è la non continuità a costituire la logica conseguenza del subentrare di un nuovo soggetto nella responsabilità per le relazioni internazionali di un determinato territorio, non esistendo, alla luce della pratica internazionale, alcuna norma generale che preveda la successione automatica nell'insieme dei diritti e degli obblighi dello Stato predecessore in capo allo Stato in fatto successore.

Dare corso ad una  richiesta di estradizione costituisce espressione di cortesia internazionale, m comportamento peraltro necessariamente imposto, nel sistema italiano, dal rispetto della natura cd. mista della procedura estradizionale, che fa seguire alla preliminare fase della garanzia giurisdizionale quella di stretta competenza del Ministro della Giustizia.

In materia di estradizione il principio di reciprocità non ha valore generale, automaticamente applicabile, ma trova applicazione solo se sia previsto da specifiche norme dello Stato italiano. 

In linea generale si distingue, al riguardo, fra una reciprocità internazionale stricto sensu intesa - le cui condizioni si verificano quando, in base ad una norma convenzionale, l'applicabilità di altre clausole dello stesso trattato è subordinata all'assunzione di analoga obbligazione da parte dell'altro Stato o all'esistenza di norme interne dell'altro Stato contraente che assicurino identico trattamento nella situazione prevista dalle norme del trattato - ed una reciprocità internazionale di fatto accertata attraverso il ripetuto comportamento reciproco degli Stati interessati alla collaborazione.

 In mancanza di una norma ad hoc l'assenza della condizione di reciprocità rende inammissibile la partecipazione dello Stato estero, per effetto di una declaratoria che può intervenire in qualunque stato del procedimento.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

(ud. 03/02/2017) 23-03-2017, n. 14237

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROTUNDO Vincenzo - Presidente -

Dott. DE AMICIS Gaetano - rel. Consigliere -

Dott. SCALIA Laura - Consigliere -

Dott. CORBO Antonio - Consigliere -

Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Repubblica di Mauritius;

nel procedimento di estradizione nei confronti di:

S.N., nata il (OMISSIS);

avverso la sentenza del 15/09/2016 della Corte di Appello di Bologna;

udita la relazione svolta dal Consigliere Gaetano De Amicis;

udita la requisitoria del P.G., in persona dell'Avvocato Generale Agnello Rossi, che ha concluso per la inammissibilità del ricorso;

uditi il difensore del ricorrente, Avv. AS, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso, e il difensore dell'estradanda, Avv. MZ, che ha concluso per la inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 15 settembre 2016 la Corte d'appello di Bologna ha ritenuto l'insussistenza delle condizioni per l'accoglimento della domanda di estradizione presentata dalla Repubblica di Mauritius nei confronti di S.N. a seguito del mandato di arresto internazionale n. 34/2015 emesso dalla Corte distrettuale di Port Luis in data 20 marzo 2015 per i reati, commessi dal 19 marzo 2010 all'11 dicembre 2014, di associazione per delinquere, riciclaggio ed associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio, previsti dall'art. 109 del codice penale supplementare, in relazione all'art. 298 del codice penale e all'art. 3, comma 1B, della legge antiriciclaggio.

La domanda di estradizione è stata formalmente avanzata il 22 maggio 2015 per il reato di traffico d'influenza previsto dall'art. 10, comma 4, della legge sulla prevenzione della corruzione, cui ha fatto seguito la trasmissione, da parte del Governo di Mauritius, di documentazione integrativa in data 17 settembre 2015, con riferimento a due nuovi mandati di arresto emessi dalla Corte distrettuale di Port Luis il 5 settembre 2015 per il reato di traffico d'influenza (inerente a vicenda storico-fattuale diversa dalla prima) e per il reato di riciclaggio in violazione dell'art. 3, comma 1, lett. a), e art. 8, comma 1, lett. a), della legge antiriciclaggio e sulla intelligence finanziaria dell'ordinamento mauriziano.

2. Avverso la su indicata decisione ha proposto ricorso per cassazione il difensore dello Stato richiedente, Avv. AS, munito di procura speciale conferitagli dall'Attorney General della Repubblica di Mauritius, che ha dedotto cinque motivi il cui contenuto viene qui di seguito sinteticamente illustrato.

2.1. Con il primo motivo si lamentano violazioni di legge e vizi della motivazione in relazione all'art. 696 c.p.p., e al R.D. 25 marzo 1873, n. 1295, con il quale è stata ratificata e resa esecutiva nell'ordinamento italiano la Convenzione bilaterale Italia - Gran Bretagna per la reciproca estradizione dei malfattori, firmata a Roma il 5 febbraio 1873, in punto di errata applicazione delle norme di diritto internazionale generale in materia di successione degli Stati nei trattati e del valore giuridico da attribuire alla dichiarazione unilaterale di successione formulata dallo Stato richiedente al Segretariato generale dell'ONU in data 12 marzo 1968, al momento dell'acquisto dell'indipendenza, con il conseguente erroneo apprezzamento circa la ritenuta inapplicabilità della su indicata Convenzione di estradizione.

Sulla base della prassi internazionale dell'epoca, infatti, può ritenersi acquisito il dato della continuità di tutti i trattati bilaterali oggetto di una dichiarazione unilaterale di accollo formulata dallo Stato di nuova indipendenza, per effetto di una manifestazione di volontà anche tacitamente, o per fatti concludenti, espressa da parte dello Stato destinatario di quella dichiarazione.

Si evidenzia, in tal senso, che l'Italia, pur informata ufficialmente di tale dichiarazione, non ha mai opposto una comunicazione contraria, nè ha mai tenuto alcun comportamento oggettivamente incompatibile con la perdurante vigenza del trattato. Irrilevante, a tale riguardo, deve ritenersi, per l'assenza di ogni carattere di ufficialità, la mancanza di ogni riferimento al Trattato in questione nei siti internet del Ministero degli Esteri o di quello della Giustizia. Anche l'esame della prassi seguita dall'Italia nei rapporti con altre ex-colonie britanniche (ad es., Nuova Zelanda, Sri Lanka e Singapore) conferma tale dato, pur in assenza di alcuno scambio di note fra i due Paesi.

2.2. Con il secondo motivo di doglianza, inoltre, si deducono violazioni di legge ex artt. 700, 704 e 705 c.p.p., nonchè vizi della motivazione riguardo alla sussistenza del requisito della gravità indiziaria, per avere la Corte distrettuale erroneamente valutato solo i fatti relativi all'accusa oggetto dell'iniziale mandato d'arresto emesso nei confronti dell'estradanda, senza considerare il compendio indiziario presentato dallo Stato richiedente a sostegno delle tre imputazioni enucleate nei mandati di arresto successivamente emessi dalle Autorità mauriziane e propriamente individuati come oggetto della formale domanda di estradizione, per come integrata dalla documentazione supplementare in seguito trasmessa.

2.3. Con il terzo motivo si deducono violazioni di legge ex art. 698 c.p.p., comma 1, art. 705 c.p.p., comma 2, lett. b) e c), art. 4 CEDU, nonchè vizi della motivazione riguardo al presunto rischio per l'estradanda di subire pene o trattamenti inumani o degradanti conseguenti all'applicazione della cd. penal servitude secondo la pertinente legislazione mauriziana.

Si evidenzia, in relazione a tale profilo, che l'assimilazione della penal servitude alla pena dei lavori forzati riposa su premesse fattuali e giuridiche erronee, atteso che tale istituto, anche in ragione della specifica disciplina contenuta, in tema di lavoro penitenziario, nello Standing Order n. 16 del 29 agosto 1997, non corrisponde in alcun modo alla tipologia dei lavori forzati, nè tale forma di lavoro è altrimenti prevista, neanche attraverso una diversa denominazione, nell'ordinamento mauriziano. Il contenuto di tale pena, peraltro, e le modalità con le quali viene applicata sono pienamente compatibili con gli standard Europei ed internazionali in materia di trattamento dei detenuti e di tutela dei diritti umani.

2.4. Con il quarto motivo si deducono violazioni di legge e vizi della motivazione riguardo al presunto rischio di interruzione dei contatti fra madre e figlia minore, avendo la Corte distrettuale erroneamente ritenuto insufficienti le rassicurazioni offerte dalle Autorità mauriziane, anche alla luce di specifiche previsioni normative e regolamentari, circa la comprovata esistenza di una normativa preordinata ad una effettiva tutela dei minori, oltre che al mantenimento, durante il periodo di detenzione, di regolari e idonei contatti e meccanismi volti a salvaguardare l'integrità del rapporto genitoriale.

2.5. Con il quinto motivo, infine, si censurano violazioni di legge e vizi della motivazione riguardo all'apprezzamento dai Giudici di merito operato circa il presunto rischio di persecuzione dell'estradanda per ragioni di opinioni politiche o di condizioni personali o sociali, risultando gli elementi in tal senso valorizzati (la sua relazione sentimentale con l'ex Primo Ministro; il ruolo di attivista svolto nel partito laburista; il presunto arresto arbitrario del suo difensore e le ipotizzate pressioni di taluni esponenti governativi, tra i quali l'Attorney General della Repubblica di Mauritius, nei confronti di due imprenditori francesi) solo generici e comunque privi di qualsiasi riscontro probatorio, anche per la inaffidabilità delle risultanze del Rapporto 2015 del Dipartimento di Stato americano sulla situazione dei diritti umani in Mauritius e per l'assenza di prova legale dell'affidavit rilasciato dai predetti imprenditori dinanzi alla Corte Suprema di Mauritius in data 26 febbraio 2015.

3. Con memoria depositata nella Cancelleria di questa Suprema Corte il 18 gennaio 2017 il difensore di S.N. ha esposto ed ampiamente sviluppato un'articolata serie di argomentazioni critiche volte a confutare la fondatezza dei motivi di ricorso, chiedendone la declaratoria di rigetto nel merito, ovvero di inammissibilità per quel che attiene alla eccepita tardività dell'intervento dello Stato richiedente, che peraltro si ritiene avvenuto in difetto della condizione di reciprocità prevista dall'art. 702 c.p.p..

4. Con memoria depositata in Cancelleria il 25 gennaio 2017 il difensore dello Stato richiedente ha insistito sulle conclusioni rassegnate nell'atto di impugnazione, sviluppando ulteriori argomentazioni assistite da due pareri allegati alla memoria (rispettivamente sottoscritti dall'Avv. James Guthrie e dalla Prof.ssa Andreana Esposito) in merito all'istituto della penal servitude e alle modalità di detenzione in un istituto penitenziario ((OMISSIS)) ove l'estradanda potrebbe essere detenuta in caso di estradizione.

Si ribadisce, al riguardo, la piena compatibilità del predetto istituto e del trattamento penitenziario offerto nello Stato richiedente con il divieto di lavori forzati od obbligatori e con il divieto di pene inumane o degradanti, rimarcando la sostanziale assimilabilità con la pena della reclusione prevista nell'ordinamento italiano con la norma di cui all'art. 23 c.p..

Si richiamano, inoltre, le assicurazioni diplomatiche fornite dal Governo mauriziano il 6 gennaio 2017 in merito al trattamento penitenziario che all'estradanda sarebbe riservato, illustrando le positive risultanze al riguardo emerse dalla visita ispettiva di recente svolta dalla su citata esperta.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni qui di seguito partitamente indicate.

2. Deve in primo luogo rilevarsi come nessun obbligo di reciproca collaborazione giudiziaria possa desumersi dalla prospettata vincolatività di un trattato in materia estradizionale che l'Italia non ha mai stipulato con lo Stato richiedente, anche ove si considerino le implicazioni sottese alla questione inerente alla dedotta applicabilità della Convenzione stipulata dall'Italia e dalla Gran Bretagna per la reciproca estradizione dei malfattori, sottoscritta a Roma il 5 febbraio 1873 (R.D. 25 marzo 1873, n. 1295, G.U., 1 aprile 1873, n. 91), il cui art. 18 rendeva le disposizioni pattizie applicabili "alle colonie e possedimenti stranieri (foreign possessions) delle due alte parti contraenti".

In relazione a tale profilo la Corte territoriale ha correttamente escluso, per quel che attiene ai rapporti di collaborazione giudiziaria con lo Stato richiedente, la vigenza della su citata Convenzione fra il Regno d'Italia ed il Regno Unito di Gran Bretagna e dell'Irlanda (non più in vigore fra questi due Paesi a seguito della loro adesione alla Convenzione Europea di estradizionedel 13 dicembre 1957) ed ha pertanto ritenuto applicabili alla procedura estradizionale in esame le norme del codice di rito, escludendo la possibilità di documentare un comportamento reciprocamente tenuto dalla Repubblica Italiana e dalla Repubblica di Mauritius, dal quale desumere in modo univoco la volontà di considerare efficaci le norme pattizie oggetto di quella Convenzione.

Al riguardo, in particolare, i Giudici di merito hanno posto in evidenza che la lettera inviata dal Primo Ministro della Repubblica di Mauritius al Segretario Generale dell'O.N.U. il 12 marzo 1968 sulla volontà di succedere, senza limiti di tempo, in tutti i trattati stipulati dalla madrepatria britannica (con preghiera di informarne tutti gli Stati membri dell'O.N.U. e riservandosi, altresì, di escludere la successione per determinati trattati mediante specifica dichiarazione da effettuarsi in un momento successivo), non può essere ritenuta giuridicamente vincolante per la Repubblica Italiana.

2.1. La dichiarazione di successione inviata all'O.N.U. dalla Repubblica di Mauritius al momento dell'acquisto dell'indipendenza costituisce una dichiarazione unilaterale - inquadrabile nel contesto di una prassi largamente diffusa ed inaugurata dalla cd. "dottrina Nyerere" a seguito del processo di decolonizzazione avviato, non soltanto nel continente africano, a partire dagli anni sessanta dello scorso secolo - attraverso la quale il nuovo Stato ha inteso accollarsi gli obblighi di carattere convenzionale già assunti dal Regno Unito con altri Stati nel periodo in cui Mauritius era sottoposta al suo dominio coloniale, così derogando al principio generale della cd. tabula rasa nelle dinamiche proprie della successione internazionale nei trattati.

In caso di successione fra Stati, infatti, è la non continuità, secondo la più autorevole dottrina internazionalistica, a costituire la logica conseguenza del subentrare di un nuovo soggetto nella responsabilità per le relazioni internazionali di un determinato territorio, non esistendo, alla luce della pratica internazionale, alcuna norma generale che preveda la successione automatica nell'insieme dei diritti e degli obblighi dello Stato predecessore in capo allo Stato in fatto successore.

La cd. "dottrina Nyerere" - per la prima volta concretatasi in una lettera inviata dal Tanganika (ora Tanzania) al Segretario Generale dell'O.N.U. il 9 dicembre 1961 - consisteva propriamente in una "pratica di riflessione", o "pratica temporeggiatrice", che rispondeva all'esigenza di evitare una generale e repentina interruzione dei rapporti giuridici internazionali, agevolando al contempo i nuovi Stati sorti dal processo di decolonizzazione, i quali, da un lato, non perdevano i benefici eventualmente derivanti da accordi conclusi in epoca coloniale dalla madrepatria, dall'altro salvaguardavano l'esigenza di affrancarsi da vincoli indesiderati, consolidando in tal modo il processo di indipendenza appena concluso.

Si tratta di una prassi seguita da gran parte degli Stati di nuova indipendenza, mentre un più ristretto numero di Stati ha seguito la teoria della cd. tabula rasa, ed altri ancora hanno privilegiato la diversa pratica degli accordi di devoluzione, per effetto dei quali lo Stato nuovo si assume diritti ed obblighi pattizi che, sino al momento dell'acquisita indipendenza, spettavano al suo predecessore.

La prassi consistente nella emanazione di dichiarazioni unilaterali, pur di vario contenuto e tenore circa le modalità e i tempi di successione nei trattati conclusi dallo Stato predecessore, ha consentito ai nuovi Stati indipendenti, fra i quali, per l'appunto, la Repubblica di Mauritius, di avvalersi di un "periodo di riflessione" nel corso del quale essi si sono riservati di precisare l'atteggiamento da assumere circa tali trattati, ossia se considerarli estinti, se succedervi, se aderirvi nell'ipotesi di trattati multilaterali, ecc..

Siffatte dichiarazioni, tuttavia, come osservato dalla dottrina internazionalistica, dipendono, per il raggiungimento del fine che si propongono, dal consenso degli Stati parti al trattato originariamente concluso dallo Stato predecessore. Questi Stati, dunque, devono essere disposti all'eventuale applicazione provvisoria del trattato in questione e devono, inoltre, concordare con le conclusioni cui gli Stati autori di quelle dichiarazioni pervengono circa il vigore o meno del trattato.

Ciò a maggior ragione ove si verta, come nel caso qui esaminato, in tema di trattati bilaterali, ove una chiara ed univoca manifestazione di volontà, in qualsiasi maniera espressa, deve rendere palese l'intenzione, da parte dello Stato originariamente contraente che quella dichiarazione abbia ricevuto, di continuare a vincolarsi alle clausole del trattato stipulato con lo Stato predecessore, la cui persistenza nel tempo, proprio per il carattere bilaterale delle prestazioni che ne costituiscono l'oggetto, può dirsi in tal guisa pacificamente accettata nonostante il rilevante mutamento soggettivo nelle more intervenuto.

2.2. A tal proposito, indicativo deve ritenersi, in linea generale, il disposto di cui all'art. 11 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 23 maggio 1969, concernente le diverse modalità di esprimere il consenso ad essere vincolati da un trattato, che stabilisce la regola secondo cui "Il consenso di uno Stato ad essere vincolato da un trattato può essere espresso con la firma, lo scambio di strumenti che formano il trattato, la ratifica, l'accettazione, l'approvazione o l'adesione, o con ogni altro mezzo convenuto".

In modo ancor più significativo deve richiamarsi, poi, la specifica disposizione dell'art. 9 della Convenzione di Vienna del 23 agosto 1978 sulla successione degli Stati nei trattati, secondo cui "gli obblighi o i diritti derivanti da trattati in vigore riguardo ad un territorio alla data di una successione di Stati non divengono gli obblighi o i diritti dello Stato successore nè di altri Stati parti a questi trattati per il solo fatto che lo Stato successore abbia fatto una dichiarazione unilaterale che prevede il mantenimento in vigore dei trattati riguardo al suo territorio".

La procedura consistente nell'atto unilaterale emanante dallo Stato successore, dunque, è stata ritenuta, in tale autorevole sede negoziale, giuridicamente irrilevante in quanto, concepita e formulata come atto di per sè stesso conclusivo, ben difficilmente poteva essere riconosciuta come valida a produrre effetti giuridici nei singoli fasci di rapporti bilaterali, al di fuori di una manifestazione di volontà degli altri Stati originariamente contraenti ed in seguito coinvolti nella dinamica della successione.

Nello stesso senso può richiamarsi, in deroga al principio della tabula rasa, il contenuto dell'art. 24 della Convenzione da ultimo citata, secondo il quale "un trattato bilaterale che, alla data di una successione di Stati, era in vigore riguardo al territorio cui si riferisce la successione di Stati, è considerato come in vigore tra uno Stato di nuova indipendenza e l'altro Stato parte: a) se essi hanno espressamente convenuto in tal senso; b) se, a causa della loro condotta, si deve considerare che essi abbiano tra loro convenuto in tale senso".

Si tratta di regole che, pur parzialmente non vincolanti per la Repubblica delle Mauritius e per la Repubblica Italiana (la seconda delle citate Convenzioni, infatti, non è stata da esse sottoscritta, mentre la prima è in vigore per entrambe), costituiscono il frutto di orientamenti diffusamente recepiti e condivisi dalla comunità internazionale e, in quanto tali, progressivamente consolidatisi nell'opera di codificazione di norme convenzionali oggetto di larga adesione, dal cui contenuto è altresì possibile ricavare utili elementi di orientamento sul piano interpretativo.

Le procedure diplomatiche concernenti, in particolare, la successione internazionale nei trattati bilaterali esigono, pertanto, la convergenza di due atti di volontà: quella dello Stato successore e quella dello Stato con il quale lo Stato predecessore aveva originariamente concluso il trattato oggetto della successione stessa.

Secondo le regole generali del procedimento protocollare internazionale, il mutuo consenso può essere consacrato o attraverso uno scambio di note per via diplomatica, ovvero attraverso la conclusione un accordo uno actu (con il quale entrambi gli Stati affermano la loro concorde volontà di considerarsi vincolati dal trattato già vigente), nonchè factis et rebus ipsis, ossia in virtù di un comportamento di fatto assunto dall'uno e dall'altro Stato, significante la reciproca volontà di rimanere vincolati.

Non vi è, in altri termini, alcun automatismo di relazioni in tema di successione dei nuovi Stati nei diritti e negli obblighi nascenti da trattati conclusi dai loro predecessori, occorrendo una congrua interlocuzione o, comunque, un comportamento concludente che dia conto della reciproca volontà di vincolarsi mantenendo in vigore l'efficacia del trattato bilaterale a suo tempo stipulato.

2.3. Numerosi, del resto, risultano gli elementi sintomatici al riguardo tratti dalla disamina della pratica internazionale e, come tali, valutati dalla dottrina: limitando l'osservazione ai trattati bilaterali possono richiamarsi, a titolo meramente esemplificativo, la posizione assunta dalla Gran Bretagna nel respingere la pretesa del Laos di succedere ad una convenzione anglo-francese del 1922 (sul rilievo che, dopo l'indipendenza, debba esservi qualche atto di "novazione" fra le parti contraenti), ovvero, per quel che attiene più specificamente all'Italia ed all'oggetto della questione qui esaminata, una lettera del 21 giugno 1957, con la quale il primo Segretario della legazione italiana a Dublino ebbe ad affermare, prendendo posizione sul tema, che "il Governo italiano non considera i trattati di estradizione conclusi dall'Italia vincolanti, oltre che per le parti originarie, anche per lo Stato successore di una parte originaria. In ciò esso segue la dottrina generale secondo la quale gli Stati successori non sono ritenuti legati dagli obblighi internazionali assunti dai loro predecessori, a meno che essi non si pronuncino esplicitamente in senso contrario".

Nella stessa direzione ermeneutica si è mossa, inoltre, la giurisprudenza del nostro Paese (Corte di appello di Roma, 17 ottobre 1980, Bottali), che già in passato ha dichiarato la inapplicabilità nei rapporti tra India ed Italia della su citata Convenzione di estradizione del 1873.

Nella pronunzia ora citata si è posto in evidenza come, nell'ordinamento giuridico internazionale, si tenda ad escludere che possa considerarsi vigente una norma consuetudinaria in virtù della quale, indipendentemente da un accordo in tal senso tra il nuovo Stato e lo Stato terzo originario contraente, le convenzioni da questo concluse con lo Stato predecessore mantengano il loro vigore tra il nuovo Stato e lo Stato terzo dal momento dell'accessione del primo all'indipendenza. Proprio muovendo da tali considerazioni la Corte d'appello di Roma coerentemente concludeva nel senso che la Convenzione di estradizione italo-britannica del 5 febbraio 1873, contrariamente all'opinione espressa dal Ministero di Grazia e Giustizia con una nota del 7 giugno 1980, non è in vigore nei rapporti tra l'Italia e l'Unione indiana, dichiarando conseguentemente la irricevibilità dell'azione di riconoscimento della sentenza penale straniera promossa dal Procuratore generale.

Sulla stessa linea, sia pure in relazione ad altro, parimenti rilevante, profilo applicativo, si colloca la giurisprudenza di questa Suprema Corte sulla validità della Convenzione bilaterale tra Regno di Italia e Regno dei Serbi, Croati e Sloveni del 6 aprile 1922 (Sez. 6, n. 2828 del 06/07/1995, Jadranko, Rv. 202833), là dove si è ritenuto che, in tema di estradizione, i rapporti tra la Repubblica Italiana e la Repubblica di Croazia sono regolati dalla predetta Convenzione in forza della comunicazione datata 9 ottobre 1991 - riportata nel volume ufficiale italiano "Situazione delle convenzioni internazionali vigenti per l'Italia al 31 dicembre 1993 - con cui la Repubblica di Croazia ha comunicato al Governo italiano che essa "si obbliga verso gli altri paesi ed organizzazioni internazionali a rispettare in pieno gli obblighi della ex Repubblica socialista federale di Jugoslavia nella parte che riguarda la Repubblica di Croazia, così come previsto dalla Convenzione di Vienna".

Proprio a seguito di tale comunicazione, ha affermato la Corte, le Autorità italiane hanno mostrato di aderire, per fatti concludenti, ossia riportandone il testo in quel volume ufficiale, edito dall'Istituto poligrafico dello Stato a Roma nel 1994, alla prosecuzione della Convenzione del 1922, così risolvendo in senso positivo il problema della continuità dell'efficacia dei trattati bilaterali già vigenti nel territorio dell'attuale Repubblica di Croazia.

Sul punto va richiamato, infatti, il disposto di cui alla L. 11 dicembre 1984, n. 839, art. 9, recante Norme sulla Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana e sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana (G.U. n. 345 del 17 dicembre 1984), secondo cui "La Gazzetta Ufficiale pubblica annualmente, in allegato al volume contenente gli indici annuali o in apposito volume, la situazione delle convenzioni internazionali vigenti per l'Italia, con l'indicazione degli Stati per i quali queste convenzioni sono efficaci e delle riserve ad esse relative. Il volume è predisposto a cura del Ministero degli affari esteri".

Parimenti rilevante, al riguardo, deve ritenersi altro precedente di questa Suprema Corte in relazione ad un procedimento estradizionale avviato dalla Repubblica Federale di Jugoslavia (Sez. F., n. 4353 del 17 agosto 1995, Gligic, non mass.), ove si è ritenuto necessario far ricorso alle norme del codice di rito e non alla su citata Convenzione di estradizione, richiamando una comunicazione ufficiale del Ministero degli Affari Esteri italiano del 1° aprile 1994 che riteneva necessario, per la vigenza dell'accordo, il rispetto delle condizioni inerenti al riconoscimento del nuovo Stato da parte della Repubblica Italiana e all'espressa dichiarazione, non ancora intervenuta da parte dello Stato subentrante, di voler succedere negli accordi conclusi dalla ex Repubblica socialista federale di Jugoslavia della quale quello di Belgrado doveva considerarsi uno degli Stati successori e non come unico continuatore.

2.4. Anche una sommaria disamina della pratica internazionale relativa ai rapporti intrattenuti dall'Italia con gli Stati di nuova indipendenza conferma, del resto, le linee fondamentali del quadro ricostruttivo sinora emerso, ove si consideri, ad es., che fra Italia e Bahamas è intervenuto, in data 25 dicembre 1980, uno Scambio di note per il mantenimento in vigore della Convenzione di estradizione italo-britannica del 5 febbraio 1873, e che fra Italia e Kenya è parimenti registrabile, nelle date del 22 settembre e dell'8 dicembre 1967, uno Scambio di note relativo alla conferma della predetta Convenzione (oltre ad uno scambio di note, concluso il 19 maggio 1965 - 16 dicembre 1967, attinente alla Convenzione italo-britannica sull'assistenza giudiziaria del 17 dicembre 1930).

Analoga situazione, inoltre, si è verificata nei rapporti intrattenuti dall'Italia con il Lesotho, essendo al riguardo intervenuta una Dichiarazione di consolidamento per i Trattati firmati dalla Gran Bretagna (in Washington - O.N.U.) il 7 settembre 1971, mentre l'Unione del Sud Africa e la Nuova Zelanda hanno diversamente provveduto a regolare i rapporti con l'Italia sulla base di autonome note (rispettivamente del 1° maggio 1948 e del 18 giugno 1948, entrambe numerate e specificamente menzionate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 217 del 17 settembre 1948), che richiamavano, fra gli altri strumenti bilaterali da mantenere o rimettere in vigore ai sensi dell'art. 44 del Trattato di pace firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, proprio la su citata Convenzione italo-britannica di estradizione del 1873. In forza della disposizione pattizia ora citata, una serie di Governi (Stati Uniti d'America, Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia, Canada, Cecoslovacchia, Francia, Gran Bretagna, Unione del Sud Africa, Nuova Zelanda e Polonia) hanno notificato a quello Italiano, nella data a fianco di ciascuno indicata, i Trattati bilaterali conclusi anteriormente alla guerra con l'Italia che essi desideravano mantenere o rimettere in vigore.

Proprio il contenuto sinallagmatico di tali prassi relazionali spiega il motivo per cui, nei rapporti successivamente intrattenuti con la Repubblica del Sud Africa (ed ancor prima che questo Paese aderisse alla Convenzione Europea di estradizione dal 12 febbraio 2003), il Governo italiano, con una nota del 17 dicembre 1999 (poi pubblicata anch'essa, attraverso un Comunicato del Ministero degli Affari Esteri, sulla Gazzetta Ufficiale del 19 ottobre 2000, n. 245), ebbe a denunziare unilateralmente la Convenzione italo-britannica di estradizione del 1873, non considerandola più in vigore dal 17 giugno 2000.

Una attività ricognitiva del quadro dei rapporti di collaborazione giudiziaria significativamente condotta e definita dalle parti sul piano negoziale - è parimenti intervenuta con il Governo dello Sri Lanka, ove si consideri che i due Stati hanno siglato, in data 11 agosto 1999, un memorandum of understanding ove riconoscono come ancora in vigore la Convenzione del 1873, rinviando ad un successivo protocollo l'adattamento dell'accordo agli ordinamenti interni. Siffatto memorandum, tuttavia, benchè ratificato dallo Stato italiano con la legge 10 gennaio 2004, n. 7, recante "Ratifica ed esecuzione del Memorandum d'Intesa fra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica democratica socialista di Sri Lanka a modifica del Trattato di estradizione firmato a Roma il 5 febbraio 1873, fatto a Colombo l'11 agosto 1999" (G.U. n. 16 del 21 gennaio 2004) non è entrato in vigore poichè l'altro Stato non ha ancora provveduto a ratificare l'intesa e l'Italia, a sua volta, non ha notificato il relativo strumento alla controparte.

Deve rilevarsi, inoltre, che in uno studio pubblicato a cura del Segretariato dell'O.N.U. in tema di successione degli Stati nei trattati (Yearbook of the International Law Commission del 1970 - vol. II) si legge che, nei rapporti con Singapore, la predetta Convenzione di estradizione è considerata ancora efficace dal Ministero italiano degli Affari Esteri, dal momento che, secondo quanto previsto dalla Costituzione di quello Stato, gli accordi già conclusi dal Regno Unito, ed applicabili a Singapore, devono continuare a rimanere in vigore.

Anche il Botswana, d'altronde, a seguito di una dichiarazione unilaterale dell'11 settembre 1968 sul valore dei trattati previgenti - ove il termine del "periodo di riflessione" veniva prorogato di un anno limitatamente ad una serie di accordi (fra i quali, per l'appunto, quelli in materia di estradizione) - propose all'Italia, con nota del 15 gennaio 1969, il mantenimento in vigore tra i due Stati della su citata Convenzione italo-britannica, previa introduzione delle modifiche rese necessarie dalle previsioni del codice penale di quello Stato.

E' il caso di ricordare, infine, che il secondo scambio di note intervenuto con il Kenya è stato concluso dopo la scadenza del termine fissato da questo Stato nella sua dichiarazione (12 dicembre 1967) e che uno scambio di note effettuato dall'Italia con la Tanzania (il 24 - 30 giugno 1964 a Dar es Salaam) è anche in tal caso intervenuto, sia pure relativamente alla vigenza tra i due Stati della Convenzione italo-britannica sull'assistenza giudiziaria in materia civile e commerciale del 17 dicembre 1930, quando il termine fissato da questo Stato era già scaduto.

2.5. Discende da tali considerazioni che, al di fuori di qualsiasi automatismo procedurale, una decisione definitiva in merito all'effettiva continuazione in vigore dei trattati bilaterali viene per lo più assunta mediante un accordo - pur di tipo ricognitivo - appositamente intervenuto fra le parti, o comunque attraverso un comportamento concreto da cui possa inequivocamente desumersi, alla luce di circostanze atte a creare un reciproco affidamento, l'esistenza di un atteggiamento volitivo al riguardo assunto dall'altro Stato interessato.

Anche nelle ipotesi in cui le dichiarazioni unilaterali non prevedano, come avvenuto nel caso in esame, alcun termine di durata per il "periodo di riflessione", deve ritenersi necessario il consenso dell'altro Stato parte dell'accordo per il raggiungimento delle finalità che tali dichiarazioni si propongono: l'altra parte, infatti, come evidenziato dalla dottrina, deve essere disposta ad applicare, sia pure provvisoriamente, l'accordo (ciò che, in pendenza del periodo di riflessione, non è affatto previsto in via di reciprocità) e deve, in secondo luogo, concordare con le conclusioni cui Io Stato autore della dichiarazione approdi circa il vigore o meno dell'accordo alla stregua del diritto internazionale consuetudinario.

A seguito dei fatti che hanno portato alla emanazione della dichiarazione unilaterale del 12 marzo 1968, invero, nessun elemento sintomatico della esistenza di una reciproca volontà di riconoscere l'efficacia del previgente trattato bilaterale con lo Stato predecessore può desumersi da atti ufficiali (di tipo normativo, diplomatico o giurisprudenziale), ovvero da un comportamento concludente al riguardo tenuto da parte dello Stato italiano. Nè alcuna tacita acquiescenza da parte del Governo italiano potrebbe validamente fondarsi, sotto altro ma connesso profilo, sulla prospettazione di un comportamento omissivo legato al fatto di non aver formulato osservazioni una volta ricevuta la richiesta di estradizione: comportamento, questo, evidentemente motivato dal rispetto delle comuni regole di cortesia internazionale e, per altro verso, necessariamente imposto, nel sistema italiano, dal rispetto della natura cd. mista della procedura estradizionale, che fa seguire alla preliminare fase della garanzia giurisdizionale quella di stretta competenza del Ministro della Giustizia.

3. Deve ora essere affrontata, in via preliminare, l'eccezione di inammissibilità dell'intervento dello Stato richiedente, sì come riproposta nella memoria difensiva dell'estradanda, ma dalla Corte territoriale erroneamente vagliata e disattesa.

Vanno considerati, al riguardo, due profili problematici concorrenti, entrambi di carattere assorbente rispetto alle residue doglianze: quello dei limiti della condizione di reciprocità prevista dall'art. 702 c.p.p., per l'esercizio della facoltà di intervento dello Stato richiedente nel procedimento estradizionale e quello della sua tempestività, poichè nel caso di specie l'intervento è avvenuto dopo la fase degli accertamenti preliminari nell'udienza camerale celebratasi dinanzi alla Corte d'appello e prima della discussione finale tra le parti.

Nel procedimento di estradizione passiva, accanto ai soggetti giuridici essenziali (l'estradando con il suo difensore ed il Procuratore generale presso la Corte d'appello territorialmente competente ex art. 701 c.p.p., comma 4), è stata prevista dall'art. 702 c.p.p., la facoltà di intervento dello Stato richiedente, necessariamente rappresentato da un avvocato abilitato al patrocinio dinanzi all'Autorità giudiziaria italiana.

Si tratta di una legittimazione eventuale a partecipare al giudizio dinanzi alla Corte di appello ed alla Corte di Cassazione, poichè l'intervento, di tipo volontario, è subordinato al rispetto della condizione derivante dal trattamento di reciprocità, ossia al consenso, da parte dell'Autorità straniera, alla piena partecipazione dello Stato italiano al procedimento, nella corrispondente evenienza di un'estradizione attiva.

L'eventuale ampliamento del contraddittorio è stato opportunamente previsto dal codice di rito per consentire allo Stato estero di rappresentare formalmente le sue ragioni in sede processuale, specie nei casi in cui venga eccepita la natura politica del reato, ovvero sia oggetto di discussione il rischio che la persona interessata possa subire un processo discriminatorio in presenza delle situazioni contemplate dall'art. 698 c.p.p., o, infine, debba valutarsi la presenza di gravi indizi di colpevolezza nell'ipotesi di procedure estradizionali con Paesi di common law.

In mancanza di una norma ad hoc, dunque, l'assenza della condizione di reciprocità rende inammissibile la partecipazione dello Stato estero, per effetto di una declaratoria che può intervenire in qualunque stato del procedimento.

3.1. In linea generale si distingue, al riguardo, fra una reciprocità internazionale stricto sensu intesa - le cui condizioni si verificano quando, in base ad una norma convenzionale, l'applicabilità di altre clausole dello stesso trattato è subordinata all'assunzione di analoga obbligazione da parte dell'altro Stato o all'esistenza di norme interne dell'altro Stato contraente che assicurino identico trattamento nella situazione prevista dalle norme del trattato - ed una reciprocità internazionale di fatto accertata attraverso il ripetuto comportamento reciproco degli Stati interessati alla collaborazione.

Secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte (Sez. 1, n. 301 del 12/02/1982, Aharoni, Rv. 152781), in materia di estradizione il principio di reciprocità non ha valore generale, automaticamente applicabile, ma trova applicazione solo se sia previsto da specifiche norme dello Stato italiano, come ad es. nell'art. 300 c.p., o art. 16 preleggi, oppure se la relativa clausola sia inserita nella convenzione internazionale, ovvero se sussista, in relazione a concreti rapporti, una reciprocità internazionale di fatto, indipendentemente da apposite clausole.

Salvo che la legge non estenda espressamente l'ambito di operatività del principio - il cui fondamento giustificativo è di carattere politico, sottolineando storicamente la sovranità piena e l'assoluta parità di posizione giuridica di ogni Stato nell'ordinamento internazionale - si riconosce per lo più l'esigenza di delimitarne in concreto l'ambito di applicazione per favorire la disponibilità degli Stati alla collaborazione, risultando assai problematico ipotizzare una reciprocità di carattere assoluto nei rapporti internazionali in conseguenza della difficile prospettabilità di situazioni identiche e perfettamente sovrapponibili nei relativi ordinamenti.

Pur dovendosi escludere, dunque, in ragione della inevitabile presenza di disposizioni normative non coincidenti o comunque non omogenee nelle legislazioni degli Stati interessati, che l'estradizione sia condizionata da un'identità di trattamento da parte dello Stato richiedente, e che il rispetto della condizione postuli necessariamente una simmetria di prestazioni, è evidente che la condizione di reciprocità deve intendersi soddisfatta solo nell'ipotesi in cui sia accertata la garanzia di una prestazione sostanzialmente "equivalente", ossia corrispondente al contenuto non formale, ma "materiale", del modello sostanziale di condotta delittuosa o dell'evenienza procedimentale che vengono in rilievo nel caso considerato.

Nella Relazione ministeriale illustrativa del progetto preliminare del codice di procedura penale si sottolinea, in tal senso, che siffatta condizione è prevista "al fine di garantire un'effettiva parità di trattamento nell'ipotesi inversa", quando cioè sia lo Stato italiano ad avanzare una domanda di estradizione.

3.2. Ora, nella decisione impugnata la Corte d'appello di Bologna ha assertivamente ritenuto che con una nota emessa in data 8 agosto 2016, pervenuta per via diplomatica in data 25 agosto 2016, il Governo delle Mauritius ha fornito specifiche rassicurazioni in merito al profilo della reciprocità procedurale e quindi alla possibilità di intervento dell'Italia davanti alle Corti mauriziane.

Nell'ordinamento giuridico dello Stato richiedente, tuttavia, non è prevista alcuna disposizione normativa che consenta la possibilità di una partecipazione attiva in sede processuale da parte del rappresentante dello Stato estero da cui provenga il petitum estradizionale.

Si è dalla Corte di merito richiamato, al riguardo, il contenuto della su menzionata dichiarazione di reciprocità dell'8 agosto 2016, proveniente dalla Mauritius High Commission of Pretoria, ove si afferma che se l'Italia formula una domanda di estradizione ed il relativo procedimento è iniziato innanzi alle Corti competenti mauriziane, "l'Italia può presentare istanza alle nostre Corti per costituirsi come terzo al fine di intervenire formalmente innanzi alle Corti mauriziane".

Sulla base di tale dichiarazione, tuttavia, la garanzia di rispetto della necessaria condizione di reciprocità imposta dal codice di rito non può dirsi soddisfatta, poichè il raffronto fra il contenuto normativo della disposizione di cui all'art. 702 c.p.p., che riconosce allo Stato richiedente piena facoltà di intervento all'interno del procedimento estradizionale, e quello della su citata dichiarazione pone in evidenza, sotto più profili, una netta asimmetria di posizioni:

a) da un lato, la facoltà di intervento nel procedimento estradizionale, dall'altro lato la possibilità di presentare un'istanza al fine di intervenire formalmente per costituirsi dinanzi alle Corti mauriziane;

b) da un lato, inoltre, la piena discrezionalità nell'esercizio di una facoltà processuale rimessa al volontario ed insindacabile apprezzamento dello Stato richiedente, tenuto solo a rispettare, come qualsiasi altra parte, i presupposti formali e le condizioni temporali di legittimità di un atto - l'intervento - nel quale si concreta la sua volontà di assumere formalmente la qualità di parte processuale, dall'altro, invece, la possibilità di presentazione di un'istanza, finalizzata ad ottenere un formale intervento in sede processuale e sottoposta ad un vaglio delibativo da parte delle competenti Autorità dello Stato richiesto, i cui criteri di ammissibilità non sono precisati;

c) da un lato, infine, la dettagliata disciplina delle garanzie processuali e dei diritti accordati al rappresentante dello Stato interveniente che tale facoltà abbia esercitato (dalla possibilità di prendere visione degli atti, estrarre copia e presentare memorie, sino a quella di presentare ricorso per cassazione contro la sentenza della Corte d'appello che decide sull'estradizione), dall'altro lato la mancata indicazione dei contenuti delle facoltà e delle garanzie processuali il cui esercizio sarebbe reso possibile dall'eventuale ammissione dell'istanza di intervento.

4. A tali considerazioni si ricollega la disamina dell'ulteriore profilo inerente all'eccezione di tardività dell'intervento dello Stato richiedente, che la decisione impugnata ha erroneamente risolto escludendo l'invocata estromissione sul duplice assunto che l'art. 702 c.p.p., non stabilisce alcun termine al riguardo e che la facoltà di intervento, di conseguenza, sarebbe liberamente esercitabile in qualsiasi momento della procedura estradizionale, finanche solo nel giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione.

4.1. Si tratta di un profilo, invero, non ancora compiutamente esaminato nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, che in tema di estradizione per l'estero ha escluso la legittimazione dello Stato richiedente ad impugnare i provvedimenti, positivi o negativi, dell'Autorità giudiziaria italiana relativi alle misure cautelari assunte nei confronti della persona richiesta in consegna (Sez. 6, n. 38849 del 18/09/2008, Troccoli, Rv. 241260; Sez. 6, n. 169 del 12/01/1999, Ocalan, Rv. 212378), precisando che tale diritto compete solo al Procuratore generale presso la Corte di appello, alla persona interessata ed al suo difensore, mentre il diritto dello Stato estero ad intervenire nel procedimento di estradizione (diritto riconosciuto dall'art. 702 c.p.p.) legittima lo Stato suddetto ad impugnare - con ricorso per cassazione - le sentenze pronunziate dalla Corte di appello in tema di estradizione, ma non anche ad interloquire nel procedimento incidentale de libertate, instauratosi a carico della persona nei cui confronti l'estradizione viene richiesta.

Benchè lo Stato estero possa, ai sensi dell'art. 715 c.p.p., richiedere l'emissione di una provvisoria misura coercitiva in danno del soggetto nei cui confronti la domanda di estradizione è "in itinere", tale facoltà - finalizzata alla applicazione di una misura cautelare interinale - non gli attribuisce alcun potere di impugnazione in ordine alle vicende cautelari dell'estradando, ma rappresenta il mero presupposto di fatto in forza del quale è possibile procedere, su richiesta motivata del Ministro della Giustizia (e in vista della instauranda procedura di estradizione), alla applicazione provvisoria di una misura cautelare.

I criteri di fondo cui si è ispirato il legislatore italiano, come osservato da questa Corte, vanno individuati, da un lato, nell'abbandono dell'idea che la custodia in carcere dell'estradando sia un elemento indispensabile del provvedimento di estradizione e, dall'altro lato, nel fatto che non v'è ragione per cui all'estradando, in tema di misure coercitive, non sia riservato lo stesso trattamento dell'imputato avanti al Giudice. Proprio tali criteri danno adeguata ragione della differenza di disciplina tra il procedimento di estradizione, al quale può partecipare, a condizione di reciprocità, lo Stato richiedente e il procedimento incidentale in materia di libertà ove, come in tutti i procedimenti incidentali in materia di libertà riguardanti il cittadino dinanzi al Giudice italiano (libro IV cod. proc. pen.), gli unici soggetti protagonisti sono l'imputato (o l'indagato) ed il Pubblico ministero, senza alcuna possibilità di partecipazione di altri soggetti (parte offesa, parte civile, ecc.), ai quali non è consentita nè interlocuzione (e quindi contraddittorio) nè impugnazione sul tema della libertà, limitate esclusivamente al diretto interessato (assieme al suo difensore) ed al Pubblico ministero.

4.2. Proprio in coerenza con l'eventuale esercizio della facoltà di intervento nel procedimento estradizionale si pone, peraltro, la connessa previsione normativa di cui all'art. 706 c.p.p., che legittima anche il rappresentante dello Stato richiedente, se ed in quanto formalmente intervenuto, a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello che decide sulla domanda di estradizione.

Le parti che si qualificano eventuali, invero, sono tali, diversamente dai soggetti necessari, in quanto la loro presenza è prevista, a determinate condizioni, come possibile e non costituisce, di conseguenza, un elemento indefettibile dello schema minimo del processo.

Il soggetto che interviene nel processo in violazione delle regole che disciplinano la sua facoltà di intervento assume, per il solo fatto di essere intervenuto, la qualità di parte, ma egli, proprio in tale qualità, dovrà subire la pronunzia (preliminare di rito) negativa rispetto all'esistenza delle condizioni e delle modalità poste dall'ordinamento a presidio della regolarità del suo intervento.

Sebbene alcune convenzioni contemplino, per lo Stato richiesto, la possibilità di "consigliare, assistere e rappresentare" lo Stato richiedente con tutti i mezzi che l'ordinamento preveda (ad es., l'art. XX del Trattato di estradizione fra l'Italia e gli Stati Uniti d'America del 13 ottobre 1983), è evidente che la scelta di partecipare direttamente al procedimento consente allo Stato estero di promuovere un più efficace sostegno alla domanda estradizionale.

Quanto alle modalità concrete di tale intervento, dal legislatore disegnato nella prospettiva di una posizione sostanzialmente paritaria rispetto a quella dell'estradando, all'eventuale rappresentante dello Stato richiedente deve essere notificato l'avviso dell'avvenuto deposito sia della requisitoria del Procuratore generale, sia degli atti e delle cose sequestrate, per consentirgli di prenderne visione, estrarre copia, esaminare le cose in sequestro e presentare memorie entro il termine di dieci giorni. Inoltre, scaduto il termine previsto dall'art. 703 c.p.p., comma 5, deve essergli notificato il decreto di fissazione dell'udienza per la decisione, alla quale può partecipare con la possibilità sia di presentare memorie in Cancelleria fino a cinque giorni prima dell'udienza, sia di essere ascoltato - nel contraddittorio camerale con il P.M., il difensore e la persona richiesta in consegna - prima della decisione che la Corte d'appello verrà ad assumere sull'esistenza delle condizioni per l'accoglimento della domanda di estradizione. Infine, pur non potendo impugnare il provvedimento emesso all'esito del procedimento incidentale de libertate, egli è legittimato al ricorso per cassazione contro la sentenza della Corte che decide sull'estradizione.

4.3. Pur non avendo il legislatore esplicitamente individuato i termini (sia iniziale che finale) dell'intervento dello Stato richiedente, deve ritenersi che il combinato disposto dell'art. 703 c.p.p., comma 5, e art. 704 c.p.p., comma 1, in relazione all'art. 706 c.p.p. (ove, diversamente dalla formulazione lessicale impiegata nelle disposizioni su menzionate si fa riferimento, per il solo atto di impugnazione in cassazione, al rappresentante dello Stato richiedente, ossia ad un soggetto processuale ormai formalmente costituito, mentre le altre disposizioni fanno riferimento all'"eventuale" rappresentante dello Stato richiedente), consente una chiara ricostruzione dei limiti temporali dell'intervento, la cui disciplina deve a sua volta coordinarsi, sul piano logico-sistematico, con le altre ipotesi al riguardo previste dall'ordinamento processuale (ex art. 85 c.p.p., comma 1, e art. 94 c.p.p.), che non a caso prevedono termini di decadenza, legando l'esercizio della relativa facoltà ai confini temporali che delimitano lo svolgimento degli accertamenti oggetto degli atti introduttivi previsti dall'art. 484 c.p.p..

Deve al riguardo richiamarsi, anzitutto, il disposto dell'art. 703 c.p.p., comma 5, che contempla, fra i destinatari della notifica del deposito della requisitoria del Procuratore generale unitamente agli atti che le fanno da corredo, anche "l'eventuale" rappresentante dello Stato richiedente, con la logica conseguenza che quest'ultimo, ben a conoscenza della pendenza della relativa procedura, può manifestare la propria volontà di intervenire, designando un suo rappresentante, anche anteriormente al deposito della requisitoria.

Poichè, come osservato dalla dottrina, il Procuratore generale è comunque tenuto a promuovere il procedimento dinanzi alla Corte d'appello (non essendo contemplato un meccanismo con effetti analoghi a quelli dell'archiviazione), non si ritiene necessario che l'esercizio della facoltà di intervento debba formalmente rinviarsi ad un momento successivo al suo promovimento, potendo verificarsi, con l'utile offerta di tempestivi contributi informativi e documentali, anche nella fase preliminare anteriormente sviluppatasi a seguito della ricezione della domanda di estradizione da parte del Procuratore generale, fatte salve le limitazioni al contraddittorio previste, rispettivamente, per la fase di prima comparizione dell'interessato ex art. 702 c.p.p., comma 2, e per l'eventuale instaurazione del procedimento incidentale de libertate ai sensi degli artt. 714 e 717 c.p.p., ove, come si è già avuto modo di osservare, non è prevista alcuna interlocuzione del rappresentante dello Stato richiedente.

Per quel che attiene al termine finale di esercizio della facoltà prevista dall'art. 702 c.p.p., deve in primo luogo escludersi qualsiasi possibilità di intervento tardivo attuabile direttamente in sede di impugnazione, sia perchè non consentito, in quanto sono le parti già formalmente costituite o intervenute (la persona interessata, il suo difensore, il Procuratore generale e, per l'appunto, il rappresentante dello Stato richiedente) che possono ritualmente presentarla a norma dell'art. 706 c.p.p., sia perchè le ulteriori ipotesi di intervento volontario (in forza dell'art. 85 c.p.p., comma 1, per il responsabile civile, e artt. 93 e 94 c.p.p., per gli enti e le associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato) o di costituzione di parti eventuali (ex art. 79 c.p.p., per la parte civile) rinvenibili nel sistema del processo penale consentono l'esercizio della relativa facoltà, a pena di decadenza, solo fino al termine ultimo degli atti preliminari al dibattimento di primo grado previsti dall'art. 484 c.p.p..

Nella stessa direzione, d'altronde, si colloca la preclusione stabilita dall'art. 491 c.p.p., comma 1, riguardo alla eventuale deduzione delle questioni riguardanti, la costituzione della parte civile, la citazione o l'intervento (del responsabile civile e della persona civilmente obbligata, come pure degli enti e delle associazioni previsti dall'art. 91), per la evidente finalità di stabilire un preciso sbarramento temporale alla proposizione delle eccezioni relative alla corretta individuazione del soggetto nei cui confronti le correlative statuizioni decisorie potranno essere validamente pronunciate.

L'art. 703, comma 5, prevede la notifica del deposito della requisitoria all'eventuale rappresentante dello Stato richiedente e l'art. 704, comma 1, analogamente stabilisce, a sua volta, che il decreto di fissazione dell'udienza debba essere notificato all'eventuale rappresentante, mentre l'art. 704, comma 2, relativo alla susseguente fase istruttoria e decisoria del procedimento celebrato dinanzi alla Corte d'appello, e la successiva disposizione di cui all'art. 706, relativa alla ricorribilità per cassazione della sentenza, fanno riferimento al rappresentante dello Stato richiedente, la cui presenza, pertanto, non può più considerarsi meramente eventuale.

La terminologia impiegata dal legislatore, come osservato dalla dottrina, non è affatto casuale, poichè il termine "eventuale" vi viene utilizzato fino a quando l'intervento può essersi realizzato o resta, in caso contrario, comunque realizzabile da parte del soggetto interessato. Quando, invece, l'intervento si è ormai verificato, o non è più altrimenti attuabile, la formulazione lessicale cui il legislatore fa significativamente ricorso nelle su citate disposizioni cessa di fare riferimento alla prospettazione di una mera possibilità, con il logico corollario che se l'intervento potesse verificarsi anche nella fase successiva all'accertamento della costituzione delle parti nel giudizio camerale celebrato dinanzi alla Corte d'appello l'art. 704 c.p.p., comma 2, e art. 706 c.p.p., dovrebbero riferirsi al rappresentante continuando a definirlo "eventuale".

Sotto altro, ma connesso profilo, la ratio della scelta dal legislatore operata con la formula lessicale impiegata nell'art. 702 (che fa riferimento al procedimento davanti a due organi giurisdizionali, la Corte d'appello e la Corte di Cassazione) può agevolmente cogliersi nella volontà di garantire che l'intervento, una volta effettuato, produca i suoi effetti "in ogni stato e grado del procedimento", analogamente a quanto disposto dall'art. 76 c.p.p., comma 2, per la parte civile e dall'art. 93 c.p.p., comma 4, per l'intervento degli enti o delle associazioni.

4.4. Da tale ricostruzione esegetica del quadro normativo discende che, in tema di estradizione per l'estero, fatto salvo il disposto di cui all'art. 696 c.p.p., comma 2, l'intervento dello Stato richiedente è consentito fino a quando non siano compiuti gli adempimenti relativi al controllo della regolare costituzione delle parti nel procedimento camerale dinanzi alla Corte d'appello.

Deve infine rilevarsi che, pur non essendo formalmente prevista un'opposizione all'intervento dello Stato richiedente, come invece accade nel procedimento ordinario (ad es. nell'art. 95 c.p.p.), l'estradando può senz'altro richiamare l'attenzione dell'Autorità procedente sulla eventuale mancanza dei requisiti - ed in primo luogo della condizione di reciprocità - cui il legislatore subordina la partecipazione dello Stato estero, con la conseguenza che, ove le condizioni ed i presupposti di legittimità dell'atto di intervento risultino mancanti, la Corte d'appello deve disporre l'esclusione del rappresentante.

Nel caso di specie, risulta dagli atti che l'atto di intervento da parte del Governo della Repubblica di Mauritius, recante la data del 21 aprile 2016, è stato tardivamente depositato in vista dell'udienza del 27 aprile 2016, laddove la prima udienza camerale dinanzi alla Corte d'appello di Bologna era stata precedentemente fissata per la data del 27 ottobre 2015.

Ne deriva, conclusivamente, che l'intervento del rappresentante dello Stato richiedente è avvenuto oltre il termine finale entro cui la relativa facoltà poteva essere utilmente esercitata e in difetto della condizione di reciprocità necessariamente prevista dall'ordinamento giuridico per dar luogo alla richiesta collaborazione, con la conseguente inammissibilità della partecipazione al procedimento estradizionale.

5. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, conclusivamente, consegue la condanna della parte ricorrente al pagamento delle spese processuali ex art. 616 c.p.p.. Non va pronunziata, invece, la condanna in favore della Cassa delle ammende, poichè il carattere di novità delle questioni giuridiche in questa Sede dedotte e risolte esclude qualsiasi profilo di colpa nella determinazione delle cause di inammissibilità del ricorso.

La Cancelleria provvederà all'espletamento degli incombenti ex art. 203, disp. att. c.p.p..

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 203 disp. att. c.p.p..

Così deciso in Roma, il 3 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 23 marzo 2017